Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Sesto film del ventottenne canadese (già al lavoro alla postproduzione del settimo) che si è imposto come geniale enfant prodige a partire da J’ai tué ma mère, rendendosi noto al pubblico mondiale con Mommy: torna con un film basato questa volta su una pièce teatrale, continuando a esplorare le difficoltà comunicative e affettive all’interno del nucleo famigliare. scheda tecnica un film di Xavier Dolan, con: Léa Seydoux, Marion Cotillard, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, sceneggiatura: Xavier Dolan; montaggio: Xavier Dolan; Canada, Francia 2016, 95’. Sons of Manual, MK2 Productions, Téléfilm Canada, Distribuzione: Lucky Red. Xavier Dolan Xavier Dolan nasce il 20 marzo 1989 in Canada, a Montréal, figlio dell'attore e cantante canadese Manuel Tadros. Spinto dal padre, inizia la sua carriera all'età di quattro anni “lavorando” nel campo del doppiaggio, della pubblicità, del cinema e della televisione. Nel 2008 inizia (da autodidatta) a realizzare quello che sarà il suo primo lungometraggio, J'ai tué ma mère, basato sulla sceneggiatura "Matricide" da lui scritta quando aveva 17 anni e che tratta del difficile rapporto di un ragazzo omosessuale con sua madre (i rapporti problematici madre-figlio resteranno sempre una costante della sua produzione). Dopo numerosi problemi di produzione (si tratta di una pellicola indipendente e a seguire tutte le pellicole di Dolan saranno realizzate come tali), il film viene selezionato per la 41° Edizione de Festival di Cannes, vincendo numerosi premi. Stupisce che il film sia stato realizzato da un giovane alle prime armi dietro la macchina da presa. La critica francese decanta la sua unicità, la verità, la violenza, la poesia della lingua, il sudore messo nel lavoro (lo stesso Dolan, fra l'altro, ha tatuato sulla gamba la frase di Jean Cocteau L'oeuvre est sueur, il lavoro è sudore). Ma è con Les Amours Imaginaires, il suo secondo lungometraggio che si definisce con maggiore forza il suo stile (anche se lui stesso dirà che tutto quello che cerca di fare è raccontare storie e di trovare, per ognuna di esse, uno stile appropriato, ma di non avere una linea artistica distintiva e generale come modello). Il film è presentato al Festival di Cannes del 2010 dove incontra il favore del pubblico (una standing ovation di otto minuti) e della critica. Nel 2011, Dolan inizia le riprese del suo terzo lungometraggio: Laurence Anyways. Il film viene (anche questa volta) selezionato al Festival di Cannes. Segue Tom à la ferme, tratto da uno spettacolo teatrale di Michel Marc Bouchard. L'opera viene presentata al Festival di Venezia del 2013 e ottiene il premio FIPRESCI, per il significativo contributo dato al cinema. Quinto passo in avanti nella sua filmografia è Mommy, anch'esso selezionato a Cannes. Alla pellicola, selezionata in numerosissimi festival di tutto il mondo e vincitrice di molti riconoscimenti, viene assegnato il Premio della Giuria, addirittura ex-aequo con il film di Jean-Luc Godard Addio al linguaggio. Dolan torna, infine, a Cannes nel 2016, presentando in concorso (e aggiudicandosi il Gran Premio della Giuria) il film tratto dall'omonimo spettacolo teatrale di Jean-Luc Lagarce Juste la fin du monde. La parola ai protagonisti Intervista al regista Partiamo dall’inizio: lei ha iniziato a fare l’attore a 4 anni, a 11 ha smesso, a 17 ha scritto la sceneggiatura del suo primo film. Com’è stato il passaggio da un ruolo all’altro? Soprattutto, come ha vissuto quei sei anni lontano dal cinema? Li ho vissuti in collegio, ecco perché lo stop. Partecipare ai provini era decisamente complicato e le opportunità di lavoro erano diventate man mano sempre più rare Questo la rendeva triste? A quell’età il set è una droga. Se all’improvviso ti tagliano fuori, stai male come un tossicodipendente in crisi di astinenza. In più sei un bambino, non capisci che cosa ti stia succedendo. Poi, quando sono tornato a casa e ho cominciato le superiori, ero fisicamente “inadatto”: troppo minuto per una parte, troppo alto per un’altra. Non ero abbastanza carino e avevo capelli orribili. Ai tempi di Michelangelo Antonioni si parlava di cinema dell’incomunicabilità: è la stessa cosa che accade per i personaggi di È solo la fine del mondo? E soprattutto rispetto al protagonista Louis, nella società occidentale del 2016 è ancora difficile fare “coming out”? Penso che sia realmente una questione di incomunicabilità e incompatibilità. I personaggi del mio film non si capiscono, non si ascoltano, non riescono a esprimere le loro differenze. C’è una grande distanza tra loro, una tristezza che li separa più che unirli. È altrettanto complesso per Louis fare coming-out soprattutto verso se stesso. Tutto dipende dal mondo in cui ogni persona vive. Talvolta, tra una città e l’altra, con poche centinaia di metri di distanza geografica, c’è comunque una distanza culturale di centinaia di anni. Sia in Europa che negli Stati Uniti vedo una recrudescenza dell’omofobia e del razzismo. C’è da chiedersi se di fondo, la nostra società si è veramente evoluta, o se in questi ultimi anni ci è stata raccontata una bugia. In È solo la fine del mondo, come in Mommy e in altri suoi film, si mostra l’incombente presenza della figura materna, ma non si parla mai dell’assenza di un padre, se non nella caratterizzazione di qualche violento fratello maggiore. È una questione biografica personale oppure metaforica della nostra società? Avete ragione. L’assenza del padre è ricorrente nei miei film. Morti, assenti, partiti, o se presenti molto evasivi, irresponsabili, fastidiosi. Non ho mai avuto istintivamente la voglia di parlare dei padri. Ma ho sempre avuto lo stimolo di parlare di donne, di madri. Sono figure che m’ispirano di più, che sento più vicine. Le figure maschili, soprattutto paterne, sono più difficile da decifrare per me. È solo la fine del mondo è girato in pellicola. Una scelta tecnica e culturale radicale e precisa: può spiegarcene il valore? Per me ‘girare’ un film materialmente su pellicola è essenziale. È l’anima del film stesso. Non dico che girare in digitale non possieda un’anima, ma per me la pellicola è come un cuore che batte, è la vita che sfonda lo schermo e pulsa. C’è qualcosa di chimico, direi di biologico con il 35mm. Si possono controllare meglio luci e colore. Poi chiaro che in questa scelta c’è comunque un coefficiente di imprevedibilità. Nel guardare i risultati del filmare spesso diciamo: “Strano, non pensavo venisse così”. Perché non osserviamo l’appiattimento di un’immagine filmata, ma guardiamo la vita della gente catturata a loro insaputa. Il film abolisce la frontiera del cinema mettendo vita e un senso alla natura delle cose. Lei si ispira in modo particolare a qualche regista o drammaturgo? C’è prima il testo è un’idea più globale di regia nel preparare i suoi film? I film non mi ispirano in modo particolare. Sono invece un grande amante dei libri fotografici e della pittura. Ogni volta che su un libro trovo una foto che m’ispira la acquisto sapendo che un giorno mi tornerà utile. A casa possiedo centinaia di libri di foto. Hanno un loro universo e stile, ma contengono tutti questa virtù un po’ nostalgica, imperfetta e grezza. Ogni immagine fotografica è fonte d’ispirazione per me: talvolta nella sua totalità, altre volte per un piccolissimo dettaglio, un vestito, la postura di un soggetto, una luce, uno sguardo. Nei miei primi due film ho imitato molte opere fotografiche di autori che ammiro profondamente. Nel tempo, poi, ho sentito il bisogno di farmi ispirare anche da testi letterari e dalla musica, ma ancora non dai film. È una forma d’ispirazione più efficace che stimola l’immaginario. Con la fotografia, la pittura, la letteratura, un mondo ci separa ancora dal cinema e ci spinge ad iniziare un viaggio da questa idea estemporanea allo schermo. Possiamo partire da una moltitudine di direzioni insospettate e a stimolarmi non è che una frazione di secondo. Recensioni Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Gran Premio della Giuria a Cannes nonostante una contrastata accoglienza di critica, È solo la fine del mondo conferma il sicuro talento di Xavier Dolan, cineasta di Montreal salito alla ribalta nel 2009, quando appena ventenne si fece notare per il film d’esordio J'ai tué ma mère. Pur legato a un suo preciso mondo poetico che prevede imperiosi personaggi femminili, figliol prodighi e famiglie disfunzionali, Dolan continua a mettersi alla prova sperimentando linee di linguaggio ogni volta diverse. Così confrontandosi con la pièce più nota del drammaturgo francese JeanLuc Lagarce, il giovane canadese deve aver intuito che per tirare fuori dagli stereotipi personaggi e situazione di questa ennesima variazione sul tema del ritorno a casa, occorreva andare a pescare il non detto nascosto nelle pieghe del testo. […] Come in un dramma di Cechov ognuno dei familiari è rimasto chiuso nella prigione di se stesso, coltivando verso il protagonista un sentimento misto di invidia e rancore. Inutile annunciare la propria morte a chi già ti ha cancellato dalla sua vita; e nello stesso tempo ecco affacciarsi un indecifrabile senso di colpa, un fermento di affetti e memorie. Il film gioca questi elementi su una silente imbastitura di insistiti primi piani carichi di verità che le parole nascondono, svelando la fragile imperfezione della natura umana. Bel cast francese al suo meglio, musica avvolgente di Gabriel Yared, morbida fotografia sui toni blu/ marrone di André Turpin, Dolan si dimostra uomo di spettacolo sempre più maturo: il suo non sarà un cinema per tutti i palati, ma è vivo, intenso e gronda emozioni. Federico Pontiggia. Il Fatto Quotidiano Il figliol prodigo, ma senza padre e senza parabola, madri, sorelle e fratelli tutti coltelli, i dialoghi ridotti a clangore, l'incomunicabilità per campo di battaglia, l'apocalisse prossima ventura. Dolan [...] ci sguazza: chiude ogni via di fuga, satura le immagini, sutura il montaggio e - il paragone con Carnage di Roman Polanski dalla pièce di Yasmina Reza non tarderà a sovvenirvi - prepara il carnaio. Nessuno pare capace di mettersi in ascolto, di dirsi […]. Dolan occlude ogni respiro e preclude ogni accoglienza, fotografando l'inautenticità delle relazioni familiari, e segnatamente borghesi, indugiando su sopraffazione e remissione, vittime e carnefici, capro espiatorio e bestialità. Non si salva nessuno, nemmeno Louis: al solito retorico 'dove andremo a finire?' Dolan risponde con il titolo: E' solo la fine del mondo. Lo fa a 27 anni, e con una gamma di colori che forse non conosce ancora tutte le sfumature dell'animo umano e, dunque, il caro vecchio chiaroscuro psicologico. Tutto è come appare nel film: […] non c'è prima né dopo, ma avvio in 'medias res' e costruzione circolare: il mondo di Dolan è un acquario tempestoso con un nuovo pesce e disequilibri in arrivo. A scongiurare la tempesta in un bicchier d'acqua è lo stile, che Dolan padroneggia davvero. Gli attori sono splendidi e diretti allo spasmo della proprie possibilità, eppure le loro verità, le loro sensibilità - Cassel fa paura - non hanno mai la meglio sul 'décor', sul 'mélo'. È solo la fine del mondo lotta tra la gravità della storia, ovvero le devastanti relazioni familiari, e il massimalismo del racconto, che prova a scrollarsi di dosso l'eredità teatrale con un mood estetizzante: chi la spunta? Se è indubbio che Dolan giri da Dio, resta da chiedersi per chi lo faccia: per sé o per il film? Ma in questi tempi di visioni pastorizzate ed estetiche pavide, un eccesso di forma è comunque il benvenuto. Fabio Ferzetti. Il Messaggero Non era facile portare sullo schermo E' solo la fine del mondo [...]. Né era facile orchestrare 5 grandi solisti come quelli scelti dal 27enne canadese Xavier Dolan. Ma il regista-prodigio di Mommy, che in materia di dinamiche familiari perverse la sa lunga, anziché sfoltire, smussare, areare il testo incandescente di Lagarce, fa l'esatto contrario: carica gesti e parole con un gioco esasperato di primi piani sapientemente scolpiti dal grande operatore André Turpin [...]. Rendendo la trama di incomprensioni e risentimenti che mina i rapporti fra Louis e i suoi familiari ancora più terribile e insieme chiarissima, quasi trasparente, da manuale di psichiatria. Insomma una vera riuscita che proietta definitivamente Dolan in campo internazionale. Se il salto è pericoloso lo vedremo in futuro. Per ora ne esce benissimo. Andrea Martini. Nazione-Carlino-Giorno La definizione di enfant prodige attribuitagli quando nel 2009 non ancora ventenne stupì Cannes con il suo primo film [...] non sembra pesare a Xavier Dolan. Con E' solo la fine del mondo il giovane regista canadese risponde alle aspettative sorprendendo ancora. La tensione estetica resta alta e il virtuosismo linguistico (ammirato da alcuni e denigrato da altri) stupefacente, nonostante Dolan abbia scelto questa volta un testo teatrale quanto mai denso [...] e abbia ottenuto la disponibilità di cinque attori di fama. Inferiorità, frustrazioni, sopraffazioni che da sempre nutrono le relazioni, soosffocando qualsiasi moto d'affetto che pur sembra esistere, vengono catalizzate dalla presenza di questo figlio prodigo all'incontrario […]. Girato in primissimi piani (come fosse la risposta del regista al teatro) con la macchina da presa che, insieme alle parole spezzettate, ai furori, al luccichio degli occhi, cattura anche l'anima divorata, di volta in volta, dalla paura, dalla rabbia o dalla nostalgia, E' solo la fine del mondo mette bene in mostra l'estro e l'abilità di Dolan, uno dei pochi capaci oggigiorno di trasformare i film in cinema. Non è stato facile nemmeno per i giurati scrollarsi di dosso l'immagine di questo quintetto dove tutti sono incapaci di vedere per eccesso di sguardi e di comunicare per bulimia i suoni. Marco Giusti. Rollingstone.it Solo il Natural Blues finale di Moby (“Oh Lordy, trouble so hard”) riesce a calmarci dal corpo a corpo continuo che ci impone Xavier Dolan in questo sofferto, vitale e sanguinante È solo la fine del mondo. Corpo a corpo con un testo ripreso da una commedia canadese anni ’90 di Jean-Luc Lagarce, che ci riporta proprio gli umori di quel tempo, ma anche corpo a corpo continuo tra i personaggi coinvolti, una famiglia che scoppia, un figliol prodigo che viene per rivelare un qualcosa di definitivo e si vede travolto. E corpo a corpo con un tipo di cinema che non può che dividere. Da amare o da odiare. Perché c’è chi non sopporta il concentrato di narcisismo maniacale che Dolan propone coi suoi protagonisti, un narcisismo che diventa sempre un concentrato di genialità, di malattia, di autocommiserazione di chi non si sente mai abbastanza cresciuto o amato. Certo, possiamo vederlo anche come pura messa in scena teatrale di rapporti conflittuali tra chi è cresciuto negli anni fluidi di Moby. Ma Dolan, coi suoi già 27 anni, non ci propone mai solo questo. Pretende di più dai suoi spettatori, dai suoi personaggi e da se stesso che un bel drammone recitato da attori strepitosi come Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard. Nel ritorno a casa dopo 12 anni di assenza di un geniale autore teatrale malato, Gaspard Ulliel, che cerca la forza di comunicare la sua imminente fine alla madre svalvolata, Nathalie Baye, e ai fratelli, leggiamo anche una sorta di auto-messa-in-scena di Dolan e delle proprie paure dopo tanti film di successo. Alla fine si serve del suo narcisismo per un gioco infinito di rimbalzi di colpe e di flagellazioni, nel quale non può esistere vincitore. Se il figliol prodigo è tornato a casa per ricevere l’amore dei suoi cari, ha sbagliato di grosso, visto che il suo arrivo provoca solo le reazioni più disperate del fratello Antoine, Vincent Cassel, e della famiglia. Reazioni di quelli che sono rimasti nel buio di una vita senza avvenire, da cui lui è riuscito a scappare. Per ricostruire un testo dove tutti si urlano addosso, Dolan frammenta dialoghi e storie personali. Basteranno pochi accenni o rimandi o non detti per scatenare l’inferno. Più che al teatro filmato di Fassbinder, nella frantumazione delle immagini e dei primi piani dei personaggi, Dolan sembra riprendere la lezione di John Cassavetes. Nessun campo-controcampo, impasto continuo di voci, frammenti di occhi, orecchie, nuche. E nessuna riconciliazione moralistica [...]. Gabriele Niola. Wired.it Da Mommy in poi Xavier Dolan sembra destinato a diventare il prossimo cineasta di moda, quello che è stato ad un certo punto Takeshi Kitano (all’epoca di Zatoichi), poi Nicolas Refn (con Drive) e adesso forse lui, il francocanadese ragazzino che ha esordito a 19 anni con un film grezzo e sconvolgente (J’ai tué ma mère) e da lì ha fatto 6 film in circa 7 anni. Xavier Dolan però se ne frega (del pubblico, della moda invece si interessa molto) e continua a fare un cinema che, in una parola, è unico. Gioca ad uno sport le cui regole sembra conoscere solo lui, gira storie convenzionali in maniere mai viste prima perché, di quei personaggi e di quelle trame che ci sembra di aver già visto e sentito, a lui interessano cose che non sono mai interessate a nessuno. Così è anche È solo la fine del mondo, film brevissimo, solo 90 minuti che sembrano passare in un attimo, in cui un noto artista fuggito anni fa torna a casa dalla famiglia da cui era scappato. È diventato ricco e famoso, la madre lo idolatra, la sorella minore (Lea Seydoux) ne ha il mito, quello maggiore (Vincent Cassel) lo odia, perché lui se n’è andato e non è più voluto tornare. Il motivo del suo ritorno lo scopriamo subito: è malato e sta per morire. Quel che accade nel resto del film sarebbe stato estremamente convenzionale nelle mani di qualsiasi altro regista (e chissà forse lo era anche nell’opera teatrale di JeanLuc Lagarce da cui è tratto il film), un dramma familiare in cui conflitti sopiti emergono tutti insieme in un weekend che doveva essere idilliaco e invece non lo è [...]. Francesco Boille. Internazionale Quella raccontata dal canadese Xavier Dolan è una storia di grande dolcezza, circolare, avvolgente, di derivazione proustiana. Una dolcezza di tono restituita per intero dalle scelte di regia che creano una dimensione intima, e dalla recitazione di Gaspard Ulliel, timida e ritratta, oltre che dall’uso della sua voce fuori campo: quasi un flusso della coscienza bisbigliato, sussurrato, un flusso della coscienza come quelli degli ultimi istanti di una consapevolezza di morte. Eppure questo film è un inno alla bellezza della vita, a quello che si lascia prima di entrare nell’ombra, lasciando così dietro di sé un senso di serenità, di pace, di poesia. “Dopo dodici anni di assenza, ho paura di tornare, di rivederli”, dice il protagonista, Louis, drammaturgo di successo. Questa paura si dichiarerà altre volte nel film. Tratto da una pièce del 1990 di Jean-Luc Lagarce, a sua volta drammaturgo francese di successo morto di aids nel 1995, a cui il film è dedicato, È solo la fine del mondo (gran premio della giuria a Cannes) è anche un ritorno sui luoghi della paura di ieri, l’aids, per meglio parlare di quelli delle paure odierne (altre malattie, come il cancro), ma anche di quel sentimento di paura verso tutto che oggi ci pervade. È solo la fine del mondo è un film a tratti quasi senza suono, atonale, o composto da immagini quasi fotografiche, estatiche, immobili, congelate. Se il cinema, rispetto al teatro, è arte dei volti, questo è un film paradigmatico. E rivela una delle sequenze più belle viste al cinema quest’anno. Con in sottofondo una musica di archi, Susanne guarda Louis con immensa dolcezza, lui china la testa, poi lei la rialza: emerge uno sguardo d’immensa tristezza, e lei capisce. Un minuetto in verità fatto di sfumature, rispetto a quanto scriviamo, di momenti e movimenti delicati. Tutto è negli sguardi, nei volti [...].