Origami come mezzo di relazione: Esperienze di confine D`ario

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Origami come mezzo di relazione: Esperienze di confine D`ario
Origami come mezzo di relazione: Esperienze di confine
D’ario Pedruzzi
La pratica dell'Origami si divide in due momenti principali: un momento solitario, dove si imparano
modelli dai libri, si provano percorsi di pieghe, si inseguono forme racchiuse nei fogli, ed un
momento sociale, dove si impara da qualcuno o si insegna a qualcuno, oppure ancora, dove si
utilizza l'Origami come mezzo per divulgazione matematica, filosofica, come utensile
dell'animazione, come gioco, come divertimento.
Questo secondo, infinito momento, mi ha da sempre affascinato e mi ha portato a sperimentare
l'Origami in situazioni speciali.
Questo secondo momento, a mio avviso, completa in modo importante l'esperienza, il viaggio
dell'individuo all'interno dell'Origami, il “-do” dell'“Origami-do”, la via dell'Origami.
Ne amplifica la percezione in ampiezza ed in profondità, aggiungendo man mano che si insegna,
suggestioni e modi di vedere i modelli ed i passaggi degli stessi (ampiezza); e crea un legame
emotivo, un vedere riflesso negli altri quello stupore, quella meraviglia che ci hanno abbracciati
quando noi per primi abbiamo imparato il modello (profondità).
Al di là delle implicazioni matematiche, fisiche, chimiche, direi ormai anche informatiche,
l'Origami per me resta un'irriducibile massa emotiva, ed ancora non ne so il perché.
Forse perché è profondamente legato alla filosofia orientale, con i suoi legami profondi alla
filosofia della trasformazione, all'effimero, alla caducità ed alla fragilità della vita umana.
Un modello Origami eleva dal comune un materiale ormai comunissimo, la carta, e le dona
significato, le dona respiro. Quando un'opera artistica, sia pittorica, sia calligrafica o scultorea, in
Giappone si dice che è riuscita, che è “bella” quando ha Chi: respiro, energia vitale.
Date queste premesse sulla natura intrinseca che si trova “tra le pieghe” (ha ha) dell'Origami, ecco
che si dipanano alcune caratteristiche utili nel “secondo momento”, nell'applicazione relazionaleanimatavi dell'Origami.
La prima caratteristica che noto è la gratificazione: l'Origami si risolve in poco tempo. Un modello
semplice, accattivante e che riscuote approvazione dai piegatori, dura dai due ai cinque minuti, dieci
al massimo, ed al termine di questo tempo si ottiene un prodotto fatto da sé. Questa facilità di
riuscita permette di interessare e catturare l'attenzione nei laboratori in pubblico, poiché chiunque si
può agganciare al termine di un modello ed all'inizio del successivo. Quando avremo bisogno di
vincere le reticenze di un bambino chiuso oppure poco motivato ricordiamoci che un modello
semplice gratifica immediatamente, dando benessere a chi lo piega.
Altra caratteristica è la simbolicità dell'Origami: può essere usato in contesti teatrali, di gruppo,
terapeutici, come simbolo del gruppo stesso o di una persona, o di un'atmosfera. Avendo molte
possibilità di forme figurative, astratte e geometriche, può davvero rappresentare qualsiasi cosa.
Utilizzeremo questa caratteristica quando dovremo lavorare sulla compattezza di un gruppo di
lavoro, oppure sull'integrazione tra bambini, ecc.
Origami è stimolo e continuare a fare Origami continua a stimolare: il raggiungimento del modello
Origami è un sfida con sé stessi e le proprie capacità. Quanto in là posso spingere il mio limite
tecnico? Quanto posso rimpicciolire il foglio di partenza? E se volessi piegare con qualcun altro?
Si può piegare sì da soli, perché non provare in coppia (ciascuno “fa” una mano)? O in gruppo
(ciascuno aggiunge una piega)? Così facendo si conoscono vari aspetti del modo di piegare di tutti
i partecipanti, si attende l'altro, ci si stimola, appunto, i limiti personali possono diventare un
confine da spostare più in là tutti insieme.
Importante fatto è che nel “gioco dell'Origami” non c'è un vincitore ed un perdente, ma una vittoria
totale,di tutti. È un gioco creativo e non competitivo, i propri compagni sono più dei colleghi di
viaggio che non degli avversari da battere. Questo lo rende un ottimo espediente animativo in
contesti caratterizzati dalla forte competizione o dalla vacillante armonia.
L'Origami, infine, è visuale: può essere insegnato anche senza parole. Se domani dovessi partire per
il Cile, o l'Alaska, oppure la Cina, potrei insegnare Origami anche solo su imitazione, e durante
tutto il tragitto! Senza usare la lingua. Nessun'altra pratica è così flessibile al canale comunicativo
come l'Origami. Credo in virtù del fatto che ha ferree regole e discipline, passaggi chiari con
riferimenti altrettanto chiari ed universali.
È collegato all'inconscio collettivo l'Origami?
Queste caratteristiche dell'arte del piegare la carta sono emerse e mi hanno accompagnato, si sono
affinate e dipanate nell'esercizio dell'Origami “sociale” cioè volto a portare l'ars piegatoria in
contesti animativi, educativi e pure in quegli ambienti in cui pareva non ci potesse entrare, e di cui
vi parlerò nella seconda parte di questo scritto.
Importante, secondo me, è tenere impresso in mente che Origami significa al contempo “carta
piegata” e “piegare la carta”. Cioè, intrinseco nel nome dell'arte c'è un suggerimento al provare,
provare, provare a piegare e a far piegare, poiché è il PROCESSO UNITO AL PRODOTTO a
creare la magia, lo stupore. Esistono modelli bruttissimi che piego solo per la bellezza delle pieghe
che li compongono (questo concetto apre al dibattito: pieghe belle danno necessariamente luce a bei
modelli? Oppure il bello del prodotto non è necessariamente il bello del processo? Ma su questi
quesiti lascio a voi il compito di arrovellarvici)
Vorrei quindi raccontare tre esperienze “di confine”, che hanno coinvolto l'Origami in contesti
anomali, fuori dalla scuola, fuori dai contesti educativi classico: Origami in carcere, a S. Vittore,
Origami con i malati terminali di AIDS, Origami con persone con autismo.
A S. Vittore ci sono stato nel duemila e sei, dopo che un'associazione di volontari che si occupano
della relazione bambino-genitore nel contesto carcerario mi ha offerto l'opportunità di lavorare
come volontario nello “spazio giallo” un'isola di circa tre metri per due dove i bambini in attesa del
colloquio con il parente in carcere avevano modo di distrarsi e creare qualcosa da regalare poi
durante il colloquio.
In quell'ambiente, dove i bambini erano davvero una realtà multietnica e spesso in condizioni di
marginalità sociale, si piegava per tutta la mattina ad ondate: ogni tanto un bambino andava via, poi
ne giungeva un altro, poi se ne andava, e così per tre, quattro ore di servizio. Questa miscellanea di
etnie, colori, stili e lingue porta ad un senso di straniamento, di smarrimento, in cui mi chiedevo
cosa potessi fare di concreto per insegnare loro qualche modello di effetto, qualche gioco di carta.
Tre caratteristiche dell'Origami mi sono ritornate molto utili: l'essere innocuo, stimolante e visuale.
Utilizzando le istanze d'armonia e di non-violenza che scaturiscono dalla piegatura della carta
potevo far fronte ai lati più esuberanti e competitivi dei bambini impegnativi, di quelli che stavano
vivendo un malessere e lo dimostravano con comportamenti esosi, sopra le righe. Piano piano,
seguitando a spiegare modelli d'effetto, stupe-facenti (cioè che creano stupore), quei bambini
rientravano nei “ranghi”, anche se sarebbe meglio dire che si ri-armonizzavano con il gruppo, e il
laboratorio proseguiva scorrendo fluido. L'essere di stimolo e fortemente motivante, il susseguirsi di
modelli che permette a chiunque di agganciarsi al laboratorio in tempo utile per restarne poi
affascinato, è stata un'altra freccia al mio arco: vincere le reticenze dei bambini più ritrosi è risultato
semplice poiché potevano studiare la situazione vedendo piegare due o tre modelli e poi avvicinarsi
per provare a piegare il quarto, restando poi invischiati nel ritmo del laboratorio e interrotti solo
dalla chiamata per il colloquio.
La cosa più bella che ho imparato lavorando in questo ambiente è stata la possibilità di insegnare
l'Origami senza usare la parola. Con un uditorio così variegato, pure il mio modesto francese e il
mio ancor più modesto inglese potevano davvero poco. Allora, dove le parole sono un limite,
Origami si eleva ad un livello ancora più alto: diventa tacita complicità, diventa sguardo, occhio e
mano che si rincorrono tra le pieghe, per sciogliersi insieme in un sereno sorriso al termine del
modello. Proprio dove la situazione non pareva avere sbocchi logici, e di eloquenza dialettica, la
semplicità e l'universalità dell'Origami (chiunque sa cos'è un triangolo, una retta, una piega, ecc., e
chi non lo sa con l'Origami ne fa esperienza diretta) hanno colmato il divario, ricongiungendomi a
quei bambini con un filo rosso d'intesa, di accordo, di muta empatia.
Nel duemila dieci ho invece intrapreso un breve percorso con un gruppo di ospiti di un centro
residenziale per malati terminali di AIDS. Possiamo davvero, con grande umiltà, solo immaginare
lo status psicofisico di una persona affetta da HIV, e credo che comunque ci mancherebbero ancora
troppi elementi per comprenderne a fondo il dramma e l'emarginazione. Con questo quadro,
l'istanza più significativa del gruppo di partecipanti al laboratorio era la motivazione: quando sai di
morire entro quattro o cinque anni, vedendo peggiorare la tua situazione fisica di momento in
momento, non credo tu abbia molta voglia di intraprendere un'iniziativa, di apprendere qualcosa.
Ciononostante, la leggerezza e la freschezza dell'Origami (non implica molte ore di studio come il
disegno o la pittura, non sporca ed è pulito, si esaurisce in poco tempo pur consegnando modelli
d'effetto) hanno conquistato mano a mano la volontà (senza volontà non si sposta neanche un dito)
di ciascuno degli ospiti esposti a questo progetto. Lì ho utilizzato l'Origami con due obiettivi: la
relazione e la “fisioterapia”. L'Origami utilizzato con fini relazionali ha coinvolto la
simbolizzazione dei modelli modulari che abbiamo fatto, con la semplice equivalenza
modelli=persone, modulare = gruppo. La cosa ha talmente entusiasmato gli animi che alcuni dei
modulari proposti sono poi stati utilizzati in una piccola (grande) rappresentazione teatrale. La
componente fisiologica implica invece l'allenamento delle abilità fino motorie, di coordinazione
occhio-mano, di attenzione e di focus che allenate e praticate si evolvono trasversalmente e possono
poi trasferirsi ad altri campi di azione, di vita. Ed è stato così che alcuni ospiti hanno potuto
sperimentare una specie di fisioterapia lavorando sulle mani colpite da emiparesi post traumatiche
causate da ictus, ed in lentissimo miglioramento. Ripetendo alcuni movimenti, e avendo molto
tempo a disposizione per completare i passaggi dei modelli la concentrazione, la volontà, e la
motivazione hanno permesso alcuni, seppur lievi, miglioramenti nella motricità fine e
nell'appagamento generale della persona, che misurava in termini di precisione e di nitidezza dei
modelli finiti il suo impegno a migliorare una parte di sé menomata. Lasciando a voi dedurre le
implicazioni psicologiche e simboliche di questa piccola esperienza vi invito a immaginare dove,
con un bagaglio di fogli di carta, possiamo spingerci per portare nelle vite altrui un leggero, ma non
per questo superficiale, miglioramento.
Dove attualmente lavoro, presso una cooperativa sociale in cui ci occupiamo di una trentina di
persone affette da sindrome autistica, con vari livelli di ritardo mentale, ho proposto un laboratorio
sperimentale (nel senso che abbiamo sperimentato in modo assolutamente empirico) di Origami
dove l'accento venisse posto nella capacità di lettura delle immagini stilizzate dei modelli proposti e
dei passaggi ad essi sottesi. Non mi dilungherò sulle peculiarità del funzionamento autistico, poiché
in larga parte resta un interrogativo ancora in attesa di risposta, ci basti per ora sapere che la lettura
delle immagini per un soggetto autistico è, in gergo, “gestaltica”, cioè non esiste una “scelta” dei
particolari da osservare come per i neuro-tipici (volgarmente, i “normali”, ammesso che esistano)
che, osservando la foto della propria famiglia, danno un nome alle persone, simbolizzano le figure
che vedono e, spesso, cancellano (selezionano) gli input visivi secondo una serie di algoritmi
cerebrali inconsci: osservano la globalità dell'immagine e magari verrebbero colpiti da particolari
per noi irrilevanti, come potrebbero essere la fibbia della cintura di papà o il colore delle nuvole,
oppure la marca della t-shirt del fratello. In questo modo, trasmesso anche dalla letteratura
scientifica a riguardo, per un autistico vedere un cihuahua e un alano non significa necessariamente
comprendere di avere visto due cani, bensì due esseri con caratteristiche differenti e magari qualche
punto in comune. L'assenza di categorie nel funzionamento autistico impedisce quindi alla persona
di accedervi quando viene sottoposta alla visione di immagini, compromettendone la lettura e
l'interpretazione. E questo, giusto per stare tranquilli, si estende a tutti i sensi conosciuti della
persona. Immaginate quindi voi stessi, quando piegate un cagnolino stilizzato, e ne percepite la
forma: quello che avete piegato non è la zampa, la coda o il muso del cane, bensì una loro
rappresentazione. E grazie alle vostre categorie (un database con le caratteristiche generali di una
serie di oggetti) riuscite a dedurre questa somiglianza e pronunciarvi in merito al fatto che ciò che
avete piegato è un cane. Rudolph Steiner ha studiato a lungo questa caratteristica, e progettò una
serie di giochi dove l'immaginazione completa la rappresentazione della realtà, esercitando la
fantasia e la creatività. Bene, tutte queste abilità (scommetto che non vi guarderete più allo specchio
nello stesso modo, scoprendo i prodigi che le categorie producono nel vostro cervello) in un
soggetto con autismo, semplicemente, non ci sono. Il nostro intervento nel laboratorio suddetto era
proprio quello di sondare le percezioni dei ragazzi su input visivi molto stilizzati e simbolici come
gli Origami. Così abbiamo piegato dei modelli compatibilmente con le abilità fino motorie dei
partecipanti e abbiamo invitato, quasi ad ogni passaggio, a pronunciare ciò che per loro
rappresentasse la forma appena ottenuta. I risultati, più che un rapporto finale operativo, sono stati
un punto di partenza ed una diapositiva delle capacità di lettura simbolica dei ragazzi coinvolti.
Queste mie tre esperienze, unite agli innumerevoli laboratori, percorsi scolastici ed animazioni a
tema Origami mi hanno fatto capire una cosa, che è il fine ultimo di questo scritto: l'Origami ha una
storia antica, che copre gli ultimi settecento anni di umanità, e si perpetra di piega in piega
svolgendosi nelle mani dei piegatori, accidentali o fanatici che siano. Non smettiamo di provare e
riprovare a piegare nei contesti più disparati, con le persone più diverse, senza la paura dei limiti.
Ha ancora tantissimo da dare! Anche quando l'ingegneria, l'arte, il design, la microbiologia, la
medicina, i sistemi informatici , e tutte quelle aree del sapere umano che accedono, scippano,
rubano, glorificano, si ispirano all'Origami, avranno esaurito tutto lo scibile tecnico di questa
semplice arte; resterà ancora una enorme componente, la componente che a me affascina e travolge,
che è il cuore dell'Origami, che senza chiedere nulla in cambio, si dona alle persone e si trasmette
preservandosi dall'estinzione: il Chi, il respiro dell'Origami, che soffia inarrivabile più in alto di
qualsiasi tecnologia umana.
Al di là delle parole, al di là della ragione, muto, poetico soffio che ci muove tra le pieghe.
Biografia
D’ario Pedruzzi
Sono D'ario, nasco da parto naturale nel giugno 1984, a Bergamo. Sin dalla più tenera età sono
entrato in contatto con la cultura giapponese e grazie alle passioni di mio padre, fotografo e
bonsaista, ho conosciuto l'arte dell'origami con i libri che ho trovato in casa: Origami, giochi e
decorazioni con la carta (quello con la copertina rigida, e il porcospino) e Volti in Origami di Mark
Kenneway (quello con Garibaldi in copertina). Affascinato dal mio piccolo computer desktop e
determinato a diventare un hacker professionista, ho distrutto bruciando la scheda madre tutti i miei
sogni informatici ispirati a Matrix. La noia imperante mi ha fatto riesumare intorno ai sedici anni i
libri di Origami, terminati i quali ho dovuto accedere alla rete bibliotecaria per divorare tutti i
modelli che mi capitassero a tiro. Caso volle (ha ha, certo, il caso... tsè)che in quell'anno il gruppo
Origami di Bergamo organizzasse in città la più grande mostra della sua storia. La vidi sette volte,
e cominciai da lì a frequentare il gruppo di Bergamo, nelle persone fisiche di Francesco (Decio) e
Wanda(Battaglia), che non ringrazierò mai abbastanza, che hanno avuto la pazienza e la voglia di
accompagnarmi per i successivi dieci anni all'interno di laboratori, convegni e mostre che hanno
costruito quella parte di me che piega, si spiega e si cela nelle mie pieghe. Ad oggi non amo i
computers, sono educatore professionale, amo la tessitura e la filatura manuali, dirigo un negozio di
articoli per artisti, e piego.