(post)coloniali cominciano ad apparire negli

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(post)coloniali cominciano ad apparire negli
Elio Di Piazza
Immediatamente successivi alla crisi dello strutturalismo, gli studi
(post)coloniali cominciano ad apparire negli ultimi anni Settanta come
filiazioni dirette del postmodernismo. Più che rappresentare una vera e
propria
scuola
di
pensiero,
essi
costituiscono
un
insieme
metodologicamente variegato di analisi che pongono al centro
dell’indagine critica i risultati del confronto tra culture in relazione di
subordinazione, nei nuovi contesti determinati dalle lotte di liberazione
nazionale. Insieme metodologicamente variegato, dunque, unificato
soltanto dall’oggetto d’investigazione: la marginalità coloniale, intesa in
una accezione spaziale, politica e culturale. La ridefinizione ermeneutica,
imposta dal crollo dei modelli universalistici dello strutturalismo, spinge
gli studiosi del postcolonialismo alla formulazione di nuove ipotesi
interpretative che rilanciano la prospettiva soggettivistica aperta dal
decostruzionismo.
Gli studi (post)coloniali si raccolgono attorno a tre distinti filoni
d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel
1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla
interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva alimentato
dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel
pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak
(traduttrice inglese dell’opera di Jaques Derrida) nell’intervista del 1990
pubblicata col titolo The Post-colonial Critic , definisce il discorso
coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che
attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone,
il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K.
Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da
una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di
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ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti. Le tre
direzioni seguite dagli studi (post)coloniali, storicistica, decostruzionista
e psicoanalitica, pur convergendo sull’oggetto dell’investigazione, si
diversificano al momento della sua definizione e della valutazione delle
funzioni soggettive che qualificano la relazione coloniale. Il volume più
rappresentativo del dibattito postcolonialistico, The Post-Colonial
Question di Iain Chambers e Lidia Curti, (1996) compie il meritevole
tentativo di unificare i tre ambiti di ricerca, mettendo insieme punti di
vista e prospettive diverse, e interrogandosi sul modo in cui il nostro
tempo affronta la questione cruciale dell’alterità e della differenza.
L’accento sul tema coloniale caratterizza fortemente le indagini
del rapporto identitario tra i soggetti che si contrappongono sullo
scenario internazionale dell’Impero. Colonizzati e colonizzatori si
fronteggiano, per la loro diversità come per i diversi gradi di
assimilazione culturale possibilmente raggiunti, in quanto polarità di
culture il cui conflitto viene regolato prevalentemente dalla forza militare
ed economica del paese dominante. Nel merito del confronto
interculturale, gli studi (post)coloniali manifestano due distinte
impostazioni ideologiche, che possono definirsi rispettivamente
integrazionistiche e anti-umanitaristiche. Pertanto, laddove Edward Said,
Homi K. Bhabha, Dianne Sachk Macleod ed altri costruiscono il soggetto
coloniale negli interstizi di una relazione fondamentalmente manichea,
Benita Parry, Elleke Bohemer e Ania Loomba, per ricordare solo gli
studiosi più conosciuti, seguendo le tracce di Les damnés de la terre di
Frantz Fanon (1961) e di The Post-Modern Condition di Jean-Francois
Lyotard (1979), sottolineano il bisogno di emancipazione del colonizzato
dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici.
Per il fatto che si occupano in prevalenza della complessa
questione dell’alterità, gli studi (post)coloniali incrociano spesso quelli
femministi soprattutto nel terreno di convergenza delle problematiche
razziali e di genere. Come osserva Bill Ashcroft, colonialismo e
patriarcalismo si generano nella medesima formazione sociale e
generano, a loro volta, unità ontologiche che sistemano armonicamente i
discorsi sulla razza e quelli sulla femminilità (Ashcroft 1998). Tra gli
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studi più rappresentativi del dibattito indotto dalle coincidenze col
femminismo vanno ricordati, insieme a quelli pionieristici della Spivak,
l’analisi della condizione doppiamente subalterna della donna colonizzata
proposta da T. Trinh Minh-ha in Woman, Native, Other (1989) e lo studio
di poco successivo in cui Chandra Talpade Mohanty proietta quella
condizione sullo scenario dell’espansionismo economico (Mohanty 1991).
I due studiosi sottolineano con forza la questione della doppia
subordinazione della donna colonizzata, fonte del suo epistemologico
silenzio e della paradossale costituzione della sua istintività nativista.
Un altro argomento di gran rilievo negli studi (post)coloniali
riguarda il nazionalismo, in particolare la sua intrinseca instabilità
retorica, contrapposta al monolitismo della storia europea ed alla
compattezza degli Stati-nazione. Tuttavia, alle posizioni iniziali ispirate al
concetto di coscienza nazionale, espresso da Fanon in Les damnés del la
terre (1961), si sostituiscono nei primi anni Ottanta concezioni più
ottimistiche riconducibili al fideismo nazionalistico di Hegel. Nel 1983
Benedict Anderson rilancia su Imagined Communities
(1983) la
definizione della nazione come unico spazio geoculturale del progresso e
dell’emancipazione. Ad Anderson fanno eco sia Ngugi Wa Thiong’o e
Benita Parry, per i quali il nazionalismo costituisce l’obiettivo più evoluto
ed avanzato delle lotte di liberazione, sia Tom Nairn che considera la
nazione una forma momentanea di assestamento della contraddizione
coloniale. Comune a tutti è, in ogni caso, la consapevolezza del legame
stretto tra nazionalismo e colonialismo, e del rilievo che tale legame
assume nella caratterizzazione delle lotte di liberazione nazionale. In
continuità con le posizioni di Julia Kristeva e Tzvetan Todorov sulle
strette relazioni tra razzismo e spirito nazionalistico, David Lloyd
(1993), Partha Chatterjee (1993) e Robert J. C. Young (1995)
considerano il nazionalismo una potente costruzione retorica, una rete di
postulati su cui, come essi scrivono, si fonda la nazione europea e lo
stereotipo della sua superiorità culturale. Le moderne n a z i o n i
postcoloniali, a detta di questi studiosi, somiglierebbero ad una seconda
copia
della
grande
nazione
europea
e,
in
questo
modo,
rappresenterebbero gli spazi più adatti alla realizzazione dei suoi
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propositi economici, sociali e culturali. Pertanto, sostiene Chatterjee, la
comunità autonoma ed autoregolata già prospettata da Indira Gandhi nel
corso della battaglia indipendentista in India, rappresenterebbe la sola
alternativa alla nazione postcoloniale e, quindi, al dominio indiretto dei
paesi occidentali.
Il termine post-colonialismo appare in diversi studi storici della
metà del
XX
secolo, ad indicare la fase sociale e politica dei paesi che si
sono liberati dal dominio coloniale. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta il
termine compare nel campo dell’analisi letteraria, con prevalente
riferimento alla produzione narrativa delle ex colonie e, in particolare, alle
opere scritte nella lingua del paese colonizzatore. Said estende il
riferimento alle letterature europee, suggestionate dal discorso
orientalistico e fortemente influenzate (perfino nella forma estetica)
dalle istituzioni culturali dell’età coloniale. Per Said, la letteratura
rappresenta il luogo privilegiato della trasfigurazione fantastica dei
conflitti identitari: dai viaggi immaginari di Mandeville e Swift alle
raffigurazioni del cannibale di Shakespeare e Montaigne, dalle figure
demoniache apparentate all’orco di Perrault a quelle ingentilite più
prossime allo schiavo reale della Behn, ha inizio una lunga serie di
rappresentazioni letterarie dell’alterità che ha nel colonialismo la
principale fonte tematica ed estetica. La rilettura delle letterature
europee in chiave postcoloniale mette in evidenza i topoi del discorso
che intercorre tra gli europei e gli altri, nel contesto simbolico che segna
la storia moderna; tra gli esempi più significativi di tale rilettura, va
ricordata l’interessante analisi culturale di Francis Barker, Peter Hulme e
Margaret Iversen, apparsa col titolo Cannibalism and the Colonial World
nel 1998.
Alcuni studi, nel solco di Masks of Conquest di Gauri Viswanathan
del 1989, hanno mostrato come la disseminazione della letteratura
europea oltre i propri confini naturali abbia costituito un freno alle lotte
di liberazione del
XIX
secolo, spingendole fuori (out of) anziché contro
( against ) i sistemi spirituali e culturali dei paesi colonizzatori. D’altra
parte, lo studio delle letterature del colonizzato, nelle versioni del
romanzo dell’emigrato, del nomade, dell’ibrido – si pensi ai romanzi di
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Salman Rushdie, Kazuo Ishiguro, Bharati Mukherjee, Kamala Markandaya,
Ben Okri, Tahar Ben Jelloun e molti altri – sembra confermare l’efficacia
di tale disseminazione e l’importanza che le istituzioni culturali rivestono
nella promozione della nuova narrativa. Come scrive Loomba in
Colonialism/Postcolonialism (1998), diventa ogni giorno più evidente la
formazione di un canone postcoloniale , politicamente connotato dal
terzomondismo liberale e dall’ibridismo riformista. Non si tratterebbe,
tuttavia, di un canone che si costituisce nei contesti marginali delle
diverse letterature postcoloniali; piuttosto, sostiene coraggiosamente
Loomba, esso appare come un modello statico e uniforme costituito
all’interno delle istituzioni e degli apparati culturali dell’Occidente
(accademia, editoria, media, premi letterari e via dicendo), a cui lo
scrittore accede in seguito alla preventiva cancellazione della propria
tradizione.
La critica agli studi (post)coloniali rientra in parte nella più
generale critica al postmodernismo mossa da numerosi intellettuali della
statura di Fredric Jameson, Étienne Balibar, Terry Eagleton e Aijaz
Ahmad. Essi accusano i teorici del postcolonialismo di promuovere nei
fatti l’episteme occidentale oltre i confini europei e nordamericani: così, il
debito che Said riconosce a Foucault è riscontrabile nell’impianto stesso
della sua teoria orientalistica; allo stesso modo, il f e m m i n i s m o
decostruttivista di Spivak, accusa Rashmi Bhatnagar, va a collocarsi in
ultima
istanza
nel
grande
alveo
del
liberalismo
occidentale;
analogamente, il realismo magico di Rushdie o di Okri non è altro che un
pastiche tardoromantico piuttosto che, come vorrebbe H. K. Bhabha, il
linguaggio del mondo postcoloniale emergente.
Altrettanto incisive sono le critiche specifiche riguardanti l’oggetto
dell’analisi postcoloniale, le scelte metodologiche e la visione della storia.
Secondo L. Gandhi, lo stesso termine postcoloniale sarebbe impreciso,
dal momento che la decolonizzazione non coincide storicamente col
crollo delle potenze coloniali; i primi episodi di decolonizzazione
risalgono, infatti, al lontano secolo
XVIII ,
due secoli prima della fase
storica cosiddetta postcoloniale. Queste osservazioni possono essere
integrate con quanto già sostenuto da Lyotard, per il quale non essendo
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ancora tramontato il colonialismo, non ha alcun senso parlare di post
colonialismo (da qui la decisione di mantenere tra parentesi il prefisso
p o s t -). Più incisive sono le critiche alle scelte metodologiche,
particolarmente in considerazione della contraddittorietà che marca il
rapporto tra l’oggetto storico totalizzante (il colonialismo, appunto) e la
soggettività interstiziale del colonizzato; una contraddittorietà che,
investendo la rappresentazione della subalternità e della rottura
emancipatrice, rende impossibile il confronto tra la prassi internamente
manichea del colonialismo e il discorso sulla civilizzazione. A fronte di
tale contraddittorietà, la concezione della storia che traspare dagli studi
(post)coloniali viene inficiata dal disconoscimento delle s t o r i e
frammentarie e frammentate delle colonie, identificate in virtù del loro
adeguamento ad una ipotetica storia universale parametrizzata sulle
costanti culturali del paese colonizzatore.
(Cfr. anche Analisi del discorso, Archeologia del sapere,
Etnopsicologia, Critica letteraria femminista, Neostoricismo, Studi sulla
traduzione, Xenologia, Women’s studies)
Abrogazione/appropriazione, Alienità, Alterità, Antillanité, Assimilazione,
Canadianness, Centro/periferia, Civilizzazione, Classe, Cosmopolitismo,
D é c a l a g e , Decolonizing
the
mind , Déculturation,
Dicotomia,
Disseminazione, Distanza, Double vision, Esilio, Esotismo, Esotismo,
Etnicità, Etnocentrismo, Etnotesto, Eurocentrismo, Feticismo, Geocritica,
Globalizzazione, Ibridismo, Identità, Imagery, Imagined Community,
Immaginario, Imperialismo, In-between , Interculturalità, Japonisme,
Letteratura universale, Mentalità, Migrazione, Mimikry, Miscegenation ,
Mondialismo, Multiculturalismo, Nazionalismo, Négritude, Occidentale,
Orientalismo, Orizzonte di attesa, Pan-africanismo, Periferia, Polisistema,
Politica
del
riconoscimento,
Postimperiale, Post-indipendent ,
Primitivismo, Rappresentazione, Razza, Razzismo, Relativismo,
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Rereading/rewriting, Subcultura, Third Space, Tolleranza, Transcultura,
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