Guido Ugolini. Angelo custode - Fondazione Cassa di Risparmio di

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Guido Ugolini. Angelo custode - Fondazione Cassa di Risparmio di
Guido Ugolini
ANGELO CUSTODE
Di proprietà della Curia Vescovile di Fano, la grande tela di Giovan Francesco Barbieri, detto ‘Guercino’ (Cento, 1591 - Bologna, 1666), raffigurante
l’Angelo Custode è rimasta fino all’ultima guerra nella chiesa di Sant’Agostino, sopra l’altare della cappella detta appunto dell’Angelo Custode. Rimossa
e posta al sicuro prima dei gravi danni subiti dalla
chiesa per i bombardamenti dell’ultima guerra, si
trova oggi temporaneamente custodita presso la
Pinacoteca Civica della città. L’opera (olio su tela,
cm 292 x 178) fu voluta dal nobile cittadino Vincenzo Nolfi, figlio adottivo1 ed erede del nobile Guido
Nolfi, a cui si deve invece la meravigliosa Cappella
omonima della Cattedrale fanese, affrescata dal Domenichino (Domenico Zampieri detto ‘Domenichino’, Bologna, 1581 - Napoli, 1641). Vincenzo Nolfi,
devotissimo dell’Angelo Custode2, come pure tutta
la sua famiglia, e di certo ben introdotto nella fitta
rete di rapporti culturali intercorrenti fra la città di
Fano e quella di Bologna, commissiona al Guercino,
tota terrarum orbe pictore celeberrimo e dunque, benché
ancora residente a Cento, celeberrimo anche nel capoluogo emiliano, una grande tela raffigurante appunto l’Angelo Custode. Il pittore, come indicato nel
suo Libro dei Conti e come riferito anche dal Malvasia3, esegue l’opera nel 1641 e il Nolfi la colloca nella
propria dimora. Ottenuto poi, nel 1642, il giuspatronato sulla cappella a cornu evangelii già intitolata
a Santa Lucia - prima dell’arrivo degli agostiniani
a Fano non soltanto questa cappella, ma l’intera
chiesa, oggi nota come Chiesa di Sant’Agostino, era
dedicata a Santa Lucia -, Vincenzo Nolfi trasferisce
il dipinto in Sant’Agostino e lo fa collocare sopra
l’altare della cappella che da questo momento sarà
appunto ribattezzata Cappella dell’Angelo Custode,
cappella che d’ora in avanti sarà, con ogni verosimiglianza, punto di riferimento anche per la Confraternita dell’Angelo Custode, eretta nella chiesa con
breve di Urbano VIII fin dal settembre del 1626.
Il dipinto, benchè rimosso come s’è detto dalla sua
sede prima dei disastrosi bombardamenti del 1944,
non attraversò indenne l’usura del tempo e stanti le
sue condizioni non proprio buone, fu sottoposto ad
un primo intervento conservativo nel 1968 presso il
Gabinetto di Restauro della Pinacoteca Nazionale
di Bologna ed un secondo intervento ebbe a subirlo
nel 1993 ad opera dell’urbinate Isidoro Bacchiocca4.
Grazie alle suddette operazioni il dipinto si presenta
oggi in eccellente stato di leggibilità.
Quanto al suo autore, tota terrarum orbe pictore celeberrimo, va detto che gli esordi del Guercino furono da
subito quelli di un giovane dotato di straordinario
talento disegnativo e coloristico, di un giovane di
dirompente forza innovativa e dagli orizzonti subito
larghi. “Quivi è un giovane di patria di Cento che
dipinge con tanta facilità de invenzione e gran disegnatore e felicissimo coloritore, e mostro di natura e
miracolo da fare stupire a chi vede le sue opere” (L.
Carracci); “Uno stile nuovo di colorire di gran forza
e valore” (Passeri); “…bella e semplice naturalezza così asserisce il Calvi - con bene accordate tinte e con
gran forza di chiaroscuro”, e sempre il Calvi, maggior biografo del Guercino, a proposito dell’istintiva
e robusta capacità di colorire del centese, scrive: “…
quello che si chiama gusto di macchia vi è portato
al sommo grado”. Questo dicevano del pittore i contemporanei; questo ancora oggi dicono, in perfetto
accordo con quelli, studiosi e storici a noi molto più
vicini nel tempo. Soggiogati dal fascino delle prepotenti quanto innate qualità espressive dell’artista,
magistralmente colte dal Longhi con la rapidità di
velocissime pennellate - il temporalesco, il maculato, il bruscato -, nonché dall’impeto di improvvise
e appassionate immersioni nel naturalistico, critici
e storici dell’arte si sono cimentati in letture che ne
hanno favorito, anzitempo, approcci di indiscussa
sensibilità romantica (Stendhal). Sola voce discorde
fu quella di Carlo Cesare Malvasia, che non amò la
Giovan Francesco Barbieri detto Guercino, Angelo custode, 1641, olio su tela, cm 292 x 178, Fano, Pinacoteca civica (già Fano, Chiesa di Sant’Agostino, Cappella Nolfi)
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pittura del Guercino e lo dichiarò apertamente fin
dalla prima edizione (1678) della sua Felsina pittrice.
Che fra le ragioni di questo mancato amore possa
annidarsi anche il non aver mai potuto, il Malvasia,
entrare in confidenza col pittore di Cento e frequentarne lo studio non è del tutto da escludere5, certo è,
come dice il Ficacci, che lo studioso “…a fronte del
suo [del Guercino] successo sembra quasi stimolato
a rafforzare la propria contrarietà”. Sappiamo infatti che morto a Bologna, nell’agosto del 1642, il ‘divino’ Guido Reni, nel settembre dello stesso anno,
un mese dopo, il Guercino trasferisce il suo studio
da Cento nel capoluogo emiliano, in via Sant’Alò.
Di natura chiusa e riservata, l’artista non si adoperò
gran che per mutar anche di poco il suo stile di vita,
il suo modo di porgersi e il suo carattere scontroso
se coloro che lo frequentarono e lo conobbero un
po’ più da vicino ce lo dipingono come uomo “di
costumi rozzissimo, indiscreto e incivile”. Geloso
del suo modo di operare, il suo studio restò sempre
chiuso a tutti. Neppure il Malvasia vi pose mai piede. Le notizie che potè avere sul pittore gli vennero
dai Gennari, parenti e collaboratori dell’artista. Pur
volendo credere allora alla massima serenità di giudizio dello studioso, questo atteggiamento ebbe certamente il suo peso e il Ficacci ne sintetizza bene il
pensiero: “Ciò che disturba Malvasia è l’empirismo
della pittura guerciniana; il suo fare, trascurando
l’idea. E quando intorno al pittore tipeggia una condizione di paesana chiusura, più che un tratto caratteriale, intende additare velatamente l’inesistenza
nella sua maniera di un’articolazione teorica”.
Quanto detto non pone però fine alle riflessioni sul
percorso artistico di Giovan Francesco Barbieri, che
non si esauriscono nel riconoscimento e nell’accettazione concorde degli exploits degli esordi e della
sua produzione giovanile, né, tanto meno, in quel
gioco di incertezze involutive più o meno avvertite o
di quel fare immediato e in apparenza acritico, procedimenti che verrebbero a segnare la produzione
successiva. Scrive Andrea Emiliani: “L’interpretazione di un pittore tanto complesso ha bisogno di mettere in discussione il gioco difficoltoso che si è istituito - e forse non del tutto a caso - tra il volto stilistico,
la fisionomia durevole del Guercino, e le sue diverse, duttili, successive età dello stile: due secondo gli
scrittori in genere, tre a detta del Lanzi”6. Sempre
più impossibile è per il centese, che si autoproclama
discepolo di Ludovico Carracci, pittore da lui conosciuto e studiato dapprima proprio nella chiesa dei
Cappuccini della natale Cento, dove poté ammirare
la pala con la Madonna e i Santi Francesco e Giuseppe,
sempre più impossibile - dicevo - è per il Guercino
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sottrarsi al peso di un raffronto con l’intellettuale,
raffinata e altissima classicità di Guido Reni. È scontro di mondi opposti e giganteschi: natura e idea,
tangibile verità e altezza di pensiero. Uno scontro,
vedremo, di cui è sicura ed evidente testimonianza,
tra le tante opere riconducibili allo stesso periodo,
anche l’Angelo Custode fanese.
Sir Denis Mahon, autorità oggi indiscussa in campo guercinesco, fa iniziare la produzione tarda del
pittore dall’anno 16327 e suddivide tale produzione
matura in varie fasi. La prima, che contrassegna gli
anni dal 1632 al ’45 circa, quella che qui particolarmente preme, vede il maestro muoversi con sempre
maggior convinzione verso lo stile classico e impegnarsi in una ricerca decisamente sperimentale. “Il
problema che gli si presentava - scrive il Mahon - era
se poteva o no conservare in qualche grado il colorito potente, intenso e la fattura ampia, robusta
che era stata un tempo così caratteristica della sua
opera, o se si dovessero ricercare le possibilità di
una gamma cromatica più pallida, più ‘pastello’ e
un tipo di fattura più delicato che erano nel complesso più adatte al suo nuovo orientamento. Il Reni
aveva certamente dato sin dal 1630 notevoli esempi
di ciò che si poteva raggiungere in questa direzione. E sembra chiaro che intorno al 1640 il Guercino
era divenuto molto consapevole di questo fatto, ma
era indeciso sulla strada migliore da seguire a questo punto, di conseguenza, i suoi quadri sembrano
oscillare tra le due alternative”8.
L’opera fanese, licenziata come s’è detto nel 1641,
l’anno prima che il pittore si trasferisse a Bologna,
manifesta con indubbia evidenza il dilemma formale legato al momento: se per un verso infatti il
pittore non rinuncia alla sfera della macchia, ormai
intesa non tanto come dirompente e monolitica
forza di contrasto, ma piuttosto come zona intensa
d’ombra e di mistero, è palese dall’altro l’impegno
a perseguire un tinteggiare più morbido e sfumato,
lontano da quelle repentine aperture alla luce che
avevano indotto il Malvasia a vedere nel Guercino
ascendenze più caravaggesche che carraccesche. Ma
c’è di più, c’è ormai nella pittura del Guercino un
impegno didascalico/devozionale a tutto campo; si
avverte, sempre più spesso, la presenza di un dettato
dottrinale che costringe il pittore a muoversi entro
precisi itinerari figurativi, certamente limitativi, o
parzialmente limitativi, della sua enorme portata
inventiva, ma a tutto vantaggio di un più ponderato
approccio al tema religioso. Si direbbe quasi che il
pittore avverta, per l’incontenibile inventiva del suo
genio, il pericolo di possibili facili debordamenti
qualora venga alle prese con le verità contrapposte
ANGELO CUSTODE
del bene e del male, della luce e dell’ombra, dello
spirito e della materia. Il ricorso ai simboli è in questi anni costante e ripetitivo. Un esempio soltanto:
la presenza del grande cubo di pietra. Negli anni
che vanno dal 1640 al 1645, anni sintomatici, come
avverte sir Denis Mahon, nella produzione del Guercino, il granitico cubo si presenta numerose volte
- La visione di San Gerolamo (1641), Rimini, Oratorio
della Confraternita di San Gerolamo; San Francesco
riceve le stimmate (1642), Magonza, Landesmuseum;
Agonia di Cristo nell’orto (1640-45 circa), Cardiff, National Museum of Wales; San Francesco in piedi con in
mano il Crocifisso (1643-45 circa), proprietà privata;
San Francesco inginocchiato in contemplazione del Crocifisso (1645), Bologna, Chiesa di San Giovanni in
Monte - a sottolineare sempre la ricerca di un preciso significato, a farsi portatore sempre di una identica valenza semantica.
Il cubo fa la sua bella apparizione anche nell’Angelo
custode fanese e tanto basta per indurci a guardare
all’opera non solo come a un momento ben preciso
dell’iter formale dell’artista o come a un prodotto
in cui leggere il dilemma creativo di una stagione o
come ad un prodotto da collocare entro un preciso
recinto temporale, ma anche come ad un testo figurativo opportunamente finalizzato alla proposta
di un messaggio mirato, il cui tracciato iconografico è senz’altro da ricondurre ai più che probabili
suggerimenti di qualche dotto teologo seguace del
grande Santo di Tagaste; tanti sono infatti nel dipinto, come si vedrà subito, i rimandi al pensiero
agostiniano.
In molti si saranno chiesti perché il bimbo di cui
l’angelo si prende cura, indirizzandone sguardo e
pensieri verso la luce, stia sopra una pietra perfettamente cubica. È del tutto evidente che quella pietra
non è lì a caso e che il pittore l’ha voluta con precisi
intendimenti simbolici e didattici, e la stessa cosa
va detta anche per tanti altri elementi presenti nel
dipinto. Dai dizionari iconografici sappiamo che il
cubo è simbolo di stabilità, di certezza. Su un cubo
poggiano sovente le personificazioni della Fede, della Storia, della Saggezza. In senso mistico l’angolare pietra cubica è simbolo di saggezza, di verità, di
perfezione morale. Al cubo si contrappone infatti
l’instabile sfera della Fortuna, alludente alla casualità, alla precarietà, alla probabilità o improbabilità
di ogni sicurezza. Quel cubo allora, o meglio ciò che
esso rappresenta, è il solido e stabile fondamento su
cui deve poggiare la vita dell’uomo. Solo forgiandoci su autentici valori morali, solo diventando granitica volontà illuminata dalla luce divina, potremo
acquisire la fermezza di quell’inamovibile pietra an-
golare, sicura sul precipizio e inattaccabile dal male
che la insidia da ogni lato. Male infatti è il burrone
retrostante, e male sono le erbacce che crescono attorno alla pietra fra cui, evidentissimo, il gigaro, inequivocabile allusione agli allettamenti della carne.
Il cubo, quadrato del quadrato, rimanda al numero
quattro, che è il numero della terrestre concretezza, della realizzazione storica dell’uomo. “Avvegna
ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di sventura”
aveva scritto Dante. E noi, di un uomo retto, concreto e sicuro nell’agire, temprato al punto da non abbattersi davanti alle avversità e da non cedere davanti a quel che di negativo la sorte riserva ad ognuno,
siamo soliti dire: è un uomo quadrato. Compito del
bellissimo e luminoso angelo, di quel rasserenante
genio alato, di quel respiro immenso del divino che
è in noi e accanto a noi, è di aiutarci a crescere su
quel cubo, a conservarci fermi e saldi nei grandi valori della fede e della saggezza dell’agire, immersi
nella luce che viene dall’alto, la trascendente agostiniana luce che proviene dal di fuori del nostro campo visivo, quello rappresentato dalla tela, e dunque
dal di fuori delle nostre possibilità intellettive. Quella luce è il bene, perché viene da Dio, e buone sono
le cose da essa bagnate. L’oscurità è il male, perché
assenza di luce e dunque assenza di Dio. Compito
dell’angelo è di tenerci lontani dall’oscurità, dalle
verità poco chiaramente visibili perchè poco o per
niente illuminate, tenebrose, cattive, e di guidarci
al bene, di insegnarci cioè la via per la meravigliosa
città fortificata, la sicura Civitas Dei che splende in
alto sul monte. Non a caso in questo stupendo paesaggio moralizzato la celeste città fortificata è posta
sulla destra della tela, la parte buona, quella dove
stanno le cose di Dio, le cose che vivono della luce di
Dio, mentre a sinistra, la parte cattiva, stanno il pericolo (rocce e burroni), la confusione della mente
(mancanza di luce e quell’albero così poco definito
nella sua verità vegetale), la morte (il sasso che bene
evoca la forma di un teschio, pensiero sempre presente nella religiosità secentesca e che ha nell’opera del Guercino esempi di straordinaria incisività,
dall’ironico regno della Vanitas agli stupori degli Et
in Arcadia ego). Questo è l’impegno dottrinale che
si palesa di fra le luci e le ombre della grande tela
guercinesca.
L’opera è, tra le creazioni dell’artista, certamente
notissima, per il disegno autografo che si trova nella Collezione Reale inglese a Windsor Castle (inv.
2685)9, per le copie di vario formato che di essa ritroviamo nelle pareti di tante chiese, anche remote,
marchigiane e non, per la diffusione che ebbe come
immaginetta devozionale (santino). Ma alla sua no65
THE GUARDIAN ANGEL - A PICTURE AT FANO
L’ANGELO CUSTODE - UN QUADRO A FANO
Dear and great Angel, wouldst thou only leave
That child, when thou hast done with him, for me!
Let me sit all the day here, that when eve
Shall find performed thy special ministry,
And time come for departure, thou, suspending
Thy flight, may’st see another child for tending,
Another still, to quiet and retrieve.
Caro e grande Angelo, se tu volessi soltanto lasciare
Quel fanciullo, quando avrai finito con lui, per curarti di me!
Permetti che io sieda qui tutto il giorno, affinchè quando la sera
Troverà compiuto il tuo particolare incarico
E tempo verrà di ripartire, tu, differendo
Il tuo volo, possa scorgere un altro fanciullo da custodire,
Un altro ancora, da calmare e salvare.
Then I shall feel thee step one step, no more.
From where thou standest now, to where I gaze.
- And suddenly my head is covered o’er
With those wings, white above the child who prays
Now on that tomb - and I shall fel the guarding
Me, out of all the world: for me, discarding
Yon Heaventhy home, that waits and opes its door.
Allora ti sentirò muovere un passo, uno solo, non più,
Da dove ora stai, verso il luogo dove io ti contemplo,
- E all’istante il mio capo sarà ricoperto
Da quelle ali, bianche sul fanciullo che prega
Ora su quella tomba - e sentirò che tu vegli
Su me, trascurando tutto il resto del mondo: per me, lasciando
Quel cielo lassù la tua casa, che t’attende ed apre la porte!
I would not look up thither past thy head
Because the door opes, like that child, I know.
For I should have thy gracious face instead.
Thou bird of God! And wilt thou bend me low
Like him, an lay, like his, my hands together.
And lift them up to pray, and gently tether
Me, as thy lamb there, with thy garment’s spread.
Non vorrei alzare lo sguardo al di là del tuo capo
Perchè la porta s’apre, come fa quel fanciullo, lo so,
Poichè vorrei contemplare invece il tuo benigno volo.
Tu, o uccello di Dio! E tu mi piegheresti in basso.
Come a lui, e metteresti, come le sue, le mie mani insieme
E le eleveresti a preghiera, e delicatamente tratteresti
Me, come il tuo agnellino là, col tuo manto svolazzante.
If this was ever granted, I would rest
My head beneath thine, while thy healing hands
Close - covered both my eyes beside thy breast.
Pressing the brain, which too much thought expands.
Back to its proper size again, and smoothing.
Distortion down till every nerve had soothing.
And all lay quiet, happy and supprest.
Se ciò mi fosse mai concesso, vorrei restare
Col mio capo sotto il tuo, mentre le tue mani guaritrici
Accostate - mi coprirebbero gli occhi accanto al tuo petto.
Ridando al cervello, che il troppo pensare affatica,
Di nuovo la primitiva freschezza, e spianando
Le rughe finchè ogni nervo sia disteso,
E tutto ritorni calmo, felice e sereno.
How soon all worldly wrong would be repaired!
I think how I should view the earth and skies
And sea, when once again my brow was bared
After thy healing, with such different eyes.
O world, as God has made it! All is beauty:
And knowing this, is love, and love is duty.
What further may be sought for or declared?
Come ben presto ogni male del mondo sarebbe riparato!
Immagino come vedrei la terra e il firmamento
E il mare, quando di nuovo la mia fronte sarà scoperta
Dopo la tua cura, con che diversi occhi.
O come Dio ha fatto il mondo! Tutto è bellezza:
E conoscere questo, è amore, e amore è un dovere.
Che altro si deve ricercare o proclamare?
Guercino drew this Angel. I saw teach
(Alfred, dear friend!) - that little child to pray.
Folding the little hands up, each to each
Pressed gently, - with his own head turned away
Over the earth where so much lay before him
Of work to do, though Heaven was opening o’er him,
And he was left at Fano by the beach.
Guercino dipinse quest’Angelo che vidi istruire
(o caro amico Alfredo!) quel fanciullino a pregare,
Giungendogli le manine, una sull’altra
Delicatamente premute, - col proprio capo rivolto altrove
Sopra la terra dove davanti a lui rimane tanto
Lavoro da compiere, benchè il Cielo stava aprendosi sopra di lui.
Ed egli fu lasciato a Fano presso il litorale.
We were at Fano, and three times we went
To sit and see him in his chapel there,
And drink his beauty to our soul’s content
- My Angel with me too: and since I care
For dear Guercino’s fame (to which in power
And glory comes this picture for a dower,
Fraught with a pathos so magnificent), -
Venuti a Fano, per tre volte andammo
A sederci per vederlo là nella sua cappella,
E bere la sua bellezza fino alla soddisfazione del nostro spirito
- Angelo mio resta ancora con me: da allora m’interesso
Della fama del caro Guercino (la cui autorità
E gloria vengono da questo quadro come una dote,
Pieno come è di così magnifico sentimento), -
And since he did not work so earnestly
At all times, and has else endured some wrong I took one thought his picture struck from me,
And spread it out, translating it to song.
My love is here. Where are you, dear old friend?
How rolls the Wairoa at your world’s far end?
This is Ancona, yonder is the sea.
E poichè egli non lavorò con tanto impegno
In ogni tempo, e talvolta ha patito alcuni torti Presi quell’idea che il quadro suscitò in me,
E la espressi, traducendola in poesia.
Il mio amore è qui. Dove sei tu, caro vecchio amico?
Come scorre il Wairoa nel tuo lontano paese al limite del mondo?
Questa è Ancona, laggiù c’è il mare.
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ANGELO CUSTODE
torietà hanno sicuramente contribuito anche i versi
del poeta inglese Robert Browning10. Di passaggio
a Fano nel 1848, il Browning dedicò alla celebre
opera guercinesca una poesia poi apparsa, nel 1855,
nella raccolta Men and Women. La trascriviamo dal
citato saggio del Polverari, sia nell’originale inglese
che nella traduzione italiana di Guido Berardi. Il
componimento del poeta inglese è qualcosa che si
libra tra religioso e fantastico, qualcosa di non ben
definibile; un approccio al religioso decisamente
personale e un tantino confuso, ma liricamente sentito, che non esiteremmo oggi a definire colorato di
new age. Si tratta comunque della stupita contemplazione di un’opera pittorica ricca di contenuti, davanti alla quale, quand’anche esclusi dal messaggio più
autentico, l’indifferenza non è concessa.
Innegabili, com’ebbe ad osservare il prof. Adolfo
Mabellini, che nei primi decenni del ‘900 era, a
Fano, bibliotecario della Federiciana, alcune inesattezze quali, ad esempio, il bambino che prega su
una tomba (seconda strofa), la presenza nella tela
di un inesistente agnellino (terza strofa), o l’altra
in cui si dice che l’angelo volge altrove lo sguardo
sopra la terra (sesta strofa), mentre è evidente che
Giacinto Gimignani, Santa Famiglia, Fano, Chiesa della Santa Famiglia
l’angelo volge lo sguardo al cielo, a meno che le parole “…col proprio capo rivolto altrove / Sopra la
terra…” non vogliano significare che l’angelo volge
lo sguardo al cielo. Il Mabellini giustifica tali inesattezze chiamando in causa “l’impeto lirico, dal quale fu evidentemente presa l’immaginosa sua [del
poeta] fantasia dinanzi alla mirabile opera d’arte”.
La romantica lettura del Mabellini non si preoccupa di verificare se le inesattezze presenti nel componimento poetico non siano invece da addebitare ad
altri fattori intervenuti, senza ombra di dubbio, a
ingenerare nello scrittore qualche incertezza. L’ultimo verso della poesia è rivelatore: il poeta non
scrive questi versi a Fano, dove può visionare il dipinto a piacimento, ma ad Ancona, dove fa sosta. Di
Ancona infatti si parla al presente (“Questa è Ancona, laggiù c’è il mare.”), mentre di Fano al passato
(“Venuti a Fano, per tre volte andammo…”). Ciò
significa che il poeta scrive sull’onda del ricordo,
recentissimo finchè si vuole, ma pur sempre ricordo, e questo crea qualche confusione. L’angelo non
guarda più verso il cielo ma verso gli uomini e il
cubo su cui prega il bambino diventa, nel ricordo,
una tomba (il poeta, non avendo compreso il valore
simbolico del cubo, cancella dalla mente quell’elemento per lui illogico e inspiegabile e lo sostituisce
con qualcosa di logico e probabilmente di già visto in qualche ricordo funerario o in qualche cimitero, e magari inglese). Situazione decisamente
singolare è poi la dichiarata presenza di un agnellino (“… e delicatamente tratteresti / Me, come il
tuo agnellino là, col tuo manto svolazzante”.) che
palesemente non compare nella tela guercinesca.
Il Browning, entrato per tre volte nella chiesa di
Sant’Agostino, non si è soffermato, come è logico
pensare, solo davanti all’Angelo custode del Guercino, ma ha guardato anche le altre opere presenti
nella chiesa, e fra queste una Santa Famiglia di Giacinto Gimignani (Pistoia, 1611 - Roma, 1681). Eseguito nel 1654, il dipinto presenta un interessante
tessuto iconografico, dove attraverso tutta una serie
di prolessi il Bambino Gesù viene indicato come la
futura vittima sacrificale, redentrice dell’umanità.
La più singolare di tali prolessi è quella che si manifesta nel panno bianco posato dalla Vergine nel
cesto da lavoro, panno che, assunta accidentalmente - diresti - la forma di un agnellino, sembra veramente ricoprire un siffatto animale, assumendone
le forme e configurandosi così come il sudario che
avvolgerà in futuro la vittima sacrificale. Questo
particolare, osservato dal poeta in un altro dipinto,
collocato sopra un altro altare della stessa chiesa,
finisce per perdere, nel ricordo dello scrittore, la
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ANGELO CUSTODE
sua reale ubicazione e trasferirsi nell’opera tanto
ammirata, diventando elemento della medesima:
un vero e proprio caso di contaminatio. Il dipinto
del Gimignani, visto dal Browning nella chiesa di
Sant’Agostino, è oggi esposto nella chiesa fanese
della Santa Famiglia.
Non si conoscono invece notizie circa i contatti che
sicuramente dovettero esserci tra il grande pittore
di Cento e il nobile committente fanese, contatti
che potrebbero fare qualche luce sui rapporti e
sugli orientamenti culturali fra la città marchigiana e il pittore di Cento, legatissimo però al mondo
culturale del capoluogo emiliano, dove si sarebbe
trasferito giusto l’anno seguente.
Note
1 Vincenzo Nolfi, titolare del giuspatronato sulla cappella
dell’Angelo Custode, la Cappella absidale a cornu evangelii, nella chiesa di Sant’Agostino, e figlio adottivo ed erede del nobile
Guido Nolfi, a cui si deve invece la meravigliosa Cappella Nolfi
della Cattedrale fanese, affrescata dal Domenichino.
2 Sulla devozione nutrita da Vincenzo Nolfi per l’angelo custode, tanto da raccomandarne il culto nella sua Ginipedia, overo
Avvertimenti civili per la Donna Nobile (pubblicata a Venezia nel
1631) e da promuovere la nascita, a Fano, di una associazione
intitolata appunto all’Angelo Custode, con sede nella cappella
medesima si veda Polverari 1991, p. 21.
3 Ibidem, p. 24, n. 1.
4 Si veda la scheda redatta da Sir Denis Mahon 1993, p. 59.
5 L. Ficacci 1991 sintetizza in maniera mirabile il pensiero del
Malvasia: “Ciò che disturba il Malvasia è l’empirismo della pittura guerciniana, il suo fare, trascurando l’idea. E quando intorno
al pittore tipeggia una condizione di paesana chiusura, più che
un tratto caratteriale, intende additare velatamente l’inesistenza
nella sua maniera di un’articolazione teorica”.
6 A. Emiliani 1991, p. XXVII.
7 Nel citato catalogo Il Guercino, edito in occasione della mostra sul pittore tenutasi congiuntamente nelle città di Cento e
Bologna, Sir Denis Mahon, redigendo il catalogo critico delle
opere in mostra, suddivide l’attività del pittore come segue: gli
inizi del periodo giovanile (sino al 1616); il periodo giovanile, la
prima maturità (1616 - 1618); il periodo giovanile, la piena maturità (1618 - 1621); il periodo giovanile, il soggiorno romano (1621
- 1623); il periodo di transizione (1623 - 1632); il periodo tardo
(dopo il 1632).
8 Il Guercino 1991, p. 218.
9 Cfr. Sir Denis Mahon in La Pinacoteca Civica di Fano 1993, p.
61, dove di seguito siamo informati che il disegno “fu esposto
nella mostra del Guercino a Bologna nel 1991 (catalogo dei disegni di Sir Denis Mahon, 1992, scheda 112, p. 178, con riferimenti
a due altri studi di bottega dello stesso soggetto).
10 Il Browning, di passaggio a Fano nel 1648, dedicò, alla celebre opera guercinesca, una poesia apparsa poi, nel 1855, nella
raccolta Men and Women. La trascriviamo dal citato saggio del
Polverari 1991, sia nell’originale inglese che nella traduzione italiana di G. Berardi.
Giovan Francesco Barbieri detto Guercino, Angelo custode, 1641, olio su tela, cm 292 x 178, Fano, Pinacoteca civica (particolare)
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