LA PREMESSA La meglio `gioventù` di diverse ma contigue

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LA PREMESSA La meglio `gioventù` di diverse ma contigue
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LA PREMESSA
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La meglio ‘gioventù’
di diverse ma contigue generazioni della tv commerciale: Maurizio
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Carlotti, Carlo Freccero e Giorgio Gori. Personaggi capaci di tornare con intelligenza e
sensibilità sui capitoli
chiave della propria esperienza professionale, ma anche di elaborare
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stimolanti tesi sulla
tv dell’oggi e del domani. Freccero, in particolare, avendo appena pubblicato
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un libro, “Televisione”
(«un’autobiografia intellettuale», l’ha definita lui) che secondo Aldo
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Grasso restituisce all’analisi sulla tv «lo spessore e la profondità che merita».
Lo stesso impegno a volare alto da un lato, ma a dedurre indicazioni operative dall’altro lato, ha
caratterizzato il primo dei quattro appuntamenti del Purple Program, il ciclo d’incontri che
MindShare vuole dedicare ai propri clienti per aprire un confronto realistico e costruttivo su
alcuni temi chiave per la media industry.
Il CEO Roberto Binaghi e il CMO Carlo Momigliano, hanno voluto iniziare il percorso
accendendo i riflettori sulla tv e rimettendo eccezionalmente a confronto questo ‘dream team’.
Un gruppo di professionisti di cui ha fatto parte anche Momigliano e che per un periodo non
circoscritto ha lavorato insieme: Freccero, l’intellettuale capace di ‘sporcarsi’ le mani sia con la
tv commerciale che con quella del servizio pubblico di vari Paesi (ammesso e non concesso
che per lui esista una differenza); Maurizio Carlotti, il ‘venditore’ emigrato in Spagna a Telecinco
e poi ad Antena Tres, di cui è tuttora vicepresidente operativo; Giorgio Gori, direttore dei
palinsesti delle tre reti Fininvest, quindi in era Mediaset direttore di Italia 1 e di Canale 5 prima
di mettersi in proprio e lanciare Magnolia e poi decidersi ad abbandonare cariche e attività
televisive in Zodiak per coltivare la mai sopita passione per la politica.
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IL RACCONTO ‘LIVE’ DELLA GIORNATA
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Hotel Nhow, Milano,
ore 10.15 circa, venerdì 19 aprile
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Roberto Binaghi: Di«Grazie
per essere intervenuti. Questo è il primo di una serie di appuntamenti
che abbiamo organizzato
per parlare di alcuni temi che riteniamo cruciali per il mondo della
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pubblicità. Cominciamo - ed è forse inevitabile - con la televisione. Vorremmo però parlarne in
maniera più profonda e strutturata. Non dibattere soltanto dell’andamento degli investimenti o
dell’entità degli sconti praticati dai vari player del mercato, con la differenza delle stime che di
questi tempi pare evocare quelle tra la polizia e gli organizzatori alla fine delle grandi
manifestazioni politiche. Vogliamo parlare delle prospettive di questo mezzo e il titolo che
abbiamo scelto “Il futuro di un’illusione” evoca Sigmund Freud.
L’Agcom ha appena dichiarato che è un errore l’eccesso d’investimenti pubblicitari in tv.
Ebbene, secondo la psicanalisi, l’illusione è un errore che sottende un desiderio. Così la nostra
suggestione/provocazione di partenza è che se gli investitori italiani hanno speso tanto, perfino
in eccesso nella tv, è stato forse perché lo desideravano.
Oggi approfondiremo con i nostri ospiti argomenti di minore e maggiore attualità, ma tutti
strettamente correlati. Cominceremo parlando dell’impatto della televisione commerciale sui
consumi e sulla società: cosa è successo nel passato, cosa sta accadendo adesso, quale sarà
il ruolo ma anche la ‘forma’ della televisione nel prossimo futuro.
Il secondo interrogativo che porremo, caro anche al presidente dell’Upa, Lorenzo Sassoli de
Bianchi, è quello sul modello e sul destino della Rai: la nostra televisione pubblica è
‘irriformabile’? La pubblicità continuerà a finanziarne le attività?
Il terzo interrogativo investe l’attualità, la quotidianità del nostro lavoro di operatori e riguarda
naturalmente anche il futuro del mezzo: si avvicina la fine o è già una realtà l’espansione della
tv negli altri media? Stiamo parlando di un media declinante o di un media alimentato e perfino
rafforzato dalla sinergia con quelli emergenti con - per noi pubblicitari – il problema di ‘scaricare
a terra’, tutto questo nuovo potenziale di relazione e comunicazione della nuova televisione?
Per dare una risposta a tutte queste domande, replicando il modello sapiente del presidente
della Repubblica, Giorgio Napolitano, con Carlo Momigliano abbiamo deciso anche noi di
avvalerci del parere di alcuni accreditati e prestigiosi saggi. Volevamo averne dieci anche noi
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ma poi, in tempi Fax.
così
grami, per ragioni di budget ma anche di sintesi, ci siamo convinti ad
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attenerci ad un numero qualificato di tre.
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Il primo che chiamo
sul palco è Carlo Freccero. Lo definirei il padre della televisione
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commerciale, quanto meno il padre dei palinsesti. E’ stato il direttore di Canale 5, ma anche di
tutte quante le tre reti che allora si chiamavano Fininvest. Oggi lavora in Rai, di cui è stato un
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candidato alla presidenza,
è un teorico del mezzo e ha appena scritto un libro. Freccero, si
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riconosce in questa
descrizione?»
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Carlo Freccero: «Si mi riconosco, ma manca qualcosa. La Francia. Che per me è stata
importantissima, perché mi ha consentito di fare esperienze che mi hanno formato e direi
‘formattizzato’. Lì ho lavorato sia nella tv commerciale che nel servizio pubblico. E ho avuto due
editori straordinari. Uno era Silvio Berlusconi e lo conoscete bene tutti. L’altro era un anarchico
di destra, Robert Hersant; ‘nazista’, diceva che 'bisogna pisciare sulla testa dei giornalisti', ma
poi era anche un grande amico e sostenitore di Francois Mitterand.Mi fece fare qualunque cosa
tranne che, nel 1988, un programma nostalgico sul ‘68, Generations, con tutti i reduci del
movimento. Cosa accadde? Decisi di cominciare parlando della Guerra d’Algeria e questo lo
mandò in bestia e litigammo. Risolse tutto vendendo il programma alla ‘Une’…».
Roberto Binaghi: «Il secondo saggio è Maurizio Carlotti. E’ l’inventore delle politiche
commerciali di Publitalia. Molti dei prodotti pubblicitari che i clienti utilizzano ancora adesso
sono stati ideati da lui molti anni fa. Tra le cose curiose, tanto tempo fa con Paolo Ainio mise in
piedi il primo sistema di ‘inventory’ per gestire tutti gli ‘invenduti’ di televisione, “Fivenet”. Non so
se c’è una relazione tra le due cose, ma subito dopo aver proposto Fivenet in Italia, è stato
mandato in Spagna, dove ha risollevato le sorti di Telecinco e poi è passato a lavorare per la
concorrenza, Antenna Tres. Il terzo saggio è Giorgio Gori, il direttore dell’Italia 1 che ci piaceva,
ma anche di tutte le altre reti del Biscione e di Canale 5, e poi il fondatore visionario e milionario
di Magnolia e infine, adesso, lo spin doctor di Matteo Renzi.
Come è già successo in un altro caso - a conferma del fatto che tra ‘intellighenzia’ e saggi il
nesso è naturale e inscindibile - voglio ora sottoporre ai tre saggi la registrazione di una
chiamata telefonica a loro rivolta da Margherita Hack, che ha deciso di porre qualche domanda
ai tre compagni accomodatisi sulle nostre tre poltrone viola».
Sintesi telefonata di ‘Margherita Hach’
«Avrei proprio voluto incontrare tre compagni come Freccero, Carlotti e Gori, ma
purtroppo proprio oggi mi ha invitato a colazione qui a Trieste il professor Valerio Onida
e non ho potuto esimermi dall’accettare. Avrei molto volentieri incontrato, ad esempio, il
comunista ‘carrista’ Maurizio Carlotti, che come me ha visto con simpatia alcune storiche
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scampagnate deiFax.carri
armati del Patto di Varsavia e che, mostrando un'intelligenza che
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quei bischeri degli americani non hanno avuto, aveva in tempi non sospetti appoggiato
anche l’invasione
dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa. Avrei incontrato volentieri
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anche il situazionista
Freccero, che mi ricorda il mitico ’68 e l’altrettanto mitico ’69,
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l’anno delle lotte operaie per intenderci… E poi avrei visto con piacere Giorgio Gori,
purtroppo renziano, ma che comunque vuole mandare in pensione Berlusconi….
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Ecco, ho letto il Dibel
libro
di Freccero e mi ha colpito un passaggio. Quello in cui dice che
Wpp 2005 Ltd del conflitto, il mercato è il luogo dell’omologazione. E questa
se “La fabbrica Da
è parte
il diluogo
omologazione del gusto e dei consumi si consegue attraverso gli strumenti del
marketing e dell’audience. Trentanni di televisione commerciale hanno formato il gusto
medio del Paese, l’ideologia politica, l’adesione ed il consenso al berlusconismo”.
Chiudo qui la citazione per chiedere una cosa a tutti e tre i compagni. Voi che avete
determinato il successo del Berlusconismo e di Publitalia, in quegli anni cosa eravate,
ciechi, complici, bischeri o semplicemente grulli?
Carlo Momigliano: «Come capite abbiamo voluto mettere subito il pepe nel dibattito. Il tema
sembra distante dal lavoro che svolgiamo ogni giorno ma non lo è affatto e, soprattutto, è da
sempre al centro del lavoro teorico di Carlo Freccero e non solo in quello recente, contenuto nel
libro appena pubblicato.
Così la prima domanda, assieme a quella provocatoria di Margherita Hack, che rivolgiamo ai tre
saggi è proprio questa: cosa ha rappresentato per il nostro Paese la televisione commerciale,
che impatto ha avuto e che impatto avrà nei prossimi anni?».
1) Cosa ha rappresentato per il nostro Paese la televisione commerciale…
Carlo Freccero: «Rispondo alla domanda di ‘Margherita Hack’ ricordando un aspetto che
ritengo essenziale. In qualunque giudizio o analisi critica non va considerato soltanto il ‘qui e
ora’, ma va sempre tenuta presente la dimensione storica. Non siamo noi che decidiamo
sempre tutto, molte volte siamo ‘parlati’ dalla storia.
Vale così la pena ricordare il contesto di quegli anni, l’inizio degli anni Ottanta. Il primo eversore
dell’ordine costituito è stato Enzo Tortora, che con il successo di Portobello ha svelato
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l’esistenza del pubblico
popolare, mettendo in crisi il pensiero elitario e minoritario della carta
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stampata, dei libri e delle Università che aveva fino a quel momento governato nei media e
nella società. Tortora
scopre un pubblico che non aveva niente a che fare con quel mondo ed è
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uno shock comunicativo.
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Il secondo destabilizzatore è stato Maurizio Costanzo, che ha promosso il protagonismo della
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gente comune assieme
a quello del politico e quello dell’attore, all’opposto di quello che fino a
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quel momento aveva
fatto
la tv di Pippo Baudo.
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Nel 1979, e non è un caso, inizia anche la finanziarizzazione del Capitale. Sono anni di frattura
profonda con il periodo precedente. Fino a quel momento si era sempre pensato in termini di
‘sinistra’ e ad un certo punto arriva la svolta. C’è un film che la annuncia: La febbre del sabato
sera. Una storia che anticipa tutti i talent: un ragazzo, un tamarro come quelli di Amici, lascia la
periferia e va in centro a fare un corso di danza. Si mette da parte la coscienza di classe ed
entra in gioco l’io. Al posto del rock c’è la disco music. E’ la fine delle ideologie e in quegli anni
Jean Baudrillard con Le masse fanno massa e Jean Francois Lyotard con La condizione
post moderna sanciscono l’inizio di una nuova fase.
Così voglio dire alla Hack che è la storia che cambia le cose e che nella maggior parte dei casi
noi siamo solo gli artefici del mutamento. Il buon professionista non fa altro che mettere in
forma quello che la storia sta disponendo sul tavolo.
Ebbene, la tv commerciale è stata in Italia il dispositivo che ha contribuito a fare scattare questo
cambiamento ed io l’ho sentito funzionare sulla mia pelle. Ed è stato un momento straordinario.
Praticavo a Bologna il pensiero di minoranza e ho scoperto un nuovo mondo incontrando
Daniele Lorenzano e Carlo Bernasconi. Per 500 mila lire ho fatto per loro un’analisi del catalogo
cinematografico della Titanus ed ho appreso che già delegavano ai sondaggi di mercato la
scelta tra cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato trasmettere. Erano convinti, anzi, erano
sicuri che la televisione fosse questo.
Così ho scoperto anche io che il rapporto con l’audience è come una scarica dopaminergica.
Esattamente come fare jogging e fare l’amore. Una sorta di droga e una logica - l’audience è
tutto - da cui sono stato immediatamente risucchiato, ma rimanendo per fortuna anche quasi
schizofrenicamente legato al mio background molto diverso.
L’audience è la prima forma d’interattività: è il pubblico che decide cosa vedere e stabilisce
cosa dobbiamo mettere nelle griglie della programmazione.
E’ una scoperta sconvolgente. E’ chiaro che questo vale soprattutto per la tv generalista, che
allora era tutto, mentre oggi viviamo in un sistema integrato molto più articolato e complesso.
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Ma già allora la tvFax.commerciale
sostituisce al pubblico da pedagogizzare della tv del monopolio,
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i tanti ‘pubblici’ che compongono l’audience da vendere, con la demografia che è la categoria
che sta alla base www.mindshareworld.com
di tutto.
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Il successo della tv
commerciale coincide con l’introduzione della società dei consumi nel nostro
Paese e per la prima volta il fuso orario dell’Europa coincide con quello americano. E succede
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una cosa per meSocietà
sconvolgente:
il capitale culturale non conta più nulla e conta solo il capitale
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economico.
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Gli americani avevano capito che la cosa più importante era fare consumare tutti ed oggi, con la
crisi che impera, quasi rimpiango l’alienazione che si determinava, perché indubbiamente è
meglio essere alienati e ricchi piuttosto che lucidi ma poveri.
Non lo dico soltanto perché oramai sono diventato integralmente cinico, perché sono uno
sconfitto e non un vincente come Carlotti e Gori, ma perché ho vissuto direttamente tutte queste
trasformazioni: la globalizzazione, la Thatcher, Reagan, oltre che Berlusconi.
E così se devo ammettere con la Hack che anche io sono un responsabile del successo del
berlusconismo, ci tengo pure a sottolineare che sono stato soltanto uno strumento della storia.
E che quello del lancio della tv commerciale in Italia è stato comunque un periodo folgorante.
La tv è un sismografo che registra le scosse nella società. Ed in quel periodo ha illustrato l’Italia
dei condottieri, del consumismo. Una fase comunque inebriante.
Altra attenuante, c’è un’anomalia tutta italiana nella storia della tv commerciale che va
considerata. Che non ci sono mai state delle leggi. Anzi già nel 1984 il Berlusconi pioniere della
tv commerciale, nel momento dell’oscuramento dei pretori, anticipa il Berlusconi della discesa in
campo chiamando in causa l’audience come strumento politico.
Chi ha l’audience ha sempre ragione e ancora adesso viviamo in questa contraddizione.
Ricordiamolo bene: è la tv commerciale che ha distrutto la Prima Repubblica, Antonio Di
Pietro da solo non avrebbe potuto cancellare le tre principali narrazioni politiche (Dc, Psi, Pci)
del dopoguerra.
In questo aspetto risiede il ‘male’ di quell' esperienza, ma di questo non mi sento responsabile,
è proprio in questo periodo che vado via da Cologno....».
Giorgio Gori: «Il capo d’accusa di Margherita Hack, e che Freccero in qualche modo comprova
attraverso il suo libro, è che siamo stati complici del berlusconismo. Carlo da ragione di fatto
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alla Hack ancheFax. quando
dice con Norberto Bobbio che la televisione commerciale è
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naturalmente di destra e ha favorito il protrarsi della stagione politica di Silvio Berlusconi.
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Chi di conseguenza
ha contribuito ad edificare quel progetto di televisione si deve sentire in
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qualche maniera responsabile anche del resto.
Personalmente mi
sono posto il problema varie volte e, ovviamente, non solo stamattina.
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Peraltro devo dire
che sono arrivato casualmente alla televisione commerciale nel 1984,
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incontrando CarloDa parte
Freccero
come primissima persona, al quale sono stato assegnato come
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allievo, e per me lui è stato davvero un maestro anche se solo per pochi mesi. Sono finito a
lavorare per la tv commerciale avendo in cuor mio molti pregiudizi. Facevo il giornalista e avevo
una formazione politica di sinistra e quindi il fatto di trovarmi lì, dove contava sostanzialmente
solo fare ascolto, vendere la pubblicità e fare fatturati, mi poneva alcuni problemi di coscienza.
Che non ho risolto una volta per tutte e che periodicamente si sono riaffacciati. Ebbene, mi
sono assolto e vi spiego perché.
La prima ragione è in qualche modo contenuta nel bel libro di Carlo. Cosa dice Freccero, in
apparente contraddizione con l’assunto iniziale: che non è il proprietario e neanche chi fa più
operativamente la televisione, gli autori o il direttore di rete, il vero responsabile di quello che va
in onda. Nella tv commerciale, sostiene, è il pubblico che decide la programmazione attraverso
le rilevazioni di ascolto. Il direttore di rete è un tecnico capace di tradurre in pratica questa
volontà popolare, bravo se riesce a commisurare investimenti e risultati.
Questa cosa è vera. Ho fatto il direttore dal 1989 al 2000 e la mia esperienza conferma in pieno
la tesi di Carlo. Il corollario obbligato è che non è stata la tv che ha cambiato il sentire comune,
creando quel liquido amniotico in cui poi Berlusconi ha sguazzato politicamente. Ma che
piuttosto è stato vero il contrario. La tv commerciale è stato un attendibile strumento di
registrazione di umori, aspettative, gusti degli italiani. Gli ha dato una forma ed in questo è stata
in tutto e per tutto un’operazione democratica. Nel suo libro Freccero sottolinea che la
democrazia non coincide solo con il rispetto della posizione della maggioranza. Sottolinea che
si può ritenere compiuta solo nella distinzione e nell’equilibrio dei poteri. Ma per la maggior
parte di noi, e non soltanto perché siamo figli della tv commerciale, la democrazia è più
semplicemente il rispetto degli umori e degli indirizzi della maggioranza, perché altrimenti
prevalgono elites, avanguardie, oligarchie.
E siccome questo dato quando ho cominciato a lavorare in televisione era una realtà in molti
contesti, penso che l’avere sfondato attraverso la tv commerciale il muro di un monopolio che
aveva una visione dall’alto al basso della società, pedagogica - quella supponente dell’elite
informata e colta che pensa di migliorare gli altri- sia stata un’operazione meritevole e per
niente di destra.
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Non vedo alcun profilo
che mi faccia definire questa cosa di destra. O meglio. Poi in qualche
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modo lo è diventata, ma non è scritto da nessuna parte che la televisione commerciale produca
laddove approdi ilwww.mindshareworld.com
predominio delle destre. E non soltanto perché comunque in Italia in questi
ultimi 20 anni ha www.mindshare.it
vinto le elezioni anche la sinistra, ma anche perché abbiamo visto che in tanti
altri Paesi il binomio tv commerciale e sinistra al governo sono stati una realtà comune e
normale.
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La verità è un'altra.
Cie Coordinamento
sono almeno due meccanismi per cui i cambiamenti introdotti dalla tv
Da parte diriconosciuti,
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commerciale, se non
inseriscono delle patologie nel sistema e tendono a indebolire
l’offerta politica di sinistra.
Il primo lo chiamerei ‘paradigma Auditel’. Protagora diceva che l’uomo è la misura di ogni cosa
e con la televisione commerciale noi cominciamo a pensare che l’Auditel sia la misura di tutto. E
questo diventa sicuramente un elemento condizionante se si assume l’audience come l’unico
paradigma. Non lo è se a questo indicatore puramente quantitativo se ne affiancano altri e si
crea una dialettica più equilibrata e positiva.
In Italia questo non è successo perché la Rai ha assunto la stessa natura di tv commerciale di
Mediaset e si è pesantemente abbeverata alla stessa monocultura dell’audience. In Viale
Mazzini alle dieci del mattino, quando arrivano i dati dei meter, tutti sono in fibrillazione
esattamente come a Cologno. Vogliono sapere quanti ascolti hanno prodotto – e questo da' la
misura della distorsione - anche i responsabili dei telegiornali. Tutto il mondo della
comunicazione televisiva, che poi è quello che contatta ogni giorno il maggior numero di italiani,
è informato da quest' unico paradigma. Perché succede tutto ciò?
Perche secondo me chi aveva la responsabilità di disegnare in maniera un po’ diversa il
sistema chiamando la Rai almeno in parte fuori da questa logica, non l’ha fatto. Il conflitto
d’interesse della sinistra con la Rai consiste in questo. Pur di contrapporsi totalmente
all’avversario la sinistra sceglie di contaminarla con lo stesso questo meccanismo commerciale,
omologandola.
Il motivo per cui la sinistra è stata a lungo perdente nel nostro Paese non è la conseguenza
meccanica del fatto che in Italia c’è stata la tv commerciale. Le ragioni più profonde sono altre.
Dentro questa nuova cornice Berlusconi porta dentro una novità più importante, il ‘fattore Pilo’.
Per ‘Pilo’ intendo Gianni Pilo, passato dalla responsabilità del marketing televisivo a quella del
marketing politico tra il 1993 ed il 1994, nel periodo in cui il Cavaliere non era ancora sceso in
campo ma già testava le possibilità che l’utilizzo di questo strumento avrebbe potuto garantirgli
nella ricerca del consenso.
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Ebbene l’avere Fax.
portato
nella politica la logica maggioritaria basata ovviamente non più
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sull’Auditel ma sui sondaggi è stata la grande novità che Silvio Berlusconi ha portato in un
agone politico dove
già le ideologie erano state indebolite dalla caduta del muro di Berlino e da
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Tangentopoli. Trasferire
l’Auditel nella dimensione politica porta dei risultati. Se sei bravo a
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capire per tempo cosa vogliono gli elettori, facilmente prendi più voti degli altri. Non si deve
professare un credo ideologico, ma limitarsi a soddisfare i desideri dei propri clienti-elettori,
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conformando la propria offerta politica alle loro aspettative. Qual è oggi l’aspettativa principale
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degli italiani? E’ la legalità? Bersani qualche mese fa ha pensato questo.
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Berlusconi, invece, ha puntato sul fatto che il desiderio prevalente, nell’assenza di speranze,
prospettive e grandi visioni, fosse un desiderio, piccolo piccolo, cinico ma concreto: “ridatemi
l’Imu”. Ha testato attraverso i sondaggi quanto quell’idea garantisse in termini di ‘share’ e su
questa base ha costruito la campagna elettorale.
Io credo che la sinistra non abbia ancora metabolizzato due evidenze. La prima è che la politica
che transita attraverso la televisione ne rimane necessariamente modificata. Per la maggior
parte delle persone la politica arriva attraverso la tv e va ricordato che lo schermo non è un
luogo che privilegia la razionalità, ma l’emotività. Secondo aspetto decisivo, la televisione
sposta il patto fiduciario dai partiti alle persone. Il video vive di primi piani, fatica a inquadrare e
focalizzarsi sulla complessità del partito. E invece incornicia e ricorda con precisione le
caratteristiche di una sola persona, specie se questa è simpatica, telegenica, comunicativa,
coglie la sintonia con i telespettatori.
La politica che transita attraverso la tv tende alla “leaderizzazione” o, per usare in maniera
meno creativa la lingua, a enfatizzare la necessità di forti leadership. Queste cose la sinistra
non le ha capite e anzi tende a rifiutarle. E più le rifiuta, più tende a dire agli italiani cosa devono
fare invece di chiedergli cosa vogliono faccia, più allunga la sopravvivenza politica altrimenti
inspiegabile di Berlusconi.
Altro aspetto chiave, perverso, dell’influenza della tv sulla società e la politica, è la perdita di un
orizzonte temporale ampio, di lungo periodo.
Il ‘paradigma Auditel’ ci porta a ragionare in una logica del minuto per minuto. Trasferito in
politica, corrode seriamente la nostra democrazia.
Se fondi sui sondaggi la tua offerta politica, essendo pronto a cambiarla di giorno in giorno in
ragione delle tendenze e delle istanze emergenti, non esprimi un progetto e non sei mai pronto
ad affrontare un momento d’impopolarità. Di questa dimensione oltre che essere l’artefice
Berlusconi è anche una vittima. Ha avuto maggioranze sufficientemente ampie da consentirgli
di fare programmi liberi dalle pressioni dell’agenda Auditel. Ma non l’ha fatto. Forse anche
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perché non è nelle
sue corde, perché non è geneticamente capace di ragionare da statista
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come qualcuno avrebbe sperato. Tutti i giorni impegnato a monitorare con i sondaggi se quella
scelta gli farà perdere
o guadagnare consenso, se un provvedimento gli fa perdere share non lo
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prende. Però cosìwww.mindshare.it
non si affronta la crisi, non si affrontano i veri problemi, non si fa la riforma
del lavoro o quella delle pensioni…
soggetta ad attività
Maurizio Carlotti:Società
«Rispondo
alla provocazione della Hack distinguendo la mia posizione da
Di Direzione
e Coordinamento e Gori. Rivendico la mia natura di venditore. Sono ancora vigenti
quelli dei compagni
Freccero
Da parte di Wpp 2005
Ltd
le politiche commerciali
che
Carlo Momigliano ed io, come suo scudiero di allora, abbiamo
pensato oltre 20 anni fa? Se si tratta di un reato penso sia oramai prescritto. Ho sempre avuto
ben chiaro nella testa un concetto: che facevo la televisione per vendere la pubblicità e non il
contrario. Che l’unico criterio di riferimento a cui attenermi era quello economico. Qualsiasi
azienda è alla fine un’impresa di trasformazione e la gestione si può considerare un successo
se si trasforma una quantità di costi nota in una quantità superiore di ricavi. La tv commerciale
non è un’eccezione a questa regola. Sono d’accordo con Carlo Freccero e Giorgio Gori su tante
delle cose che hanno detto. In primo luogo sul fatto che in Italia la tv commerciale ha segnato la
fine del dominio di un pensiero elitario. Personalmente credo nella ‘mediocrazia’. Nel senso che
il livello di istruzione come quello dell’assistenza sanitaria vanno misurati in termini di superficie:
base per altezza. Sono cioè pronto ad accettare una riduzione anche consistente dell’altezza se
l’estensione della base compensa e moltiplica.
In una democrazia bisogna accettare che si formi un giudizio, una decisione, una volontà che
tenga conto delle preferenze dei più; ma certamente – concordo con Freccero - devono esistere
anche strumenti costituzionali che impediscano che le maggioranze tiranneggino le minoranze.
Ho lavorato in due Paesi in cui le due televisioni pubbliche sono state trasformate di fatto in
televisioni commerciali. Società, realtà che hanno funzioni economiche e sociali distinte,
finiscono per farsi concorrenza impropriamente. Francamente fatico ancora a capire il motivo
per cui questo accade.
Un’ultima annotazione: sia nella mia esperienza in Antena Tres che in quella precedente a
Telecinco ho verificato come anche in Spagna l’intellighenzia classica, gli intellettuali del cinema
o quelli dei giornali, tendano sempre a criticare in maniera sprezzante la qualità dell’offerta della
tv commerciale.
Per anni mi sono sentito rimproverare da certi Soloni perché trasmettevo prioritariamente film,
telefilm e cartoni animati e non davo alcuno spazio di rilievo alla musica classica, al teatro, allo
spettacolo nelle sue forme più alte. Ebbene, quando i gruppi editoriali che ospitavano questi
pareri accreditati hanno avuto la licenza per trasmettere in tv cosa credete che abbiano
programmato: film, telefilm e cartoni animati...
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Ma questo è unFax.equivoco
con cui ho dovuto confrontarmi fin dall’inizio della mia carriera
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televisiva. Era ancora il 1979 quando fui costretto a scontrarmi con il comitato federale del
partito comunistawww.mindshareworld.com
di Venezia di cui io ero funzionario perché nella televisione che avevamo
comprato invece www.mindshare.it
di trasmettere, magari secondo loro, 8 ore d’informazione, mandavamo in
onda telefilm e cartoni animati e solamente venti minuti di news alla sera, dopo le quali, a
compensazione, mandavamo on air uno spogliarello.
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e Coordinamento che quello era, ai tempi, lo specifico del mezzo. Che anche gli
Fai sempre faticaDi Direzione
a spiegare
Da parte
di Wpp 2005 Ltd
spettatori comunisti
avrebbero
cambiato canale se in certi momenti della giornata non avessero
trovato in onda film, telefilm e cartoni animati. Si faceva e si fa fatica a fare intendere che il
telecomando è l’oggetto più democratico inventato dai tempi del coccio con cui ad Atene si
decideva sull’esilio del tetrarca.
Carlo Freccero: Devo dire ai miei colleghi che è velleitario pensare che il servizio pubblico, in
un’epoca in cui c’è la tv commerciale, possa funzionare in maniera differente da essa. Che
possa non sottostare al paradigma dell’audience. La tv generalista, per lo meno, funzionava e
funziona in quella maniera lì.
La mia esperienza francese però mi dice che l’accezione italiana di servizio pubblico e fin
troppo debole. Oltralpe, quando lavorai per la loro tv di stato, mi diedero due precisi limiti cui
attenermi. Il servizio pubblico doveva funzionare da solido riferimento del comune sentire,
l’informazione e la fiction erano le fondamenta su cui agire.
Così la cosa più triste del sistema italiano di servizio pubblico è che abbia dovuto subire le
logiche censorie e quelle lottizzatorie del berlusconismo sul versante dell’informazione e la
poetica da sussidiario di estrazione cattolica nella produzione della fiction. Il tema più
affascinante di quest’epoca è capire cosa produrre. E nel deciderlo il servizio pubblico non deve
usare solo gli strumenti del marketing industriale ma anche quelli del marketing culturale.
2) Quale Rai preferire. Quella attuale oppure quella auspicata da Maurizio Carlotti, senza
pubblicità? Ha un senso il modello ‘riformista’ di Giorgio Gori, che prevedrebbe due
entità, una senza pubblicità ma con il canone, l’altra senza il supporto del denaro
pubblico e senza il tetto di raccolta?
Carlo Momigliano: «Il secondo sforzo che chiediamo ai tre saggi è quello di immaginare quale
possa essere il modello della Rai nei prossimi anni. Tra gli aspetti più delicati del lavoro di
consulenza, anche per i centri media, c’è quello di prevedere anche i mutamenti che non è
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facile prefigurare.Fax.Ebbene,
una serie di segnali che adesso magari possono essere interpretati
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come deboli, ma che non vanno affatto sottovalutati, ci spinge a credere che Il tema del destino
della nostra tv pubblica
possa diventare d‘attualità dirompente molto prima di quanto si pensi.
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Durante un convegno
indetto dall’Autorità per la concorrenza e per il mercato, alcuni osservatori
e analisti chiamati a tracciare le coordinate dello scenario competitivo attuale – da Michele Polo
soggetta ad attività
ad Augusto PretaSocietà
- hanno
provato a validare una convenzione che sembra ispirata da Sky e
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e Coordinamento
che rivoluziona uno
dei
parametri chiave su cui fin qui siamo stati abituati a ragionare, la
Da parte di Wpp 2005
Ltd
bipartizione del mercato
della
televisione a pagamento dal mercato della tv “free to air”.
Si è assunto invece come paradigma l’esistenza di un unico mercato televisivo, in cui le varie
piattaforme agiscono competendo, con un diverso grado di concorrenzialità, in tre ambiti: sul
versante della pubblicità, su quello del pubblico da convincere a sottoscrivere un abbonamento
pay e su quello “wholesale” di chi vende contenuti.
Siamo forse alla vigilia di un radicale cambiamento dello scenario televisivo e, se passa l’idea di
questa configurazione ‘unica’ del mercato, appare praticabile perfino l’ipotesi di una fusione tra
Sky e Mediaset Premium, che, mentre sarebbe impossibile se il mercato della tv a pagamento
fosse inquadrato come di per se rilevante, invece nella “configurazione unica” non incorrerebbe
più nei vincoli stringenti dell’Antitrust.
All’incontro dell’Agcm erano rappresentati quasi tutti i soggetti chiave del mercato, da Gina Nieri
per Mediaset ad Andrea Zappia di Sky, passando per Marinella Soldi di Discovery, e tutti sono
sembrati convinti che questa rappresentazione fosse corretta. Non c’era però la presidente
della Rai, Anna Maria Tarantola (N.d.r: in questo frangente del discorso di Momigliano,
Freccero ha sostenuto, ironizzando, che la Tarantola non capisce nulla di queste cose ed è
come se «appartenesse al Congresso di Vienna…»).
Se passasse il concetto del convegno, questa lettura del mercato, diverrebbe delicata la
posizione di un soggetto che ha sussidi dello Stato e che compete su tutti i fronti indicati come
sensibili.
Un’analisi comparata dei servizi pubblici europei mostra come la Rai sia l’azienda che produce
la maggior quantità di audience, in linea con quella emessa dal servizio pubblico della
Germania. Se si considera in maniera omogenea il prime time, in particolare, la tv pubblica
tedesca e quella italiana generano più o meno la stessa quantità di audience (e, quindi, di
potenziali grp). Rai da un lato e Ard e Zdf dall’altro sono agli antipodi, invece, se si considerano
i ricavi netti che la pubblicità garantisce al conto economico del servizio pubblico. La Rai è il
soggetto che ha il contributo più rilevante e questa, come quella berlusconiana, è un’altra
anomalia del nostro scenario televisivo.
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Ebbene, nel nostro
gruppo di tre saggi abbiamo qualcuno che è un convinto sostenitore della
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teoria della battaglia per l’eliminazione della pubblicità dal servizio pubblico. Sostiene la tesi
Maurizio Carlotti, www.mindshareworld.com
in linea con quanto fatto in Spagna, dove gli spot sono rimasti solo alle tv
autonomiche.
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C’è però un piccolo problema che conseguirebbe per noi che ci occupiamo degli spot dal lato
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della domanda del
mercato pubblicitario: si distruggerebbe ricchezza elevando pure l’indice del
Di Direzione
e Coordinamento
costo per Grp. Qual
è stato
in Spagna l’effetto della vittoriosa battaglia di Carlotti? Nel 2010 si è
parte di Wpp 2005 Ltd
elevato il costo diDaproduzione
per Grp quando con la sparizione della pubblicità dalla tv pubblica
spagnola è stata sottratta al mercato merce vendibile; solo la crisi negli anni successivi ha
ridotto la portata del fenomeno.
Tra i nostri saggi abbiamo però anche chi, come Giorgio Gori, si è fatto interprete di una
proposta ‘riformista’ e ‘migliorista’ della Rai. Conoscendo bene il mercato, Gori si è domandato
se avesse senso distruggere tanta ricchezza per salvaguardare la correttezza della
competizione e un anno fa circa ha messo a punto una proposta, quella di spaccare in due la
Rai, che ha gli ha garantito una valanga di critiche, ma di cui è innegabile l’intelligenza e la
portata innovativa.
Gori suggerisce di separare una società finanziata dal canone e senza spot (ha immaginato che
dentro questa offerta ci fossero Rai Tre, RaiSport1, Rai Sport2, Rai Gulp, Rai Storia, Rai 5, Rai
Scuola) ed una finanziata soltanto dalla pubblicità raccolta e trasmessa tenendo conto degli
stessi limiti di affollamento della tv commerciale (con nel bouquet Rai Uno, Rai Due, Rai 4, Rai
Premium e Rai Movie).
Se si considera solo il numero di reti, la seconda proposta sembrerebbe ridurre il potenziale
della Rai e della Sipra, ma se si calcola il numero di grp generabili in realtà il potenziale è del
78% superiore rispetto a quello attuale».
Maurizio Carlotti: «Longanesi diceva che l’Italia è la patria del diritto e del rovescio. Sottolineo:
per competere correttamente due entità devono avere lo stesso cliente e lo stesso prodotto.
Da noi la situazione è molto variegata ed è una forzatura parlare di un unico mercato, come si è
fatto nel convegno citato da Momigliano, in un contesto in cui la tv commerciale vende contatti
pubblicitari alle aziende, la tv a pagamento vende programmi e canali alle famiglie, la Rai una
programmazione di servizio alla collettività. I tre mercati sono distinti, almeno in teoria.
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Non è vero poi – Fax.
come
sostiene Momigliano – che in Spagna sia cresciuto oltremisura il costo
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per grp quando è stata vietata la pubblicità sul servizio pubblico. La curva del costo per grp è
salita non perchéwww.mindshareworld.com
si fosse distrutta materia prima per la pubblicità, ma perché RTVE prima
vendeva sistematicamente
la pubblicità al 25% in meno di quello che facevano le tv
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commerciali.
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Sono assolutamente
contrario al fatto che la tv pubblica venda spazi pubblicitari anche perché
Direzione ne
e Coordinamento
la presenza degli Dispot
deforma chiaramente la missione, che non è certo quella della ricerca
delle audience. Da parte di Wpp 2005 Ltd
Se si potesse tornare indietro nessuno Stato rifarebbe la tv di servizio pubblico nella stessa
maniera in cui è stata organizzata nei vari Paesi europei nel dopoguerra.
Quale dovrebbe essere la conformazione attuale? Senza fabbriche interne e senza migliaia di
impiegati. Un servizio pubblico moderno dovrebbe allocare tutta la produzione dei contenuti
all’esterno, limitandosi al controllo della merce appaltata, cercando il miglior prezzo e la
maggiore qualità possibile. Purtroppo però oramai in Europa abbiamo tutti edificato questi
costosi mastodonti pubblici e non possiamo certo pensare di tirarli giù a cannonate.
Così sono d’accordo con l’idea ‘riformista’ di Gori, ma a patto che la parte commerciale
dell’impresa venga privatizzata e separata dalla prima.
Va poi fatta una verifica ulteriore e chiedersi: è giusto e sensato che la nuova Rai ‘commerciale’
produca i Grp in più garantiti dal modello Gori? La scelta sarebbe coerente con la sostenibilità
dell’intero sistema?
Anche sulla destinazione dei proventi del canone alla Rai avrei qualcosa da dire. Penso che alla
tv pubblica dovrebbe andare automaticamente solo il 50% di questo sussidio. La decisione su
come debba essere allocato il restante 50% dovrebbe essere presa in totale libertà da ogni
singolo cittadino, che lo potrebbe destinare a chi riterrebbe concorrere in maniera più efficace
all’equilibrio e alla completezza del sistema stesso. Perché non immaginare che qualcuno
decida di ritenere rilevante il ruolo di servizio che per lui e la sua famiglia, ad esempio, gioca la
programmazione di Mtv, che gli fa stare più tranquilli i figli?
Oppure perché non ipotizzare che la metà del canone destinata al servizio pubblico possa
essere messa all’asta, con Mediaset o Magnolia e altri soggetti in gara, a concorrere sulla
fornitura di servizi televisivi di cui si potrebbero dettagliare tipologia e coordinate?
Ma voglio tornare sul concetto precedente e ribadire: la riduzione del costo per Grp non è un
bene assoluto. Il mio richiamo, da questo punto di vista, è indirizzato ai clienti. A loro dico di fare
attenzione, perché abbiamo già un problema di sostenibilità del sistema che li chiama in causa
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direttamente. L’anno
scorso Mediaset ha perso 250 milioni di euro e anche noi in Spagna
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quest’anno vedremo i sorci verdi. Non ci sono solo gli interessi di editori e broadcasters in
gioco.
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La televisione rimane
una gallina dalle uova d’oro per la comunicazione commerciale ed è
assurdo fare di tutto per tirarle il collo. Perché, cari clienti vi dico, essa vi tornerà molto utile nei
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prossimi anni, quando
i cinesi, gli indiani ed i brasiliani verranno all’attacco dei nostri mercati.
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La televisione commerciale
è il vostro naturale brand defender. Senza non potete pensare di
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arginare la loro avanzata. Fino ad adesso avete prodotto in quei Paesi con la vostra marca
facendo montagne di utili. Ma ora le loro aziende vogliono vendere i loro prodotti con i loro
brand nei nostri territori. Pensateci molto bene prima di rendere debole il sistema. Se ci sarà il
diluvio sarà un problema per tutti. La tv commerciale è un media collaudato, garantisce grandi
vantaggi. Nell’immensa nuvola del web, a parte tre o quattro big, pochi hanno chiaro quale sia il
loro business model, mentre noi lo sappiamo benissimo e vi rendiamo un servizio che è
incomparabilmente efficiente. Perché quindi stressare il prezzo della pubblicità? Mio nonno mi
diceva sempre che tra guadagnare poco e perdere poco c’è una differenza abissale. A
guadagnare poco, mi diceva, non ti stanchi, ma a perdere poco prima o poi ti stufi. Se
cominciamo a mettere in moto un meccanismo perverso in cui le tv sono costrette a tagliare i
budget, lesinando sulla qualità dei programmi, questa macchinetta che per adesso funziona alla
perfezione prima o poi s’ingrippa.
Gori: Il tema della Rai si dibatte da anni senza mai venirne a capo. La mia proposta di un anno
fa è il frutto di lunghe meditazioni e di una serie di constatazioni di base. La prima è che il
mercato della televisione generalista non è sufficientemente competitivo. Da 25 anni abbiamo
gli stessi player in gara. Si è creata una concorrenza molto anomala tra la Rai e Mediaset. E
l’anomalia è connessa al fatto che la Rai somma le risorse del canone e quelle della pubblicità,
con le risorse della pubblicità che però sono raccolte con vincoli di affollamento che
condizionano pesantemente l’attività di vendita degli spazi.
E’ illuminante il fatto che il principale difensore di questo stato delle cose è sempre stato Silvio
Berlusconi. Chi ha lavorato come noi in questo sistema sa che questi equilibri sono i più
funzionali alle esigenze della tv commerciale («I confini della Patria sono sacri» Fedele
Confalonieri dixit).
Logico che riuscire a modificarli sia diventato nel tempo anche un obiettivo politico. Come dice
Carlotti, perché ci sia un mercato realmente competitivo ci devono essere almeno due soggetti
che giochino con le stesse regole e così immaginare che ci sia almeno un pezzo della Rai di
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oggi che stia sul
mercato come Mediaset è una delle ipotesi plausibili da prendere in
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considerazione.
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La seconda ragione
per cui penso sia opportuno riformare la Rai non riguarda la concorrenza. Il
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fatto che Rai e Mediaset si somiglino e che il tema dell’audience sia determinante anche nella
confezione dell’offerta della televisione di Stato, produce almeno due distorsioni della sua
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mission.
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Il primo è che si trascurano
le minoranze, che vengono tendenzialmente discriminate. Non c’è
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un soggetto che si preoccupi, come un gestore di trasporto pubblico, di andare a raggiungere il
paesino più distante anche se l’attività è diseconomica. Pur con qualche eccezione per qualche
attività marginale, in Rai si fa solo ciò che rende.
Altro difetto dipendente dall’adesione piena al paradigma di Auditel è l’appiattimento sul qui e
ora. Tutto ciò che attiene alla sperimentazione e all’innovazione, alla coltivazione di nuovi talenti
e contempla l’impiego di tempo prima di ottenere un esito programmato, viene escluso
dall’orizzonte della Rai, sacrificato alla logica del raggiungimento del risultato immediato. Il
programma che debutta in prima serata e alla prima puntata fa molto meno della media di rete
viene quasi immediatamente cancellato.
E’ il pubblico, come succede per Mediaset, che decide cosa va avanti e sopravvive. Ma questo
approccio limita moltissimo le possibilità di espressione, di crescita, pluralismo dell’attività
televisiva della Rai e del sistema nel suo complesso.
Siccome a volte inseguire risultati troppo ambiziosi di rinnovamento non consente di
raggiungere nemmeno un obiettivo minimo, mi sono proposto di definire un progetto di riforma
realistico. Questa proposta è il primo passo, quello successivo potrebbe essere quello di
privatizzare la parte commerciale della Rai.
Ha senso che un ente pubblico televisivo detenga la proprietà di un soggetto che agisce
secondo logiche totalmente commerciali? Carlotti lo esclude, ma in realtà in Europa ci sono
esperienze molto diverse tra loro, utili per farci capire quale debba essere il nostro indirizzo. Ad
esempio in Inghilterra Channel Four, che vive totalmente di pubblicità, è di proprietà pubblica.
Non c’è una contraddizione necessaria in questa associazione e anzi in questo caso la
proprietà pubblica fa si che la vocazione a sperimentare venga esaltata. Channel Four non può
produrre in proprio e questo costituisce un volano di domanda pubblica per la produzione
privata.
La Bbc è un altro esempio utile. All’interno dell’offerta Rai oggi è ben riconoscibile la porzione
con una più chiara vocazione di servizio, stile Bbc, da alimentare con il sussidio del canone. Ma
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in realtà quello che
è più importante chiarire sono le regole d’ingaggio: il direttore di Rai Uno
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deve sapere se sta facendo televisione commerciale o televisione di servizio pubblico e quindi
può prescindere dal
giudizio immediato dell’Auditel. Chi fa servizio pubblico, d’altro canto, non
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deve fare una tv di
minoranza o minoritaria. Non penso sia opportuno replicare il modello della
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Pbs americana, si deve piuttosto cercare come fa la Bbc la relazione con una fetta più ampia
possibile di pubblico, ma bisogna farlo senza subire il paradigma della tv commerciale e
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pubblicitario.
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Penso che la divisione
dei
‘fratelli siamesi’ consentirebbe a chi lavora dentro la Rai di sapere se
sta centrando i propri obiettivi, che siano le logiche dell’Auditel o quelle di un paradigma diverso
a funzionare da riferimento.
La separazione funzionerebbe come un elemento di chiarezza, non diminuendo la
competizione, non facendo – come ha dimostrato Momigliano – alcun regalo a Mediaset, ma
piuttosto accrescendo la competizione nell’ambito della tv commerciale.
Ultimo punto, non era e non è mia intenzione determinare un aumento dei Grp. La situazione
del mercato della pubblicità negli ultimi mesi è peggiorata, tutti i soggetti versano in grande
difficoltà e non credo che il legislatore, se mai metterà mano a questi problemi, debba pensare
di farlo indebolendo ulteriormente i player.
Carlo Freccero: «La riforma Gori è una buona idea, perché è realista e progressiva, e anche
perché è già una realtà. Gli equilibri della Rai, la divisione tra reti di servizio pubblico senza
pubblicità e reti commerciali è già nei fatti, con qualche piccola, correggibile eccezione nei
perimetri dei due ambiti tratteggiati nella proposta di Giorgio.
Il vero problema del mercato in questo momento è la sua cornice, la terribile crisi economica
imperante. Ed in questo contesto l’aspetto più critico non è quello di disegnare un nuovo e più
attuale modello di funzionamento della Rai, ma quello di capire che fine farà Mediaset, entrata
in una parabola discendente. Lo dico con tenerezza, vorrei che Mediaset esistesse e fosse
sana. Ma sono sconvolto dai problemi drammatici d’identità e di risultati che la investono. Non
vedo un disegno, non vedo un progetto, Mediaset vive di un passato che ancora genera inerzia,
ma non si desume alcuna visione, alcuna consapevolezza di cosa debba diventare.
E’ questo il vero problema da affrontare perché se Mediaset sarà venduta il quadro in cui tutti ci
muoviamo cambierà radicalmente.
Lo scenario per adesso è quello di un sistema che integra la vecchia tv generalista e quella
‘born digital’ secondo logiche che forse sono il solo ad avere studiato e capito in profondità. Per
chi pianifica è certamente diventato molto più complesso il processo attraverso cui scegliere
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come disporre gliFax. +39
spot
in una mappa di presenze molto larga e piena di particolarità ed
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eccezioni. A partire da quella di Sky, che attraverso molte delle proprie proposte su Sky Uno fa
il verso alla tv generalista.
Anche il calcio, a pensarci bene è nella sua natura più profonda, un
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prodotto da tv generalista.
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Dobbiamo tutti quanti attraversare un lungo periodo di transizione senza perdere la rotta.
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L’approdo più probabile
è quello ad un sistema fondato su due tipi di fruizione della tv: uno più
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in linea con la tradizione,
tendenzialmente passivo, su grandi schermi 3d, di una tv di diritti,
parte di Wpp
2005 eventi;
Ltd
piena di cinema, Dasport
ed
e contemporaneamente una tv più smart, molto segmentata,
internettiana, in cui si farà sentire sempre di più la concorrenza dei player che vengono dalla
Rete ed in cui sarà possibile trovare ogni cosa, perfino la musica sinfonica per sordi.
Ma torno a ripetere. Quando penso al futuro della tv non è il ruolo o lo spazio della Rai che mi
sembra messo in discussione. Per la tv pubblica rimane sempre la possibilità di far scandire il
proprio calendario da almeno quaranta cerimonie mediatiche condivise, dalle elezioni politiche a
Sanremo passando per Miss Italia. Quello che mi sembra più indistinto e nebuloso è il futuro di
Mediaset, che nella tradizione avrebbe dovuto rimanere l’interprete dell’immaginario collettivo
ed invece ha perso nel tempo la sintonia con il comune sentire. L’ultima volta in cui al Biscione
sono stati capace d’intercettare lo spirito del tempo è stato oltre dieci anni fa, quando hanno
lanciato il Grande Fratello. Da anni Mediaset non è più nulla e non fa più nulla, e non so che
ruolo potrà recuperare nel sistema integrato della comunicazione che si va delineando.
Non fosse per questa crisi terribile della pubblicità e dell’economia, il contesto sarebbe
eccezionalmente eccitante. Nell’era di internet e dei social network l’editto bulgaro di Berlusconi
sarebbe stato impossibile.
3) La tv sta declinando o si sta espandendo e prolungando negli altri mezzi e nel web?
Carlo Momigliano: «Un tipo di esercizio che oramai siamo in tanti ad affrontare – non solo tra i
centri media - è quello di valutare come la televisione si espanda negli altri mezzi e nel web. Il
processo avviene sotto varie forme e la tecnologia già oggi consente, ad esempio, di misurare
le conversazioni generate dai programmi: un caso eclatante sono stati, ad esempio, i 162 mila
tweet ‘provocati’ dalla puntata di Servizio Pubblico con Silvio Berlusconi.
Tra gli istituti di ricerca, sia Gfk che Nielsen stanno cercando di codificare quale sia il rapporto
che collega social media e tv ratings. Appurata la correlazione statistica tra la crescita dei tweet
e quella degli ascolti, specie per alcuni target, più complesso appare il tentativo di definire un
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preciso rapporto Fax.di+39 0651839400
causa ed effetto. Non è mai scontato, cioè, dedurre da una mera
correlazione statistica che cosa genera che cosa; se cioè, usando un paradosso, una volta
misurata la correlazione
statistica tra precipitazioni e apertura degli ombrelli, sia la pioggia che
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fa aprire gli ombrelli
o siano gli ombrelli che si aprono a favorire le precipitazioni.
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Questo discorso per il mercato è cruciale. Assieme a quello della possibilità per la tv di
Società soggetta ad attività
‘scaricare a terra’,
in termini di formato pubblicitario, il potenziale di comunicazione generato
Di Direzione
dalle attività diverse
dae Coordinamento
quelle più propriamente televisive. Se nella storia della tv commerciale
Da parte di Wppaudience
2005 Ltd
alla creazione di nuova
è sempre corrisposta la capacità di trasformarla in prodotto di
comunicazione, più complicato appare adesso conseguire lo stesso risultato con le attività
social. Ai nostri tre saggi, così, chiediamo come vedono loro questo momento di
trasformazione, come pensano si stia conformando il ‘rapporto tra ombrelli e pioggia’, ma anche
cosa può fare la tv commerciale per monetizzare le aperture già conquistate negli altri mondi.
Maurizio Carlotti: «Lo ripeto. Parto dal presupposto che la tv stia bene. I nuovi soggetti della
Rete, quelli di cui tanto si parla, alla fine dicono tutti che da grandi vogliono fare la televisione. E
forse non è un caso. La tv sarà lo strumento principale di difesa dell’economia di questa parte
del mondo, che negli ultimi 200 anni ha vissuto bene e che adesso comincia ad avere qualche
problema. Nei prossimi lustri per le aziende che stanno da questa parte del globo difesa della
marca e servizio al cliente saranno due aspetti vitali.
Sono ottimista. Il secolo d’oro della pubblicità sarà il Ventunesimo perché molto presto ci
saranno tante aziende dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo che vorranno costruire marche e
farle affermare e tante altre aziende che dovranno difendere i propri brand da questo assalto.
Ebbene, per costruire e difendere marche il mezzo migliore rimane la televisione.
Per quel poco che verifichiamo noi in Spagna, nell’interazione tra la tv e i nuovi media non c’è
alcun dubbio tra chi sia l’ombrello e chi la pioggia.
Come scaricare a terra il potenziale generato fuori dalla televisione? Ci terrei a rimarcare, prima
di tutto, che senza televisione non c’è nulla.
Francamente dubito valga la pena investire energie e risorse per capire di che colore hanno gli
occhi le quattro persone in più che grazie ad un hashtag hanno visto il mio programma
televisivo; 162 mila tweet saranno tanti come tweet, ma non valgono tanto in termini di contatti
pubblicitari.
In Spagna la televisione genera nel minuto medio giornaliero 7 milioni 250 mila spettatori, una
quantità di pubblico incommensurabilmente più rilevante di quella che normalmente può
mettere a disposizione youtube.
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La tracciabilità della
Rete? Personalmente auspico che la tv vada su internet il più tardi
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possibile. Spero che nessuno ci spinga fuori dall’etere e ci costringa alla commistione e alla
confusione con altri
milioni di emittenti e messaggi. Il progresso tecnologico non muta la
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sostanza di alcune
cose essenziali. Il martello è il martello da milioni di anni, che sia quello
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imbracciato dal primitivo o un moderno modello in titanio poco cambia. Nella pubblicità la
televisione è e rimarrà il martello.
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Direzione
e Coordinamento
Gori: Che le coseDifin
qui
siano andate in una certa direzione, che dalla tv, cioè, si generi sempre
Da parteverso
di Wpp 2005 la
Ltd Rete, è un fatto oggettivo. Non era scontato che andasse così e in
di più traffico diretto
molti temevamo che come negli Usa la tv subisse una sottrazione di ascolti e di rilevanza.
Sta andando diversamente. L’allargamento dell’offerta digitale e il contributo di Internet e dei
social network stanno proiettando la televisione in una dimensione di ritrovata centralità. La tv è
il cuore di molte delle conversazioni che avvengono sulla Rete e una quota rilevante dei video
che vengono visti o condivisi sul web, fenomeno in crescita clamorosa, è di fonte televisiva.
Pensavamo che sarebbe stata la televisione a pescare contenuti video generati dagli utenti del
web e invece è successo esattamente il contrario.
All’amico Maurizio Carlotti mi permetto di suggerire una maggiore apertura nei confronti di
questi fenomeni.
Nessuno di noi deciderà come andranno a finire i processi in atto e fare la difesa estrema,
asserragliati in trincea, non prolungherà di un secondo la fase di preminenza del mezzo
televisivo. Si va in una certa direzione e allora tanto vale prepararsi, anche dal punto di vista di
come si raccoglie e si pianifica la pubblicità .
I contenuti tv alimentano conversazioni, condivisioni, commenti. E’ un fenomeno molto
interessante perché restituisce al mezzo quella dimensione sociale che temevamo dovesse
andare perduta per sempre, soppiantata da una tv di ipernicchia, personale, consumata in
solitudine.
Ma anche questa è probabilmente una condizione provvisoria. Il giorno in cui l’emissione delle
immagini passerà soprattutto per il web le cose cambieranno ancora. La svolta non c’è ancora
stata perché abbiamo artificiosamente ritardato la realizzazione di una infrastruttura di Rete
evoluta. Quando le autostrade informatiche saranno una realtà anche da noi cadranno alcune
barriere difensive e il ruolo di editori e competitor di giganti come Apple o Google diventerà
eclatante.
Un’affermazione di Carlotti che per anni ho citato in mille convegni, discussioni e dibattiti, “Non
si può spalmare il burro su mille briciole”, non è più vera.
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Proprio voi dei centri
media già oggi potete garantire la possibilità di ricostruire il panino
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carlottiano mettendo assieme in maniera efficace e misurabile le micro audience che prima
risultavano inutilizzabili.
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Carlo Freccero: «Dico
ai pubblicitari, che però forse l’hanno già capito, che oggi la logica della
quantità non garantisce più nulla sui risultati dell’advertising. Senza un elemento indecifrabile
soggetta ad attività
aggiuntivo non si Società
vende
e non si comunica più nulla. Cosa salvo della tv commerciale di oggi? I
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programmi di Antonio
Ricci, Le Iene, Maria De Filippi. La cifra comune è che si tratta di
Da parte di Wpp 2005 Ltd dei valori. La crisi, il comune sentire impongono questa svolta che
programmi che trasmettono
mi viene spontaneo identificare anche nelle scelte del nuovo Papa, nei suoi modi sobri e nelle
sue scarpe nere, ma anche nel nuovo spot di Telecom, che ha sostituito la solita velina con la
ragazza brava e semplice che ha vinto un talent».
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