Ultime notizie dal mondo 15-30 Settembre 2006

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Ultime notizie dal mondo 15-30 Settembre 2006
Ultime notizie dal mondo
15-30 Settembre 2006
http://www.rivistaindipendenza.org/home.htm
a) Asia Centrale sotto i riflettori. In Afghanistan le cose si stanno mettendo sempre peggio
per Stati Uniti e truppe cammellate. Cfr. 17, 20 (imbarazzo italiano nel coinvolgimento del
conflitto), 21 (civili uccisi spacciati per taliban) 23 (intreccio pashtun-taliban e strategia
politico/militare talebana), 25, 27, 28 (riassetto militare in campo talebano), 25 e 29
(situazione militare in campo ISAF-NATO). In Pakistan un’occhiata all’attuale assetto
politico e statuale a rischio implosione (cfr. 23) e significato delle rivelazioni del presidente
pachistano Musharraf nel suo libro di memorie (25).
b) Dopo-guerra inquieto in Libano. Oceanica manifestazione di Hezbollah a Beirut, con
dichiarazioni di Nasrallah e commenti (cfr. 22). L’Unifil messo sul-chi-va-là, per ragioni
diverse, da Hezbollah (22), Stati Uniti (26) ed Israele (28). Violazioni e soprusi di Tel Aviv a
raffica, tanto per non smentirsi (19, 21, 26, 28). I palestinesi in Libano dicono la loro sul
disarmo (17) e intanto arrivano anche i cinesi (19). Tensioni politiche in Libano (28) e, per
finire, una dichiarazione di Hezbollah sulla discussa lectio magistralis del Papa (16).
c) Israele. Esordiamo con la denuncia di esponenti della comunità ebraica marocchina contro
i “crimini di guerra” del ministro della difesa israeliano Peretz (17). Passiamo (23) per la
questione del nucleare israeliano sul tavolo dell’Aiea (senza nutrire grandi aspettative, è
ovvio) ed arriviamo alle accuse di “pulizia etnica” che muove ad Israele il funzionario ONU
per l’area (26) con qualche dato (29). Un’occhiata al fronte libanese dal punto di vista
israeliano (28).
d) Sparse, ma significative:
• Italia. Costi missione in Libano (19) e farsa in Parlamento sul voto della missione
(27). D’Alema dice la sua sul conflitto Kosovo / Serbia (23).
• USA. “Democrazia” a stelle e strisce e “Terror Act” (18, 21, 29). Bush all’ONU (21),
Rapporto NIE (25), più chicche in relazione a Iran (19) e Pakistan (20, 23).
• Vaticano. Per capire un po’ meglio il perché della citazione storica anti-islamica del
Papa (19 e 23).
• Cina. Pechino si affaccia significativamente in Libano (19) e lotte interne (26).
• Polonia. Nel nuovo principale feudo USA in Europa orientale, uno sguardo
particolare alla crisi politica interna in corso (cfr. 16, 22, 27, 30).
Tra l’altro:
Euskal Herria (17, 19, 24 settembre)
Corsica (26 settembre)
Irlanda del Nord (21 settembre)
Messico (16, 18, 19 settembre)
Russia (21, 23, 26, 27, 28, 30 settembre)
Iraq (24, 25 settembre)
Palestina (25 settembre)
Giappone (28 settembre)
Bolivia (24 settembre)
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USA / Messico. 15 settembre. Nuovo sì della Camera USA, ieri, per il muro antiimmigrazione. 183 voti a favore, 138 i contrari per la costruzione di un muro di oltre 1000
km lungo i 3200 km della frontiera con il Messico.
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Polonia / Unione Europea. 16 settembre. I cantieri navali a rischio chiusura. I fondi
pubblici dirottati da Varsavia a partire dal 2002 –circa 600 milioni di euro– per salvare i
grandi cantieri navali del Baltico, che sorgono nelle grandi città sulla costa di Danzica,
Gdynia e Szczecin, sono finiti nel mirino di Bruxelles, che li giudica “aiuti di Stato” vietati
dalle normative europee sulla “concorrenza”. Dopo la vittoria elettorale dell’autunno del
2005, anche il partito “Legge e Giustizia”, fondato dai gemelli Lech e Jaroslaw Kaczynski,
presidente e primo ministro della Polonia, ha continuato a riversare fiumi di denaro sui
cantieri. Cosa che a quel punto ha attirato l’attenzione delle istituzioni comunitarie, che
hanno richiamato le normative europee che vietano la distribuzione di aiuti di Stato per le
aziende in crisi.
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Polonia / Unione Europea. 16 settembre. Il mondo politico polacco è imbarazzato e
adduce motivazioni di carattere storico. Le officine navali di Danzica, infatti, hanno visto la
nascita del sindacato Solidarnosc nell’agosto 1980 con il sostegno anche finanziario di
Washington e del Vaticano e guidato da Lech Walesa, allora sconosciuto elettricista baffuto.
Le officine Lenin –questo il vecchio nome dei cantieri di Danzica– divennero l’epicentro di
una generale contestazione del “socialismo reale” e della dominazione sovietica. Il generale
Jaruzelski, capo di Stato polacco, fu poi costretto a imporre la legge marziale, nel dicembre
1981, per frenare l’ondata rivoluzionaria propagatasi in tutta la Polonia. Una decisione della
quale si discute ancora, animatamente, in tutto il Paese. I detrattori del generale affermano
che Jaruzelski tradì la patria, svendendola ai sovietici. Il diretto interessato spiega invece che
la legge marziale fu il rimedio, doloroso, per evitare una nuova Primavera di Praga e
impedire che l’Armata Rossa invadesse la Polonia.
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Polonia / Unione Europea. 16 settembre. Che ne è ora dei cantieri? La cronaca dice che le
officine sono a rischio chiusura e che migliaia di operai –12mila per la precisione– rischiano
di perdere il proprio lavoro. Operai in numero già molto ridotto rispetto ai tempi della
Polonia comunista. Si calcola che siano necessari 270 milioni di euro per allungare la vita ai
cantieri. La Commissione Europea non ci sta e chiede alla Polonia di presentare un piano
industriale per il rilancio dei cantieri che collimi con le regole europee, secondo le quali gli
“aiuti di Stato” sarebbero ammissibili solo nella misura in cui rappresentino un autentico
piano industriale e non una maniera per pompare denaro pubblico in settori dell’economia
nazionale in crisi. «Gli aiuti sono ammissibili solo se in futuro i cantieri saranno in grado di
competere sul mercato senza sostegni da parte dello Stato», sostiene la Commissione. Un
altro precedente, quello dei cantieri navali spagnoli, è stato richiamato per rilevare come
l’Unione Europea non faccia sconti a nessuno. La discussione sui cantieri in sede europea
dovrebbe ora, secondo fonti comunitarie, slittare a novembre.
Polonia / Unione Europea. 16 settembre. A Varsavia intanto si discute. Una soluzione per
la sopravvivenza dei cantieri sarebbero le privatizzazioni, l’ennesima. Ma il governo targato
Kaczynski è recalcitrante di fronte a questa ipotesi. La piattaforma politica di Legge e
Giustizia è di stampo “destra sociale”, legata al concetto di spesa pubblica e proprio per
questo si sono più volte attirati le critiche dell’Unione Europea, che chiede alla Polonia
(ancora!) di allineare la propria economia agli standard europei privatizzatori e
liberalizzatori. Solidarnosc, intanto, è sempre più marginale politicamente. Lo storico leader
Lech Walesa ha annunciato la propria uscita dal movimento lo scorso agosto, in aperta
polemica con i gemelli Kaczynski, anch’essi ex esponenti e rappresentanti della costola più
dura, quella ostile alla cosiddetta Tavola Rotonda, la trattativa instaurata tra Solidarnosc e
Partito comunista per favorire la transizione al “libero mercato” della Polonia. Quelli
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considerati come veri eredi di Solidarnosc –Bronislaw Geremek, Tadeusz Mazowiecki e
altri– sono ormai politicamente emarginati. Alle scorse elezioni avevano fondato il Partito
democratico polacco, forza centrista, proiezione dell’ala “moderata” di Solidarnosc. Il
Partito democratico non ha però conquistato nemmeno un seggio. Solidarnosc sopravvive
principalmente nei Kaczynski.
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Polonia. 16 settembre. Andrzej Lepper, vice primo ministro e capo del partito
“Autodifesa”, “socio minore” della coalizione di governo guidata da Jaroslaw Kaczynski, si
è dichiarato ieri «assolutamente contrario» alla decisione del ministro della Difesa,
Radoslaw Sikorski, di mandare altri soldati polacchi in Afghanistan. Sikorski, che ha
accompagnato il primo ministro nella sua visita ufficiale negli Stati Uniti, si è reso
disponibile a mandare 900 soldati in più, che si aggiungeranno ai 120 già operativi in
Afghanistan nella forza ISAF, diretta dalla NATO, che aveva recentemente richiesto con
urgenza l’invio di 2.000- 2.500 uomini in più per rafforzare l’operazione “Medusa”
attualmente in corso nel sud dell’Afghanistan. «Per il nostro partito, l’offerta è
completamente inaccettabile (...) non è stata né discussa né approvata dal Consiglio dei
ministri», ha dichiarato Lepper, che lo scorso lunedì ha minacciato Kaczynski di
abbandonare la coalizione di governo. «Per me è ovvio che le decisioni strategiche devono
essere adottate con l’approvazione dei membri della coalizione e non solo dai
rappresentanti» del PiS (“Legge e Giustizia”) dei fratelli Kaczynski. Il vice primo ministro
ha affermato di essere stato informato della decisione solamente attraverso i media e «come
se ciò fosse già poco, così ho appreso pure che sarà prolungata la missione delle nostre
truppe in Iraq».
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Polonia. 16 settembre. Diversi analisti, pur demonizzando Lepper, gli attribuiscono il
pregio di saper parlare chiaro. La guida di Samoobrona si è imposta sulla scena politica
durante le proteste agrarie organizzate nei primi anni Novanta per contestare la terapia
shock di Leszek Balcerowicz, l’economista che varò il programma di riforme ultraliberiste.
Proprio Balcerowicz, attuale presidente della Banca centrale, si è visto spuntare, su
pressione di Lepper, una commissione d’inchiesta sull’operato del board della Banca,
accusata di avere svenduto il Paese alle “locuste occidentali”, profittatrici delle
privatizzazioni e liberalizzazioni degli anni Novanta. L’attacco all’autonomia del
governatore della Banca è stato violentemente contestato dall’Unione Europea, che osserva
con preoccupazione l’evolversi delle vicende politiche a Varsavia. Lepper vorrebbe pure
rinegoziare l’entrata nell’Unione Europea, per tutelare meglio gli interessi della classe
agricola fortemente penalizzata dalle misure della PAC (Politica Agricola Comune). Altro
terreno che preoccupa l’Unione Europea sono le politiche sociali: Samoobrona vuole un
forte aumento della spesa sociale e punta ad un forte intervento statale a sostegno
dell’economia. Una visione che si contrappone a quella della Commissione, ma anche delle
istituzioni economiche internazionali, che spingono per liberalizzazioni e riforme e esortano
i Paesi dell’Europa centro-orientale a ridurre la spesa sociale.
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Iraq. 16 settembre. È l’ultima pensata per fronteggiare insorgenti e milizie: costruire una
grande trincea intorno all’intera città. La proposta, secondo quanto riferisce la BBC, viene
direttamente dal ministero degli interni iracheno. La struttura, secondo le autorità locali,
dovrebbe prevenire e limitare l’ingresso a Baghdad di armi ed esplosivi. Verranno chiuse
centinaia di strade e costruiti chilometri di trincee con filo spinato. Si potrà accedere alla
capitale solo attraverso il superamento di 28 posti di blocco, dislocati lungo il perimetro
urbano, che in molti casi saranno muniti di metal detector. Per l’alto ufficiale iracheno
Abdul Karim, il piano sarà operativo al massimo entro tre settimane. Tempi particolarmente
difficili da rispettare, secondo diversi operatori e giornalisti presenti sul campo, che parlano
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di diversi mesi per costruire queste trincee lungo i circa ottanta chilometri che delimitano la
capitale irachena. Per il generale statunitense Peter Chiarelli ridurre la violenza nella
capitale ha la massima precedenza rispetto alla lotta contro gli «insurgent» nel resto del
paese. Per questo, aggiunge, diversi reparti sono stati spostati dalla provincia di al Anbar,
una delle roccaforti insottomesse, a Baghdad.
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Libano. 16 settembre. «Sull’Islam il Vaticano riveda la sua posizione, che può portare alla
divisione del mondo e può essere sfruttata dai nemici dell’umanità». Lo afferma un
comunicato del movimento sciita libanese Hezbollah diffuso dall’agenzia di Stato libanese
Nna. «Siamo rimasti stupiti», è scritto nel comunicato, «da quello che è stato riferito sulle
affermazioni del Papa a proposito dell’Islam e dei suoi princìpi, con riferimenti al Signore
dell’universo ed al profeta Mohamed, dati che sono lontani dalla verità lucida e chiara
della nostra religione». «Al Jihad è un ordine di Dio», continua il comunicato, «per la
difesa e la liberazione della terra dall’occupante e per contrastare il terrorismo che
aggredisce l’umanità». Segue quindi la citazione di una serie di versetti del Corano, con
l’aggiunta che «è per questo che noi invitiamo il Vaticano a rivedere realmente le sue
posizioni, e a prendere le distanze da chi vuole la divisione del mondo, dai nemici
dell’umanità e dai neoconservatori, in testa ai quali è Bush (George W. Bush, il presidente
degli Stati Uniti, ndr), dai nazisti ed i razzisti sionisti che hanno aggredito i civili e la terra
del Libano».
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Messico. 16 settembre. Un paese con due presidenti. Due cerimonie per il 196°
anniversario dell’indipendenza: una a Dolores (Stato di Guanajuato), dove l’attuale capo
dello Stato Vicente Fox ha presieduto l’atto ufficiale; una nello Zócalo della capitale, oggi,
dove –di fronte a una folla immensa– i delegati della Convención Nacional Democrática
hanno dichiarato Andrés Manuel López Obrador «presidente legittimo». Esplicito il rifiuto
«dell’usurpazione» e della «repubblica simulata» di Felipe Calderón. Il governo ombra di
López Obrador avrà sede a Città del Messico e una rappresentanza itinerante in tutto il
paese. «L’insediamento» è fissato per il 20 novembre, anniversario della Rivoluzione,
mentre Calderón prenderà possesso della sua carica il primo dicembre. Sempre oggi i partiti
della coalizione “Per il Bene di Tutti” (Partito della Rivoluzione Democratica, Partito del
Lavoro e Convergenza per la Democrazia) hanno dato vita al Fronte Ampio Progressista,
con lo scopo di «promuovere la resistenza civile pacifica contro l’imposizione, la
trasformazione del paese, le rivendicazioni popolari e il coordinamento unitario nel
Congresso dell’Unione e nei prossimi processi elettorali». Il 5 settembre il Tribunale
elettorale aveva proclamato Calderón vincitore (con uno scarto di 233.831 voti, lo 0,56%)
delle presidenziali del 2 luglio, pur riconoscendo la legittimità dei ricorsi presentati
dall’opposizione contro le irregolarità avvenute prima e dopo il voto ed affermando che
l’intervento del presidente Fox a favore del suo compagno di partito aveva «messo a rischio
la validità delle consultazioni». La decisione è stata respinta da Obrador. Il convulso
periodo seguito al voto del 2 luglio ha comunque mostrato la forza dell’eterogenea
compagine che sostiene Obrador. In poche settimane si sono registrate le più grandi
manifestazioni della recente storia messicana. Erano più di un milione domenica 16 luglio,
oltre il doppio domenica 30: una marea sterminata di persone determinate a far sentire la
loro voce.
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Cuba. 16 settembre. «In qualunque scenario noi saremo al vostro fianco come lo siamo
con Cuba (...) Se gli Stati uniti invadono Cuba, il sangue scorrerà». Lo ha detto il presidente
venezuelano Hugo Chávez, che ha più volte espresso il pieno l’appoggio di Caracas al
programma nucleare (pacifico) iraniano, al vertice dei Non Allineati all’Avana. Chávez, la
settimana prossima, sarà al palazzo di Vetro di New York per sostenere la candidatura del
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Venezuela a uno dei seggi non permanenti del Consiglio di Sicurezza (ipotesi contro cui sta
lavorando intensamente Washington).
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Euskal Herria. 17 settembre. La sinistra abertzale apre una dinamica proautodeterminazione città per città, quartiere per quartiere. L’annuncio ieri. L’iniziativa
‘‘Euskal Herriak autodeterminazioa’’ si snoderà per mesi. L’obiettivo è dare da un lato
«impulso con forza a questa opportunità storica» di soluzione democratica in tutta Euskal
Herria e dall’altro «far fronte a false soluzioni (al conflitto, ndr)». I promotori di
quest’iniziativa hanno sottolineato, in conferenza stampa, il fatto che «il processo
democratico aperto (dalla sinistra abertzale, ndr) sta ricevendo l’appoggio totale della
cittadinanza basca. La necessità di superare il conflitto ed il conseguimento di una
soluzione democratica è radicata in questo popolo (...) Salvo contate eccezioni, i differenti
agenti politici, sindacali e sociali sottolineano la necessità della negoziazione politica nella
quale i nodi dell’autodeterminazione e della territorialità sono presenti in maniera più che
evidente».
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Afghanistan. 17 settembre. Il comando USA lancia una nuova offensiva militare antitaliban nel sud-est del paese. L’operazione si chiama «Furia della montagna» ed impegna
3mila militari della coalizione e 4mila agenti afghani. L’annuncio, di ieri, coincide con
sempre più frequenti attacchi della guerriglia in tutto il sud.
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Libano. 17 settembre. «Resistermo anche con la forza». Così i palestinesi del sud del
Libano respingono chi interpreta la risoluzione 1701 nei termini di un loro disarmo. «La
tragedia di Sabra e Chatila, quando l’OLP si ritirò da Beirut in cambio della promessa che
le truppe multinazionali avrebbero difeso i campi ci insegna quanto sia pericoloso fidarsi
delle promesse internazionali. Ogni volta che ci siamo fatti convincere a lasciare le nostre
armi siamo stati sistematicamente ingannati e consegnati ai nostri carnefici. Per questo vi
assicuro che senza il riconoscimento dei nostri diritti nazionali sanciti dalle risoluzioni
dell’ONU e di quelli civili in Libano non ci sarà alcun disarmo dei campi palestinesi, anche
a sud del fiume Litani». Sultan Abu Alaynen, organizzatore della resistenza dei campi di
Beirut a metà degli anni ’80, e attualmente comandante di Fatah in Libano, esprime così
tutto
il
suo
sdegno
a
Stefano
Chiarini,
de
il
Manifesto,
per le sempre più insistenti voci che danno per imminente l’imposizione di un disarmo dei
due principali campi palestinesi a sud del fiume Litani, Rashidiyeh e Burj el Chemali, nei
pressi di Tiro. I campi accolgono centinaia di migliaia di profughi cacciati dal nord della
Palestina nel 1948. Per questo il disarmo dei campi «potrà essere», continua Sultan,
«solamente il punto finale di una trattativa su tutta la condizione palestinese e non certo
l’inizio. La pace non dipende dal disarmo della resistenza o dalle truppe straniere ma dalla
volontà o meno di Israele e degli USA a riconoscere i nostri diritti».
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Libano. 17 settembre. Sabra e Chatila non dimenticano. «Perché mai il nostro unico
compito dovrebbe essere quello di scavare tombe? Quanto profondo è tutto questo sangue»,
queste parole del poeta palestinese Mahmoud Darvish scritti su un manifesto di una ONG
palestinese, scrive Stefano Chiarini su il Manifesto, ben rappresentano l’esasperazione della
popolazione palestinese di Sabra e Chatila scesa in piazza ieri, insieme ai loro concittadini
libanesi della periferia Sud di Beirut, per ricordare insieme le vittime di ieri e quelle di
queste settimane, quelle dell’invasione israeliana dell’82 e le più recenti dei bombardamenti
israeliani di questa estate (circa 1.200 morti, la maggior parte dei quali civili), nel 24°
anniversario della strage. Un eccidio che rappresenta l’intera e tragica storia palestinese, dal
costante tentativo di Israele e dei suoi alleati di cancellare i campi profughi in Libano, alle
responsabilità internazionali nella tragedia di questo popolo arrivato qui alla periferia sud di
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Beirut alla fine degli anni Quaranta, convinto di tornare presto nella sua terra. Del resto lo
sosteneva anche la risoluzione 194 il loro diritto al ritorno, dalla cui accettazione sarebbe
dovuta dipendere anche l’entrata di Israele alle Nazioni Unite. Non è andata così. Nessuno si
sarebbe più occupato di loro fino alla fine degli anni Sessanta quando cominciarono a
rompere il muro di silenzio e a reclamare i loro diritti. Fino ad essere troppo fastidiosi per
Israele e per il mondo. Nel 1982 Israele invase il Libano assediando e bombardando per
settimane Beirut. Alla fine l’OLP accettò di ritirare i suoi combattenti a patto che Israele si
impegnasse a non entrare a Beirut Ovest e una forza multinazionale proteggesse il ritiro dei
fedayin e i campi profughi. Non andò così e sul terreno rimasero, fatti a pezzi dalle milizie
filo-israeliane con coltelli, asce e mazze quasi 2mila palestinesi in massima parte donne,
vecchi e bambini. Di altri mille non si è saputo più nulla.
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Israele. 17 settembre. Peretz «criminale di guerra». A definire così il laburista Amir
Peretz, ministro della difesa israeliano, sono stati, nei giorni scorsi, tre esponenti di primo
piano della comunità israelita marocchina: Abraham Serfaty e Sion Asidon, ex prigionieri
politici, e Edmond Amran el Maleh, scrittore. Hanno presentato contro Peretz una denuncia
penale «per crimini di guerra». Per la legge marocchina i cittadini israeliani nati in Marocco
e i loro discendenti –calcolati in 800mila– continuano a essere cittadini marocchini e la
legge autorizza la presentazione di denunce contro qualsiasi marocchino che abbia
commesso crimini dentro o fuori il territorio nazionale. Amir Peretz è ancora a tal punto
marocchino che in febbraio, quando arrivò a Rabat su invito personale di re Mohammed VI,
dichiarò al giornale locale L’economiste, di «sentirsi orgoglioso di essere marocchino» e di
considerare la sua elezione a leader del Partito laburista israeliano come «una vittoria per
tutti i marocchini, quelli che vivono in Israele e quelli che vivono in Marocco».
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Cuba. 17 settembre. I non-allineati difendono il diritto dell’Iran ad avere il proprio
programma nucleare civile ed invitano Israele ad adempiere ai suoi obblighi internazionali.
È uno dei passaggi della dichiarazione finale stilata ieri, a L’Avana, al XIV° vertice del
Movimento dei Paesi Non Allineati, attualmente 118, i 2/3 dei membri dell’ONU. Creato
nel 1956 nel contesto della guerra fredda, il Movimento era entrato in crisi dopo la caduta
del muro. L’incontro di questi giorni a Cuba puntava a un suo rilancio. La dichiarazione
riafferma «il diritto degli Stati a sviluppare la ricerca in questo campo, e perciò deplora i
tentativi di proibire a qualche paese di sviluppare l’energia atomica con fini pacifici»,
riferimento implicito a Stati Uniti e suoi alleati europei. La dichiarazione finale –riferisce
l’agenzia Prensa Latina– include «il sostegno alle risoluzioni dell’ONU che confermano che
Gerusalemme appartiene al territorio palestinese occupato da Israele» ed esprime
«profonda preoccupazione per l’intensificazione delle sofferenze del popolo palestinese a
partire dalle elezioni nel gennaio 2006 (che hanno sancito la vittoria di Hamas, ndr)».
Evidente la critica al blocco imposto dalla UE alla popolazione palestinese. «Le azioni
illegali di Tel Aviv costituiscono gravi violazioni del diritto internazionale», prosegue la
dichiarazione, e per «i crimini di guerra israeliani accertati» gli autori «devono rispondere
e comparire davanti alla giustizia». Ribadito, inoltre, dopo un duro dibattito di quattro
giorni soprattutto tra le delegazioni algerina e marocchina, il diritto dei saharawi
all’autodeterminazione. Nel documento finale c’è poi una chiara condanna della pretesa di
Washington di imporre il suo modello con le armi: «non esiste un modello unico di
democrazia e questa non è patrimonio di un paese o di una regione». Approvata anche una
dichiarazione contro l’aggressione israeliana al Libano, il blocco statunitense a Cuba, gli
attacchi contro i governi venezuelano e boliviano e qualsiasi forma di terrorismo ed una di
sostegno del diritto del popolo di Porto Rico alla libera determinazione e all’indipendenza.
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Venezuela / Iran. 17 settembre. Da L’Avana a Caracas in visita ufficiale. Oggi il
presidente iraniano Ahmadineyad ha firmato 29 accordi di cooperazione con il Venezuela in
diverse aree, dal petrolchimico alla produzione mineraria, al nucleare. Chávez ha respinto le
versioni di fonte colombiana secondo le quali Caracas starebbe estraendo uranio per
Teheran. «Sono già cominciati gli attacchi degli imperialisti interni ed esterni. Dicono che il
presidente dell’Iran viene a cercare uranio e che noi lo produciamo già. Non si stancano
mai di mentire».
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Colombia. 17 settembre. «A tutti gli stranieri che con la scusa “umanitaria” pretendono di
venire in Colombia con le loro organizzazioni, diciamo che sono nostro obiettivo militare
permanente». Questo il tono di un lungo comunicato diffuso da un comando centrale di
paramilitari di destra colombiani, le Autodefensas Colombia Libre (ACL). Destinatari:
sindacalisti, ecologisti, avvocati per i diritti umani, esponenti della sinistra. Ufficialmente, i
corpi paramilitari si sono smobilitati dopo la legge «Giustizia e Pace», l’amnistia
malmascherata che il presidente Alvaro Uribe ha promulgato nel 2005. Ma nuove filiazioni
sembrano aver preso il testimone. Così, dopo le famigerate Autodefensas Unidas de
Colombia (AUC), la sigla-contenitore dei paramilitari, ufficialmente smobilitate da Uribe,
ecco in azione le ACL. Dicono di controllare «il 70% del territorio nazionale», forti delle
potenti coperture di cui non fanno mistero: «Siamo qui per servire la causa dello sterminio
della rivoluzione e di tutte le componenti di sinistra», scrivono nel comunicato, «e lo stiamo
facendo in una situazione di guerra permanente insieme alle legittime forze armate
colombiane e al signor presidente dottor Alvaro Uribe Velez».
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Sudan. 18 settembre. Il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir ha detto sabato scorso
di non volere alcuna forza di peacekeeping ONU nel Darfur. In conferenza stampa al vertice
dei Paesi non allineati a Cuba, riferisce la Reuters, Bashir ha affermato: «Non vogliamo che
l’ONU torni in Sudan ad alcuna condizione. Abbiamo incontrato Kofi Annan e abbiamo
chiarito in dettaglio che respingiamo la decisione del Consiglio di Sicurezza». Bashir ha
aggiunto che il Sudan ha stretto accordi economici con Pakistan, India, Cina e Malaysia e
che può sopravvivere a qualsiasi sanzione. Apprezzamenti per Cuba che è riuscita a
sopravvivere a oltre 40 anni di sanzioni USA.
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Somalia. 18 settembre. Il capo del governo transitorio somalo Abdullah Yusuf è rimasto
ferito in seguito all’attentato di ieri presso il parlamento di Baidoa. Secondo il giornale
somalo Xog-Xogaal, l’attacco ha provocato la morte di almeno 12 persone e il ferimento di
altre 20. Tra le vittime ci sono poliziotti e collaboratori di Yusuf, tra cui il fratello minore e
lo zio. Secondo la ricostruzione del giornale, un’autobomba con all’interno un kamikaze si è
scontrata con l’auto del presidente Yusuf mentre usciva dal parlamento dove aveva tenuto
un discorso in occasione del voto di fiducia del governo. Per Sheikh Sharif Sheikh Ahmed,
uno degli esponenti delle Corti islamiche, è chiara la pista estera. «Accuso forze straniere, in
particolare l’Etiopia, che cerca così di poter inviare in Somalia truppe e vuole in questo
modo giustificare la propria posizione davanti alle Nazioni Unite. Sono in atto molte
cospirazioni contro il nostro paese», ha dichiarato Ahmed all’emittente araba al-Jazeera. Le
Corti incolpano Addis Abeba di sostenere militarmente il Tfg (Governo Federale di
Transizione), confinato di fatto a Baidoa, e di mantenere da mesi una presenza costante di
reparti speciali su suolo somalo. Le Corti, invece, controllano la capitale, Mogadiscio, e gran
parte del territorio dallo scorso mese di giugno, dopo aver sbaragliato i signori della guerra
appoggiati dagli Stati Uniti. Il 13 settembre, l’Unione Africana (UA) ha adottato un piano
per dispiegare una «forza di pace» regionale (Igad) integrata da sette paesi della regione.
L’iniziativa, però, non è gradita dagli islamisti che hanno dichiarato che la contrasteranno
con la forza.
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USA. 18 settembre. Washington mantiene 14mila prigionieri nelle sue carceri segrete, una
rete globale di centri di detenzione illegali dove per i prigionieri non c’è giurisdizione di
alcun tribunale e nessuna possibilità di difesa. Sono catturati in teatri di guerra o sequestrati
nelle loro abitazioni o per strada e, in nome di supposte relazioni con gruppi armati,
rinchiusi in segreti centri di detenzione. Chi viene poi scarcerato, dopo mesi o anni, e aver
sovente subito torture, si vede liberato senza scuse, compensazioni o anche sapere il perché
del suo arresto.
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Messico. 18 settembre. Chávez non riconosce Calderon. Il presidente del Venezuela, Hugo
Chávez, lo ha ribadito in un’intervista alla statunitense CNN. «In Messico, le istituzioni
hanno riconosciuto il trionfo del candidato della destra; bene, questo è il Messico. Io non
vado ad immischiarmi in queste cose; dico solo che non riconosco questo governo». Chávez
ha aggiunto che tra Messico e Venezuela ci sono molte «relazioni storiche», ma ribadito che
quelle tra i due governi sono «congelate».
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Euskal Herria. 19 settembre. La Procura di Stato agirà «senza tentennamenti» contro ETA
«quale che sia lo scenario». Lo ha dichiarato ieri il procuratore generale spagnolo, Cándido
Conde-Pumpido, nel discorso d’apertura dell’anno giudiziario. Questi, riferendosi al cessateil-fuoco proclamato da ETA, ha invitato ad avere «cautela, pazienza e prudenza» per via dei
«precedenti fallimenti e tregue trappola annunciate dall’organizzazione».
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Italia / Libano. 19 settembre. «Fatti i conti, con la missione libanese le spese per la difesa
diventano uguali all’ultima finanziaria». Lo sostiene su il Manifesto Manlio Dinucci, che
snocciola i dati contenuti nel disegno di legge, presentato dal governo e approvato dalle
commissioni esteri e difesa della Camera. «Solo come “costo esercizio mezzi” si prevede in
settembre-ottobre, oltre a quella per la Garibaldi, una spesa mensile di 1,2 milioni per i
mezzi blindati e 1,8 per gli aerei che, insieme ad altre voci, portano il totale mensile a 12,6
milioni di euro. Aggiungendo le spese per alloggiamento, viveri e servizi, il “totale spese
funzionamento” supera i 14 milioni di euro mensili. Vi sono poi gli “oneri una tantum”,
soprattutto per l’ “approntamento in patria della marina militare”, che ammontano a 15,5
milioni». Di gran lunga maggiori le spese per il personale. «Complessivamente, solo per il
“trattamento di missione” dei 2.496 militari in Libano, si prevede una spesa mensile di 22,3
milioni». Il costo mensile della missione, nel periodo settembre-ottobre, sfiora quindi i 52
milioni di euro. «Salirà ancora quando, a novembre, subentrerà la “Follow on force”
(composta da 2.680 militari: 335 ufficiali, 1.290 sottufficiali e 1.055 volontari). Solo per il
loro “trattamento di missione” si spenderanno circa 24 milioni di euro al mese che, con gli
oltre 14 del “costo esercizio mezzi”, porteranno il totale a oltre 38 milioni mensili. Si
aggiungeranno 18,4 milioni per gli oneri, inspiegabilmente definiti anche in questo caso
“una tantum”. Il costo della missione salirà così in novembre di 4,6 milioni, arrivando a
56,6 milioni mensili. Per dicembre invece, abolita l’ “una tantum”, dovrebbe scendere a
circa 35 milioni mensili. Questo nelle previsioni. Ma se la situazione dovesse complicarsi, il
costo sarebbe sicuramente maggiore».
•
Italia. 19 settembre. La missione in Libano e le altre (soprattutto in Afghanistan)
comportano, oltre alla spesa immediata, un costo indotto. L’Italia impegna all’estero,
nell’arco di un anno, oltre 30mila militari su base rotazionale, più 3mila pronti a intervenire.
Per mantenere e potenziare tale capacità occorre assumersi ulteriori oneri anche in termini di
bilancio. Il ministro Parisi ha lamentato «carenza di risorse» che può incidere sulle capacità
operative delle forze armate, il cui personale assorbe oltre il 70% del bilancio della difesa.
Ciò può portare a «inaccettabili situazioni debitorie nei programmi internazionali», come
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quello del caccia statunitense Jsf cui partecipa l’Italia. Occorre quindi «un flusso di risorse
costante e coerente con gli obiettivi», che farà crescere la spesa militare italiana. Sommando
la spesa militare al costo delle missioni si raggiunge una cifra annua equivalente a quella
della finanziaria 2006.
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Italia. 19 settembre. Poiché i soldi (denaro pubblico) da qualche parte devono venir fuori,
occorre «tagliare» in altri settori. Come documentano Cgil Cisl e Uil, la finanziaria 2006
prevede tagli alle spese sociali di 12,7 miliardi, che colpiscono soprattutto sanità ed enti
locali. Si mettono così a rischio i servizi erogati ai cittadini nonché posti di lavoro. Sono
previsti inoltre tagli per 27 miliardi per la costruzione e l’ammodernamento delle reti
metropolitane, tranvie e passanti ferroviari. Nella finanziaria si propone inoltre, per il 2006,
un drastico taglio dei fondi destinati agli aiuti per i paesi in via di sviluppo, 152 milioni di
euro in meno rispetto ai 552 stanziati nel 2005. Siamo così intorno allo 0,1% del pil rispetto
a un obiettivo dell’1%. E mentre nella finanziaria 2006 si destina un miliardo di euro per la
«proroga» delle missioni militari all’estero, si stanziano appena 30 milioni annui per la
cancellazione del debito dei paesi poveri altamente indebitati. Quanto si spende in due
settimane e mezzo per la missione militare in Libano.
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Vaticano. 19 settembre. «Ha portato soltanto cose cattive e disumane, come la sua
direttiva di diffondere, per mezzo della spada, la fede che egli predicava». Queste le parole
dell’imperatore bizantino Manuel II Paleologo, alla fine del XIV° secolo, con le quali
giudicava Maometto, parole che papa Benedetto XVI ha citato all’università di Regensburg
nella sua lectio magistralis. Una valutazione ingiusta data a proposito del problema
dibattuto, «rapporto tra religione e violenza», sostiene su il Manifesto Giuseppe Barbaglio,
storico delle origini cristiane, e non contraddetta a quanto sembra dal papa nonostante la sua
palese genericità. Maometto viene fatto passare, appunto, come colui che nulla apporta se
non violenza. Un pensiero insultante che ha offeso la sensibilità dei musulmani nel mondo.
Il Papa aveva già fatto sapere che quella citazione «non esprimeva in alcun modo» il suo
pensiero personale, subito dopo le prime proteste nel mondo islamico. Tra queste il gran
muftì dell’Arabia Saudíta ha difeso ieri lo spirito della Jihad, «un diritto legittimato da Dio»
ed ha ricordato che ad esso hanno fatto ricorso altre religioni. Lo sceicco Abdelaziz alCheikh ha ricordato che «l’ordine di combattere non è cominciato con il profeta Maometto.
Altri profeti combatterono contro i loro nemici, come Mosé e David». Ha quindi invitato il
Papa «a leggere con serenità e senza pregiudizi il Corano e la Sunna (la tradizione del
profeta Maometto, ndr)» per comprendere meglio i musulmani. Da Bologna, Giuseppe
Alberigo, direttore dell’Istituto di Scienze Religiose di Bologna, rileva, dopo la nota di
sabato del Vaticano, che «è la prima volta che un papa si mostra desolato e fa marcia
indietro (...). Su alcuni temi bisogna essere più prudenti. Papa Wojtyla non avrebbe detto
certe cose».
•
Vaticano. 19 settembre. Scrive Rossana Rossanda su il Manifesto di oggi: «da laici
maliziosi possiamo aggiungere che ci voleva una notevole sfacciataggine dell’imperatore
bizantino per affibbiare nel 1391 a Maometto la guerra in nome di Dio: erano appena
terminate le otto o nove crociate contro l’Islam indette dai papi di Roma, e non c’era stata
nessuna jihad contro l’occidente. (Lui in persona, il Paleologo, sarebbe corso a cercare
aiuto in Europa contro i turchi, che avrebbero vinto lui e gli altri cristiani a Nikopolis. Vero
è che quella nessuno la chiamò una guerra santa ma, come era, una vera e propria guerra
territoriale che avrebbe visto la fine dell’impero bizantino e il formarsi e l’avanzare di
quello ottomano su ambedue le sponde del Mediterraneo, fino a Vienna). Perché Ratzinger
s’è ficcato in questo ginepraio?».
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•
Vaticano. 19 settembre. Un messaggio «calcolato». Esperti vaticanisti concordano nel
sostenere che, nonostante la sua ritrattazione, Benedetto XVI continua ad essere convinto
della «giustezza della sua posizione» e interpretano la sua polemica «lezione teologica» di
Ratisbona come un tentativo di marcare la nuova impronta del suo Pontificato.
L’editorialista de La Stampa, Gian Enrico Rusconi, esclude le teorie che rimandano ad «un
errore di comunicazione» o a un «semplice malinteso». «Un buon professore non ricorre a
una citazione senza situarla in maniera critica nel suo contesto», ha aggiunto riferendosi
alla citazione dell’imperatore bizantino Manuel II Paleologo, che tacciava come «malvagi ed
inumani» tutti gli apporti di Maometto. Secondo Sandro Magister, vaticanista del
settimanale L´Espresso, Benedetto XVI, guardiano rigoroso della dottrina cattolica
ortodossa, mostra «meno diplomazia e più Evangelo».
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Vaticano. 19 settembre. Il settimanale tedesco Focus afferma di avere appreso da fonti
vaticane che un collaboratore di Ratzinger «avrebbe vivamente consigliato al Papa di
stralciare quei passaggi incriminati nel discorso di Ratisbona». Passaggi che il 79enne
Benedetto XVI ha voluto citare ad ogni costo. Focus ne deduce che il Papa sapeva di dover
mettere in conto contestazioni. Ma a che scopo? Secondo la fonte del settimanale «non è mai
stato un segreto che Papa Ratzinger sia interessato ad alimentare un dibattito sulla verità e
su questioni critiche, e non lo è molto alle conseguenze che ne scaturiscano».
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Vaticano. 19 settembre. «La rozza battuta su Maometto e l’imperatore greco non era né
necessaria né funzionale alla tesi che Benedetto XVI ha sviluppato a Regensburg, e cioè che
tra fede e ragione non c’è contrasto, la fede arriva là dove ragione e scienza si fermano, ma
esse sono una grande conquista dell’umanità, resa possibile da quell’ordine intellettuale
che il creatore ha dato all’universo e del quale all’uomo, fatto a sua immagine e
somiglianza, ha concesso la chiave». Lo scrive oggi, su il Manifesto, Rossana Rossanda. «Il
fine politico della lectio era di allargare la famosa questione delle radici dell’Europa alla
Grecia, nella veste dell’ellenismo», prosegue la Rossanda. «Alla tradizione del Vecchio e
del Nuovo Testamento la tradizione greca dei “Settanta” avrebbe dato non solo il
passaggio da una lingua all’altra, ma qualcosa di più. Il duplice senso di logos, parola e
ragione, che sta all’inizio del vangelo di Giovanni, non sarebbe casuale: l’evangelista
voleva significare, fa intendere Benedetto XVI, le due cose; discutibile, come Barbaglio
osserva: per Giovanni logos è parola, messaggio. In ogni modo, prosegue Ratzinger,
l’ellenismo sarebbe la prima felice inculturazione, nel senso di innesto, nel e del
cristianesimo. Che invano “tre ondate” critiche hanno cercato nei secoli di azzerare. La
Costituzione europea, si può intendere, le deve riconoscere tutte e tre, anzi nel cristianesimo
ellenizzato trova una felice sintesi». Conclude Rossanda: «Lascio ad altre competenze altri
aspetti della lezione a Regensburg. Nel primo secolo ebraismo, cristianesimo ed ellenismo,
osserva Barbaglio, erano universi in reciproca circolazione. Mi pare invece poco
dimostrabile il legame fra l’asse portante del pensiero greco, cinque secoli prima di Cristo,
e l’ebraismo e poi il cristianesimo».
•
Moldova / Russia / Transnistria. 19 settembre. La Transnistria sceglie Mosca, ma l’UE
non riconosce il voto. Secondo le prime proiezioni riferite dall’agenzia stampa russa
Interfax, i «sì» raggiungono il 92-94%. Gli elettori russofoni della provincia separatista della
Transnistria hanno votato domenica, a stragrande maggioranza, per la separazione dalla
Moldova e l’adesione alla Russia. L’Unione Europea (UE) e l’Organizzazione per la
Sicurezza e la cooperazione (OSCE) non riconoscono la Transnistria e respingono il
referendum. Il presidente della Moldova, Vladimir Voronin, ha criticato il referendum, che a
suo parere rende più difficile una soluzione politica alla controversia. Il presidente della
Transnistria, Igor Smirnov, che governa da 16 anni la provincia separatista, sostiene
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l’adesione alla Russia, malgrado si estenda all’interno delle frontiere della Moldavia e
confini solo con l’Ucraina. La Transnistria è una stretta striscia di territorio (200 km circa di
longitudine e 12-15 km di larghezza) situata sulla riva orientale del fiume Dnestr; ha una
popolazione di 500mila abitanti composta da ucraini, russi e rumeno-moldavi. Nel 1992, al
termine di una guerra civile, si è separata dalla Moldova, dove vive una popolazione di
lingua rumena. Solo la Russia riconosce l’indipendenza della Transnistria.
•
Egitto. 19 settembre. Mubarak prepara l’incoronazione del figlio. Il Partito Nazionale
democratico (PND), a congresso da ieri, studia le strategie per una monarchia ereditaria. Il
presidente egiziano Hosni Mubarak, 78 anni (il suo mandato è stato rinnovato il 7 settembre
2005), ha chiamato ufficialmente il congresso a prendere in esame le modifiche da apportare
alla Costituzione, il tema dell’equilibrio fra i poteri, i diritti dei cittadini, la condizione
femminile, il pluralismo politico e la decentralizzazione. Tutti scommettono che sarà il
secondogenito di Hosni Mubarak, Gamal, già a capo dell’Ufficio politico del PND, il futuro
presidente dell’Egitto. Gli Stati Uniti hanno già benedetto la nascente dinastia e
l’introduzione del «sistema ereditario» nella repubblica egiziana.
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Libano / Israele. 19 settembre. Gli israeliani «assumono iniziative che sono violazioni»
della stessa Linea Blu. Lo ha denunciato il generale francese Pellegrini, comandante
dell’Unifil, riferendosi alla costruzione di barriere da parte dell’esercito israeliano in diversi
villaggi del Sud del Libano. Atti che violano la tregua e la stessa Linea Blu tracciata
dall’ONU. Il generale ha inoltre riferito di «violazioni dello spazio aereo libanese», in
particolare con velivoli senza pilota.
•
Cina / Libano. 19 settembre. La Cina invierà mille uomini in Libano. Lo ha annunciato ieri
il primo ministro Wen Jiabao, durante la visita del primo ministro italiano Romano Prodi.
Analisti parlano di motivi economici, ma anche del desiderio di assumere sempre maggior
peso negli affari mondiali. È il maggior contingente di pace mai inviato da Pechino, già
presente nell’Unifil con 187 soldati. Jean-Pierre Cabestan, sinologo del Centro nazionale per
la ricerca scientifica a Parigi, osserva che Pechino in questo modo può stabilire rapporti più
stretti con il mondo arabo, ricco di risorse energetiche, peraltro mantenendo la sua
collaborazione militare con Israele, in una «politica di equilibrio». Yitzhak Shichor,
professore di Studi est asiatici all’università di Haifa in Israele, concorda che «finora
Pechino ha esitato a intervenire negli affari del Medio Oriente, soprattutto per evitare di
prendere posizione», ma così può intervenire rimanendo neutrale. In questo ruolo la Cina è
avvantaggiata rispetto a Stati Uniti e Russia, spesso considerati Paesi invasori, ma anche
rispetto ad altre potenze economiche come il Giappone che ha un ancora recente passato
colonialista. Pechino, al contrario, non ha alle spalle molti conflitti con altri Stati, e il suo
recente passato non è segnato da una politica di espansione coloniale militare (se si
escludono, all’interno, Tibet e Xinjiang). Ciò le permette di svolgere meglio un ruolo di
forza neutrale nei conflitti etnico-reigiosi o di tipo coloniale. La Cina, poi, è da sempre
membro dei Paesi non allineati. Valerie Niquet, direttore del Centro asiatico dell’Istituto
francese di relazioni internazionali, ritiene che Pechino vuole soltanto «accreditare una
figura di potenza». Tutti concordano, comunque, che con l’invio delle truppe in Libano la
Cina mostra di volersi coinvolgere sempre più nello scenario mondiale. Il Paese partecipa a
missioni di pace solo dal 1992. In precedenza esse erano considerate uno strumento
dell’imperialismo USA. Finora la Cina ha inviato in missione soprattutto personale civile
(medici, ingegneri) e ha quindi operato meno vicino alle zone di guerra, con minori rischi di
coinvolgimento in conflitti a fuoco.
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Messico. 19 settembre. Dopo le dure accuse a Lopez Obrador e l’astensione dalla
campagna elettorale, ieri il subcomandante Marcos ha annunciato la ripresa, dal 9 ottobre,
dell’«altra campagna» che lo porterà in 11 Stati del nord messicano nonché il sostegno e la
partecipazione di militanti e simpatizzanti dell’EZLN alla resistenza civile lanciata da Lopez
Obrador contro la frode.
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USA / Iran. 19 settembre. Esponenti dell’amministrazione Bush «si starebbero adattando,
pur con riluttanza, a convivere con un Iran nucleare». Lo sostiene Foreign Affairs, rivista
statunitense ritenuta autorevole. Difficoltà internazionali (impantanamento in Iraq e, sempre
più, Afghanistan) ed esigenze elettorali, sembrano imporre in questa fase, alla Casa Bianca,
una intransigenza formale e una duttilità nella sostanza. Sarebbe in atto un’evoluzione,
secondo la rivista, rispetto ai punti di partenza della crisi e all’ultimatum lanciato a Teheran
dalla cosiddetta “comunità internazionale” e dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia
atomica) sulla base del quale i programmi del governo di Teheran dovevano essere sospesi
entro il 31 agosto di quest’anno, sotto minaccia di sanzioni in caso di inadempienza.
L’ultimatum è scaduto ma la crisi libanese ed il suo esito di fase hanno catalizzato le
attenzioni e indotto settori dell’establishment statunitense, sostiene la rivista, a maggiore
ponderazione sulle conseguenze del caso, anche se non viene scartata l’ipotesi di sanzioni. Il
trattato di non proliferazione nucleare proibisce l’uso militare ma non quello civile
dell’energia atomica. A Washington c’è chi crede in una delle seguenti possibilità: a) che il
governo iraniano non riesca a portare a termine i suoi progetti poiché i reattori forniti dalla
Russia non sarebbero sufficienti, né adatti allo scopo; b) che anche la formazione di un
potenziale nucleare iraniano non sia, dopo tutto, che una risposta all’isolamento nel quale
Teheran si trova, essendo circondato da paesi che posseggono (l’India, il Pakistan, la Russia,
Israele) o ospitano (la Turchia) armamenti nucleari. A partire da questi dati di fatto c’è chi
valuta la possibilità di arrivare ad un aggiustamento negoziale della questione. Quanto peso
abbiano questi settori, lo si vedrà nei prossimi mesi.
•
Afghanistan. 20 settembre. «Avevamo sempre saputo che il sud sarebbe stato difficile.
Dobbiamo prendere atto che la situazione è perfino più difficile di quanto ci aspettassimo».
Lo dichiara da Londra il ministro della difesa britannico, Des Browne, ammettendo gli errori
di valutazione fatti dall’ISAF riguardo la resistenza talebana.
•
Afghanistan / Italia. 20 settembre. «Le forze di polizia e le truppe governative afghane
hanno dato inizio oggi all’operazione Wyconda Pincer (in italiano tenaglia Wiconda, dal
nome di una località del Missouri, ndr), supportata dalle forze dell’ISAF, che interessa le
zone meridionali del settore ovest dell’Afghanistan sotto comando italiano. Polizia di
frontiera, corpi del direttorato nazionale per la sicurezza, soldati del distaccamento
statunitense di Farah, e truppe italiane e spagnole hanno unito le forze per sostenere le
operazioni di sicurezza nei distretti di Bala Baluk e Pusht-e Rod». È il comunicato ufficiale
rilasciato lunedì dal comando USA dell’ISAF nella città di Farah, settore ovest
dell’Afghanistan sotto controllo italiano.
•
Afghanistan / Italia. 20 settembre. «La diffusione di questa notizia (il coinvolgimento
nell’operazione di guerra Wyconda Pincer dei militari italiani, ndr) da parte di Isaf è stata
un grave errore perché dà luogo ad equivoci». Con imbarazzo e disagio è il capitano
Giancarlo Ciaburro, addetto stampa del contingente italiano a Herat a smentire e dichiarare
che le forze militari italiane sarebbero impegnate solo in normali operazioni di
pattugliamento, in particolare garantendo la sicurezza lungo la strada che collega Kandahar
a Herat. A peacereporter il generale Fabio Mini, ex comandante della missione NATO in
Kosovo, ha spiegato che «si tratta di operazioni di pattugliamento del territorio allo scopo
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di impedire ai talebani, in fuga dai bombardamenti, di scappare verso il confine iraniano».
Fatti che hanno costretto la deputata di Rifondazione Comunista, Elettra Deiana, a
dichiarare: «Si parla di un’operazione di pattugliamento ma Farah è una zona grigia dove i
talebani sono attivi e dove, quindi, le operazioni sono “combat”. Ci vuole un atto di
responsabilità politica, un piano di disimpegno militare». Lo esiga dal governo di cui fa
parte.
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USA / Pakistan. 20 settembre. Bush ha dichiarato alla CNN che non esiterà ad ordinare un
attacco militare USA in Pakistan se emergesse che bin Laden si nasconda da quelle parti. È
l’ultima minacciosa dichiarazione di Washington che segue all’accordo di pace, siglato il 5
settembre, tra il governo pakistano ed i taliban del Waziristan. Accordo accolto come una
pugnalata alla schiena da Washington, proprio mentre in Afghanistan le truppe USA e
NATO si trovano a fronteggiare una guerriglia talebana sempre più forte, che proprio nelle
regioni confinanti del Pakistan ha le proprie retrovie. In precedenza, Donald Rumsfeld aveva
avvertito il Pakistan affermando che nessun governo al mondo ha il diritto di negoziare
«paci separate con i terroristi». Dopo la firma dell’accordo, Joseph Biden, esponente dei
Democratici USA, ha commentato: «Se l’Afghanistan è tornato a essere ingovernabile per
gli attacchi dei taleban, la colpa è del governo pachistano, che non ha mai agito contro il
loro comando centrale a Quetta e ora ha pure firmato una pace separata con loro in
Waziristan». In occasione dell’anniversario dell’11 settembre, un duro editoriale del
Washington Post chiedeva come si fa a definire ancora il Pakistan «un alleato» dopo questo
tradimento.
•
Irlanda del Nord. 21 settembre. L’occupazione militare britannica nel nord Irlanda va
scemando sempre più. La distruzione in corso della base di Crossmaglen (sud di Armagh)
sta facendo seguito alla chiusura di un’altra base a Nesrownhamilton, con il che presto non
ci sarà presenza militare britannica nel sud di Armagh, storico feudo della resistenza
irlandese contro l’occupazione. La demolizione è parte del processo di smilitarizzazione
promulgato dal governo britannico nel settembre dell’anno scorso, giorni dopo che l’IRA
aveva reso pubblica l’ultimazione del processo di messa-fuori-uso del suo armamento. Un
gran numero di basi militari e stazioni di Polizia sono spariti negli ultimi mesi. Per chi
conosce Belfast o Derry, i cambiamenti più significativi sono la sparizione della stazione di
Polizia di Andersonstown e la base militare a Springfield Road nella capitale nordirlandese
o del posto di vigilanza dell’esercito sulle mura di Derry. Il sud di Armagh era sempre stato
un esempio dell’occupazione britannica. Torrette di vigilanza, basi militari e di polizia
trasformarono la «Contea dei Banditi» nella zona più militarizzata dell’Europa Occidentale.
E direttamente proporzionale fu la resistenza repubblicana nell’area; tant’è che le pattuglie
britanniche non si avventuravano nell’area a piedi, ma si spostavano usando elicotteri.
Secondo la relazione della Commissione di Verifica, il numero degli effettivi militari
dell’esercito britannico nel nord Irlanda è ora di 8.500 soldati e per la prossima estate si
ridurrà a 5.000. Negli anni Settanta si arrivò a quasi 30.000. Nel piano di smilitarizzazione
del governo britannico c’è la dissoluzione del Royal Irish Regiment, prevista per il 1° agosto
2007 e osteggiata dagli unionisti. Era stato formato nel 1992, con la fusione dei Royal Irish
Rangers e del più odiato Ulster Defence Regiment, nel quale molti paramilitari lealisti
agivano legalmente ed i cui membri sono stati accusati da nazionalisti e repubblicani di
responsabilità in atti che costarono la vita a molti cattolici.
•
Russia / Cecenia. 21 settembre. Cinque soldati russi sono morti oggi a Grozny in Cecenia
quando il loro fuoristrada è stato crivellato di proiettili. Secondo l’agenzia Interfax quattro
militari sono morti sul posto dell’agguato mentre un quinto è deceduto mentre veniva
trasportato all’ospedale. «L’attacco è stato preparato con cura», ha dichiarato il procuratore
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della Cecenia Kuznezov. Gli autori dell’agguato (quasi sicuramente guerriglieri
indipendentisti) sono riusciti a fuggire.
•
Afghanistan. 21 settembre. «Civili uccisi dagli USA spacciati per taliban»; le vittime dei
bombardamenti vengono fotografate con accanto i fucili per farle sembrare miliziani. Lo
rivelano a PeaceReporter fonti militari che hanno chiesto l’anonimato. Dopo i raid aerei,
intervengono le forze speciali per verificare il risultato dell’attacco e fare rapporto al
comando. Queste pattuglie si portano sempre dietro una bella scorta di kalashnikov
sequestrati in altre occasioni e li depongono accanto ai civili. Scattano foto e quei morti, nel
rapporto, diventano taliban. Il sistema lo hanno inventato gli statunitensi, stanchi di vedersi
messi sotto accusa per i “danni collaterali”: con queste messe in scena e con le prove
fotografiche sanno di poterla fare franca. Adesso hanno imparato a fare lo stesso anche i
britannici e i canadesi. Tale pratica si sta però rivelando strategicamente controproducente,
perché la popolazione locale, che in passato non appoggiava i taliban, preferisce andare a
combattere con loro per vendetta o semplicemente perché, se vengono ammazzati lo stesso,
tanto vale morire in battaglia. «Così si rischia una rivolta generale come al tempo dei
sovietici». «Qui lo sanno tutti quello che succede», spiega una delle fonti militari. «Quando
leggete sui giornali “Uccisi 50 taliban qui, 90 taliban là”, si tratta sempre di civili spacciati
per taliban con il giochino dei fucili buttati vicino ai cadaveri. È una cosa che rivolta lo
stomaco. Ma nessuno per ora ha il coraggio di denunciarlo. Per paura di ritorsioni, ma
anche perché non verrebbe creduto: le foto sono una prova, costruita, ma sono una prova.
Qualcuno però dice che, prima o poi, qualcuno denuncerà questi fatti. Se non altro per
evitare che in Afghanistan si verifichi un’insurrezione come al tempo dell’occupazione
sovietica».
•
Iran / USA. 21 settembre. «Non abbiamo bisogno della bomba atomica». Sono le parole
del presidente iraniano, a New York per la sessione dei lavori delle Nazioni Unite. Nel corso
di una conferenza stampa, Mahmoud Ahmadinejad ha smentito l’uso militare del piano
nucleare di Teheran e si è detto pronto a trattare ma solo «alle giuste condizioni»,
aggiungendo che Stati Uniti e Paesi europei dovrebbero distruggere i loro arsenali atomici.
Ha fatto riferimento all’enorme arsenale nucleare USA, incluso il suo recente sviluppo
dell’armamento di seconda e terza generazione. «Questo sì che ci preoccupa», ha aggiunto,
ricordando che Washington è ostile all’Iran dal trionfo della rivoluzione, 27 anni fa.
•
Libano. 21 settembre. L’esercito israeliano sta distruggendo i frutteti, gli oliveti, le serre e i
campi a ridosso del confine, impedisce ai contadini e ai pastori di avvicinarsi alle loro terre e
sta scavando una conduttura nella zona di Marjyoun per dirottare verso Israele parte
dell’acqua del fiume Wazzani. La denuncia è dell’Unifil che si sta limitando a constatare i
fatti.
•
USA. 21 settembre. All’ONU Bush fa un buffo elenco dei «successi» ottenuti dalla sua
politica in Medio Oriente e suscita risolini nell’uditorio. Con una discutibile trovata, si è
rivolto nel suo discorso direttamente al popolo iraniano, ostentando nei confronti del suo
presidente indifferenza. Ahmanidejad, il presidente iraniano, è stato innegabilmente al
centro dell’attenzione. La Nbc gli ha fatto una lunga intervista ed il Time gli ha dedicato la
copertina. Il suo discorso dell’altro ieri sera è stato seguitissimo in assemblea. Gli Stati Uniti
e la Gran Bretagna, ha detto, con l’uso del loro veto hanno trasformato il Consiglio di
Sicurezza in «uno strumento di minaccia e di coercizione». Se hanno un contrasto con un
paese, «lo trascinano al Consiglio di Sicurezza e si assegnano il compito di pubblico
ministero, giudice e esecutore della condanna. È questo un ordine giusto?». Sul problema
del nucleare Ahmadinejad ha ripetuto che il suo paese non punta alla bomba atomica, ha
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ricordato che proprio l’Aiea ha recentemente respinto un rapporto statunitense su questo
problema per «manifesta inattendibilità» e poi ha attaccato a fondo sulla vicenda del Libano,
nella quale si è assistito a un Consiglio di Sicurezza che «sedeva oziosamente per giorni e
giorni di fronte alle atrocità che venivano commesse contro il popolo libanese». Questo
perché, ha aggiunto, gli Stati Uniti volevano dare a Israele il tempo di «compiere il lavoro».
Quanto all’Iraq, Ahmadinejad ha avuto vita facile nel sostenere che «gli occupanti non sono
in grado di garantire la sicurezza» e che a causa dell’invasione «centinaia di persone
vengono uccise ogni giorno a sangue freddo».
•
USA. 21 settembre. Relatori ONU bocciano progetto di legge USA sugli interrogatori dei
sospetti “terroristi” perché «vìola» gli obblighi in materia di diritti umani: «questa legge
legalizzerebbe la ripetizione delle violazioni osservate a Guantanamo», hanno affermato
oggi a Ginevra cinque relatori dell’ONU sui diritti umani. In una dichiarazione congiunta,
gli esperti indipendenti affermano che «non solo il governo non ha compiuto alcun passo
per chiudere il centro di detenzione di Guantanamo, ma ha anche recentemente proposto un
progetto di legge al Congresso che è in violazione degli obblighi degli USA in materia di
diritti umani e dei requisiti dell’articolo 3 delle Convenzioni di Ginevra».
•
Brasile. 21 settembre. Ennesimo terremoto ai vertici del Partito dei Lavoratori (PT).
Ricardo Berzoini, presidente del PT e capo della campagna elettorale di Lula, si è dimesso
per la scoperta di un dossier illegale che avrebbe dovuto danneggiare i candidati
socialdemocratici alle elezioni del prossimo primo ottobre. È il terzo presidente del PT di
seguito che deve rinunciare perché coinvolto in scandali e attività illegali. Il presidente
brasiliano Lula e il vertice del governo avrebbero appurato che Berzoini era effettivamente
al corrente del tentativo di alcuni collaboratori di comprare un dossier segreto sul candidato
del Psdb al governo di San Paolo, José Serra, che sarebbe potuto servire anche contro il
maggior rivale di Lula alla presidenza, il candidato socialdemocratico Geraldo Alckmin.
Berzoini per ora non abbandonerà la presidenza del PT.
•
Polonia. 22 settembre. Il leader del partito dei piccoli contadini Samoobrona (Autodifesa)
Andrzej Lepper, vicepremier e ministro dell’Agricoltura, è stato rimosso dal governo. Anche
il ministro delle Finanze, Stanislaw Kluza, lascerà per far posto all’economista Zyta
Gilowska, benvoluta dai “mercati finanziari”, titolare del dicastero sino al giugno scorso. La
decisione di licenziare il vicepremier dal governo è stata annunciata ieri sera dal primo
ministro Jaroslaw Kaczynsky, che ha criticato alcune recenti prese di posizioni del leader di
Samoobrona. Quanto a Gilowska, torna a far parte del governo dopo essere stata assolta da
un tribunale dall’accusa di aver collaborato negli anni Ottanta con i servizi segreti dell’allora
regime comunista.
•
Polonia. 22 settembre. È stato soprattutto l’Afghanistan a mettere in crisi la coalizione
governativa polacca. Dopo soli quattro mesi, a far collassare il governo guidato dal PiS
(“Legge e Giustizia”), è stato il rifiuto di Andrzej Lepper, leader del partito dei piccoli
contadini Samoobrona, ad accettare la legge finanziaria per il 2007 e la decisione del primo
ministro Jaroslaw Kaczynski di inviare mille soldati polacchi in Afghanistan. In particolare
questa decisione –secondo Lepper– doveva essere prima sottoposta al dibattito
parlamentare. Il consistente rafforzamento del contingente polacco in Afghanistan era stato
duramente criticato alcuni giorni fa proprio da Lepper. «Ci sono numerosi punti su cui i
membri della coalizione sono in disaccordo. In particolare l’impegno a inviare soldati
polacchi in Afghanistan», aveva affermato il leader di Samoobrona, aggiungendo: «all’inizio
si parlava di inviare 40 o 50 soldati, non 1.000, e il costo del loro invio era perciò di circa
35 milioni di zloty, e non 300 milioni. Le casse dello Stato sono a corto di denaro e abbiamo
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bisogno di tutt’altro». «Non provo risentimento», ha aggiunto il capo di “Autodifesa”, «ma
vorrei dire che il principale partito di governo insieme al presidente hanno mentito al
popolo». Lepper ha chiesto elezioni anticipate e ha indicato come data «il 26 novembre, il
secondo turno delle elezioni municipali».
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Polonia. 22 settembre. Dopo il licenziamento di Lepper, il premier ha confermato oggi
l’intenzione di cercare il sostegno di altre forze politiche per ricostruire una nuova
maggioranza parlamentare di almeno 231 seggi (su 460 totali). Kaczynski ha minacciato di
voler andare a elezioni anticipate se questa via non risulterà praticabile. Assieme agli alleati
di governo della Lega delle Famiglie Polacche (Lpr), il PiS ne controlla al momento solo
183. L’obiettivo è convincere ad entrare nell’esecutivo il partito dei grandi contadini (PSL),
che ha 25 seggi, e spingere alla defezione diversi deputati di Samoobrona.
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Libano. 22 settembre. Le armi di Hezbollah? «Un arsenale di tutto il Libano, che non sarà
utilizzato al suo interno. È un arsenale maronita, druso, sunnita, sciita, di tutti voi. Non
manterremo le nostre armi all’infinito, ma le terremo fino a quando il Libano non avrà
riconquistato le terre occupate da Israele, quando le nostre acque non saranno minacciate
da Israele, quando i nostri prigionieri nelle carceri israeliane torneranno in patria». Parole
dell’esponente di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah, alla sua prima apparizione in
pubblico dall’inizio della guerra in Libano, per festeggiare la vittoria contro l’aggressore
sionista. «Non c’è nessun esercito al mondo che possa costringerci a lasciare cadere le
nostre armi», ha ribadito rivolgendosi a più di un milione di sostenitori che hanno invaso la
parte sud di Beirut. Il canale televisivo al-Manar, legato a Hezbollah, ha sottolineato che si è
trattato «del più imponente raduno di massa della storia del Libano».
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Libano. 22 settembre. Nasrallah ha elogiato quelli che ha definito «i combattenti della
resistenza» per essere «riusciti a far fronte al più potente esercito del Medioriente, da terra,
dai cieli e dal mare (...) In poche migliaia avete respinto la flotta nemica, i carri armati
nemici, resistendo a cielo aperto contro i raid aerei per settimane», ha rimarcato il massimo
esponente di Hezbollah. Una resistenza che è stata «una grande vittoria divina. Perché solo
con l’aiuto di Dio abbiamo potuto ottenere questo risultato».
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Libano. 22 settembre. Secondo Hezbollah, Israele non è riuscito a raggiungere nessuno
degli obiettivi di volta in volta prospettati durante il conflitto cominciato il 12 luglio e
conclusosi il 14 agosto. Il primo giorno di quell’offensiva il governo di Tel Aviv aveva
dichiarato: nessun cessate il fuoco senza la restituzione dei soldati. Poi aveva detto di voler
occupare il Libano a sud del fiume Litani, per creare una zona cuscinetto. Poi ancora di
voler distruggere le basi missilistiche di Hezbollah, infine di avere intenzione di far
applicare la risoluzione ONU 1559 per il disarmo di Hezbollah. Alla manifestazione
oceanica di Hezbollah sono arrivati anche rappresentanti delle forze alleate: gli sciiti di
Amal, i cristiani del generale Aoun e del tripolino Samir Franjie, i comunisti pro Damasco e
i membri del Partito social nazionale pansiriano. Per l’Hezbollah del dopo guerra, che si
sente forte di questa vittoria, è arrivato il tempo di dare la spallata a un esecutivo, quello
guidato da Fouad Siniora, considerato subalterno a Washington. L’attuale governo Siniora
«non è in grado di difendere il Paese, o ricostruirlo o unificarlo», ha detto. E la
manifestazione di ieri, a Beirut, ha sancito, secondo molti osservatori, la nascita di un nuovo
fronte patriottico pro-resistenza e anti-USA, con il segretario di Hezbollah, Nasrallah, e il
generale maronita Michel Aoun.
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Libano. 22 settembre. «È stata una guerra americana in tutto e per tutto». Così dal palco
Hassan Nasrallah. «Washington l’ha decisa, l’ha diretta, ha armato Israele, ha definito la
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strategia. Per quattro settimane non hanno voluto fermare la guerra perché era la loro
guerra, ma non sono riusciti nel loro intento che era quello di schiacciare Hezbollah.
Avevano informazioni e rapporti d’intelligence sbagliati e hanno perso». Nasrallah ci tiene
poi a sottolineare che non è stato solo Hezbollah ad aver vinto, «ma tutto il Libano. È la
Palestina, è il mondo arabo e quello islamico. Non è una vittoria del Partito di Dio o della
comunità sciita, ma è la vittoria del vero popolo libanese. È la vostra vittoria». Alla fine del
comizio, un lunghissimo corteo si è snodato di notte nei quartieri sud sciiti di Beirut,
pesantemente bombardati durante i 34 giorni di conflitto.
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Libano. 22 settembre. «La resistenza oggi, fate attenzione, ha più di 20mila razzi. Col
passare dei giorni, sebbene si stia uscendo da una guerra terribile, Hezbollah ha
riacquistato tutte le sue capacità militari e organizzative. È più forte di quanto non fosse
prima del 12 luglio». Così Nasrallah, davanti al milione e passa di gente con bandiere,
palloncini e manifesti di Hezbollah, avverte Israele che continua a minacciare di ucciderlo.
Nasrallah ha anche lanciato un appello per un nuovo governo di unità nazionale in Libano,
dicendo che l’attuale coalizione filo USA non è in grado di affrontare le sfide che attendono
il paese dopo la guerra contro Israele. La forte partecipazione in un Paese di soli quattro
milioni di abitanti ha significato, per gli osservatori internazionali, una impressionante
dimostrazione di consenso per Hezbollah.
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Libano. 22 settembre. Nasrallah ha parlato da leader internazionale: gli Stati arabi
«implorano la pace». Anche se «notte e giorno dicono che non combatteranno e non
useranno l’arma del petrolio, vi posso assicurare», ha affermato, «che Israele ha molto più
rispetto per la resistenza (Hezbollah, ndr) che per tutti loro». «Stiamo entrando in una
nuova era in cui possiamo imporre le nostre condizioni al nemico», ha detto ancora,
esortando a sostenere i palestinesi «politicamente, finanziariamente e militarmente, perché
anche loro sono in grado di ottenere una vittoria divina». E ancora: «Rinnovo il mio
benvenuto alle forze dell’Unifil a sostegno dell’esercito libanese a patto però che non spiino
la resistenza o tentino di disarmarla o interferiscano negli affari libanesi». Le milizie sciite
non si faranno vedere in giro armate, ma rivendicano il loro diritto a mantenere intatti i
propri arsenali, nonostante le risoluzioni 1559 e 1701 delle Nazioni Unite. A proposito della
risoluzione ONU 1701, Nasrallah ha affermato che Hezbollah intende «rispettarla», anche
se «non è sacra», ed ha ammonito che «se il governo libanese non fermerà le continue
violazioni israeliane, perderemo la nostra pazienza e il popolo libanese si assumerà le
proprie responsabilità». Come dire che il Partito di Dio tornerà alla lotta armata.
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Italia / Serbia / Kosovo 23 settembre. D’Alema: «Siamo a favore dell’indipendenza». «In
Kosovo la spinta è verso un processo graduale di indipendenza ma devono essere adottate
una serie di misure tali da evitare lacerazioni e instabilità. Questa è la tesi che sosterrò
stasera nella riunione del G8 dove sarò relatore proprio sulla questione dei Balcani e del
Kosovo». Lo ha detto ai giornalisti il ministro degli Esteri Massimo D’Alema, a margine dei
lavori dell’Assemblea generale dell’ONU a New York. Di pochi giorni fa la dichiarazione di
Kole Berisha, presidente del parlamento di Pristina: «se gli albanesi del Kosovo non
otterranno l’indipendenza dalla Serbia allora potrebbero scatenare una rivolta».
Dichiarazione subito bollata da Belgrado come un ricatto inaccettabile. Il primo ministro
serbo, Vojislav Kostunica, ha assicurato che il Kosovo «è sempre stato e sempre sarà parte
della Serbia». Critiche anche dai rappresentanti della missione delle Nazioni Unite in
Kosovo (Unmik). Da alcuni mesi sono in corso difficili negoziati fra serbi e albanesi per
decidere lo status definitivo del Kosovo, che dal 1999 è sotto un protettorato internazionale.
I serbi non sono intenzionati a concedere quell’indipendenza che invece gli albanesi
considerano obiettivo irrinunciabile.
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Romania / Unione Europea. 23 settembre. Conseguenze geopolitiche significative
produrrà l’ingresso di Bucarest e Sofia nella UE. Da notare attentamente le parole del
presidente romeno Traian Basescu, intervistato da Euronews. Leggiamo le sue dichiarazioni:
«l’adesione di Romania e Bulgaria porta, per la prima volta, le frontiere dell’Unione
Europea fino alle rive del Mar Nero. I problemi dello spazio allargato del Mar Nero non
saranno più un problema esclusivo della NATO ma diventeranno un problema politico
esterno dell’Unione Europea. Un problema esterno delicato. Un problema che trasforma
l’Unione Europea in uno degli attori principali dello spazio allargato del Mar Nero, sia che
si parli dei conflitti “congelati”, ad uno stadio latente –ci sono almeno 4 punti di tensione a
Nord Est del Mar Nero– o del traffico d’armi, o del traffico di droga che utilizza lo spazio
allargato del Mar Nero come snodo di smercio della droga dell’estremo oriente verso gli
Stati dell’Unione Europea».
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Romania / Unione Europea. 23 settembre. Legandola alla politica estera e alla NATO,
Basescu auspica innanzitutto l’approvazione della cosiddetta “Costituzione Europea”.
«Questo ci permetterà di avere se non altro, all’interno dell’Unione, una politica estera
unitaria e una politica di sicurezza unitaria. In più, in quanto Stato membro dell’Unione
Europea, sosterremo in maniera continuativa, a partire dalle nostre personali analisi, la
necessità di una relazione transatlantica estremamente solida. È difficile immaginare una
Europa che si divida dagli Stati Uniti. Ma del resto è altrettanto difficile immaginare una
potenza come gli Stati Uniti che si separa dall’Europa. Secondo le nostre valutazioni, siamo
praticamente “condannati” a un forte legame transatlantico».
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Romania / Unione Europea. 23 settembre. Cosa se ne ricava? Che l’allargamento
dell’Unione Europea avviene non certo in nome di un fantomatico imperialismo “europeo”,
bensì in quello della subordinazione agli USA e alle sue strategie geopolitiche. Tra cui il
contenimento della Russia. Come rileva Basescu, aumenterà il coinvolgimento dell’UE in
una regione, quella del Mar Nero, importante nodo strategico per il trasporto delle risorse
energetiche del Caucaso e dell’Asia centrale verso l’Europa, dove gli USA mirano, senza
molto successo finora, a tagliare fuori Mosca dai circuiti di esportazione.
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Caucaso / Mar Caspio. 23 settembre. In questo contesto, Ucraina e Georgia sono due
paesi chiave. Nelle acque del Mar Nero, davanti alla penisola di Crimea, non molto lontano
da Sebastopoli, dove è ormeggiata una parte della flotta di Mosca, si sono svolte tempo fa
manovre congiunte –denominate Sea Breeze 2006– tra la Marina USA e quella di Kiev. Le
navi hanno simulato scenari di guerra in acque ucraine, le quali secondo un trattato siglato
nel 1997, saranno gestite fino al 2017 dalla Russia. Tali giochi di guerra hanno come sfondo
quasi sempre questioni energetiche –petrolio, gas, oleodotti e gasdotti– in realtà strumento
per l’egemonia globale. Da prestare attenzione anche al GUAM, strumento di cooperazione
economica e di politica estera e di sicurezza comune costituito da Georgia, Ucraina,
Azerbaigian e Moldavia (inizialmente anche con l’Uzbekistan, uscita dall’organizzazione
nel 2005 per riavvicinarsi alla Russia). Il blocco economico ed energetico russo nei
confronti di Georgia, Ucraina e Moldavia aveva dato vigore al progetto, sostenuto da
Polonia e USA. Il 22 maggio, a Kiev, il presidente lituano Valdas Adamkus, a fianco dei
rappresentanti di Polonia, Romania e Bulgaria, ha dato il proprio sostegno alla creazione di
uno spazio di cooperazione che ingloba oltre al Mar Nero, l’Europa orientale e il bacino del
Caspio. Un progetto che, per la sua componente economica, si baserebbe sulle riserve
energetiche del Caspio, dell’Azerbaigian e sui corridoi energetici di transito verso i mercati
europei di Ucraina e Georgia.
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Caucaso / Mar Caspio. 23 settembre. «L’Azerbaigian è un importante produttore di
petrolio, l’Ucraina possiede delle possibilità uniche di transito. Perché non unire i nostri
sforzi?», aveva proposto alcuni mesi fa Viktor Yuschenko invitando il presidente azero,
Ilham Aliev, a utilizzare, per il trasporto del petrolio estratto a Baku, l’oleodotto OdessaBrody (frontiera polacco-ucraina), da prolungare in futuro fino alla raffineria di Lodz e al
porto di Gdansk, in Polonia. Questa conduttura, assieme al Baku-Tbilisi-Ceyhan, sono le
due rotte su cui Washington vorrebbe fare perno per escludere Mosca dal trasporto degli
idrocarburi e portare gli idrocarburi del Caspio via Georgia, Moldavia ed Ucraina, in alcuni
Paesi dell’Europa occidentale. In tale contesto, importante il ruolo di Bucarest e Sofia. I due
Paesi hanno il compito di favorire l’integrazione del GUAM nel contesto economicomilitare “occidentale” supervisionato dalla NATO. Non tutti i membri del GUAM vedono
però queste prospettive di buon occhio. L’Azerbaigian, ad esempio, diffida di certe riforme
politiche ed economiche avanzate nei fatti da Washington, e su questo si appoggia alla
Russia, il cui aiuto è stato fondamentale per sconfiggere la “rivoluzione colorata” sostenuta
dagli USA in occasione delle elezioni parlamentari del novembre 2005.
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Ucraina. 23 settembre. Sono da verificare i nuovi equilibri politici a Kiev, dopo la nomina
alla fine di luglio del filo russo Viktor Yanukovich (candidato nel 2004 alle presidenziali
ucraine e battuto da Viktor Yushenko) a primo ministro e alla sua “pace” con il filo-USA
Yushenko. Ad Euronews il neo primo ministro, in relazione all’aumento del prezzo delle
forniture di gas russo deciso da Gazprom, ha dichiarato: «bisogna considerare in quale
contesto furono prese le decisioni, nel 2005 e in parte nel 2006 (…) Coloro che hanno
affrontato il problema del gas non avevano la competenza per farlo (…) Hanno scelto di
modificare l’accordo tra Ucraina e Russia che prevedeva gas a basso costo in cambio
dell’utilizzo delle nostre condutture. Chi ha fatto tutto questo è stato il governo di Yulia
Timoshenko. La Russia, ovviamente, ha reagito. Tutti sanno come la storia sia finita. Il
nostro governo ha ripreso in mano il problema, ha riattivato le relazioni con la Russia,
rimosso tutti gli ostacoli che impedivano un accordo economico di reciproca mutualità. Un
altro problema è la stabilità delle forniture di gas verso l’Europa. Come dobbiamo
garantirle? Collaborando. Insieme dobbiamo iniziare a immagazzinare nei depositi ucraini
24,7 miliardi di metri cubi di gas. L’Ucraina deve essere il ponte nelle relazioni tra Europa
e Russia».
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Russia / Libano. 23 settembre. Mosca è intenzionata ad inviare un «piccolo contingente
del genio» in Libano, non all’interno dell’Unifil, «ma in ambito bilaterale». Lo ha detto
stamane, in conferenza stampa, il presidente russo Vladimir Putin, precisando che l’invio ci
sarà «se questa partecipazione è ben accolta da tutte le forze».
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Turchia. 23 settembre. Delegazione della commissione diritti umani del Parlamento
europeo è rientrata ieri da una missione di quattro giorni in Turchia. I sei europarlamentari
rilevano una situazione peggiore rispetto al 2005. In aumento le denunce di torture e abusi
delle forze di sicurezza. Il governo di Ankara non intende poi modificare le norme del
codice penale che limitano la libertà d’espressione. Sotto accusa, in particolare, l’articolo
301 sulla base del quale vengono imprigionati scrittori e intellettuali.
•
Pakistan. 23 settembre. I taliban pachistani hanno ormai il saldo controllo della piccola
regione tribale del Nord Waziristan, considerata la retrovia della resistenza talebana in
Afghanistan, dove esistono pure campi di addestramento per le organizzazioni della
liberazione del Kashmir. Un recente servizio della rivista pachistana Herald ha mostrato
come i campi di addestramento per i combattenti del Kashmir si trovino sia nella provincia
occidentale afghana che nella regione del Kashmir pachistano di Azar. Questi gruppi non
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ricevono più finanziamenti ma i quadri della guerriglia possono circolare liberamente.
Peacereporter.net ha rilevato (1 marzo 2006) come i taliban si siano completamente
sostituiti alle autorità governative pachistane ed abbiano ufficialmente proclamato uno Stato
islamico, riproducendo il tipo di regime politico e sociale dell’Afghanistan della fine degli
anni Novanta.
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Afghanistan / Pakistan. 23 settembre. Per comprendere meglio come ciò sia stato
possibile, bisogna tenere a mente l’intreccio tra i termini “pashtun” e “taleban”. Il
Pashtunistan è una regione a cavallo tra l’Afghanistan ed il Pakistan, artificialmente separata
dal confine tracciato dai colonizzatori inglesi (la cosiddetta “Linea Durand”). Quest’area
costituisce la base sociale del movimento politico dei taliban sorto a metà degli anni ’90
nelle scuole coraniche del Pakistan (le cosiddette “madrasse”) con il sostegno dei servizi
segreti di quel Paese (l’ISI) allo scopo di prendere il potere a Kabul. I pachistani hanno
sempre considerato l’Afghanistan come il proprio “cortile di casa”, uno strategico crocevia
di strade, oleodotti e gasdotti tra Medioriente ed Asia centrale. Nel 1996 Kabul era in mano
ai mujaheddin tagiki, uzbeki e hazari, sostenuti da India, Russia e Iran. Una situazione che
Islamabad non poteva tollerare e che capovolse a suo vantaggio instaurando in Afghanistan
il “governo amico” dei taliban, funzionale ai propri interessi e sostenuto dai pashtun afghani
e pachistani. Un’ascesa, quella dei taliban, che risale a qualche anno prima, quando a
Kandahar (Afghanistan), nei primi anni Novanta, gli studenti armati guidati dal carismatico
mullah Omar posero fine alle violenze dei “signori della guerra” che avevano appena preso
il controllo del Paese. Fu così che i taliban si guadagnarono il sostegno popolare e iniziarono
con il sostegno pakistano la loro scalata al potere.
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Afghanistan / Pakistan. 23 settembre. Dopo l’invasione USA del 2001, sono tornati al
potere quegli stessi mujaheddin (i “signori della guerra”) e i pashtun afghani sono stati
marginalizzati. Il mullah Omar ed i comandanti taliban si sono rifugiati nelle cosiddette
“aree tribali”, le regioni pakistane di confine abitate dai pashtun. La loro scomoda presenza
è stata tollerata dalle autorità pachistane. Il presidente Musharraf si è trovato tra l’incudine
USA e il martello dei servizi, dell’esercito e dei partiti integralisti filo-taliban che, dopo la
guerra, hanno guadagnato un notevole peso politico. Alla fine del 2002, sull’onda dei
bombardamenti USA, nelle regioni di confine abitate dai pashtun sono andati al potere
proprio i partiti integralisti filo-taliban. Fin dai primi mesi del 2003 le “madrasse
pachistane” hanno avviato una massiccia opera di reclutamento, raccolta fondi e riarmo. Il
ruolo di coordinamento di quantomeno settori dei servizi segreti pachistani è stato
fondamentale. Tanto che nel giugno 2003 lo stesso mullah Omar, uscendo da un lungo
silenzio, ha diffuso un messaggio audio registrato in cui ha chiesto ai taliban di «lottare
contro il regime fantoccio di Hamid Karzai».
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Afghanistan / Pakistan. 23 settembre. Così come in Afghanistan, anche in Pakistan i
taliban sono emersi come uomini d’ordine ponendo fine ai soprusi dei “signori della guerra”
locali. Come riporta Peacereporter.net nell’articolo succitato, nel dicembre 2005 i taliban
hanno giustiziato decine di uomini di Hakeem Zadran, “signore della guerra” afghano che
deteneva, con la forza ed il terrore, il controllo della regione. Ci furono esecuzioni pubbliche
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bene accolte dalla popolazione locale: gli uomini di Zadran estorcevano con la violenza il
pagamento di un “pizzo” a tutti i commercianti della regione, ai camionisti e perfino alle
cerimonie matrimoniali, rapivano e sodomizzavano bambini e ragazzini, gestivano il traffico
di armi, droga e addirittura alcool: il tutto senza essere disturbati dalle autorità federali
pachistane che lasciavano fare in cambio di qualche bustarella. I bombardamenti USA e le
spedizioni militari pakistane nel recente passato hanno fatto il resto, accrescendo
ulteriormente il consenso ai taliban. Il tutto con il sostegno politico della Muttahida Majlise-Amal (MMA, Forum di Azione Unitario), la coalizione dei sei partiti religiosi integralisti
islamici d’opposizione al regime del generale-presidente pachistano Pervez Musharraf. Una
forza politica giunta alla ribalta istituzionale dopo le ultime elezioni parlamentari del 2002
(ora risulterebbe la seconda forza politica del Paese) e che amministra la North West
Frontier Province, confinante con l’Afghanistan e a gran maggioranza Pashtun, ed in
coalizione anche il Belucistan, anch’esso confinante con l’Afghanistan. Il leader Qazi
Hussain Ahmed affermò quell’anno: «non accetteremo mai le basi USA, che devono
andarsene immediatamente, e la cultura occidentale. I taliban sono nostri fratelli, è brava
gente».
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USA / Pakistan. 23 settembre. Un appello del presunto numero due di al-Qaeda, il medico
egiziano Ayman al-Zawahiri, riportato nei tratti salienti da Peacereporter.net (16 maggio
2006), evidenzia bene quali leve di malcontento popolare ma anche di classi dominanti
abbia suscitato la svolta filo-USA di Islamabad. «Musharraf ha installato in Pakistan un
regime basato sulla corruzione e sulle frodi elettorali, governato da corrotti e opportunisti
(...) Ha sostenuto l’abbattimento dell’emirato di Kabul facendo perdere al Pakistan la sua
profondità strategica, vitale in caso di guerra con il nemico indiano, esponendo le spalle
dell’esercito pachistano a un regime afghano ostile in quanto alleato con il nemico indiano;
ha posto il programma nucleare pachistano sotto tutela americana; ha indebolito la
posizione del Pakistan in Kashmir facendo all’India una concessione dopo l’altra, senza
ottenere nulla in cambio; ha riconosciuto l’entità sionista di Israele, per preparare
l’opinione pubblica interna al riconoscimento di uno Stato indiano del Kashmir; ha
concesso l’accesso in Kashmir alle forze armate e all’intelligence USA con la scusa dei
soccorsi ai terremotati; ma soprattutto ha trasformato l’esercito pachistano in un cane da
guardia al servizio dei Crociati, alleandosi con gli infedeli contro l’Islam, mandando i suoi
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soldati a combattere il suo stesso popolo in Waziristan, in Bajaur e ovunque il crociato
Bush gli chieda di colpire, muovendo addirittura contro i fratelli mujaheddin che vengono
da altri paesi islamici e che rappresentano l’arma più forte per la liberazione del Kashmir.
Faccio appello al popolo pachistano perché rovesci questo regime traditore, criminale e
corrotto; faccio appello ai soldati e agli ufficiali dell’esercito pachistano perché
disobbediscano agli ordini di chi li manda a uccidere i propri fratelli».
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USA / Pakistan. 23 settembre. Dal Nord Waziristan al Belucistan (infiammato dalla rivolta
degli indipendentisti beluci, il cui leader è stato assassinato dal regime provocando una
furibonda rivolta popolare), passando fino a Karachi, Peshawar, Islamabad e Lahore, il
Pakistan è a rischio implosione. Ecco perché Musharraf non ha ceduto alle pesanti pressioni
USA per sferrare in Nord Waziristan un’offensiva volta a distruggere le retrovie della
guerriglia talebana in Afghanistan ed anzi abbia firmato, un paio di settimane fa, un accordo
di pace con i “ribelli”. Ecco perché al collega afghano Karzai, ammettendo che taliban e alQaeda operino dall’interno del Pakistan, si è limitato ad aggiungere solo che «queste forze
non ricevono nessun appoggio dalle forze armate e di sicurezza pakistane». L’accordo
nucleare di qualche mese fa tra Washington e Nuova Delhi è stato probabilmente la goccia
che ha fatto traboccare il vaso. Musharraf rischia la propria testa se asseconda ulteriormente
i voleri di Washington, e se non cerca di alzare la posta inizia sicuramente a pensare a come
scendere a patti con le forze integraliste islamiche.
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USA / Pakistan. 23 settembre. Oltre a motivazioni di politica interna, in ambienti USA, si
ritiene altresì che Musharraf si sia voluto rivolgere all’uditorio dell’Assemblea Generale
dell’ONU, che non ha risparmiato critiche agli Stati Uniti, ed in particolare ai paesi asiatici
su cui il Pakistan non vuole perdere influenza. Se e come queste dichiarazioni produrranno
ripercussioni sui rapporti tra USA e Pakistan, si potrà forse vedere mercoledì prossimo,
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quando è previsto un incontro a tre tra Bush, Musharraf e il presidente afghano Hamid
Karzai. Per la Casa Bianca, già impegnata su più fronti, le uscite inattese di Musharraf
rischiano di essere un funesto presagio.
•
USA / Pakistan. 23 settembre. «Vi bombarderemo. Siate pronti a tornare all’età della
pietra». Alla vigilia dell’importante incontro con il presidente USA George Bush, il
presidente pakistano Pervez Musharraf ha rilasciato un’intervista alla rete statunitense CBS,
in cui accusa l’ex vice-segretario di Stato USA Richard Armitage di gravi minacce
all’indomani dell’11 settembre per arruolare il Pakistan contro i taliban. «Furono parole
insultanti e maleducate», ha commentato Musharraf, spiegando che la sua successiva
decisione di schierarsi dalla parte degli USA fu presa «nell’interesse della nazione
pachistana». Come a dire: di fronte a una simile minaccia non avevamo altra scelta.
Sorpresa e stupore a Washington. L’intervista integrale andrà in onda domenica, ma i suoi
passi essenziali sono già stati diffusi, provocando un piccolo terremoto politico nei palazzi
di Washington. Secondo quanto riferito dal generale Musharraf, Armitage avrebbe
minacciato di bombardare il Paese se non fossero state soddisfatte una serie di condizioni,
inclusa la “collaborazione” nella lotta contro taliban ed al Qaida.
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USA / Pakistan. 23 settembre. Ieri mattina, in un’intervista alla CNN, Armitage, negando
di avere minacciato l’uso della forza militare, ha però ammesso l’accesa conversazione con
il capo dei servizi segreti pakistani, il generale Mahmood Ahmad, verso cui Armitage ha
usato un tono «molto convincente». «Dissi solo che per gli americani si tratta di scegliere
tra bianco e nero, di sapere se il Pakistan è con noi o contro di noi». Richard Armitage ha
ricoperto il ruolo di vice segretario del dipartimento di Stato dal 2001 al 2005. Fino al 1975
in Vietnam, prima nella marina militare, poi all’amministrazione militare di Saigon,
Armitage iniziò la sua carriera come consulente al ministero della difesa, con specifiche
competenze per l’Oriente, trascorrendo il 1976 a Teheran ed i successivi due anni a
Bangkok. Nel 1980 Ronald Reagan lo chiamò come “Deputy Assistant Secretary of
Defense” per l’Estremo Oriente. Fino al 1993, anno in cui iniziò a dedicarsi all’attività
privata, Armitage si occupava, con vari incarichi, dei rapporti USA-Cina, di Medioriente e
“anti-terrorismo”. Tornò in politica nel 1998, come uno dei firmatari della lettera del
pensatoio “neoconservatore” Progetto per il nuovo secolo americano (PNAC) all’allora
presidente Bill Clinton per convincerlo a rovesciare il regime di Saddam Hussein. Armitage
ha lasciato la carica di vicesegretario di Stato dopo le dimissioni di Colin Powell, andando a
ricoprire dal 2006 un ruolo dirigenziale nella società petrolifera ConocoPhillips.
Recentemente fu coinvolto nello scandalo denominato “Plame affair”, in quanto sarebbe
stato lui la fonte che rivelò al giornalista del Washington Post, Bob Woodward, l’identità
CIA di Valerie Plame Wilson, coinvolto nella montatura della vendita di uranio arricchito da
parte del Niger all’Iraq, il cosiddetto “Nigergate” che concorse a montare la bufala delle
armi di distruzioni di massa di Saddam.
•
USA / Pakistan. 23 settembre. Bush si è affrettato a precisare in conferenza stampa di
essere «rimasto sorpreso» per aver letto la notizia sui giornali e colpito dal «tono duro»
delle dichiarazioni di Musharraf. Il presidente USA ha poi provato a gettare acqua sul fuoco
elogiando lo schierarsi del presidente pakistano a fianco degli USA nel «distruggere il
nemico». Tanto che nel 2001 lo Stato pachistano, trasformatosi in un alleato prezioso, invece
di venire soffocato dai tassi d’interesse sui debiti, ha goduto della remissione di buona parte
di questi mentre grandi flussi finanziari percorrevano il paese, con il governo a profittarne
per sistemare le casse dello Stato. Nel corso della conferenza dei due presidenti, Musharraf
ha però rilasciato altre dichiarazioni piccanti, rimandando all’imminente uscita di un suo
libro (25 settembre) ulteriori particolari della vicenda. In base alle indiscrezioni circolate
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sulla sua intervista alla CBS, il presidente pakistano avrebbe rivelato vicende imbarazzanti
per Washington, come l’apertura delle postazioni di frontiera con l’Afghanistan ai marines o
la richiesta della Casa Bianca a Islamabad di reprimere nel sangue ogni manifestazione antiUSA.
•
USA / Pakistan. 23 settembre. L’asse Washington-Islamabad sembra dunque vacillare. Il
discorso di Musharraf sembra avere doppia valenza: interna ed esterna. Sul fronte interno,
Musharraf sembra abbia voluto giustificare l’appoggio dato agli USA nella “lotta al
terrorismo” e farlo digerire a gran parte del paese asserendo in sintesi che “non c’era altra
scelta”. Il potere di Musharraf in patria rischia effettivamente di essere giunto al tramonto.
Gli ex premier pachistani in esilio e precedenti avversari politici Benazir Bhutto e Nawaz
Sharif –quest’ultimo rovesciato nel 1999 dal golpe militare dell’attuale presidente– hanno
firmato a Londra nel maggio 2006 una “Carta per la democrazia” per sfidare Musharraf alle
elezioni del prossimo anno. Una sfida teorica, al momento, dato che ai due politici è
interdetto il rientro in patria, pena l’arresto immediato, anche se potrebbero tornare in auge
nel momento che Washington decidesse di voler scaricare Musharraf. Ma ben altra sembra
al momento l’ipotesi che inquieta il presidente pakistano: una rivoluzione interna ad opera
dei taliban, dei movimenti integralisti d’opposizione e di settori dell’esercito e dei servizi
segreti dell’ISI.
•
Libano. 23 settembre. Completato l’arrivo in Libano dei primi 5.000 soldati. I libanesi non
si fidano e si rifiutano di affittare terreni ed edifici alle forze dell’ONU.
•
Israele. 23 settembre. L’arsenale israeliano al tavolo dell’AIEA. Venezuela, Cuba e
Malaysia hanno unito le proprie firme a quelle dei paesi arabi, Iran e Indonesia per
presentare davanti all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AEIA) una risoluzione
contro la minaccia dell’arsenale nucleare di Israele. Mijail Wehbe, rappresentante della Lega
Araba all’AIEA, nel presentare ieri in forma ufficiale il progetto di risoluzione, ha
sottolineato che come firmatari «non comprendiamo la logica» per la quale l’ONU esercita
pressioni sull’Iran per le sue attività nucleari (civili, giacché di utilizzo militare non vi è
traccia, ndr) e lascia via libera ad Israele (che ha oltre 200 testate nucleari atomiche).
«Questa decisione figura all’ordine del giorno» dell’Assemblea Generale dell’AIEA, ha
confermato ieri a Vienna un diplomatico di questa istituzione.
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Euskal Herria. 24 settembre. ETA annuncia che non abbandonerà le armi prima
dell’indipendenza. È il contenuto di un comunicato diffuso a Bilbo (Bilbao). Lo stesso breve
testo era stato letto ieri notte da tre militanti dell’organizzazione clandestina apparsi, con il
volto coperto e armati di fucili automatici, in un bosco nella provincia di Gipuzkoa, nel
corso di un omaggio popolare ai combattenti baschi «morti in tutte le battaglie». I circa
1500 presenti alla commemorazione, organizzata come ogni anno nella località di Aritxulegi
(Oiartzun), a pochi chilometri da Donostia-San Sebastian, hanno accolto i tre incappucciati
con una vera e propria ovazione. Poco prima 218 ragazzi e ragazze, che indossavano tutti
una maglietta nera con una stella rossa, avevano sfilato davanti ai convenuti per ricordare gli
altrettanti combattenti morti dal 1959 ad oggi. Nel documento ETA conferma l’impegno a
«continuare a lottare fermamente, armi in pugno, fino a ottenere l’indipendenza e il
socialismo per il Paese Basco».
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Euskal Herria. 24 settembre. Alcuni tra i presenti alla commemorazione nel bosco di
Aritxulegi ritengono che «malgrado la decisione di conservare le armi, ETA non rinuncia al
cessate il fuoco permanente (proclamato il 22 marzo scorso, ndr), né a negoziare con il
governo spagnolo» una soluzione politica in un processo di pace, che pure attraversa una
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grave crisi. Più volte in questi mesi il governo di Madrid è stato accusato di averlo
praticamente bloccato, continuando la repressione contro movimenti sociali e politici della
sinistra indipendentista. Non solo. In questi sei mesi Madrid e Parigi hanno bloccato ogni
progresso dell’agenda del negoziato: non è iniziato il rimpatrio dei circa 800 prigionieri
politici, non è stata abolita o abrogata la Ley de Partidos che mette fuori legge la sinistra
indipendentista, continuano i processi politici, le aggressioni, le proibizioni a manifestare, le
morti sospette nelle carceri. Che la situazione sia difficile lo mostra anche l’improvvisa
recrudescenza della kale borroka (la guerriglia urbana). Dopo mesi di calma pressoché
totale, nell’ultimo fine settimana sono stati numerosi gli attacchi incendiari contro sedi delle
autorità, della magistratura e delle Ferrovie del governo autonomo in numerose località delle
province basche. Di fronte all’immobilismo del governo socialista, l’organizzazione
clandestina tiene a ricordare alla propria base sociale (e naturalmente alle controparti) che
risultati concreti potranno essere ottenuti solo mantenendo alti il conflitto e la mobilitazione.
Lo afferma esplicitamente un passaggio del comunicato: «Questo giorno deve servire a
rafforzare la lotta di oggi e di domani. Nella via che si è aperta, nessuno ci offrirà alcunché.
L’opportunità di ottenere la libertà del Paese Basco è nelle mani di ognuno di noi».
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Gran Bretagna. 24 settembre. Alcuni paesi dove il rispetto dei diritti umani è spesso
calpestato sono i mercati ideali per l’esportazione di armi dalla Gran Bretagna. Lo sostiene
un rapporto confidenziale commissionato dal ministero della Difesa britannico alla Defense
Export Services Organization (Deso), di cui ha avuto una copia il settimanale The Observer.
Libia e Iraq –sostiene il rapporto– sono «mercati prioritari», così come la Colombia e il
Kazakhstan, paesi spesso criticati per le violazioni dei diritti umani.
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Iran / USA. 24 settembre. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto oggi che
il suo governo è pronto a mettere «tutto» sul tavolo dei negoziati se i membri del governo
USA che mirano a un cambiamento di regime in Iran rinunceranno a questo obiettivo. «Se
cambiano il loro comportamento, è possibile parlare di tutto», ha dichiarato il presidente
iraniano al Washington Post. «Sono l’atteggiamento e l’approccio di certi politi americani
che guastano tutto», ha aggiunto. Gli USA premono per sanzioni contro l’Iran dopo il rifiuto
di Teheran a una richiesta del Consiglio di Sicurezza ONU all’Iran di sospendere i
programmi di arricchimento dell’uranio.
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Iraq. 24 settembre. «La violenza in Iraq ha distrutto l’integrità e la struttura del paese. Lo
sviluppo e la ricostruzione sono rinviate e la situazione dei Diritti Umani, argomento
utilizzato dagli Stati Uniti per invadere l’Iraq, è peggiorata considerevolmente rispetto a
quel che si aveva durante il regime dell’ex presidente Saddam Hussein». È quanto sostiene
l’analista politico e professore dell’Università di Mustansiriya, Barak Ibrahim. Lui ed altri
esperti universitari sostengono che la violenza in Iraq continuerà nonostante i differenti piani
di riconciliazione proposti, giacché le azioni degli insorgenti e delle milizie sono una
risposta all’occupazione. «Se analizziamo in profondità la causa di questa violenza
scopriremo che, alla fine, la presenza nel paese delle truppe, specialmente quelle
statunitensi, ha generato la sollevazione e la perdita della pazienza dei combattenti e solo
quando (le forze d’occupazione, ndr) abbandoneranno il paese, potremo cominciare a
parlare di miglioramenti nell’ambito della sicurezza», ha aggiunto Ibrahim.
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Bolivia. 24 settembre. Freno alla nazionalizzazione? Il nuovo ministro degli Idrocarburi,
Carlos Villegas, economista e fino a qualche giorno fa ministro della pianificazione, ha
sospeso temporaneamente il provvedimento che nazionalizzava raffinerie e commercio degli
idrocarburi liquidi attualmente controllati dalla brasiliana Petrobras. «Le risorse di cui conta
Ypfb (la compagnia statale che avrebbe dovuto assumere la gestione di queste attività) sono
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insufficienti», sostiene il ministro. Il provvedimento di nazionalizzazione, ora sospeso, era
stato varato giorni fa dal ministro Andrés Soliz Rada, un vecchio militante della sinistra
nazionalista, con la risoluzione ministeriale 207/2006 che colpiva direttamente la brasiliana
Petrobras. Questa ha investimenti in Bolivia pari a 1.1 miliardi di dollari, controlla il 46%
delle riserve accertate e probabili di gas e il 39.5% di quelle del petrolio. La decisione aveva
suscitato la dura reazione di Lula ed il successivo passo indietro di Morales. Quindi le
polemiche dimissioni a metà settembre di Soliz: «Qui qualcuno vuole nazionalizzare solo a
parole. All’interno dell’esecutivo c’è una continua lotta per l’applicazione del decreto (del
primo maggio scorso, giorno in cui Morales annunciò di avere decretato la
nazionalizzazione degli idrocarburi)». Lula, in una campagna elettorale giunta alle ultime
battute, sta subendo gli attacchi dell’opposizione che lo accusa di non difendere gli interessi
nazionali. Secondo molti osservatori esiste un accordo ad alto livello: Morales si sarebbe
impegnato con Lula a non prendere iniziative che possano risultare controproducenti per la
possibile rielezione del presidente brasiliano. La mancanza di fiuto politico, sostengono vari
analisti, avrebbe segnato la sorte di Soliz, che pure gode dell’appoggio di gran parte della
società boliviana, specie fra i campesinos, nella sua difesa delle risorse naturali del paese.
Resta da vedere se, superato lo scoglio del voto brasiliano con la probabile vittoria di Lula, il
governo di La Paz tornerà sui suoi passi o continuerà sulla strada della «moderazione».
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Bolivia. 24 settembre. Impantanamento sull’Assemblea costituente. A rischio il prestigio di
chi intende dotare la Bolivia di una nuova costituzione per una seconda repubblica «postcoloniale».
A Sucre, la capitale amministrativa, l’Assemblea costituente continua ad essere paralizzata
tra il blocco conservatore, che esige che gli articoli della nuova costituzione siano approvati
con la maggioranza dei due terzi (come è scritto nelle legge di convocazione della stessa
Costituente) ed il governo, che sostiene che quella maggioranza qualificata conferisce alla
destra un potere di veto e ribatte che i due terzi devono valere solo per il testo finale della
nuova costituzione. Nel caso non sia raggiunto il quorum dopo tre votazioni, sostiene
sempre il governo, la palla dovrebbe passare a un referendum popolare. Un altro punto di
conflitto è il carattere della costituente. La destra vuole che sia subordinata all’ordine
costituzionale vigente dal momento che teme «il revanscismo indigeno», la sinistra che sia
«plenipotenziaria». Nei giorni scorsi, contadini e indigeni hanno formato blocchi stradali ad
impedire il transito tra Santa Cruz e Cochabamba: non intendono accettare ritardi nella
riforma agraria e nemmeno un ritorno alla maggioranza dei due terzi per l’approvazione dei
singoli articoli della nuova Costituzione. Questa mobilitazione dei settori popolari è stata
una risposta agli attacchi contro il governo Morales portati avanti dai comitati civici della
cosiddetta media luna e dall’alleanza conservatrice Podemos. Presiedendo a Warisata
(dipartimento di La Paz) le cerimonie in ricordo dei caduti della cosiddetta “guerra del gas”
del settembre 2003, il vicepresidente García Linera ha polemizzato con le spinte
secessioniste delle regioni orientali: «abbiamo difeso il gas per la Bolivia, perché è di tutti,
non di un solo dipartimento. I nostri nonni lo hanno difeso. Aymara e Quechua sono morti
per il gas. Ora nel 2006 potranno morire altri 50mila di noi Aymara e Quechua, se
necessario, per difendere il nostro gas, il nostro petrolio e le nostre risorse naturali».
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Germania. 25 settembre. Liberali pronti ad una coalizione con socialdemocratici e Verdi.
Trema Angela Merkel e la CDU-CSU, in calo negli indici di gradimento soprattutto per gli
inasprimenti fiscali intrapresi, IVA tra tutti. In un’intervista a Der Spiegel il numero due del
FDP, Rainer Bruderle, ha detto che i liberali giudicano positivamente una serie di
cambiamenti intervenuti in casa socialdemocratica e quindi la partecipazione dei liberali a
un governo guidato da un cancelliere socialdemocratico rientra tra le possibili ipotesi.
Assenso da parte del SPD. In un’intervista al Bild am Sonntag, Ulrich Kelber,
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vicepresidente del gruppo parlamentare socialdemocratico, ha dichiarato che l’obiettivo del
suo partito è il successo della “Grande Coalizione”, ma se ciò non sarà possibile i
socialdemocratici dovranno prendere in considerazione altre strade e «le aperture dei
liberali sono un passo giusto nella direzione giusta». I Verdi, la cui presenza sarebbe
necessaria per una nuova maggioranza, per il momento si sono limitati a dire che loro
escludono a priori alleanze con un solo partito, il Partito di sinistra di Lafontaine e dei
neocomunisti. E tanto è bastato ai commentatori per rilanciare ipotesi di coalizione rosso,
gialla e verde.
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Afghanistan. 25 settembre. Non si trovano più soldati della NATO per fare fronte
all’escalation militare in Afghanistan. Lo ha dovuto ammettere il portavoce dell’Alleanza,
James Appathurai. All’inizio di settembre il capo delle operazioni NATO, James Jones,
aveva chiesto urgentemente 2.500 uomini da inviare nel sud del paese in cui la forza
multinazionale ISAF (guidata dalla NATO) è stata recentemente dispiegata e dove la
guerriglia si sta rivelando più forte del previsto.
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Pakistan / USA. 25 settembre. Nella sua autobiografia Musharraf denuncia le pressanti
richieste di Washington dopo gli attacchi dell’11 settembre per l’uso di basi navali,
aeroporti, attraversamento dello spazio aereo. «Ci sarebbe stata una reazione violenta e
collerica se non avessimo sostenuto gli USA», si legge in un passaggio del libro. «La
domanda era: se non ci uniamo a loro, abbiamo il potere di confrontarci con loro e di
sostenere un assalto? La risposta è no», ha affermato Musharraf che precisa di non aver
dato comunque carta bianca agli Stati Uniti.
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Pakistan / USA. 25 settembre. Musharraf, intervistato dalla CBS, ha anche difeso il suo
Paese dopo le voci di un complotto scatenato da un black-out, che ha oscurato tutto il Paese
mentre il presidente si trovava negli USA, per rovesciare il governo di Islamabad. «Non ha
senso. Grazie a Dio noi non siamo una repubblica delle banane, dove all’improvviso
accadono queste cose», ha detto Musharraf.
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Pakistan / USA. 25 settembre. Musharraf, la CIA ci ha dato milioni. Il servizio segreto
USA ha versato in segreto milioni di dollari al governo del Pakistan in cambio della
consegna di oltre 369 sospetti militanti di al-Qaeda. Lo sostiene il presidente pakistano,
Pervez Musharraf, in “Sulla linea del fuoco: un’autobiografia”, della quale The Times
pubblica oggi un primo estratto. Imprecisata la somma versata dall’agenzia di intelligence
statunitense. «Ricompense del genere», nota il giornale britannico, «sono vietate dalla legge
americana». Sulla vicenda è intervenuto il dipartimento di Giustizia USA. «Non sapevamo
nulla. Non dovrebbe accadere. Ricompense simili possono essere versate a privati cittadini
che offrono un contributo per rintracciare terroristi che figurano nella lista nera dell’Fbi,
non a governi stranieri». Stizza alla CIA, che non ha voluto fornire indicazioni. «Non siamo
disposti a parlare dei nostri rapporti con leader internazionali» si legge in un comunicato.
«Non ci saremmo aspettati», ha aggiunto un dirigente dell’agenzia, «che fosse qualcuno di
loro a farlo».
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Iraq / USA. 25 settembre. Una presenza militare indefinita degli Stati Uniti nel paese. È
quanto richiede il presidente iracheno fantoccio, Jalal Talabani, in un’intervista al
Washington Post e a Newsweek, all’indomani della diffusione di un rapporto
dell’intelligence statunitense secondo cui la guerra in Iraq ha avuto pessime conseguenze
sulla «lotta al terrorismo». Almeno 10mila soldati USA e due basi aeree, specifica e, senza
sprezzo del ridicolo, aggiunge: per impedire «ingerenze straniere».
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•
Iraq / USA. 25 settembre. Il capo di stato maggiore dell’esercito USA blocca l’iter per la
messa a punto del budget del 2008 dell’U.S. Army, sostenendo che senza maggiori
finanziamenti non è possibile mantenere una presenza militare come quella che hanno oggi
gli USA in Iraq.
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Iraq. 25 settembre. Gli attacchi contro le forze della coalizione e le forze irachene sono
aumentate del 23% dal 2004 al 2005. Da gennaio a luglio del 2006 sono aumentati del 57%
rispetto allo stesso periodo del 2005. Lo sostiene l’agenzia statunitense Gao, che cita il
Pentagono. Un grafico del rapporto è ancora più esplicito: gli attacchi sono saliti da 100 nel
maggio del 2003 (all’inizio della resistenza all’occupazione, ndr) ai circa 4.500 del luglio
2006. Il rapporto non prende in considerazione il maggiore fallimento degli Stati Uniti in
Iraq: la forte influenza esercitata dagli iraniani.
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Iran. 25 settembre. La Guida suprema, Seyyed Ali Khamenei ha garantito al premier
iracheno Nuri al Maliki l’aiuto ed il sostegno dell’Iran ma sottolineando che l’occupazione
deve finire.
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Palestina. 25 settembre. Abu Mazen, per rilascio Barghuti e Saadat in scambio. Tra i
prigionieri di cui chiedere il rilascio in un scambio con Israele per il soldato catturato dai
palestinesi dovrebbero figurare Marwan Barghuti e Ahmed Saadat, due dirigenti di primo
piano attualmente detenuti nello stato ebraico «in quanto fanno parte di coloro che sono
stati arrestati ingiustamente». Lo ha detto ieri in una intervista alla Tv satellitare egiziana
Mehouar, il presidente palestinese Abu Mazen. Il governo egiziano sta facendo da mediatore
per giungere a un accordo che comporti il rilascio di Gilad Shalit, il militare catturato da
Hamas il 25 giugno scorso, e di prigionieri palestinesi. Barghuti è un dirigente molto
popolare di Fatah, il movimento di Abu Mazen. È considerato uno degli ispiratori della
seconda Intifada ed è detenuto dal 2002 in Israele, dove sta scontando una condanna a
cinque ergastoli. Ahmed Saadat è il leader del FPLP, il Fronte Popolare di Liberazione della
Palestina, oltre che deputato del parlamento palestinese. È stato catturato lo scorso marzo
dal’esercito israeliano in un raid contro il carcere di Gerico, in Cisgiordania, dove era
detenuto. È accusato tra l’altro di aver attentato alla sicurezza di Israele. Secondo il
quotidiano palestinese Al-Ayyam, Hamas chiede che nello scambio, oltre a Barghuti e
Saadat, siano inseriti anche tutti gli attivisti del movimento arrestati da Israele dopo la
cattura di Shalit.
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Palestina. 25 settembre. «Il presidente Abu Mazen non può sciogliere il Parlamento. Non
c’è una base costituzionale per un simile passo». Lo sostiene il movimento di resistenza
palestinese Hamas. Diversi dirigenti di Fatah, il partito di Abu Mazen, premono perché si
sciolgano governo e parlamento se le trattative per un governo di unità nazionale restano
bloccate. Nei giorni scorsi il primo ministro palestinese, Ismail Haniyeh, ha avvertito che
non presiederà un governo che riconosca Israele, smentendo dichiarazioni contrarie fatte dal
presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen),
all’Assemblea Generale dell’ONU, riferite ad un possibile governo di unità nazionale
Hamas-Al Fatah. Haniyeh ha assicurato che Hamas è disposto a stabilire uno Stato
palestinese in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, zone occupate da Israele nel 1967, e
ad accordare una tregua di lunga durata con Israele.
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USA. 25 settembre. Affermazioni shock. Le conclusioni del documento elaborato sulla base
di informazioni e conclusioni delle sedici diverse agenzie di spionaggio del governo USA, il
National Intelligence Estimate (NIE), completato dopo due anni di lavori e pubblicato oggi
dalla grande stampa statunitense, secondo cui l’invasione dell’Iraq ha peggiorato la
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«minaccia terroristica», fanno discutere. Rappresentano «solo una parte» delle conclusioni
del rapporto, ha commentato seccato il capo dell’intelligence USA, ambasciatore John
Negroponte, in una dichiarazione pubblicata ieri sera. Questo tipo di documenti (il National
Intelligence Estimate) viene prodotto in genere quando il Paese si trova davanti a crisi o
problemi particolarmente gravi e si vuole averne una visione d’insieme. Sono testi ritenuti,
in genere, molto seri e attendibili, i più autorevoli dei servizi d’intelligence USA sulle
questioni di sicurezza. Per essere inviati all’amministrazione devono avere il via libera del
direttore nazionale dell’intelligence, che attualmente è John Negroponte. Quest’ultimo NIE,
pronto già da aprile, solo ora trapela sui giornali, quando siamo a ridosso delle elezioni
politiche di novembre, nelle quali verrà rinnovata la Camera, un terzo del Senato e 36
governatorati.
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Corsica. 26 settembre. Banche francesi sotto attacco. Tre succursali bancarie (Crédit
Lyonnais, Caisse d’Epargne e Banque Populaire) a Propiano, sud dell’isola, sono state
danneggiate per altrettanti attentati avvenuti pressoché simultaneamente.
•
Somalia. 26 settembre. Dopo che le corti islamiche, due giorni fa, hanno conquistato la
città di Kisimayo, circa 500 chilometri a sud di Mogadiscio le truppe di Addis Abeba
sarebbero in marcia verso Baioda, sede del governo provvisorio somalo. La notizia, frutto di
diverse testimonianze, è stata smentita dalle autorità governative. Secondo il responsabile
alla difesa delle corti islamiche, Yusuf Mohamed Siad, i soldati etiopi sarebbero già giunti a
Baidoa. «Sono almeno 300», ha affermato Siad, «e hanno armi pesanti e carri armati. Il
loro è un atto di aggressione».
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Russia / Iran. 26 settembre. Mosca sta negoziando la vendita all’Iran di sistemi antiaerei
per proteggere la centrale nucleare di Bushehr da eventuali attacchi aerei israeliani o
statunitensi. Le rivelazioni sulle offerte russe di proteggere i siti atomici iraniani vengono
dal Middle East Newsline. Citando «fonti diplomatiche industriali» russe, il sito elettronico
informa che i contratti dovrebbero essere legati all’entrata in produzione dell’intera centrale
nucleare iraniana, probabilmente nella seconda metà dell’anno prossimo. «La Russia ha già
installato attorno a Bushehr batterie di missili Sam (terra-aria, ndr) e ha in loco suoi tecnici.
I colloqui in corso riguardano una sorta di ombrello missilistico per proteggere tutti i siti
strategici dell’Iran», afferma il sito. Nel novembre 2005, la Russia ha raggiunto un accordo
per la vendita all’Iran di 29 TOR-M1, sistemi missilistici antiaerei di corto raggio. Le fonti
citate dal sito riferiscono di un probabile acqusito da parte dell’Iran del sistema S-300PMU
di missili SAM, capace di rilevare e intercettare aerei nemici a una distanza variabile tra 300
e 150 chilometri di distanza.
•
Russia / Iran. 26 settembre. Il reattore nucleare di Bushehr dovrebbe essere completato
entro sei mesi, stando alle dichiarazioni del capo dell’agenzia nucleare iraniana, Ghomreza
Aghazadeh, che è giunto a Mosca per definire con le autorità russe il calendario della messa
in opera dell’impianto principale del programma nucleare iraniano. «La Russia si è
impegnata formalmente a rispettare i tempi entro i quali consegnerà il combustibile, anche
se non lo ha ancora fatto», ha affermato il responsabile del settore nucleare iraniano.
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Libano / Israele. 26 settembre. Bulldozer israeliani stanno facendo “tabula rasa” della
fascia di territorio libanese a ridosso del confine israeliano, allontanando con minacce
allevatori, pastori e contadini della zona. Lo denunciano fonti locali e agenzie internazionali.
Non solo. Tecnici israeliani protetti dai militari stanno impiantando tubature per deviare in
tutto o in parte le acque del fiume Wazzani (che scorre in territorio libanese) verso il
territorio israeliano. Le acque di questo fiume (a sud del più noto fiume Litani) sono da
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tempo al centro delle minacce delle autorità di Tel Aviv contro il Libano. Quattro anni fa si
rischiò una crisi molto grave con esplicite minacce israeliane di bombardamenti qualora i
libanesi avessero effettuato lavori di intubazione delle acque del fiume. Questo saccheggio
di risorse e di violazione dei confini libanesi sta avvenendo sotto gli occhi dei militari del
contingente Unifil che si sono limitati a fare rapporto come fossero dei vigili urbani. Il
Comitato nazionale per il ritiro dei militari italiani ricorda che dal 2000 (anno della cacciata
dal Libano del Sud di Israele ad opera di Hezbollah) a prima dell’ultima aggressione sionista
di metà luglio scorso, sono state circa 17.000 le violazioni del confine da parte di Israele e
quelle dal 1978 in poi sono avvenute sempre sotto gli occhi inerti degli osservatori
dell’ONU. La presenza militare dell’Unifil non sta impedendo le violazioni israeliane, ma –
di fatto– ha impedito l’intervento della resistenza libanese che in altre occasioni ha
neutralizzato operazioni israeliane analoghe. Si conferma così che il risultato sul campo
della missione Unifil si rivela quello di “legare le mani” alla resistenza libanese piuttosto
che di impedire le violazioni del cessate del fuoco e della sovranità nazionale del Libano da
parte israeliana.
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Libano. 26 settembre. Washington lamenta: «Troppi limiti alla missione ONU» in Libano.
«Così non si protegge la frontiera con Israele e non si riducono le capacità offensive di
Hezbollah». Tutto nasce da un’inchiesta del New York Times con interviste a ufficiali del
contingente italiano, circa mille uomini sui 5mila dell’Unifil, schierato nella zona di Tibnin.
Nell’articolo si attribuisce a non meglio specificati esponenti della forza internazionale in
Libano la considerazione che «la loro missione è definita più da quello che non possono
fare che da quello che possono» e tra le cose non autorizzate si cita l’organizzazione di
check-point, la perquisizione delle auto, delle case e degli uffici, il fermo di persone
sospette. Il colonnello Rosario Walter Guerrisi, comandante del reggimento San Marco,
spiega: «consiglieremo, aiuteremo ed assisteremo le forze libanesi», riferendosi all’esercito
del Libano, mentre il tenente colonnello Stefano Cappellaro, sempre del San Marco, sostiene
che «c’è molta incomprensione su quello che stiamo facendo qui».
•
Israele / Palestina. 26 settembre. «In Palestina pulizia etnica». «Gaza è una prigione e
Israele sembra aver buttato via le chiavi». La vita di 1.4 milioni di cittadini palestinesi nella
Striscia di Gaza è «intollerabile, spaventosa, tragica». «Israele vìola la legge internazionale
e rimane impunito. Il popolo palestinese viene punito per avere eletto democraticamente un
governo inaccettabile per Israele, Stati Uniti e Unione Europea». Il relatore speciale
dell’ONU per i territori palestinesi, John Dugard, sudafricano, responsabilizza
l’organizzazione cui appartiene della crisi umanitaria che soffrono i palestinesi. Dugard ha
aggiunto che, come membro del Quartetto (formato da USA, UE, ONU e Russia), l’ONU
«si è reso parte dell’imposizione di sanzioni contro il popolo palestinese (dopo il trionfo
elettorale di Hamas alle elezioni dello scorso gennaio, ndr)». Dugard ha presentato ieri a
Ginevra un dossier che analizza le condizioni di vita nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Secondo il documento, a Gaza, dopo il rapimento del caporale israeliano verificatosi nel
giugno scorso, «la gente è soggetta a continui bombardamenti ed incursioni militari in cui
oltre 100 civili sono stati uccisi ed altre centinaia feriti (...). Quel che Israele ha deciso di
presentare come danni collaterali sulla popolazione civile, nei fatti sono assassinii
indiscriminati proibiti dal diritto internazionale». In Cisgiordania «coloro che vivono lungo
il Muro di Sicurezza non possono avere libero accesso agli ospedali, scuole, posti di lavoro
e alle fattorie nella zona chiusa senza permesso». Poiché spesso i permessi vengono negati,
molti hanno deciso di abbandonare le terre, divenendo «sfollati interni». Secondo Dugard,
«in altri paesi tale processo potrebbe essere descritto quale pulizia etnica. Ma la
correttezza politica proibisce un tale linguaggio quando si tratta di Israele».
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•
Cina. 26 settembre. Il Politburo del PCC licenzia, con l’accusa di malversazione e
corruzione, Chen Liangyu, segretario del Partito a Shanghai, roccaforte dell’ex presidente
Jiang Zemin. Caso «esemplare» ma anche resa dei conti. Chen Liangyu, 59 anni, era stato
uno degli uomini più potenti della Cina fino a domenica pomeriggio, fino a quando cioè il
suo regno è stato abbattuto. Insieme a Shanghai, l’ex boss perde anche il posto nel Politburo
e nel Comitato centrale del Partito Comunista Cinese (PCC). Ora è agli arresti domiciliari
con l’accusa di avere avuto un ruolo di primo piano nello scandalo dei fondi pensione
investiti illegalmente in speculazioni immobiliari e dubbi progetti infrastrutturali, scandalo
per il quale erano già finiti in carcere una mezza dozzina di funzionari pubblici e molti
speculatori locali. Accuse collaterali contro Chen: aver favorito interessi economici illegali e
aver protetto gente del proprio staff che aveva gravemente violato la legge.
•
Cina. 26 settembre. Le partite in corso sono due, secondo molti analisti. La prima è quella
della corruzione dei funzionari di partito e dei governanti locali. Il leader massimo, Hu
Jintao, da mesi aveva lanciato l’avvertimento: ne va della sopravvivenza del partito e non
transigerò. Ma ancora una volta la mannaia è selettiva e se ad essere colpito è un uomo tra i
più potenti mai toccati negli ultimi 10 anni (e di sicuro il primo abbattuto dalla nuova
leadership) è anche vero che si tratta di un «nemico», di un appartenente alla «banda di
Shanghai» capeggiata da Jiang Zemin, l’ultimo potente della Terza generazione che non
avrebbe voluto andarsene davvero e ancora cerca di controllare le leve. Avere lo scalpo
dell’uomo che ne controllava la roccaforte è una vittoria doppia.
•
Cina. 26 settembre. Il cosiddetto «Gruppo di Shangai» è un gruppo di pressione difensore
della liberalizzazione economica selvaggia acutizzata ai tempi di Zemin, in una sorta di
alleanza tra potere e capitale, a convertire i dirigenti comunisti in nuovi ricchi e gli
imprenditori in dirigenti comunisti. Il nuovo governo cinese guidato da Hu Jintao, viceversa,
punta a porre un freno alla «crescita insostenibile» e alla speculazione, oltre che a
promuovere una politica contro i crescenti squilibri tra ricchi e poveri e province della costa
e dell’interno, senza dimenticare la lotta contro la corruzione. Hu Jintao sta preparando già
lo scenario per il XVII congresso del PCC, che avrà luogo l’anno prossimo, e lo fa
debilitando il «Gruppo di Shangai». Non si escludono operazioni analoghe contro dirigenti
di altri centri di potere regionale, come nel caso dell’industriosa Canton.
•
Italia / Libano. 27 settembre. Farsa libanese alla Camera. Via libera bipartisan alla
missione internazionale. Il centrodestra presenta un ordine del giorno che equipara il Libano
all’Iraq (senza nominarlo). D’Alema approva a nome del governo. Fini e Casini rivendicano
felici «la continuità della politica estera della Casa della Libertà». La sinistra pacifista si
avvita e riesce solo a dirsi «perplessa». Franco Giordano (PRC) cerca di scusarsi dicendo
che forse non aveva capito bene quel che stava succedendo. Con la decisione di inviare le
truppe, con mandato ONU, sul tormentato confine con Israele, il parlamento ha finito per
approvare anche l’intera politica estera, di guerra, del governo Berlusconi. Ovvero, per
citare l’ordine del giorno del centrodestra, accolto con gran sorrisi da Massimo D’Alema,
«lo spirito umanitario e di pace nelle missioni internazionali, sempre in linea con l’articolo
11 della Costituzione». Tutte assieme, Iraq compreso. Fini esprime la sua «personale
soddisfazione» e subito passa a sfottere «coloro che sostenevano che il governo di
centrodestra violava la Costituzione». Adesso, conclude infilando il coltello nella piaga,
«come ha detto D’Alema, si sbagliavano». Casini gongola con i giornalisti: «questo
governo, nell’atto del Libano, conferma la continuità con i governi precedenti». I più vicini
al mondo pacifista, come Rifondazione, riescono soltanto ad attorcigliarsi in ragionamenti
impossibili. Ramon Mantovani spiega che in fondo «gli ordini del giorno impegnano solo
per i dispositivi (l’apprezzamento delle forze armate, ndr) e non per le loro premesse».
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Franco Giordano riesce a dire sia sì che no. «L’intervento di Fini ha chiarito quanto era
sottointeso a quell’ordine del giorno» si indispettisce nel suo intervento il segretario del
PRC. Per aggiungere poi criptico «Per questo abbiamo pensato non essere opportuno quel
parere favorevole». Qualcosa di più viene dal verde Cento, che si dice «perplesso» e ci tiene
a ricordare che «le missioni non sono tutte uguali». La Lega è stata l’unica a votare contro la
missione in Libano.
•
Montenegro. 27 settembre. Gli USA sono pronti ad inviare a Podgorica propri esperti per
riorganizzare e addestrare l’esercito locale e inoltre sono «disponibili ad appoggiare le
aspirazioni del Montenegro all’integrazione nella NATO». Lo ha detto il capo del
Pentagono, Donald Rumsfeld incontrando ieri le più alte autorità del neo Stato indipendente
del Montenegro. Il primo ministro montenegrino Djukanovic si è detto pronto a stipulare un
accordo per «sostenere la coalizione guidata dagli USA nella lotta contro il terrorismo».
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Polonia. 27 settembre. Scandalo a Varsavia. Il primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski
è finito duramente sotto accusa dall’opposizione che ne chiede le dimissioni. Il canale
televisivo privato TVN 24 ha mostrato le immagini di due colloqui, che sarebbero avvenuti
negli ultimi cinque giorni, tra il vice presidente del PiS (“Legge e Giustizia”) di Kaczynski,
Adam Lipinski, il ministro presso la cancelleria del primo ministro, Wojciech Mojzesowicz,
e la deputata di Samoobrona (“Autodifesa”), Renata Beger, in cui si discuteva il passaggio
della deputata nel partito di governo. «Ti interessa il posto di segretario di Stato al
ministero dell’Agricoltura? Non è un problema, lo sai», ha affermato Lipinski durante il
primo incontro. Nel secondo Beger chiede a Lipinski quale sarebbe la contropartita nel caso
deputati di Autodifesa scegliessero di lasciare il loro partito per unirsi al PiS. «Pensavamo di
creare un fondo», risponde Lipinski che poi ai microfoni della TVN si è giustificato:
«vogliamo solo evitare che quei deputati vengano minacciati». Wojciech Mojzesowicz
avrebbe proposto di pagare con fondi parlamentari, ovvero con denaro pubblico, la penale di
500 mila zloty (126.200 euro) imposta da “Samoobrona” a tutti i parlamentari che decidano
di abbandonare prima della fine della legislatura il partito.
•
Polonia. 27 settembre. La mossa del PiS si spiega con la decisione di Kaczinsky di
destituire Andrzej Lepper dall’incarico di vicepremier e ministro dell’agricoltura per i
disaccordi sulla legge finanziaria e la decisione di inviare mille soldati in Afghanistan.
Venendo a mancare una maggioranza parlamentare, non raggiungibile neppure con
l’ingresso nel governo del partito dei grandi contadini (il PSL, con cui si arriverebbe a 198
deputati contro i 206 necessari), gli esponenti del PiS hanno cercato altre “soluzioni” per
allargare la maggioranza parlamentare. Forti e prevedibili le reazioni del mondo politico. Gli
esponenti del PiS si sono dichiarati totalmente innocenti e hanno ribadito che Kaczynski
non si dimetterà. «Si tratta di una provocazione politica con la quale l’opposizione vuole
fermare il processo di risanamento del paese da noi iniziato», ha rilanciato Lipinski in
conferenza stampa auspicando la nomina di una commissione d’indagine parlamentare sul
caso. Il filmato è stato invece denunciato dall’opposizione come la prova della corruzione
diffusa all’interno del PiS, che proprio sulla lotta a questa piaga aveva costruito le sue
fortune elettorali. Donald Tusk, leader del partito ultraliberista Piattaforma civica (PO), ha
accusato il governo di corruzione e ha chiesto le dimissioni del premier e lo scioglimento del
Parlamento. Il PSL fa sapere di «non avere più niente di cui parlare con il partito dei
Kaczynski»: parole pesanti che lasciano intravedere sempre più da vicino la possibilità di un
ritorno anticipato alle urne. Samoobrona e la Beger, sottolineando la gravità delle rivelazioni
del video, non hanno nascosto la soddisfazione per aver procurato un danno enorme
all’immagine del partito dei Kaczynski. Le immagini sarebbero infatti state girate con la
complicità della parlamentare di Samoobrona che indossava una telecamera nascosta.
33
•
Russia. 27 settembre. Minacce e rassicurazioni. La Russia tiene sulle spine le grandi
compagnie energetiche straniere impegnate nella costruzione di mega-impianti per
l’estrazione di petrolio e gas in Siberia e nella regione Artica anche adducendo reali
problematiche ambientali. Il presidente Putin ha chiesto al suo governo il varo di misure
coercitive nei confronti delle aziende che non rispettano i contratti stipulati con Mosca. Il
ministro per le risorse naturali Troutnev gli ha fatto eco puntando il dito in particolare contro
il gruppo britannico Shell, impegnato nella costruzione del gigantesco sito sull’isola di
Shakalin che dovrebbe affiancare l’impianto già esistente sfruttato da Exxon Mobil. A
moderare i toni ci ha pensato il ministro degli esteri Lavrov, escludendo in modo categorico
un ritiro delle licenze già concesse. L’inedita sensibilità per i problemi ambientali esibita da
Moca nasconderebbe in realtà per molti osservatori il tentativo di rinegoziare i contratti
siglati negli anni Novanta.
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Russia / Georgia. 27 settembre. Torna a salire la tensione tra Russia e Georgia dopo
l’arresto di 6 ufficiali dei servizi segreti militari russi. Da ieri centinaia di agenti della polizia
georgiana circondano il quartier generale delle forze armate russe a Tbilisi dove si
nasconderebbe un altro agente. Secondo le ultime informazioni sembra che, non appena
arrestata la sesta persona, l’edificio sia stato liberato dal cordone di agenti. Lo stabile gode
dell’extratterritorialità diplomatica. «Questo non può essere considerato che un ennesimo
esempio della politica anti russa. Abbiamo chiesto di liberare i nostri concittadini e
cercheremo di ottenere il loro rilascio con ogni mezzo», ha detto il Ministro degli Esteri
russo Sergei Lavrov. Due dei presunti agenti segreti russi sono stati arrestati a Batumi, dove
ancora si trova una base militare russa: il suo smantellamento è previsto entro il 2008.
Lavrov ha anche evocato l’ipotesi di richiedere l’intervento del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU. Tbilisi accusa gli ufficiali di aver raccolto informazioni sensibili sugli armamenti
della Georgia, le attività della NATO e sulle risorse energetiche del Paese. Accuse che
peggiorano le relazioni fra i due Paesi, già tese da quando, 3 anni fa, in Georgia è salito al
potere il filo occidentale Mikhail Saakashvili.
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Afghanistan / Italia. 27 settembre. Se l’ISAF andasse via, «Kabul cadrebbe in una
settimana in mano ai taliban», ha detto il generale Gullam Jan, capo della polizia nazionale
afghana. L’ultimo rapporto degli 007 italiani sull’Afghanistan parla di «irachizzazione del
teatro afghano», sottolineando l’incremento di tecniche di guerriglia tradizionalmente
estranee alla cultura afghana, come l’azione dei kamikaze («martiri») e l’impiego di ordigni
attivati a distanza. La differenza con l’Iraq è che in Afghanistan il contingente italiano è
«molto esposto», dicono gli 007. Anzi di più, da quando la Forza d’occupazione ISAF (di
cui fanno parte gli italiani) al servizio di Washington ha iniziato l’espansione nel Sud del
Paese per avere tutto l’Afghanistan sotto il controllo della NATO. «Il salto qualitativo»
nell’attività di guerriglia è messo in atto da «taliban, cellule di ispirazione qaedista e
militanti dell’Hezb-i-Islami di Gulbuddin Hekmatyar». Intanto, corruzione e traffico di
oppio non sono mai stati così diffusi come negli ultimi cinque anni, frutto degli accordi
ufficiosi tra “signori della guerra” e Washington.
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Turchia / Kurdistan. 27 settembre. È iniziato ieri, a Diyarbakir, il processo a carico di 56
sindaci kurdi accusati di «sostegno deliberato» all’illegalizzato PKK (Partito dei Lavoratori
Kurdi). Nel dicembre 2005 gli imputati scrissero una lettera al primo ministro danese,
Rasmussen, per invitarlo a resistere alle pressioni del governo turco che aveva chiesto la
chiusura di Roj Tv, emittente vicina al PKK, che dal 2004 trasmette dalla Danimarca. Una
commissione danese, nominata per verificare l’operato della Roj Tv, ha dimostrato che i
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programmi «non contengono istigazione alla violenza», come invece aveva accusato
Ankara.
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USA. 27 settembre. La Camera degli Stati Uniti ha approvato il bilancio della difesa per
l’anno fiscale 2006/07 che comincia il primo ottobre. Stanziati tra l’altro 70 miliardi di
dollari per la “guerra al terrorismo” in Iraq e in Afghanistan. Il documento passerà ora al
Senato per poi essere firmato dal presidente Bush.
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Russia. 28 settembre. Il presidente russo Vladimir Putin non potrà candidarsi per un terzo
mandato. Lo ha stabilito la commissione elettorale centrale russa che ha bocciato ieri la
proposta di un referendum popolare sull’opportunità di permettere al capo dello Stato di
ricandidarsi per la terza volta. La commissione ha sottolineato che non si può infatti usare il
referendum come strumento per modifiche alla Costituzione in vigore, che limita la
presidenza ad un massimo di due mandati consecutivi.
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Afghanistan. 28 settembre. Jalaluddin Haqqani e Dadullah, alleati contro Karzai. Sono loro
a guidare l’offensiva che sta mettendo in difficoltà la NATO nel paese, la cui replica sta
soprattutto nei massicci bombardamenti sui villaggi. Jalaluddin Haqqani è stato ministro
delle frontiere nel governo dei taliban, pur non avendo mai aderito al movimento degli
studenti coranici. Oggi è il “capo di stato maggiore” delle milizie nel sud e nell’ovest
dell’Afghanistan. Il suo nome suscita entusiasmo tra le varie etnie del fragile mosaico
afghano e anche questo spiega la relativa facilità con cui i ribelli reclutano nuovi
combattenti. La fama di Haqqani risale al 1991, per la decisiva vittoria a Matun che spianò
la strada alla definitiva disfatta sovietica in Afghanistan. Sostiene di aver ripreso le armi al
solo scopo di cacciare dal paese «gli stranieri» così come aveva fatto con i sovietici. La sua
popolarità, conquistata sui campi di battaglia, è accresciuta dal fatto di non essere uno dei
tanti “signori della guerra” che contribuiscono alla rovina del paese. Invano improvvisi raid
aerei statunitensi ed operazioni di commando della NATO hanno cercato più volte di
eliminarlo. Lo stesso Karzai è arrivato ad offrirgli posizioni di primissimo piano nel governo
centrale (taluni parlano anche della poltrona di primo ministro) nel tentativo di spezzare la
sua alleanza con i taliban. Il figlio, Siraj, ha confermato in una recente intervista le proposte
giunte ma ha escluso che il padre sia disposto a interrompere la lotta per liberare il paese. In
ogni caso, ha aggiunto, non lo farebbe contro il parere del suo alleato, il mullah Omar, guida
suprema dei taliban.
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Afghanistan. 28 settembre. Haqqani negli ultimi mesi ha raggiunto una stretta intesa con il
comandante Mullah Dadullah che, per conto del mullah Omar, guida le operazioni dei
taliban. Ha riorganizzato migliaia di uomini grazie anche alla tregua non dichiarata con le
truppe pakistane (cominciata dopo l’accordo segreto con il governo di Islamabad voluto
dallo stesso mullah Omar), che ha consentito di spostare in Afghanistan un numero elevato
di combattenti islamici impegnati nel Waziristan. Oltre che comandante militare, Dadullah è
considerato anche un diplomatico molto abile. Ha consolidato l’intesa con uno storico
comandante della resistenza anti-sovietica e vicino a Teheran, Gulbuddin Hekmatyar, ed è
riuscito a mediare tra alcune fazioni in lotta tra loro nel sud del Paese, convincendole della
priorità del Jihad contro il governo afgano. Karzai, sostengono alcuni analisti, non lo
ammette ma Dadullah vanta molti amici nelle stesse autorità centrali, che un giorno faranno
sentire la loro voce, specie se l’offensiva lanciata da Haqqani continuerà a mettere in
difficoltà le forze della NATO.
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Libano. 28 settembre. Il vice segretario di Hezbollah, Naem Kassem, ha accusato il
governo presieduto da Fuad Siniora di aver «fallito» i suoi obiettivi. Il governo Siniora
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«non è riuscito ad ottenere alcun risultato importante (...) per questo chiediamo la
creazione di un governo di unità nazionale che sollevi il Paese dalle difficoltà che
attualmente deve affrontare a livello interno, regionale e internazionale», ha detto Kassem
citato oggi dal quotidiano Daily Star di Beirut. «Questo governo ha tentato di eliminare le
crisi e ne ha create altre», ha aggiunto Kassem accusando le forze della maggioranza di
voler «imporre la tutela americana sul Paese, monopolizzare tutte le decisioni e costruire
uno Stato debole che serva gli interessi internazionali». Pertanto, rivolto alla maggioranza,
«vi chiedo di porre fine alle interferenze internazionali negli affari libanesi» e costruire
assieme «uno Stato forte in linea con la Costituzione e con gli accordi di Taif» che nel 1990
hanno posto fine a 15 anni di guerra civile libanese.
•
Israele / Libano. 28 settembre. Niente ritiro se l’Unifil non spara. I principali punti dolenti
nei rapporti fra Israele da un lato e Unifil ed esercito libanese dall’altro sono stati elencati
dal quotidiano Haaretz di Tel Aviv. Israele, spiega il giornale, si attende che nel contesto
della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite le forze dell’Unifil e dell’esercito libanese
cerchino attivamente i depositi di razzi Hezbollah, operino fermi e perquisizioni,
requisiscano le armi dei miliziani, aprano il fuoco in caso di presenza, vicino al confine, di
militanti della resistenza ed impediscano con la forza qualsiasi manifestazione di massa sulla
linea di confine. Manifestazioni come quelle di venerdì scorso convocate dalla resistenza
islamica e dal Partito Comunista Libanese per protestare contro l’inerzia dell’ONU di fronte
al mancato ritiro israeliano dalle zone di Kfar Kila, Markaba, Blida, Maroun al Ras, Rmeish,
Ramiyeh, Marwaheen e Yarin, contro lo spostamento in alcuni punti della linea di confine,
la distruzione totale di campi e frutteti per una profondità di almeno un chilometro, i lavori
per il dirottamento delle sorgenti del Wazzani e le violazioni dello spazio aereo libanese.
Dan Halutz, capo di stato maggiore israeliano, ha avvertito che se tali manifestazioni
dovessero continuare e se le truppe dell’ONU non dovessero intervenire, i militari israeliani
apriranno il fuoco contro i dimostranti che dovessero lanciare sassi «mettendo in pericolo la
vita dei soldati» (chiusi nei loro bunker).
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Israele / Libano. 28 settembre. Israele è pronto «a rimanere in Libano tutto il tempo che
sarà necessario», se l’Unifil non dovesse accettare i diktat del governo Olmert. Lo riporta
l’edizione di ieri del quotidiano israeliano Jerusalem Post citando una fonte del ministero
della difesa. Una provocazione che ha obbligato lo stesso primo ministro libanese, Fouad
Siniora, che è notoriamente su posizioni filo-USA, a condannare senza mezzi termini la
posizione israeliana e a chiedere un immediato ritiro delle truppe di Tel Aviv anche dalle
fattorie di Sheba, enclave libanese occupata nel 1967, e il loro passaggio sotto il controllo
dell’ONU. Per tutta risposta Israele ha iniziato a costruire attorno al paese di Gajhar, diviso
in due dal confine stabilito dall’ONU, una specie di muro che ingloberà nella parte occupata
anche quella ancora sotto controllo libanese. E poi ci sono i posti di blocco che, denuncia
Beirut, le truppe israeliane presenti in territorio libanese innalzano nei villaggi nel sud del
Paese. L’arroganza di Israele si sente spalleggiata dalle pressioni di Washington e Parigi sul
governo libanese perché imponga, con l’aiuto delle forze multinazionali, il disarmo della
resistenza.
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Libano. 28 settembre. La tensione tra le forze filo-USA, filo-Parigi e filo-saudite del “14
marzo” (la Hariri Inc. le destre falangiste, il leader druso Jumblatt) e il «fronte patriottico»
che sostiene la resistenza (i partiti sciiti Amal e Hezbollah, il generale maronita Michel
Aoun, i sunniti anti-Hariri, il Partito Comunista) si acuisce di giorno in giorno e c’è chi
prospetta, dopo il Ramadan, l’uscita dal governo dei ministri sciiti. Da alcuni giorni è in atto
una gravissima crisi istituzionale per il controllo dei servizi segreti provocata dal tentativo
del ministro degli interni Ahmad Fatfat (del fronte “14 marzo”) di creare una nuova super36
agenzia di intelligence collegata ai servizi USA (sotto la copertura Unifil) che dovrebbe
utilizzare e centralizzare le banche dati della “Sicurezza Generale” guidata dal generale
Wafic Jezzini considerato vicino alla resistenza. Quest’ultimo ha respinto al mittente
l’ordine del ministro e al suo fianco è sceso subito in campo il presidente del parlamento, lo
sciita moderato Nabih Berri.
•
Giappone. 28 settembre. Tra i primi progetti del neo primo ministro Shinzo Abe figura il
riassetto dell’amministrazione sul modello USA ed ancora più stretti rapporti con il
presidente USA Bush. Lo rende noto un’analisi di Pier Luigi Zanatta dell’ANSA. Pupillo di
Yasuhiro Nakasone, che faceva vanto di essere stato il primo capo di governo giapponese ad
aver dato del “tu” al presidente statunitense Ronald Reagan, Abe aveva inserito fra le
priorità del suo esecutivo –gia prima della sua designazione– la creazione di una sorta di
Consiglio di sicurezza nazionale ricalcato su quello di Washington, nonché di un servizio
segreto ispirato alla CIA. Non sorprende così che la prima telefonata del neoeletto premier
sia avvenuta con il presidente USA George Bush. Una telefonata che ha consentito di fissare
un primo faccia a faccia il mese prossimo, a margine di un forum economico regionale in
programma in Vietnam. Abe si propone di coordinare un innovativo team di cinque
“consiglieri speciali” chiamati a occuparsi di tutte le principali questioni: dalla sicurezza alla
pubblica istruzione, dall’economia alle riforme fiscali. In particolare, per questi ultimi
settori, il neopremier si è circondato di una frotta di tecnici, che dovrebbero contribuire a
chiarire punti del programma finora alquanto nebulosi. I principali interrogativi degli
osservatori riguardano anzitutto le effettive capacità di Abe nel contemperare le influenze tra
centri politico-burocratici vecchi e nuovi, che in Giappone hanno tradizionalmente un potere
ben maggiore rispetto ai loro corrispettivi statunitensi. Conclude Zanatta: «forse in questo,
ancora più che a Nakasone o al nonno, il nazionalista Nobusuke Kishi, il nuovo primo
ministro potrebbe ispirarsi al prozio Eisaku Sato, che tra gli anni Sessanta e Settanta fu tra
i premier più vicini allo ‘stile americano’: al punto che il suo nome era scandito dai critici
“Eisak-USA-to”».
•
Colombia. 28 settembre. Oltre un milione di persone, in corteo, in 32 città. Organizzazioni
della società civile, sindacati, partiti d’opposizione si sono mobilitati contro il governo
Uribe, che intende firmare il Trattato di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti (data
prevista il 22 novembre) e contro i tagli alla sanità e all’istruzione. I progetti del governo –
ha detto la parlamentare Piedad Córdoba– mirano a «vendere la salute, privatizzare
l’istruzione, mettere all’asta le risorse naturali, bloccare lo sviluppo del paese con il TLC».
•
Afghanistan. 29 settembre. ISAF fino ai confini con il Pakistan A Portorose (Slovenia) i
vertici militari e i ministri della Difesa della NATO hanno deciso che, a partire dalle
prossime settimane, la missione ISAF (Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza) si
allargherà a tutto il territorio afgano, comprese le zone tribali dell’Est, al confine con il
Pakistan, dove hanno loro basi i taliban. Una fonte diplomatica della NATO spiega: lo esige
«la gravità della situazione nel Paese dove 140 soldati della coalizione internazionale sono
stati uccisi dall’inizio dell’anno». Oggi l’ISAF può contare su 20mila uomini di 36 Paesi.
Con l’allargamento a Est, gli effettivi sotto bandiera NATO aumenteranno di 12 mila, in
prevalenza statunitensi, finora inquadrati nella missione “Enduring Freedom” che
continuerà, a ranghi dimezzati, nella «ricerca ed eliminazione dei taliban». Taliban che non
nascondono la volontà di combattere anche gli italiani. «I soldati italiani? Per noi non fa
differenza il Paese di provenienza: sono occupanti infedeli e noi li combattiamo». Lo ha
affermato il mullah Yunus Saheb, responsabile del reclutamento e dell’addestramento degli
attentatori suicidi, in un’intervista a PeaceReporter.net. «Gli eserciti stranieri occupano la
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nostra terra, bombardano i nostri villaggi, uccidono la nostra gente, prendono le nostre
donne: gli aspiranti martiri vengono da noi per vendicare tutto questo», ha afferma Saheb.
•
Israele. 29 settembre. Israele ha ucciso oltre 4mila palestinesi durante la seconda Intifada.
Era scoppiata, contro l’occupazione sionista, il 28 settembre 2000 dopo la provocatoria
passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee. Nello stesso periodo sono morti 1084
israeliani. Circa 3700 sono le abitazioni demolite dai bulldozer di Tel Aviv. Questi sono
alcuni dei dati forniti dal Palestinian Human Rights Monitoring Group, organizzazione
umanitaria di Gerusalemme. L’attuale Intifada (letteralmente in arabo «scrollarsi di dosso»)
si differenzia dalla prima, iniziata il 25 novembre 1987, per due aspetti fondamentali: in
primo luogo il lancio di pietre è stato sostituito, abbastanza diffusamente, dall’utilizzo di
armi da fuoco tra le fila palestinesi; in secondo luogo, la presente Intifada annovera la
partecipazione anche degli arabi di Israele, rimasti invece fuori durante la prima.
•
USA. 29 settembre. Via libera ieri al “Terror Act” di Bush: cancellato l’habeas corpus,
estesa all’infinito la detenzione preventiva e la competenza del processo di fronte a
«commissioni militari». La legge ora consente al presidente di interpretare a suo comodo la
Convenzione di Ginevra. Le prove «segrete», sconosciute alla difesa dell’imputato,
potranno essere portate (sbattendo fuori dall’aula imputati e avvocati) se il giudice le
considererà «essenziali», mentre le testimoninaze estorte con la tortura, se l’estorsione è
avvenuta prima del 2005, cioè quando passò l’avversatissima (da Bush) mozione che
proibisce un trattamento «crudele, inumano e degradante» dei detenuti, vanno benissimo.
Michael Ratner, presidente del Centro di Diritti Costituzionali (CCR) sostiene che questa
legge, oltre a conferire a Bush un potere assoluto, «immunizza il personale CIA e militare
contro processi legali anche per violazioni antecedenti queste convenzioni (...) Il semplice
fatto, poi, che il presidente designi qualcuno come ‘combattente nemico’, permetterà la sua
incarcerazione; la sua innocenza sarà irrilevante (...). L’ampia definizione di “combattenti
nemici” potrà significare che chiunque si opponga attivamente al presidente o alla sua
amministrazione, possa essere incarcerato per tempi indefiniti (...). L’abolizione
dell’habeas corpus è una delle caratteristiche di uno Stato di polizia». Perché tanta fretta?
Secondo Bob Herbert del New York Times «una delle grandi preoccupazioni di questo
governo è la possibilità che spuntino prove che potrebbero vedere imputati alti funzionari
per crimini di guerra (...). L’amministrazione Bush teme di pagare un alto prezzo per gli
abusi dei diritti umani che ha ordinato o condonato nella sua cosiddetta guerra contro il
terrore». Per il professor Christopher Pyle, dell’università Mount Holyoke, «la legge è un
progetto di amnistia per i torturatori». «Tortura? Prigioni segrete? Pena di morte con
prove non esibite all’accusato? Questo è qualcosa che ricorda Kafka, non Madison o
Jefferson», ha scritto Bob Herbert sul Times.
•
Ungheria. 30 settembre. Il voto alle amministrative di domani sarà un test politico per il
governo di Ferenc Gyurcsany. Le proteste di piazza delle ultime settimane contro il primo
ministro hanno trasformato la consultazione locale in un vero banco di prova con possibili
ripercussioni nazionali. La sfida più accesa è quella per la poltrona di sindaco di Budapest,
finora occupata dal liberale Gabor Demszsky, e sostenuto dai socialisti. Se lui uscirà
sconfitto, lo sarà anche il premier Gyurcsany, sostengono i dirigenti conservatori. A
mezzanotte, per rispettare il silenzio elettorale, sono intanto cessate le manifestazioni
davanti al parlamento che da dieci giorni chiedono le dimissioni del premier Gyurcsany. Il
capo del governo, parlando con i deputati socialisti, aveva detto di aver mentito agli
ungheresi sui suoi progetti di politica economica per vincere le elezioni. Una registrazione
della conversazione era stata poi resa pubblica e innescato le proteste di cittadini comuni
cavalcate dall’opposizione. È comunque la politica neoliberista governativa che ha già dato
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luogo a conseguenze sulla popolarità dei socialisti passata dal 40% del mese di aprile
all’attuale 25%. L’Unione Europea continua peraltro a chiedere ulteriori tagli («sacrifici»)
per ridurre il deficit pubblico. Le «misure», ha detto nei giorni scorsi, in conferenza stampa,
Amelia Torres, portavoce europea dell’Economia, «saranno ovviamente dolorose». Le
misure neoliberiste annunciate a giugno da Gyurcsany, due mesi dopo aver vinto le elezioni
mentendo sullo stato dell’economia e sulle misure che avrebbe preso, includono un aumento
dell’IVA dal 15 al 20%, un incremento del prezzo del gas (30%) e dell’elettricità (8%) con
penalizzazioni del salario medio già basso (638 euro nel 2005), con grandi disparità tra la
capitale e le campagne. L’analista Barpa Dudik riconosce che si avrà una caduta del livello
di vita, in Ungheria, di 2-3 punti.
•
Polonia. 30 settembre. Come a Budapest, anche a Varsavia i media mettono in crisi il
governo: in Ungheria la radio pubblica, in Polonia una televisione privata. A Budapest
migliaia di cittadini magiari sono scesi in piazza per chiederne le dimissioni, dopo che il 24
settembre scorso la radio aveva mandato in onda una registrazione, non destinata al
pubblico, in cui il premier Gyurcsany rilevava ai compagni di partito di aver costruito il
successo elettorale dello scorso aprile su una serie colossale di frottole, quando l’intenzione
era invece di continuare nella politica economica restrittiva imposta dal Patto di Stabilità
Europeo e dalla finanza statunitense. Una vicenda che certo è del tutto rivelatrice dei limiti
di non rispondenza alla volontà popolare della occidentale “democrazia rappresentativa”,
che certo potrebbe essere migliorata, ad esempio, con istituti tipo quelli introdotti da Chávez
nella Costituzione del Venezuela, che prevede la possibilità di un referendum sull’operato
del Presidente a metà legislatura. A Budapest ci si chiede intanto chi abbia passato alla radio
il nastro segreto. Qualche nemico di Gyurcsany all’interno del Partito socialista? A Varsavia
dubbi non ce ne sono. Il filmato è stato consegnato a TVN da Renata Beger, improvvisatasi
reporter e munitasi di una piccola telecamera, d’accordo con l’emittente. A insaputa
dell’interlocutore, la parlamentare ha ripreso il colloquio segretamente, ha fatto
maliziosamente certe richieste per ottenere determinate risposte. Obiettivo: inchiodare il
governo, impedire la cooptazione nel governo del Partito contadino PSL, ex alleato dei postcomunisti della SLD nella precedente legislatura, ed imporre al PiS di Kaczynski l’opzione
delle elezioni anticipate, dopo l’uscita di Samoobrona dall’esecutivo a causa
dell’Afghanistan e del rifiuto di elargire più fondi alle aree depresse.
•
Polonia. 30 settembre. Se si andasse ad elezioni anticipate, il PiS arretrerebbe, secondo
sondaggi, e rischierebbe di cedere lo scettro di partito di maggioranza relativa agli
ultraliberisti di Piattaforma civica (PO), lasciando probabilmente a quest’ultima l’iniziativa
per la formazione dell’esecutivo. La batosta potrebbe essere consistente, così come
verificatosi ad ogni consultazione elettorale verso i partiti di governo, ed in grado di
rimischiare le carte a livello parlamentare. Inizialmente, il PiS aveva formato un governo
monocolore, essendo “saltato” l’accordo pre-elettorale con Piattaforma civica. I due partiti
intendevano guidare la Polonia, formando una sorta di “Grande Coalizione” tutta interna alle
due formazioni eredi di Solidarnosc. Ma negli ultimi giorni di campagna elettorale l’idillio
s’era rotto: le distanze tra PiS e PO si sono rivelate troppo ampie, soprattutto sull’economia.
I Kaczynski premevano per aumentare la spesa sociale, Donald Tusk, leader di PO, puntava
invece ad ulteriori liberalizzazioni e ad introdurre un’aliquota unica per l’imposta sui redditi.
Il PiS (“Legge e Giustizia”) ha così dato vita a un governo monocolore, presieduto
dall’economista Kazimierz Marcinkiewicz, che ha però retto per poco. Il partito dei
Kaczynski ha cercato quindi l’appoggio esterno di Samoobrona e della Lega delle famiglie,
con i quali ha stipulato un “patto di stabilizzazione”, facendo alcune concessioni in cambio
dell’appoggio esterno. Il patto si è poi istituzionalizzato e ha portato nell’esecutivo il partito
di Lepper e quello di Roman Giertych, l’attuale ministro dell’Educazione. La cronaca degli
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ultimi giorni indica che il PiS deve ora cercare nuove strade per mantenersi al governo. Ma
in Parlamento non ci sono i numeri. PO e post-comunisti hanno chiesto una sessione
parlamentare speciale premendo per convocare le elezioni anticipate. Se ne dovrebbe
discutere nella seduta del prossimo 10 ottobre, che si preannuncia infuocata.
•
Russia / Georgia. 30 settembre. È arrivato a Mosca il personale diplomatico russo
evacuato dalla Georgia in seguito alla crisi scoppiata tra i due Paesi per l’arresto di 4
ufficiali russi accusati di spionaggio militare. Il ministero dell’Interno di Tbilisi ha reso
pubblico un video che riporta la testimonianza di uno dei cinque cittadini georgiani che
avrebbero avuto legami con le forze russe. L’uomo racconta di aver collaborato con i servizi
di intelligence di Mosca per raccogliere informazioni sugli armamenti nel paese. Mosca ha
respinto ogni accusa e ha chiesto l’immediata liberazione degli arrestati. Ma in risposta, ieri,
il tribunale di Tbilisi ha prolungato di due mesi la detenzione provvisoria dei presunti 007.
Una soluzione allo studio per evitare l’aggravarsi della crisi è quella dell’espulsione degli
ufficiali che sarebbero rimessi nella mani delle autorità russe. Il ministro georgiano
dell’Interno intanto rilancia: «Nei prossimi giorni la Federazione russa sta pensando di
condurre importanti manovre militari nel mar Nero. Un reggimento dell’esercito russo
basato in Ossezia del nord è stato mobilitato e si sta dirigendo verso il confine con la
Georgia». Da mercoledì la polizia georgiana ha circondato a Tbilisi il quartier generale delle
forze armate russe per il Caucaso meridionale in attesa che gli venga consegnato un quinto
militare sospettato di spionaggio.
•
Russia / Bielorussia. 30 settembre. Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha
minacciato di rompere i legami con la Russia se la Gazprom continuerà a pretendere il
raddoppio del prezzo del gas. L’uomo forte di Minsk ha spiegato che la Russia perderebbe
così il suo ultimo alleato in Europa. «Un innalzamento dei prezzi a un tale livello
significherebbe la rottura di tutti i contatti specialmente in economia. Non è che vogliamo
pagare il meno possibile. Anche se il prezzo del gas è di 500 dollari per noi va bene, ma i
russi devono pagare lo stesso per il transito nei gasdotti. Si tratta di un problema di
equità», ha detto Lukashenko. Attualmente la Bielorussia paga il gas di Gazprom circa 47
dollari ogni mille metri cubi, un prezzo di molto inferiore a quelli di mercato. Sul territorio
della Bielorussia transita il gas russo diretto in Polonia e soprattutto in Germania, in attesa
della costruzione del cosiddetto “gasdotto del Baltico”, che rifornirà Berlino di gas naturale
siberiano a partire dal 2010. In quest’anno è prevista la conclusione dei lavori del
mastodontico progetto, finanziato al 51% da Gazprom e per un 25% da una cordata tedesca
formata da Eon e da Wintershall, costola del gigante della chimica Basf.
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