Potere, desiderio, desiderio di potere. Identità
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Potere, desiderio, desiderio di potere. Identità
Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio Potere, desiderio, desiderio di potere. Identità femminile e potere 1 Per non tradire se stessi, bisogna prendere le distanze da se stessi e in particolare da quel sé mimetico che rischia di abdicare totalmente alla propria identità per essere “come l’altro lo vuole”; vale a dire vuoto e passivo ricettacolo dei desideri e delle aspettative dell’altro, cui viene inconsapevolmente delegata ogni azione e scelta. Il desiderio autentico rompe la dinamica mimetica. Elena Pulcini* ...non è forse nell’essenza del desiderio di tendere verso qualsiasi oggetto, fuorché la morte? Desiderare è non voler morire. E. M. Cioran 1. La connessione tra il potere e il desiderio può sembrare piuttosto paradossale: che nesso può mai esserci tra il primo, che evoca la dimensione nitida della forza e dell’autoaffermazione, della preminenza e del prestigio, del controllo e del dominio, e il secondo, che rimanda inesorabilmente all’oscurità della mancanza e del caos, dell’emotività e della vulnerabilità, dell’insufficienza e dell’inquietudine? Tuttavia è proprio dall’indagine di questo nesso che possiamo, a mio avviso, cominciare a seguire qualche pista nella terra incognita del potere femminile. Ora, nell’universo complesso e sfuggente delle definizioni del “potere”, ce n’è una in particolare che ci consente di formulare questa connessione; una definizione che, dietro un linguaggio scarno e apparentemente neutro, coglie allo stesso tempo la legittimità la problematicità del potere. “Il potere di un uomo – dice Thomas Hobbes nel Leviatano – sono i mezzi che ha al presente per ottenere qualche apparente bene futuro”.2 Il potere consiste dunque nell’insieme dei mezzi di cui un individuo dispone per ottenere, sia nel presente sia nel futuro, i beni che desidera. Esso è ciò di cui il soggetto ha bisogno per soddisfare i propri desideri; non solo quelli immediati e contingenti, ma anche quelli che si proiettano nella dimensione “prometeica” del futuro, peculiari della costituzione illimitatamente autoafferma1 Già in Che genere di potere? Forme di potere e identità femminile, Progetto Now Cassiopea, Donne e empowerment, Arlem, Roma 2000, pp. II-28. 2 Th. Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1987 (ed. or. Leviathan, 1651); d’ ora in avanti L. 42 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere tiva dell’individuo moderno, non più aprioristicamente condizionato da vincoli e norme precostituiti. Il potere è dunque ciò che serve per realizzare i propri desideri, per ottenere le cose che si desiderano. Esso si configura come un mezzo, legittimo, per rispondere alle esigenze di un individuo che, per usare i termini di Hans Blumenberg, è autorizzato a spingere il proprio sguardo “oltre le colonne d’Ercole”, verso orizzonti aperti e senza confini.3 Hobbes inoltre ci illumina anche su quali sono gli oggetti del desiderio il cui possesso conferisce potere, e che si possono essenzialmente riassumere in due gruppi prioritari di beni: da un lato, la ricchezza, il possesso delle “cose”, dei beni materiali; dall’altro l’onore, vale a dire il riconoscimento da parte degli altri delle proprie qualità, del proprio valore e prestigio. Possedere cose e ottenere il riconoscimento degli altri significa avere potere; e dunque avere accesso, in una sorta di spirale ciclica, a ciò che si desidera. Il potere, potremmo allora continuare, è ciò che consente al desiderio di accedere alla sfera simbolica, è ciò che permette di formulare e soddisfare i due desideri fondamentali dell’individuo moderno: il desiderio acquisitivo e il desiderio di riconoscimento, nei quali l’individuo trova le fonti stesse della propria identità, della propria autoaffermazione.4 Il potere è uno strumento, anzi lo strumento per poter affermare se stessi in un mondo in cui nulla è più attribuito a priori, in cui nulla è più certo e prestabilito, ma in cui ognuno è chiamato a gestire autonomamente il proprio programma di vita. Quale mezzo per soddisfare i propri desideri, il potere è dunque legittimo in quanto legittimi sono gli stessi desideri, manifestazioni naturali di un essere che, privato di ogni télos, ideale o norma precostituiti, tende inevitabilmente, in prima istanza, alla propria conservazione e autoaffermazione. Tutto questo però, a ben vedere, riguarda solo gli individui di sesso maschile: le donne non sono coinvolte nella ricerca del potere in quanto – ed è questo il punto che vorrei sottolineare – non sono coinvolte nella dinamica desiderante. Il desiderio acquisitivo e il desiderio di riconoscimento che connotano la soggettività prometeica moderna, e da cui, come vedremo, scaturiranno la lotta e il conflitto per il potere nella sfera pubblica, non riguardano le donne. Come traspare dalle pagine hobbesiane e come emergerà ancora più nettamente nel pensiero moderno successivo – per esempio in Locke o in Rousseau – le donne, confinate alla sfera intima della famiglia, si configurano semmai come soggetti di amore e di cura, ma non come soggetti di desiderio. Il pensiero femminista ha molto indagato la dicotomia pubblico/privato mostrandone, soprattutto nell’ambito della modernità, le aporie e gli invisibili effetti di disuguaglianza.5 Ma quello che qui vorrei sottolineare è il fatto che questa dico3 H. Blumenberg. La legittimità dell’età moderna, Genova 1992 (ed. or. Die Legitinitàt der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966). 4 Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 5 J. B. Elshtain, Public Man, Private Woman. Woman in Social and Political Thought, Princeton University Press, Princeton 1993. Dossier 43 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere tomia sancisce anche una opposizione tra due forme dell’affettività e delle manifestazioni emotive dei due sessi. Limitate e allo stesso tempo appagate dalla pienezza della loro “funzione materna”, in cui, a partire da Aristotele,6 il pensiero occidentale ha riconosciuto il tratto distintivo del femminile, le donne abitano lo spazio immobile e silenzioso della sfera privata; all’interno di questa, esse riversano una forma di affettività essenzialmente donativa e altruistica che le tiene fuori dall’ansia prometeica e desiderante del soggetto maschile, teso incessantemente a colmare una mancanza e proiettato verso un costante oltrepassamento del limite. La mancanza, che dalla riflessione platonica in poi, rappresenta la dimensione costitutiva dell’essere umano, sembra in realtà caratterizzare, soprattutto a partire dalla modernità, la soggettività maschile e prometeica, alimentata da una dynamis incessante e da una perenne insoddisfazione; cui fa da pendant, in una sorta di speculare complementarità, la pienezza delle donne, appagate dalla loro stessa potenzialità corporea e dalla loro intrinseca e naturale capacità di amare, che le tiene presso di sé tenendole allo stesso presso l’altro di sé, in una sorta di pacifico equilibrio che non viene turbato da alcuna tensione desiderante né da alcuno Streben faustiano. Basti evocare il grande affresco bachofeniano del mondo matriarcàle, in cui il femminile, nella sua configurazione coniugale e materna, rappresentato dalla “ginecocrazia demetrica”, diviene il simbolo di quella fase di sviluppo della civiltà che Bachofen non esita a definire “poesia della storia”:7 un’epoca di giustizia e di pace, di fraternità e di uguaglianza in cui tutti sono legati da una reciproca sympàtheia in virtù, appunto, della dominanza del principio materno che tutto connette in un armonico equilibrio. La donna-madre è portatrice di quel “divino principio di amore, di unità, di pace” che domina nella fase matriarcale della civiltà, in quanto essa apprende, dalla funzione materna, a sviluppare i sentimenti di dedizione e di cura, di generosità e di pietas, irradiandoli sull’intero mondo: Nella cura per il frutto del proprio corpo, la donna impara prima dell’uomo a spingere la propria preoccupazione amorosa oltre i confini dell’Io individuale, verso un altro essere e a dedicare alla conservazione e all’abbellimento dell’altra esistenza tutte le capacità inventive del suo spirito. Da essa allora procede ogni elevazione delle norme di vita, ogni benevolenza, ogni dedizione, ogni sollecitudine, ogni pietà verso i morti.8 Il potere femminile è un potere di pace e di cura, tiene tutto unito in un armonico equilibrio. Ma proprio in virtù della loro naturale capacità di amore e di cura, le donne restano al di qua di quella tensione tutta maschile dello spirito nella quale Bachofen riconosce il momento più alto e compiuto dello sviluppo della civiltà e della 6 Aristotale, Etica nicomachea, trad. di A. Plebe, in Id., Opere, a cura di G. Giannantoni, II voll., Laterza, Roma-Bari 1973, vol. 7. 7 J.J. Bachofen, Il matriarcato, a cura di G. Schiavoni, 2 voll., Einaudi, Torino 1988 (ed. or. Das Muterrecht, 1861). 8 Ibid., p. 15. 44 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere storia, la fase di emancipazione dai legami naturali e tellurici che limitano il mondo matriarcale consegnandolo alla stasi del mondo pre-storico. Bachofen non fa che consolidare, attraverso un linguaggio evocativo e simbolico, un tòpos che percorre l’intero pensiero occidentale e che viene sancito nella modernità. Nella riflessione rousseauiana, come ho già accennato, questa visione di una statica pienezza dell’universo femminile assume infatti una peculiare consistenza, tanto da fondare il paradigma stesso della visione moderna dei sessi. All’universo maschile del desiderio e delle passioni, che sfocia nello scontro e nella conflittualità per l’acquisizione del potere e che rende infine necessario, come lo definisce Carole Paeman, il “patto tra fratelli”,9 garante di pace e di giustizia, corrisponde un mondo femminile già di per sé pacificato dal prevalere di sentimenti naturali di accudimento e di materna dedizione. 2. Si delineano in altri termini due diverse forme di emotività che corrispondono alle due diverse e presunte inclinazioni naturali dei sessi: le donne amano, gli uomini desiderano. Il desiderio femminile, laddove viene preso in considerazione, si configura come uno spettro minaccioso, una dimensione illegittima e perversa, che tradisce le più profonde e sacre leggi naturali; come Rousseau non manca di ribadire con forza quando lancia la sua condanna verso lo stesso desiderio sessuale della donna.10 Le donne dunque – se aderiscono alla loro funzione e al loro destino – amano, incondizionatamente e altruisticamente, garantendo quello spazio affettivo di intimità e di privatezza che instaura legami pacifici e armoniosi; gli uomini desiderano, spinti da una pulsione egoistica e da una volontà autoaffermativa che alimentano in prima istanza la ricerca del potere, creando disordine e guerra. Ma quest’ultima affermazione vuol dire anche che la ricerca del potere, sebbene riceva, come abbiamo visto in Hobbes, una inedita legittimazione, presenta evidentemente, come appare soprattutto in Rousseau, aspetti fortemente problematici, per non dire patologici. In altre parole, ciò da cui le donne sono state escluse non è affatto tutto e sono un bene cui ambire acriticamente, non è affatto un valore tutto e solo desiderabile, cui tendere avalutativamente unicamente per il fatto che ci è stato negato. Hobbes infatti coglie un duplice rischio intrinseco al desiderio di potere. Egli ne vede in primo luogo la potenziale illimitatezza: “Cosicché pongo in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte”.11 Sebbene il desiderio di potere sia generato dal legittimo bisogno di autoconservarsi, e quindi 9 C. Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1977 (ed. or. The Sexual Contract, Polity Press, Cambridge 1988). 10 J.-J. Rousseau, Emilio, commento e note di J.-L. Lecercle, Armando, Roma 1981 (ed. or. Emile, 1762). 11 L, p. 94. Dossier 45 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere trovi una sorta di limite nella difesa stessa della vita, esso innesca, anche in virtù della sua tendenza a proiettarsi nel futuro, un processo infinito e inappagabile che spinge gli individui a un costante e reiterato rinnovarsi del desiderio, che non trova soddisfazione e pacificazione se non nella morte. In secondo luogo, Hobbes vede gli effetti conflittuali e distruttivi del desiderio di potere, in quanto portatore di sopraffazione e di dominio: “La competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa, all’inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro”.12 Nella spinta a soddisfare i propri desideri, ogni individuo si scontra inevitabilmente con il desiderio dell’altro ed è, per così dire, costretto a una ricerca infinita del potere, inteso come “eccedenza”, come preminenza e superiorità rispetto all’altro, quale unico mezzo per potersi garantire nel tempo la soddisfazione dei propri desideri. E perciò se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi e di sottomettersi l’un l’altro.13 Strumento ineludibile per il conseguimento dell’autoconservazione e del piacere da arte di un individuo autorizzato dalla sua stessa libertà a preservare e soddisfare se stesso, il potere diventa fonte di illimitatezza e di dominio, creando uno scenario di inimicizia e di conflittualità che rende necessarie strategie di freno e di contenimento tese a riportare l’ordine e il senso stesso del limite. Ma non solo. Se Hobbes insiste sugli effetti di distruttività e di guerra reciproca, Rousseau, che pure non manca di ribadire questo aspetto, coglie un ulteriore effetto patologico intrinseco alla ricerca del potere, che riguarda la costruzione stessa dell’identità individuale. Enfatizzando soprattutto il desiderio di potere inteso come ansia di riconoscimento, Rousseau ne denuncia, oltre alle implicazioni “hobbesiane” di conflittualità e di dominio, gli effetti di falsificazione del soggetto. Bramoso di considerazione, di “preferenza”, di riconoscimento delle sue superiori qualità da parte dell’altro, con cui incessantemente si confronta in una sorta di dinamica mimetica, l’individuo è disposto persino a simulare qualità che non possiede, ad “apparire” diverso da quello che “è”14 finendo così per sacrificare non solo la propria libertà, ma quella che, con Charles Taylor, possiamo definire la propria autenticità. Per ottenere potere, il soggetto è disposto a tradire se stesso, conformandosi mimeticamente alle aspettative dell’altro, dell’ “opinione”, da cui attende la conferma della propria identità e preminenza;tanto da spingersi fino a desiderare ciò che l’altro desidera. 12 L, p. 94 13 L, p. 118 14 J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti (ed. or. Discours sur les sciences et les arts, 1750); e Id., Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza (ed. or. Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, 1755), in Id., Scritti politici, a cura di P. Alatri, UTET, Torino 1970. 46 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere Sia sull’illimitatezza che sul carattere mimetico del desiderio tonerò più avanti. Ma ciò che possiamo subito rilevare, re-interrogando il pensiero moderno, è che l’acquisizione di potere non è affatto riducibile alla capacità neutra e innocua di disporre di ciò che può soddisfare i propri desideri. Essa produce al contrario una serie di effetti patologici : di cui il modello hobbesiano accentua sopratutto l’aspetto di aggressione/distruzione dell’altro , e quello rousseauiano l’aspetto di tradimento di se e di perdita di autenticità da parte del soggetto. Non a caso entrambi i modelli mettono in campo una serie di strategie per porre rimedio alle patologie prodotte dal desiderio di potere: si pensi alla soluzione politica e “artificiale” di Hobbes fondata su una sostanziale repressione dei desideri e della sfera emotiva, in funzione di un’autoconservazione che riattiva la consapevolezza del limite e del pericolo cui ci espone l’oltrepassamento del limite ; oppure alla più complessa e “naturale” soluzione rousseauiana, che propone una sorta di autoesplorazione e di lavoro emotivo da parte del soggetto sulla propria interiorità, al fine di andare i desideri e le passioni degli aspetti negativi e distruttivi (soprattutto per l’Io stesso) e di ricondurli al loro nucleo naturale e autentico. Non è questa la sede per entrare nel merito dei limiti delll’artificialismo hobbesiano o del naturalismo rousseauiano. Ciò che conta qui è che quella stessa riflessione che, nella modernità, conferisce una inedita legittimazione al desiderio e al potere, ne coglie anche le potenziali derive e degenerazioni, foriere di mali sia per la società , l’ordine, la pace, sia per l’individuo, l’interiorità, l’autentica realizzazione dell’identità. Questo ci insegna che ciò da cui le donne sono state escluse presenta un volto che è perlomeno duplice e ambivalente, carico di nuove potenzialità e conquiste ma anche pericoli e minacce per la propria stessa identità e integrità; e che se si vuole riappropriarsi dell’oggetto negato, bisogna allo stesso tempo assumere consapevolezza dei risvolti problematici e oscuri a esso intrinseci. è auspicabile in altri termini una prospettiva che potremo definire critica e autorifllessiva, capace di valorizzare gli aspetti positivi dell’oggetto negato senza passivamente assumerne le implicazioni negative. Ciò è reso a mio avviso tanto più possibile per le donne, in virtù della loro stessa esclusione: la quale, se da un lato crea un’ansiosa rivendicazione di ciò che è stato precluso, dall’altro produce la necessari distanza dall’oggetto, che può efficacemente preservare da ogni acritica adesione e autoindentficazione. Le donne potrebbero dunque farsi promotrici di una sorta di strategia del sospetto che investa sia il desiderio sia il potere, sottoponendo entrambi a quello che, con Jacques Derrida, potremmo definire uno sguardo decostruttivo: diffidente verso i codici ereditati ma allo stesso tempo capace dii preservarne gli aspetti emancipativi. La riappropriazione del diritto delle donne a entrambi gli oggetti negati sarebbe così parallela a una interrogazione critico-riflessiva su una diversa, possibile configurazione di quegli stessi oggetti, tesa a evitare gli effetti patologici che lo stesso pensiero moderno non ha mancato di segnalare. Dossier 47 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere Si tratta dunque in primo luogo di assolvere il potere e il desiderio di potere in quanto inviolabili diritti – e affetti – delle donne, sottraendoli a ogni demonizzazione (da parte maschile) o esorcizzazione autodifensiva (da parte femminile): reintegrare il potere e il desiderio significa infatti porre fine ad un’esclusione lesiva dell’identità. Ma si tratta, allo stesso tempo, di essere consapevoli dei rischi intrinseci all’acquisizione di potere e alla legittimazione del desiderio, al fine di garantire, a quella stessa identità, non solo una nuova dignità e autonomia, ma anche una più sostanziale autentiticità. 3. La prima operazione da compiere, come ho suggerito altrove15, consiste nell’opporre a un concetto relativo, di potere che, come ben mostra Hobbes, sfocia nell’idea di dominio e di sopraffazione dell’altro, un concetto che vorrei al contrario definire assoluto: il quale rifugge da confronti e conflittualità, e rimanda essenzialmente all’idea di un potenziamento del proprio essere; di quello che, con Spinoza, potremmo chiamare un accrescimento della propria potenza. Il desiderio, dice Spinoza, ogni desiderio, è legittimo in quanto non è che l’impulso naturale di ogni essere ad autoconservarsi, ad amare se stesso. Esso rappresenta «l’essenza stessa dell’uomo, è lo sforzo con cui l’uomo si sforza di perseverare nel proprio essere».16 Attraverso il desiderio, l’uomo persegue la propria autoconservazione che però, rispetto allo scarno ed essenziale quadro hobbesiano, si configura come perfezionamento di sé, come incremento della propria forza, della propria vis existendi: come un autopotenziamento nel quale risiede la fonte, allo stesso tempo, della felicità e della virtù, della realzzazione del soggetto e della sua disposizione etica. La potenza non è potere, non scivola nel dominio e nella distruzione dell’altro in quanto essa è l’espressione e la dotazione di un Io che è «felice» e «virtuoso» a un tempo, appagato nel proprio amore per se stesso ma cosciente dei propri limiti morali, «utile» a se stesso e agli altri. Si potrebbe forse richiamare a questo proposito, il concetto weiliano di potenza passiva, di indubbia matrice spinoziana, per la sua equidistanza sia dal potere, inteso come dominio dell’altro, sia dal depotenziamento di sé e dalla resa al potere dell’altro. La potenza passiva è quella che sfugge all’alternativa tra dominare e essere dominati, riuscendo a coniugare il momento dell’amore per se stessi e del potenziamento di sé, con l’attenzione etica all’altro.17 Ma, tornando a Spinoza, c’è ancora un aspetto, nella sua riflessione, di estremo interesse per noi, in quanto ci consente di meglio definire la natura stessa del desiderio. Se è vero che il desiderio è la via regia, per l’incremento della propria potenza, ciò non vuol dire – afferma Spinoza – che esso possa essere assunto tout court 15 Cfr. E. Pulcini, Il potere di unire. Femminile e potere tra modernità e mito, in M. Calloni e altri, Il femminile tra potenza e potere, Arlem, Roma 1995 (cfr. supre, cap. 4) 16 B. Spinoza, Etica (ed. Or. Ethica, 1677) in Id. Etica e Trattato teologico politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, UTET, Torino 1972, IV, prop. XVIII. 17 S. Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, 4 voll., Adelphi, Milano 1985, vol. 2 (ed. or. Chaiers II, Plon, Paris 1972 48 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere – nella sua brutale e rozza immediatezza. Il desiderio in altri termini può avere una natura distorta e distruttiva capace di far scivolare il soggetto verso una perdita di potenza, verso forme di passività e di schiavitù portatrici di illibertà e di autodanneggiamento. Questo rischio, osserva Spinoza con acume «freudiano» - è soprattutto intrinseco al desiderio quando questo è «cieco», ignaro di se stesso.18 È allora, quando agisce come forza opacizzante nella inconsapevolezza del soggetto, che il desiderio diventa il maggior ostacolo alla utilitas dell’uomo., alla realizzazione del suo autentico bene, in quanto esso viene non agito, ma puramente subìto. Bisogna allora «comprendere» il desiderio, sottrarlo alla sua forza obnubilante, restituirgli la capacità di agire come forza potenziante di un soggetto attivo e consapevole di sé. Il processo di cognizione della propria emotività, di comprensione delle proprie passioni diviene allora, contemporaneamente, un processo di emendamento del desiderio.: progressivamente liberato, attraverso una graduale presa di coscienza, degli aspetti oscuri e distruttivi, lesive del bene e dell’autonomia del soggetto. Non è certo possibile qui entrare nel merito della complessa indagine spinoziana. Ciò che possiamo fare è raccogliere la preziosa indicazione della necessità di un lavoro emotivo che il soggetto non può non compiere su se stesso al fine di potenziare il proprio essere: nel duplice senso, come si è già visto, di perseguire la felicità senza perdere la tensione etica e l’attenzione all’altro. Se vuol essere fonte di autorealizzazione, il desiderio deve perdere le inclinazioni inautentiche e negative, deve poter essere liberato dalla propria rozza immediatezza e cecità, raffinandosi attraverso il lento e capillare lavoro che l’Io opera sulla propria interioriorità. Da forza passivizzante e coattiva, esso diviene così energia attiva e sorgente di potenza. Appare qui evidente un possibile parallelo con quello che diventerà il nucleo stesso della psicoanalisi, intesa come ermeneutica del sé, come strumento di deopacizzazione della propria vita emotiva in funzione di una autentica autorealizzazione, come sguardo critico su se stessi capace di illuminare verità forse più scomode e difficili, ma indubbiamente più rispettose della unicità e della irriducibile identità del soggetto. Ciò che la riflessione spinoziana e freudiana condividono, al di là del maggiore disincanto e pessimismo, del secondo, è l’intuizione della necessità di un approccio critico e riflessivo al desiderio, teso a mostrarne le falsità, le illusorietà, gli effetti passivizzanti, e a enuclearne le più intime e complesse verità, le potenzialità attive ed energetiche. Entrambi dunque forniscono gli strumenti per quel lavoro decostruttivo, di cui parlavo sopra, che ci impone una salutare diffidenza verso ogni acritica accettazione delle nostre istanze più profonde. Il desiderio non è fattore sacro e incontrovertibile di verità solo perché, come è accaduto per le donne, è stato a lungo un diritto negato. Anzi, la sua stessa negazione può farlo riemergere, come spesso accade a ciò che viene proibito o rimosso, in tutta la sua forza «cieca», direbbe Spinoza, e schiavizzante. La legittimità della ricerca del potere quale strumento di accesso alla realizzazione del desiderio non deve far dimenticare che il desiderio diviene a sua volta 18 Spinoza, Etica cit., IV, propp. LIX e LX Dossier 49 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere strumento di potere (potenza) solo se viene agito consapevolmente dal soggetto. Solo se, dunque, esso include il momento della scelta, dell’azione, della decisione; e se questo momento è il risultato finale di un autoemendamento che nulla ha a che fare con la rinuncia o con il sacrificio, ma al contrario implica l’attiva consapevolezza delle proprie più autentiche aspirazioni. In virtù della loro secolare esclusione, le donne tendono oggi a rivendicare il potere e il desiderio in tutta la loro indiscriminata legittimità di oggetti a lungo negati, e a conferire loro una valenza sacrale, vale a dire intoccabile e non sottoponibile a critica; ma, ancora in virtù di quella stessa esclusione, esse hanno saputo conservare una distanza dall’oggetto che le rende potenzialmente capaci di quell’atteggiamento critico-riflessivo che prelude alla scelta consapevole. Esse sono dunque in una posizione ambivalente: possono essere sopraffatte dalla presunta sacralità di un diritto violato, ma possono allo stesso tempo riappropriarsi, di fronte ad esso, del diritto alla critica e alla scelta voluta e cosciente. 4. L’accesso a questa seconda possibilità richiede evidentemente la capacità di riconoscere le patologie del desiderio, che possiamo ora meglio delineare riassumendole in tre aspetti fondamentali. In primo luogo, abbiamo visto, il desiderio è intrinsecamente illimitato. Hobbes ci ha mostrato come questa illimitatezza sia essenzialmente il prodotto della modernità, intesa come fine di ogni meta trascendente, di ogni «sommo bene» e dunque come perdita di ogni télos e limite. L’assenza di un télos e di un bene ultimo, che lascia l’individuo moderno in una posizione ambivalente di inedita libertà e di sradicamento, si risolve nell’impossibilità, per il desiderio, di trovare soddisfazione e pacificazione. Lo stato di mancanza che sempre e comunque caratterizza il desiderio, non arriva più, come accadeva nell’universo platonico, a colmarsi nel raggiungimento di un bene supremo che pone fine all’ansia e alla carenza.19 Al contrario, esso si rinnova all’infinito, reiterandosi attraverso l’illimitata moltiplicazione degli oggetti, nessuno dei quali riesce ad offrire una chance di compimento e di realizzazione. Ma non solo. Nell’universo hobbesiano questa «cattiva infinità» del desiderio, che emerge in tutta la sua dirompente novità, trovava comunque un limite nell’autoconservazione, nella limitatezza di un individuo e di una società ancora dominati dal bisogno e dalla scarsità. Radicalmente diverso diventa lo scenario di una società, come quella contemporanea, in cui il superfluo domina sulla necessità e in cui, soprattutto, lo sviluppo della tecnologia rende potenzialmente realizzabili desideri fino a poco tempo fa addirittura impensabili. In tutte le sue molteplici declinazioni (biotecnologie, tecniche informatiche e della comunicazione, produzione accelerata di nuovi oggetti di consumo ecc.), la tecnologia legittima implicitamente tutto ciò che essa rende possibile, alimentando in modo esponenziale la spirale di illimitatezza dei desideri. Si tende a fare o volere qualcosa solo per il fatto che questa si 19 Platone, Simposio, trad. di P. Pucci, in Id, Opere complete, 8 voll., Laterza, Bari 1971. 50 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere può fare o volere, assoggettandosi a una moltiplicazione «cieca» dei desideri della quale si perde ogni autenticità o senso originario. La tecnologia produce l’illusione di un inedito potere di disporre del corpo, della vita, del futuro e del mondo, mentre contemporaneamente acuisce il processo di passivizzazione dei soggetti, inconsapevolmente risucchiati nella propria proiezione di onnipotenza. In nome di un infinito possibile gli individui si assoggettano al potere dell’artificio su cui finiscono per perdere ogni capacità di controllo e di autonoma capacità di selezione. Si arriva a una sorta di indifferenziazione degli stessi oggetti del desiderio: l’oggetto conta meno del desiderio stesso che si autoafferma nella sua ottusa immediatezza, inseguendo obiettivi che spesso finiscono per essere interscambiabili e fittizi. Narcisisticamente compiaciuto di un’onnipotenza che è solo la versione caricaturale dell’autentica «potenza» spinoziana, il soggetto desiderante diventa esso stesso preda di forze che lo sovrastano, diventa sempre più oggetto di quello che con Michel Foucault possiamo chiamare il potere dei discorsi.20 Veniamo dunque alla seconda patologia intrinseca al desiderio. La tecnologia è oggi solo la punta di diamante di una rete «discorsiva» che di fatto costruisce l’identità dei soggetti attraverso la diffusione di un potere capillare ed esteso, di un potere tanto più insidioso ed efficace quanto più pervasivo e nascosto. Foucault ne ha colto la genesi alle origini della modernità, quando il potere dei singoli discorsi (medico, economico, morale ecc.) ha cominciato a rivelare la propria efficacia non tanto e non solo nella repressione dei soggetti ma nella «produzione», appunto, dei loro stessi desideri e nella costruzione, sapientemente orientata e veicolata, della loro identità. Il soggetto, dice Foucault, è sempre assoggettato al potere dei discorsi che ne manipolano non solo il corpo ma la stessa interiorità e la vita emotiva, spogliandolo paradossalmente – possiamo aggiungere – di quella sovranità che dovrebbe costituire una delle massime conquiste della modernità. Il discorso tecnologico, come si è già accennato, radicalizza questo processo in quanto è in grado, più di ogni altro, di fare promesse che blandiscono la vocazione onnipotente di un Io privo di radici e di scopi. Esso avvalora l’idea che ciò che è possibile e fattibile possa – anzi debba – essere anche perseguibile e desiderabile; a sua volta il desiderio, reso infinitamente possibile, sancisce la legittimità della dinamica tecnologica, autorizzandone ogni sviluppo, purché essa mantenga le proprie promesse. Si crea così un circuito perverso di reciprocità tra desiderio e potere tecnologico che diventà sempre meno arginabile in quanto sempre più sfugge al controllo non solo dei soggetti fruitori, ma ancher dei soggetti produttori. È questa infatti, possiamo accennare solo per inciso, la novità che lo scenario contemporaneo (o postmoderno) presenta rispetto alle analisi foucaultiane: gli stessi protagonisti della costruzione dei discorsi non sono affatto esenti dalla perdita del controllo su processi che sempre più si autonomizzano dal fattore umano e dalla volontà di chi, almeno apparentemente, 20 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978 (ed. or. La Volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976. Dossier 51 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere esercita il potere.21 Offrendo una illimitatezza di possibilità, la tecnologia alimenta la sacralità del desiderio, corrodendo sempre di più la capacità critica degli individui, e reinstaurando, dentro il trionfo stesso dell’artificio, la presunta legittimità «naturale» del desiderio. Essa costringe i soggetti, di fatto a loro insaputa, a misurarsi con realtà che essi stenterebbero forse persino a immaginare; li spinge a considerare sempre più naturali e plausibili scenari artificialmente prodotti (siano essi la fecondazione artificiale o la clonazione, l’uso di energia nucleare o la produzione di cibi transgenici ecc.), nei quali si annida invece la minaccia di una perdita di potere e di autonoma capacità di desiderare. Essa induce una sorta di nuova e più subdola repressione laddove inibisce all’origine la capacità dei soggetti di opporsi, di resistere, direbbe Foucault, a ciò che si autolegittima solo in virtù della propria esistenza e del proprio potere.22 Insomma, il discorso tecnologico è l’esempio più estremo di quella che possiamo più chiaramente definire l’inautenticità del desiderio, in quanto prodotto, manipolato, diretto da forze esterne all’interiorità dell’individuo. Ma questa inautenticità – che ci conduce alla terza patologia del desiderio – trova origine anche in meccanismi più sottili che ancora una volta rimandano alla complessa struttura emotiva dell’individuo moderno, un individuo che sarebbe un grave errore considerare pura vittima di discorsi e poteri provenienti dall’« esterno». Sovrano e assoggettato a un tempo, il soggetto moderno è infatti artefice e vittima del suo destino, complice passivo e protagonista attivo degli eventi; e ciò vuol dire che esso ha sempre la chance di scegliere tra queste due possibilità, ugualmente attuali e disponibili. La causa intrinseca del carattere inautentico del desiderio che, come abbiamo visto, era già stata individuata da Rousseau, risiede dunque in quella che, con René Girard, possiamo definire la sua natura mimetica.23 Il desiderio, osserva infatti Girard, ha una struttura essenzialmente mimetica e triangolare in virtù della quale gli uomini desiderano essenzialmente ciò che è oggetto del desiderio degli altri: A desidera C perché B desidera C. Noi siamo costantemente coinvolti in un tentacolare processo di imitazione che ci spinge a volere qualcosa non per sé, per le sue intrinseche qualità e per la sua capacità di rispondere alle nostre esigenze, ma perché l’altro desidera e vuole quel qualcosa. L’oggetto del desiderio diventa, in questa prospettiva, secondario, se non addirittura inessenziale, rispetto alla stessa dinamica mimetica, che mi impone di essere «secondo l’altro»: un altro di cui l’Io non esita ad imitare non solo i comportamenti, le opinioni, i pensieri, ma persino la più profonda struttura emotiva, facendo propri i suoi desideri. Forse risiede qui la matrice più profonda e 21 Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996 (ed. or. Postmodern etchs, Blackwell, Oxford 1993; e Id. La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 (ed. or. In search of Politcs, Polity Press, Cambridge, 1999). 22 M. Foucault, La questione del soggetto, in «aut-aut», n.s., 1985 23 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1981 (ed. or. Mensogne romantique, Grasset, Paris 1961. 52 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere inquietante di quel fenomeno che da Tocqueville a Hannah Arendt fino a più recenti riflessioni, è stato definito «conformismo»: in questa tendenza del soggetto ad essere come l’altro lo vuole, a formare se stesso in base a un modello esterno al quale viene conferito il potere di decidere perfino ciò che bisogna desiderare. Certo è che il desiderio mimetico rivela di fatto una soggettività che non solo è carente e illimitata, ma essenzialmente eterodiretta, plasmata e dipendente dall’altro: da un «altro» visto allo stesso tempo come modello assolutamente imprescindibile (io desidero ciò che l’altro desidera) e come rivale (l’altro «ha» sempre ciò che io non ho, o «è» sempre ciò che io non sono). E ciò vuol dire che i rischi sempre potenzialmente intrinseci alla relazione mimetica sono la conflittualità e la violenza sociale da un lato, e l’assenza di autenticità individuale dall’altro. Illimitatezza, violenza, perdita di autenticità: le patologie del desiderio, sia che coinvolgano il tessuto sociale sia che riguardino l’identità individuale, rendono dunque necessaria, in primo luogo, una presa di distanza da parte del soggetto che, come ho già accennato, consenta di proiettare su di esse uno sguardo criticodecostruttivo. Bisogna in altri termini, potremmo dire con Foucault, “se déprendre de soi-mème”;24 operare quel distacco da sé che in questo caso deve essere in primo luogo distanza dalla propria vita emotiva, capacità di osservarsi con sospetto per tentare di distinguere tra le diverse dimensioni e aspettative dell’Io e di operare una scelta all’interno di una folla di possibilità, tutte ugualmente possibili. Il recupero della distanza è dunque lo strumento attraverso il quale soggetti da sempre esclusi dal desiderio e dal potere, come le donne, possono ritrovare forme di accesso e essi senza assumerne acriticamente le derive patologiche: vale a dire, per tradurlo in termini positivi, riscoprendo sia il limite sia l’autenticitàdel desiderio. Ora, invocare un’autenticità del desiderio sembra voler investire la vita emotiva, di per sé sfuggente e fluida, inafferrabile e caotica, di una presunta coerenza o trasparente essenza che non può non suscitare immediatamente un certo disagio. Ma parlare di desiderio autentico non vuol dire affatto, necessariamente, cadere nell’essenzialismo. Si tratta infatti, in primo luogo, di assumere come presupposto la pluralità dell’Io e di vedere lucidamente l’eccesso e l’infinita varietà delle possibilità che esso si trova di fronte. Ma si tratta anche di individuare strategie che consentano di riconoscere, nella folla delle opzioni, ciò che permette al soggetto di mantenere il senso della propria fedeltà a se stesso:25 una fedeltà che si manifesta nella percezione della propria coesione e della propria, spinoziana, potenza. Se in altri termini, il desiderio inautentico è quello che retroagisce sull’Io provocandone il depotenziamento, la caotica dispersione e la disgregazione dell’identità, il desiderio autentico è quello che ne esalta e ne sviluppa la potenza, dando origine a un’identità che è coesa pur nelle sue ambivalenze e nella sua inevitabile pluralità. 24 M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984 ( ed. or. L’Usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984). 25 Taylor, Il disagio della modernità cit.; A. Ferrara, Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1999 (ed. or. Reflective Authenticity. Rethinking the Project of Modernity, Routledge, London 1998). Dossier 53 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere Ne è conferma, potremmo ancora continuare con Spinoza, quello stato di “tristezza”, insoddisfazione, malessere che ci coglie nel pieno di desideri soddisfatti che non rispondano alle reali esigenze dell’Io, e per contrasto, quella condizione di “gioia”, di appagamento e di pienezza, che avvertiamo quando, resistendo all’abbaglio dell’immediatezza e della mimesi, siamo infine riusciti a riconoscere i desideri più veri, e a capire che non sempre i più veri coincidono con i più forti. Per non tradire se stessi, bisogna prendere dunque le distanze da se stessi e in particolare da quel sé mimetico che rischia di abdicare totalmente alla propria identità per essere “come l’altro lo vuole”; vale a dire vuoto e passivo ricettacolo dei desideri e delle aspettative dell’altro, cui viene inconsapevolmente delegata ogni azione e scelta. Il desiderio autentico rompe la dinamica mimetica, restituendo all’Io la percezione della propria autonoma, unica e insostituibile varietà, per scomoda e complessa che essa possa essere. A partire da questa operazione di distacco, ci si può anche riappropriare di immagini e di valori tradizionalmente attribuiti e finora passivamente subiti, purché essi diventino oggetto di una scelta autoriflessiva. Ciò vuol dire, per quanto riguarda le donne, che esse possono tra l’altro recuperare in positivo la dimensione della cura e dell’amore quali fondamenti dell’identità;26 purché questa diventi oggetto di una scelta consapevole che non tradisca i desideri più autentici dell’Io. In fondo è questa la vera chance del postmoderno: la libertà di riconquistare autoriflessivamente anche dimensioni svalutate dell’identità.27 Ma non solo. Oltre alla dinamica mimetica dell’Io, l’autenticità del desiderio può anche interromperne la spirale di illimitatezza in quanto esso perde quella indifferenza verso l’oggetto che lo apriva appunto al vortice dell’infinito spostamento e reiterazione. Il desiderio autentico restituisce valore alla specificità dell’oggetto che, lungi dall’essere neutro, indifferenziato e interscambiabile, riassume tutto il suo peculiare spessore e la sua insostituibile concretezza; così da spingere l’Io a farsi largo tra la folla indistinta di desideri indotti, manipolati, mimetici, per riconoscere quelli davvero irrinunciabili, che soddisfano le sue esigenze più profonde nelle quali giace la fonte della propria coesione. A questa possibilità le donne hanno forse un accesso privilegiato, in virtù della loro predilezione per la dimensione concreta dell’esistenza che tuttora le preserva dall’astratta neutralità dell’indifferenziato; e grazie alla loro capacità di godere non solo della mancanza, come Faust o Don Giovanni, ma della pienezza e dell’appagamento, come l’Eloisa celebrata da Maria Zambrano28 o l’Anna Karenina tolstojana. Emendato dalle sue patologie, lesive in prima istanza dell’identità dell’Io, il desiderio torna a farsi strumento di potenza di una soggettività che si riscatta 26 C. Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987 (ed. or. In a Different Voice, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1982). 27 Cfr. il mio Incluse nella pòlis. Le ragioni della passione, in R. Lamberti (a cura di), Antigone nella città: emozioni e politica, Pitagora, Bologna 2000 (cfr. infra, cap. 9). 28 M. Zambrano, All’ombra del Dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, a cura di E. Laurenzi, Pratiche, Milano 1997 (ed. or. Nacer por sì misma, Horas y Horas, Madrid 1995). 54 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere dall’umiliazione e dall’esclusione, senza però cadere nella logica del potere e de dominio. In questo senso, esso può anche assumere un potere eversivo rispetto al potere oggettivante dei discorsi e una funzione di irriducibile dissonanza rispetto all’omologazione e al conformismo prodotti dalla dinamica mimetica; agendo così come fattore di potenziamento e di autoidentificazione di una soggettività che resta, sempre e comunque, dislocata rispetto a verità apparentemente ovvie o a ordini chiusi e definitivi. Illimitatezza, violenza, perdita di autenticità: le patologie del desiderio, sia che coinvolgano il tessuto sociale sia che riguardino l’identità individuale, rendono dunque necessaria, in primo luogo, una presa di distanza da parte del soggetto che, come ho già accennato, consenta di proiettare su di esse uno sguardo criticodecostruttivo. Bisogna in altri termini, potremmo dire con Foucault, “se déprendre de soi-mème”;29 operare quel distacco da sé che in questo caso deve essere in primo luogo distanza dalla propria vita emotiva, capacità di osservarsi con sospetto per tentare di distinguere tra le diverse dimensioni e aspettative dell’Io e di operare una scelta all’interno di una folla di possibilità, tutte ugualmente possibili. Il recupero della distanza è dunque lo strumento attraverso il quale soggetti da sempre esclusi dal desiderio e dal potere, come le donne, possono ritrovare forme di accesso e essi senza assumerne acriticamente le derive patologiche: vale a dire, per tradurlo in termini positivi, riscoprendo sia il limite sia l’autenticitàdel desiderio. Ora, invocare un’autenticità del desiderio sembra voler investire la vita emotiva, di per sé sfuggente e fluida, inafferrabile e caotica, di una presunta coerenza o trasparente essenza che non può non suscitare immediatamente un certo disagio. Ma parlare di desiderio autentico non vuol dire affatto, necessariamente, cadere nell’essenzialismo. Si tratta infatti, in primo luogo, di assumere come presupposto la pluralità dell’Io e di vedere lucidamente l’eccesso e l’infinita varietà delle possibilità che esso si trova di fronte. Ma si tratta anche di individuare strategie che consentano di riconoscere, nella folla delle opzioni, ciò che permette al soggetto di mantenere il senso della propria fedeltà a se stesso:30 una fedeltà che si manifesta nella percezione della propria coesione e della propria, spinoziana, potenza. Se in altri termini, il desiderio inautentico è quello che retroagisce sull’Io provocandone il depotenziamento, la caotica dispersione e la disgregazione dell’identità, il desiderio autentico è quello che ne esalta e ne sviluppa la potenza, dando origine a un’identità che è coesa pur nelle sue ambivalenze e nella sua inevitabile pluralità. Ne è conferma, potremmo ancora continuare con Spinoza, quello stato di “tristezza”, insoddisfazione, malessere che ci coglie nel pieno di desideri soddisfatti che non rispondano alle reali esigenze dell’Io, e per contrasto, quella condizione di 29 M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984 ( ed. or. L’Usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984). 30 Taylor, Il disagio della modernità cit.; A. Ferrara, Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1999 (ed. or. Reflective Authenticity. Rethinking the Project of Modernity, Routledge, London 1998). Dossier 55 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere “gioia”, di appagamento e di pienezza, che avvertiamo quando, resistendo all’abbaglio dell’immediatezza e della mimesi, siamo infine riusciti a riconoscere i desideri più veri, e a capire che non sempre i più veri coincidono con i più forti. Per non tradire se stessi, bisogna prendere dunque le distanze da se stessi e in particolare da quel sé mimetico che rischia di abdicare totalmente alla propria identità per essere “come l’altro lo vuole”; vale a dire vuoto e passivo ricettacolo dei desideri e delle aspettative dell’altro, cui viene inconsapevolmente delegata ogni azione e scelta. Il desiderio autentico rompe la dinamica mimetica, restituendo all’Io la percezione della propria autonoma, unica e insostituibile varietà, per scomoda e complessa che essa possa essere. A partire da questa operazione di distacco, ci si può anche riappropriare di immagini e di valori tradizionalmente attribuiti e finora passivamente subiti, purché essi diventino oggetto di una scelta autoriflessiva. Ciò vuol dire, per quanto riguarda le donne, che esse possono tra l’altro recuperare in positivo la dimensione della cura e dell’amore quali fondamenti dell’identità;31 purché questa diventi oggetto di una scelta consapevole che non tradisca i desideri più autentici dell’Io. In fondo è questa la vera chance del postmoderno: la libertà di riconquistare autoriflessivamente anche dimensioni svalutate dell’identità.32 Ma non solo. Oltre alla dinamica mimetica dell’Io, l’autenticità del desiderio può anche interromperne la spirale di illimitatezza in quanto esso perde quella indifferenza verso l’oggetto che lo apriva appunto al vortice dell’infinito spostamento e reiterazione. Il desiderio autentico restituisce valore alla specificità dell’oggetto che, lungi dall’essere neutro, indifferenziato e interscambiabile, riassume tutto il suo peculiare spessore e la sua insostituibile concretezza; così da spingere l’Io a farsi largo tra la folla indistinta di desideri indotti, manipolati, mimetici, per riconoscere quelli davvero irrinunciabili, che soddisfano le sue esigenze più profonde nelle quali giace la fonte della propria coesione. A questa possibilità le donne hanno forse un accesso privilegiato, in virtù della loro predilezione per la dimensione concreta dell’esistenza che tuttora le preserva dall’astratta neutralità dell’indifferenziato; e grazie alla loro capacità di godere non solo della mancanza, come Faust o Don Giovanni, ma della pienezza e dell’appagamento, come l’Eloisa celebrata da Maria Zambrano33 o l’Anna Karenina tolstojana. Emendato dalle sue patologie, lesive in prima istanza dell’identità dell’Io, il desiderio torna a farsi strumento di potenza di una soggettività che si riscatta dall’umiliazione e dall’esclusione, senza però cadere nella logica del potere e del dominio. In questo senso, esso può anche assumere un potere eversivo rispetto al potere oggettivante dei discorsi e una funzione di irriducibile dissonanza rispetto 31 C. Gilligan, Con voce di donna,Feltrinelli, Milano 1987 (ed. or. In a Different Voice, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1982). 32 Cfr. il mio Incluse nella pòlis. Le ragioni della passione, in R. Lamberti (a cura di), Antigone nella città: emozioni e politica, Pitagora, Bologna 2000 (cfr. infra, cap. 9). 33 M. Zambrano, All’ombra del Dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, a cura di E. Laurenzi, Pratiche, Milano 1997 (ed. or. Nacer por sì misma, Horas y Horas, Madrid 1995). 56 Pedagogika.it/2009/XIII_4/ai_confini_del_desiderio/potere,_desiderio,_desiderio_di_potere all’omologazione e al conformismo prodotti dalla dinamica mimetica; agendo così come fattore di potenziamento e di autoidentificazione di una soggettività che resta, sempre e comunque, dislocata rispetto a verità apparentemente ovvie o a ordini chiusi e definitivi. *Docente di Filosofia sociale, Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi Firenze Nota: Il testo qui pubblicato è tratto dal libro di Elena Pulcini Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Si ringrazia l’editore per la gentile concessione. Dossier 57