Monog.IL V/2 (Page 26)
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COAGULAZIONE Dott. Paolo Simioni V Approccio ragionato alla diagnosi di laboratorio della Trombofilia ed implicazioni cliniche Dott. Paolo Simioni Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Università di Padova Approccio ragionato alla diagnosi di laboratorio della Trombofilia ed implicazioni cliniche Introduzione 3 La predisposizione alla trombosi: concetti generali n accordo con l’ipotesi formulata da Virchow nel 1856 (1), gli elementi principali implicati nella patogenesi della trombosi venosa possono essere individuati nel rallentamento del flusso o stasi, nelle alterazioni della parete vasale e nell’ aumento della coagulabilità del sangue o ipercoagulabilità (Figura 1). Ciascuno di questi elementi contribuisce con peso diverso nel favorire l’insorgenza dell’evento trombotico che può verificarsi spontaneamente o in concomitanza di fattori scatenanti o di patologie predisponenti. Ancor oggi, non è del tutto chiaro quale possa essere il ruolo del danno vasale nel determinismo della trombosi venosa. Sta di fatto che nell’endotelio vengono prodotte e/o sono presenti numerose sostanze ad azione anticoagulante (glicosaminoglicani, trombomodulina, etc), antipiastrinica (prostaciclina, nitrossido) e profibrinolitica (attivatore tissutale del plasminogeno, PAI). I Triade di Virchow DANNO VASALE STASI TROMBOSI IPERCOAGULABILITA’ Fig. 1. E’ pertanto possibile che alterazioni dell’integrità della parete vasale e dei suoi meccanismi funzionali possano giocare un ruolo importante nella insorgenza della trombosi o delle recidive di trombosi (2-4). La stasi, così come le alterazioni reologiche più in genere, possono contribuire a determinare eventi trombotici. Un esempio di ciò è la compressione sui vasi venosi dovuta a neoformazioni, ma vi possono essere condizioni più particolari, quale per esempio la sindrome di Cockett (5) (compressione della vena iliaca sinistra da parte della arteria iliaca dx). Il terzo elemento della triade di Virchow è rappresentato dalla ipercoagulabilità o stato trombofilico che può essere determinata sia da cause congenite che acquisite (Tabella 1). L’aspetto oggi più interessante della trombofilia, specialmente dal punto di vista laboratoristico, è rappresentato dalle condizioni eredofamiliari ovvero dovute a difetti delle proteine della coagulazione geneticamente determinate. 4 CAUSE PRINCIPALI DI TROMBOFILIA DIFETTI EREDITARI • Difetti di AT (*) • Difetti di Proteina C (*) • Difetti di Proteina S (*) • Mutazione del F.V. Leiden (*) • Iperomocisteinemia (*) • Variante 20210A/Iperprotrombinemia (*) • Disfibrinogenemia (*) • Difetti di HC II • Difetti di Plasminogeno • Difetti di tPA • Aumento del PAI-I • HRGP (AUM/DIM) DIFETTI ACQUISITI • APLA (LAC, ACA) • Cancro • SDR Mieloproliferative • PNH • Sindrome Nefrosica (*) Condizioni ereditarie in cui l’associazione con la trombosi è stata validata da studi adeguati. Tab. 1. Egeberg (6) nel 1965 dimostrò la associazione tra il difetto ereditario di antitrombina III e la tendenza a sviluppare manifestazioni trombotiche nei membri di una famiglia norvegese che presentavano tale carenza. Osservò che i familiari portatori del difetto sviluppavano importanti manifestazioni trombotiche in giovane età, in assenza di particolari eventi scatenanti. Definì questa predisposizione alla trombosi con il termine di “trombofilia”, condizione opposta alla “emofilia” o tendenza all’emorragia legata a carenze ereditarie di altre proteine della cascata coagulativa. Successivamente, due nuovi inibitori della cascata coagulativa sono stati identificati e più precisamente la proteina C e la proteina S. Le prime famiglie con difetto ereditario di proteina C e di proteina S furono descritte da Griffin (7) nel 1981 e da Comp (8) e Schwarz (9) nel 1984, rispettivamente. I portatori dei difetti ereditari di proteina C o proteina S presentavano un rischio di sviluppare trombosi e/o recidive di trombosi del tutto simile a quello dei portatori di difetti di antitrombina III. Nei dieci anni successivi alla scoperta dei difetti di proteina C e proteina S, la ricerca nel campo della trombofilia si è orientata da una parte verso la caratterizzazione biochimica delle anomalie proteiche dell’ antitrombina III, proteina C e proteina S e dall’altra verso la individuazione, mediante tecniche di biologia molecolare, delle “lesioni” genetiche responsabili dei singoli difetti. All’inizio degli anni ‘90, erano già disponibili i primi database dei difetti degli inibitori della coagulazione (10-12). Tuttavia, come dimostrato da Heijboer et al. (13), la prevalenza globale di difetti genetici di inibitori della coagulazione nei pazienti con trombosi venosa, non superava il 10%. Si poteva pertanto a ragione ritenere che la trombofilia ereditaria, quale causa di trombosi, fosse una condizione relativamente rara. 5 Nel 1993 Dählback (14), un ricercatore svedese, portò all’attenzione del mondo scientifico il risultato delle sue ricerche nel campo della trombofilia dimostrando che un nuovo meccanismo denominato “resistenza alla proteina C attivata” era la causa di trombosi in un gran numero di pazienti. In sostanza, l’aggiunta di proteina C attivata esogena al plasma del paziente, non determinava l’atteso prolungamento del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT). Casistiche derivanti da centri diversi evidenziavano una prevalenza di resistenza alla proteina C attivata nel 20-40% dei pazienti con trombosi (15,16). Qualche mese più tardi, nel 1994, venne dimostrato da Bertina (17) che almeno nell’ 80 % dei casi la resistenza alla proteina C attivata era causata da una singola mutazione puntiforme nel gene del fattore V della coagulazione che determina la sostituzione aminoacidica dell’ Arginina 506 in Glutamina nella molecola del fattore V della coagulazione. Tale mutazione è stata denominata fattore V Leiden dal luogo in cui è stata identificata. La prevalenza del fattore V Leiden nella popolazione generale europea varia dal 2 al 15% (18,19). L’importanza della scoperta della resistenza alla proteina C attivata sta nel fatto che ha cambiato lo scenario etiopatogenetico della malattia trombotica venosa. Dopo questa acquisizione infatti, in circa metà delle trombosi vengono individuate alterazioni coagulative predisponenti su base ereditaria. A causa della sua alta prevalenza, spesso il fattore V Leiden può essere associato ad un difetto di inibitori della coagulazione. Si è verificato che l’associazione di più difetti trombofilici determina una più severa predisposizione alla trombosi (20-22). Questa osservazione ha aperto nuovi orizzonti all’interpretazione della malattia tromboembolica venosa chiamando in causa disordini genetici multipli come responsabili della predisposizione alla trombosi. Come accennato, accanto alle cause ereditarie, esistono delle cause “acquisite” di trombosi. Tra queste il cancro, le sindromi mieloproliferative e la sindrome nefrosica giocano un ruolo importante. Vi sono sicuramente dei fattori scatenanti la trombosi quali l’immobilizzazione, i traumi, gli interventi chirurgici, la assunzione di estroprogestinici e la gravidanza. E’ altresì chiaro che condizioni ereditarie ed acquisite responsabili di trombosi possono combinarsi tra loro. Così la predisposizione ereditaria alla trombosi può trasformarsi in malattia trombotica in presenza di un evento scatenante. Oggi si stanno accumulando evidenze crescenti sul fatto che la presenza di trombofilia ereditaria da difetto di antitrombina III, proteina C e proteina S condizioni pesantemente la storia naturale dei pazienti che hanno già manifestato un evento trombotico (23). Questo vale anche per la presenza del fattore V Leiden che sembra determinare un aumento del rischio di recidiva tromboembolica nei soggetti che abbiano già manifestato un primo evento trombotico (24,25). 6 Questa informazione risulta ancor più cruciale vista l’alta prevalenza del difetto e dal momento che esiste la possibilità di una prevenzione secondaria del tromboembolismo venoso, della sua morbilità e mortalità. Da ciò scaturisce anche l’importanza di poter identificare i portatori di trombofilia ereditaria e quindi di avere a disposizione dei tests di laboratorio adeguati per una diagnosi accurata. I difetti degli inibitori fisiologici della coagulazione I sistemi di anticoagulazione fisiologica implicati nel controllo dell’omeostasi coagulativa sono fondamentalmente due: il sistema della antitrombina ed il sistema proteina C/proteina S. Difetti o anomalie di proteine facenti parte di questi sistemi si associano ad un elevato rischio di sviluppare manifestazioni trombotiche. In linea generale, esistono due tipi di difetti che possono interessare singole componenti di questi sistemi, vale a dire difetti di sintesi (o difetti di Tipo I) in cui c’è una ridotta sintesi della proteina ed anomalie (o difetti di Tipo II) in cui viene sintetizzata una normale quantità di molecola che risulta però mal funzionante. Esiste peraltro la possibilità di difetti caratterizzati da una ridotta sintesi di proteina che funziona anche male, configurandosi così la situazione peculiare definita come difetto “ipo-dis”. La modalità di trasmissione di questi difetti è classicamente autosomica dominante. In linea generale la diagnostica di laboratorio di questi difetti prevede la esecuzione di tests funzionali ed immunologici destinati ad esplorare il fenotipo (la proteina). Le conoscenze attuali di biologia molecolare consentono di identificare in un gran numero di casi la corrispettiva lesione genetica. Difetti di antitrombina L’antitrombina è una glicoproteina plasmatica appartenente alla superfamiglia delle serpine in grado di inibire numerosi fattori attivati della cascata coagulativa. La sua azione principale nell’ambito della regolazione della cascata coagulativa si esplica nella inibizione dei fattori IIa (trombina) e Xa. La sua azione inibitrice è fortemente accelerata dalla presenza di eparina. Il difetto è trasmesso come carattere autosomico dominante a penetranza variabile. Gli studi delle famiglie di pazienti con difetto di AT, hanno documentato che le manifestazioni trombotiche possono essere presenti in maniera variabile fino nel 100% dei familiari portatori (26). La prevalenza dei difetti di AT nella popolazione generale sembra essere attorno allo 0.05%. Due studi riguardanti pazienti consecutivi con diagnosi oggettiva di trombosi venosa profonda hanno documentato una prevalenza di difetti di AT attorno all’1.1% (13, 27). In pazienti selezionati per età al di sotto dei 40 anni e storia familiare di trombosi la prevalenza dei difetti di AT sembra essere più alta essendo attorno al 4-7% (28). 7 La classificazione dei difetti di antitrombina ha subito numerosi rimaneggiamenti negli ultimi anni. Quella oggigiorno più usata prevede la divisione in difetti di Tipo I (ridotti livelli di attività ed antigene) che a sua volta ha due sottotipi a seconda che esista o meno un concomitante difetto di legame con l’eparina (“heparin binding defect”). I difetti di Tipo II o anomalie, prevedono la presenza di un normale livello di antigene. Ne esistono tre sottotipi a seconda che l’alterazione sia a carico del sito reattivo e del sito legante l’eparina, oppure solo del sito reattivo oppure di legame con l’eparina, rispettivamente. Altre proposte classificative sono state fatte, ma attendono una approvazione finale da parte della comunità scientifica (29). Approccio alla diagnosi di laboratorio dei difetti di antitrombina. Per quanto la caratterizzazione dei difetti genetici di antitrombina necessiti di buona esperienza e della possibilità di eseguire valutazioni immunologiche e studi genetici, l’individuazione dei potenziali portatori di questi difetti è praticamente alla portata di tutti i laboratori fin da molto tempo. Viene infatti diffusamente utilizzato per la determinazione della antitrombina un test cromogenico che valuta l’attività anti-IIa residua in presenza di eparina. Questo semplice test è in grado di identificare tanto i difetti di Tipo I quanto le anomalie di antitrombina. Esistono tuttavia rare anomalie dell’antitrombina evidenziabili soltanto mediante test che esplorino l’attività anti-Xa dell’inibitore. In questi casi, l’attività anti-lla risulta nella norma. La scelta pertanto di test di laboratorio basato sull’attività anti-Xa può essere preferibile per rivelare un maggior numero di anomalie (57). L’individuare due o più soggetti appartenenti alla stessa famiglia che presentino una riduzione dell’ attività dell’antitrombina è fortemente suggestivo per presenza di difetto ereditario. Va sottolineato il fatto che il difetto di antitrombina va sempre ulteriormente caratterizzato. E’ ben noto infatti che i soggetti portatori di anomalie di antitrombina con ridotta affinità di legame con l’eparina presentano un rischio di sviluppo di trombosi molto minore rispetto agli altri difetti. L’esecuzione di una elettroforesi bidimensionale in presenza di eparina nel gel di agarosio durante la prima corsa, è in grado di chiarire la presenza di un difetto di legame con l’eparina. Si ritiene che il test comunemente utilizzato per la determinazione dell’antitrombina possa essere utilmente impiegato nello screening di routine dei pazienti trombofilici. I difetti di proteina C La proteina C è una glicoproteina plasmatica vitamina K dipendente, sintetizzata nel fegato ed ha un PM di circa 60 kD. E’ lo zimogeno di una proteasi serinica, la proteina C attivata che esplica la sua azione degradando i fattori Va ed VIIIa. 8 La proteina C viene attivata a livello della superficie endoteliale dal complesso trombina-trombomodulina (30-32). Esistono tre tipi di difetto coagulativo (33): i difetti di Tipo I sono caratterizzati da una ridotta sintesi della proteina, con conseguente riduzione dei livelli di antigene ed attività nel plasma; nei difetti di Tipo II vi è una normale sintesi di proteina che presenta tuttavia una anomalia di funzione. La possibilità di esplorare con metodiche funzionali diverse l’attività della proteina C ha consentito di mettere in evidenza l’esistenza di anomalie con comportamento diverso ed inquadrabili in due sottogruppi: un primo gruppo di anomalie presenta tipicamente una riduzione di attività della proteina C sia essa determinata con metodo cromogenico che coagulometrico. In un secondo gruppo di anomalie l’attività determinata con metodo cromogenico risulta essere normale, mentre quella coagulometrica è ridotta. La spiegazione di questi differenti comportamenti è legata a sostituzioni aminoacidiche in particolari sedi della molecola. Le anomalie con discrepante attività presentano principalmente mutazioni che spesso coinvolgono il dominio “GLA” della molecola (34,35). Il difetto di Tipo III che è rappresentato dalla ridotta sintesi di una proteina disfunzionale è molto raro ed è generalmente legato a più lesioni nel gene della proteina C. Tra questi si potrebbe annoverare un difetto di glicosilazione recentemente descritto (36): la proteina C ipoglicosilata per effetto della sostituzione dell’asparagina in posizione 329 con una treonina risulta sintetizzata in maniera quantitativamente ridotta e disfunzionale. Approccio alla diagnosi di laboratorio dei difetti di proteina C. Con l’utilizzo dei tests funzionali è possibile individuare i potenziali portatori di difetti genetici. I tests più usati si basano sull’attivazione della proteina C (PC) presente nel campione in esame mediante Protac®, una sostanza contenuta nel veleno di serpente Agistrodon Contortrix Contortrix. L’azione della proteina C endogena così attivata, si valuta quindi verificando il prolungamento da essa determinato di un aPTT (metodo coagulometrico) o la capacità della stessa di agire su un substrato cromogenico specifico (metodo cromogenico). Quale dei due tests funzionali è consigliabile nella diagnosi di routine dei difetti di proteina C? I metodi sono equivalenti nella identificazione dei difetti di Tipo I. Per quanto riguarda i difetti di Tipo II, il metodo coagulometrico è in grado di identificare tutte le varianti, mentre a quello cromogenico sfuggono le varianti con riduzione esclusiva della attività coagulometrica (34,35). Queste ultime costituiscono un gruppo che non supera il 5-10% delle molecole di PC disfunzionale finora identificate. Oggi che il miglioramento della qualità dei reagenti ha reso pressochè equivalenti in termini di applicabilità questi due metodi, sembrerebbe più conveniente l’utilizzo di un test coagulometrico in grado di Protac® è un marchio registrato della Pentapharm 9 identificare tutti i potenziali difetti di proteina C. Va detto tuttavia che in circa il 30% dei pazienti con mutazione del fattore V tipo Leiden, ovvero con APC-resistance, i livelli di proteina C determinati con metodo coagulometrico possono risultare diminuiti a causa dell’interferenza provocata dalla presenza del fattore V mutante e non per una reale carenza di proteina C (37-39). Ecco perchè alla luce di ciò alcuni laboratori preferiscono ricorrere all’utilizzo del test cromogenico, non sensibile a tale interferenza. Va da sè, che la scelta dipende dal contesto in cui il laboratorio opera, per cui nei centri specializzati per lo studio della trombofilia possono essere utilizzate in sequenza metodiche diverse per giungere ad una più completa definizione del difetto. In questo contesto le tecniche di valutazione della concentrazione antigenica e dello studio della proteina mediante immunoblotting completano la diagnostica, consentendo nella maggior parte dei casi l’inquadramento del difetto in uno dei tre tipi soprammenzionati. In Figura 2 è riportato uno schema decisionale che può essere utilizzato per la diagnostica dei difetti di proteina C. Ridotta Ridotta PC attività coagulometrica Ridotta PC attività cromogenica PC Ag Normale Normale Probabile difetto tipo II classico APC resistance (FV Leiden) 1. Probabile difetto tipo II variante con coagulometrico ridotto 2. Interferenza da presenza di anticorpi antifosfolipidi o altra Difetto combinato anomalia PC + FV Leiden • Studio familiari • Studio attività coagulometrica della PC dopo estrazione dal plasma Fig. 2. Studio familiari NO SI Difetto “spurio” di PC da interferenza Probabile difetto tipo I Studio familiari 10 I difetti di proteina S La proteina S è una glicoproteina vitamina K dipendente, sintetizzata principalmente dal fegato ed agisce come cofattore della proteina C attivata nella inattivazione dei fattori Va ed VIIIa. Nel plasma è presente in una forma libera e funzionalmente attiva (circa il 40%) ed in una forma complessata con il C4B-binding protein che risulta inattiva (circa il 60%) (31,32). La classificazione dei difetti ereditari di proteina S è ancora controversa soprattutto per le problematiche derivanti dal legame della proteina S con il C4B-bp (33). Poichè, come detto, la forma funzionalmente attiva è quella libera, c’è chi ritiene che sia la sola a dover essere presa in considerazione ai fini di una valutazione laboratoristica. L’orientamento generale resta tuttavia quello di valutare tanto la quantità totale che la porzione libera della proteina S mediante metodi immunologici, nonchè di valutarne la funzionalità. Tenendo conto di ciò sono stati individuati tre tipi di difetto di proteina S (PS). Nel Tipo I (difetto “vero”) vi è una riduzione sia della quota totale che libera con conseguente riduzione dell’attività nel plasma (che ovviamente va di pari passo con la riduzione della frazione libera che è quella funzionalmente attiva). Nei difetti di Tipo II (anomalia), la PS totale e libera sono quantitativamente normali. E’ tuttavia presente una ridotta attività nel plasma. Il difetto di Tipo III , è caratterizzato da una normale o quasi normale quantità di proteina S totale e da ridotti livelli di PS libera e di PS attività. La maggior parte dei difetti di PS riportati in letteratura sono del Tipo I e III. Le anomalie di PS sembrano essere molto rare. Recentemente è stato ipotizzato che i difetti di Tipo I e di Tipo III siano espressione diversa dello stesso tipo di lesione genetica (40) in quanto è stato riscontrato che possono coesistere nei membri di una stessa famiglia. Approccio alla diagnosi di laboratorio dei difetti di proteina S. Poichè in tutti i tipi di difetto è presente una riduzione dei livelli di attività di PS, è consigliabile utilizzare in prima istanza un test funzionale. Sono disponibili tests coagulometrici ottenuti con metodica variante del PT, dell’aPTT e del tempo di coagulazione con Xa. Questi tests hanno il vantaggio di poter essere eseguiti senza la necessità di separare la PS libera dalla quota complessata con il C4B-bp. Sono pertanto facilmente impiegabili nella pratica quotidiana per lo screening emocoagulativo della trombofilia. Anche per quanto riguarda questi tests si è visto che in un certo numero di casi la presenza del fattore V Leiden nel plasma può determinare una apparente riduzione dei livelli funzionali di proteina S (38,41). E’ sempre necessaria pertanto un’attenta valutazione del risultato ottenuto prima di assegnare ad un valore funzionale ridotto il significato di difetto. In passato, per le ragioni di cui sopra, alcuni soggetti portatori di FV Leiden, hanno ricevuto una diagnosi erronea di anomalia di PS (o difetto di Tipo II) (42). 11 La valutazione laboratoristica dei difetti di PS prevede la determinazione dei livelli di antigene totale e libero nel plasma. Oltre alle tecniche di immunoelettroforesi (Laurell, bidimensionale) che richiedono una fase preanalitica (precipitazione della frazione complessata con polietilene-glicole), sono disponibili dei kit per la valutazione immunoenzimatica. Di particolare interesse sono quelli in grado di valutare direttamente sul plasma del paziente, mediante l’utilizzo di un particolare anticorpo monoclonale, soltanto la frazione libera della proteina S. Dal momento che, tanto i difetti di Tipo I che di Tipo III, i quali costituiscono la quasi totalità dei difetti di PS, presentano una riduzione della quota libera, e poichè il test immunoenzimatico non risente di interferenze dovute a presenza di altri difetti, alcuni laboratori eseguono soltanto questa valutazione. Fermo restando che il test ottimale dovrebbe prevedere l’estrazione della proteina S libera dal plasma e la sua successiva valutazione antigenica e funzionale, questo approccio non è tuttavia pratico nè realizzabile nello screening routinario. E’ preferibile eseguire comunque un test funzionale di screening della proteina S (per esempio il test basato sul PT (43), nella nostra casistica, è stato in grado di identificare tutti i soggetti portatori di difetti congeniti di PS), e di valutarne il risultato in relazione agli altri test coagulativi che devono comunque essere previsti nel pannello di test per la diagnostica della trombofilia. Va da sè, che in assenza di altre cause acquisite di riduzione dei livelli di PS e in assenza di APC-resistance da FV Leiden, il riscontro di bassi livelli funzionali di PS è fortemente suggestivo di difetto ereditario, specialmente se lo stesso pattern laboratoristico viene riscontrato nei familiari. Nel caso di ridotti livelli funzionali di PS in presenza di APC-resistance, una concomitante riduzione dei livelli di PS libera antigene è suggestiva di difetto combinato (PS+FV Leiden), mentre valori normali di antigene, fanno propendere verso una interferenza dovuta a fattore V Leiden, essendo il difetto di PS tipo II a tutt’oggi molto raro. In entrambi i casi, lo studio dei familiari, la valutazione funzionale ed antigenica della PS dopo estrazione dal plasma e/o l’eventuale studio genetico, potranno fornire gli elementi per la definizione diagnostica. Resistenza alla proteina C attivata E’ una condizione ormai ben nota visto che, da quando nel 1993 Dählback (14) ne annunciò la scoperta, decine di migliaia di pazienti con tale difetto sono stati identificati in numerosi centri al mondo. Oggi sono disponibili informazioni cliniche e di laboratorio su questo difetto che non hanno paragone con quanto si sa per altre anomalie della coagulazione. 12 Ciò è dovuto innanzitutto all’alta prevalenza del difetto nella popolazione generale e nei trombotici in particolare, alla semplicità e disponibilità dei test diagnostici (i test per l’APC-resistance erano disponibili in commercio ancor prima di conoscere la proteina e la lesione molecolare responsabili di tale fenomeno), all’interesse di numerosi laboratori di tutto il mondo alla diagnostica di tale difetto per le possibili implicazioni di management dei molti portatori (2325) e alla necessità di chiarire numerose condizioni di trombofilia familiare non inquadrabili sulla scorta delle precedenti conoscenze. La resistenza alla proteina C attivata è legata nell’ 80% dei casi ad una mutazione puntiforme nel nucleotide 1691 (G ➔ A) del gene del fattore V che determina una singola sostituzione aminoacidica nella molecola del fattore V (Arginina 506 ➔ Glutamina; FV: Q506 o FV Leiden) in uno dei siti di clivaggio della proteina C attivata (17). Ciò determina una più lenta inattivazione del fattore Va da parte della APC (44). L’aggiunta di APC al plasma normalmente prolunga il tempo di coagulazione (aPTT, etc) in quanto cliva i fattori Va ed VIIIa. I pazienti che hanno il fattore V Leiden nel plasma possono essere in parte o completamente insensibili all’azione dell’ APC per cui il prolungamento dell’ aPTT è minore di quanto normalmente atteso, o addirittura assente, a seconda ci sia un difetto eterozigote od omozigote, rispettivamente(47). La sensibilità del plasma in esame alla azione dell’ APC viene espressa come rapporto tra aPTT in presenza di APC e aPTT basale. Un valore di ratio > 2.0 viene accettato come normale. Sono già stati fatti i primi tentativi di normalizzazione e standardizzazione dei valori ottenuti con varie metodiche e vari strumenti in diversi laboratori (45). Approccio alla diagnosi di laboratorio della resistenza alla proteina C attivata. I metodi oggi in commercio sono sicuramente affidabili e sono già in uso tanto nei laboratori di routine quanto in quelli di ricerca in campo coagulativo, vista la ottima affidabilità e messa a punto di questi test. L’iniziale non applicabilità di questi test ai pazienti con tempo di coagulazione basale prolungato, ad esempio per trattamento anticoagulante orale in atto, è stata superata dall’introduzione di una pre-diluizione del plasma in esame in plasma carente di fattore V. Questo artifizio elimina possibili interferenze legate alle variazioni dei livelli degli altri fattori nel plasma in esame. L’indicazione all’utilizzo del test modificato si è oggi estesa a tutti i soggetti in quanto in questo modo il test risulta più specifico per la mutazione del fattore V Leiden (46,47). Resta tuttavia sempre opportuno ottenere una conferma diagnostica con analisi del DNA prima di attribuire il quadro fenotipico riscontrato con il test dell’ APC-resistance, alla presenza di mutazione del fattore V Leiden. 13 Questo è particolarmente vero per la “pseudo-omozigosi” per APCresistance, un difetto non rarissimo caratterizzato dalla combinazione di un difetto “vero” di fattore V (tipo I) a livello eterozigote con la mutazione del fattore V Leiden anch’essa a livello eterozigote (48). In questi soggetti il test dell’APC-resistance tanto nella versione originale quanto in quella modificata, documenta un fenotipo indistinguibile da quello dei soggetti omozigoti per FV Leiden. Il genotipo, ovviamente per definizione, è quello eterozigote. L’importanza di riconoscere tale condizione sta nel fatto che, sul piano clinico, in termini di rischio trombotico, i pazienti con pseudo-omozigosi si comportano come degli omozigoti (48). Sono state recentemente identificate due mutazioni a carico dell’Arg306 una delle quali sembra responsabile del fenotipo APC-resistance. I primi dati disponibili fanno ritenere che queste mutazioni siano molto rare. Trombofilia ereditaria: correlazione tra il laboratorio e la clinica Nei paragrafi precedenti sono state esaminate alcune problematiche diagnostiche peculiari del laboratorio della trombofilia ereditaria. Il problema del laboratorio oggi non riguarda tanto la messa a punto dei test per l’individuazione dei difetti ereditari sopramenzionati quanto piuttosto l’utilizzo di quelli esistenti con strategie diverse che consentano il raggiungimento dell’obbiettivo od un orientamento diagnostico nella routine quotidiana. Tale obbiettivo deve necessariamente tenere presente del contesto in cui si opera per cui può essere sufficiente per la maggior parte dei laboratori uno screening di “primo” livello, ovvero l’individuazione di un possibile, potenziale problema di trombofilia da riferire quindi a strutture in grado di approfondire la diagnostica, individuandone la causa in modo più accurato. Ciò è simile a quanto accade quotidianamente quando si incontra un prolungamento del PT e/o dell’aPTT in pazienti con diatesi emorragica: il laboratorio di screening coagulativo è in grado di evidenziare il malfunzionamento del sistema emostatico mentre la individuazione e caratterizzazione del difetto sottostante è generalmente appannaggio di laboratori più specialistici. E’ necessario innanzitutto avere ben chiaro cosa sia indispensabile andare a ricercare e quali pazienti debbano essere oggetto di indagine. Nella Tabella 1 sono presentate le principali cause di trombofilia ereditaria in cui una associazione con la trombosi venosa profonda è stata ricercata e chiaramente documentata ed altre condizioni per le quali non esistono ancora evidenze definitive. Non c’è dubbio che i difetti di antitrombina, proteina C, proteina S ed APC-resistance siano associati a manifestazioni trombotiche ed influenzino la storia naturale di chi ha già sviluppato l’evento trombotico (23-25). Queste condizioni devono pertanto essere necessariamente incluse nello screening. 14 Anche alcune disfibrinogenemie, seppur molto rare, appaiono associarsi a trombosi. Numerose pubblicazioni hanno documentato una associazione tra iperomocisteinemia e trombosi venosa (49,50). Non si conosce tuttavia l’esatta implicazione clinica di tale associazione in quanto mancano follow-up prospettici di pazienti asintomatici o sintomatici per trombosi venosa necessari per una precisa definizione del rischio trombotico e/o di recidiva di trombosi. Lo stesso dicasi per un’altra condizione chiaramente associata a trombosi venosa, vale a dire la protrombina variante G 20210 A, di cui non si conosce ancora l’esatto significato clinico (51). Di tutte le altre condizioni genetiche potenzialmente responsabili di trombofilia, mancano evidenze certe di una reale associazione. Pertanto, in linea generale, tanto per l’iperomocisteinemia come per la protrombina variante G 20210 A, quanto per le altre condizioni in cui l’associazione non sia certa, non esiste ancora l’indicazione ad inserirle nello screening emocoagulativo di routine. Per completezza, anche se non oggetto di questa monografia, va detto che un’altra condizione “acquisita”, causa di trombofilia, di grande interesse laboratoristico è rappresentata dagli anticorpi antifosfolipide ed in particolare dal lupus anticoagulant. La presenza di questa condizione si associa in maniera rilevante a rischio di trombosi venosa con importanti implicazioni cliniche. Va pertanto ricercata nello screening emocoagulativo al pari dei difetti di antitrombina, proteina C e proteina S. Benchè il pannello dei test di screening per trombofilia da eseguire possa a ragione essere ristretto alle quattro condizioni congenite sopraddette più il lupus anticoagulant, devono essere comunque individuati i soggetti/pazienti candidati a ricevere tale screening. Oggigiorno ai laboratori viene richiesto di eseguire screening emocoagulativi per trombofilia per alcune categorie di pazienti che a grandi linee sono le seguenti: 1. pazienti con tromboembolismo venoso in atto o pregressa storia di tromboembolismo; 2. familiari di pazienti con tromboembolismo venoso in cui sia stato diagnosticato un difetto trombofilico, al fine di identificare gli eventuali portatori; 3. donne in età fertile che stanno assumendo o dovranno assumere estroprogestinici, oppure in corso di gravidanza / puerperio; questo gruppo di soggetti viene solitamente riferito al laboratorio dai ginecologi; 4. pazienti che in età giovanile (< 45 anni) hanno manifestato un evento trombotico arterioso (ictus ischemico, infarto del miocardio, etc.) da causa ignota; vengono solitamente inviati dai reparti di neurologia, UCIC; 15 5. bambini che hanno sviluppato un evento trombotico venoso non diversamente spiegabile oppure un ictus ischemico; vengono solitamente inviati dai reparti di pediatria. Circa il 90% degli screening vengono richiesti per pazienti appartenenti ad una di queste categorie. E’ pertanto di importanza cruciale conoscere cosa ci sia da attendersi in termini di prevalenza di difetti trombofilici nei pazienti trombotici e sulla popolazione generale. Le Tabelle 2, 3 e 4 presentano i dati relativi ad alcune casistiche mondiali e del Centro per la Diagnosi e Cura delle Trombosi di Padova per quanto riguarda la prevalenza dei difetti ereditari di antitrombina, proteina C e proteina S e della resistenza alla proteina C attivata nei pazienti con trombosi venosa e in controlli sani. A seconda delle varie casistiche, in una percentuale totale variabile tra il 25% ed il 60% dei pazienti con trombosi venosa è possibile identificare uno dei quattro difetti congeniti menzionati. Se è sicuramente utile sul piano eziopatogenetico stabilire la presenza di un difetto, lo è ancor di più se la conoscenza di ciò porta a modificare le decisioni mediche in termini di durata di terapia. E’ stato dimostrato che la presenza di tali difetti aumenta il rischio di recidiva di trombosi nei soggetti che hanno già avuto un evento trombotico rispetto a coloro che non sono portatori (23-25, 52). PREVALENZA DEI DIFETTI DI AT, PC E PS NEI PAZIENTI CON STORIA DI TROMBOSI Gladson Ben-Tal Heijboer Melissari Paringer Koster Simioni 1988 1989 1990 1992 1992 1995 1996 AT % 3 7.5 1.1 5 2.8 1.1-4.2 1.8 PC % 4 5.6 3.2 9.2 2.5 2.7-4.6 4.3 PS % 5 2.8 2.2 7.6 1.3 1.1-3.1 3.2 Totale % 12 16 6.5 21.8 7.1 4.9-11.9 9.3 Tab. 2. PREVALENZA DEI DIFETTI DI AT, PC E PS NELLA POPOLAZIONE NORMALE AT % Miletich Heijboer* Tait Tait Koster Tab. 3. 1988 1990 1994 1995 1995 0 0.16 0.2-1.9 PC % 0.3-0.5 0.1 0.2 0.4-1.5 PS % 0 0.7-2.3 *Outpatients sintomatici senza DVT. 16 PREVALENZA DELA RESISTENZA ALLA APC IN PAZIENTI TROMBOTICI ED IN INDIVIDUI SANI Koster et al. Griffin et al. Svensson et al. Cadroy et al. Fermo et al. Simioni et al. 1993 1993 1994 1994 1995 1997 Pazienti con trombosi (%) Individui sani (%) 21 52-64 40 19 11.2 16.3 5 7 1 DVT confermata con venografia Tab. 4. Pur non essendoci ancora dati definitivi sul management di questi pazienti, è possibile che i pazienti sintomatici portatori di difetto possano giovarsi di una durata maggiore di anticoagulazione rispetto ai non portatori ai fini della prevenzione secondaria del tromboembolismo venoso. Sta di fatto che lo screening per trombofilia nei pazienti sintomatici per trombosi è in grado di individuare un gruppo di pazienti (i portatori di difetto) a maggior rischio di recidiva e che quindi necessitano di maggiori sorveglianza e cure. Ciò giustifica ampiamente l’indicazione allo screening dei pazienti con trombosi venosa ed i costi di esecuzione. Più controversa è a tutt’oggi la pratica di eseguire lo screening coagulativo nei familiari di soggetti sintomatici portatori di difetto genetico. Infatti l’utilità di identificare familiari portatori asintomatici di difetto trombofilico ai fini di effettuare una tromboprofilassi nelle situazioni a rischio dipende dal reale rischio che questi soggetti hanno di divenire sintomatici. La maggior parte delle stime di questo rischio derivano da studi caso-controllo e non sono applicabili di fatto su casistiche di portatori di difetto identificati per mezzo di studi familiari. Sono tuttavia in corso in vari centri europei degli studi di coorte dove l’incidenza delle manifestazioni tromboemboliche, dopo esclusione dei propositi, nei familiari con difetto è paragonata a quella dei familiari senza difetto. I dati preliminari dimostrano che i familiari portatori di difetto di antitrombina, proteina C e proteina S hanno un rischio di sviluppare trombosi idiopatiche o in presenza di fattori scatenanti circa dieci volte superiore ai familiari non affetti. Per i portatori di FV Leiden questo rischio sembra essere circa tre volte superiore rispetto ai non portatori (53). Anche in questo caso, pertanto, lo studio familiare individua dei gruppi di soggetti a maggior rischio di trombosi e ciò pertanto può giustificare l’esecuzione di tali test nei familiari ai fini di identificare coloro che possono giovarsi di una adeguata tromboprofilassi. 17 In seguito alla scoperta dell’ APC-resistance e al riscontro di un aumentato rischio di sviluppare trombosi durante la terapia estroprogestinica nelle pazienti portatrici di tale difetto (54), si è assistito ad una aumentata richiesta, da parte dei ginecologi, di effettuare screening emocoagulativi prima della somministrazione di tali farmaci. La problematica si era già posta in passato con i difetti di antitrombina, proteina C e proteina S (specialmente documentato per i difetti di antitrombina) che espongono ad aumentato rischio di manifestazioni tromboemboliche le donne che assumono la pillola. Questi ultimi difetti sono tuttavia rari nella popolazione generale, mentre come già detto, ben più frequente è il difetto di fattore V Leiden. Nella pratica comune prima della prescrizione della pillola vengono richiesti test coagulativi quali PT, aPTT, fibrinogeno ed antitrombina. Potrebbe essere ragionevole includere il test per la resistenza alla proteina C attivata, quella per la proteina C e per la proteina S. Se da un lato uno screening emocoagulativo di questo tipo può avere dei costi, va anche detto che, se eseguito correttamente, dà una informazione definitiva sulla presenza o meno di un difetto ereditario e non necessita di essere ripetuto ulteriormente nel corso della vita. Il riscontro di un determinato difetto genetico consente di fornire alla paziente una adeguata informazione sul rischio a cui può essere esposta con assunzione della pillola anticoncezionale. Nel “counselling” delle pazienti con trombofilia ereditaria va anche considerato, tuttavia, il “mancato beneficio” derivante dalla non assunzione del farmaco. Per quanto riguarda il ruolo dei difetti di inibitori della coagulazione e della reistenza alla proteina C attivata nel determinare eventi trombotici arteriosi (stroke, MI), la problematica è ancora piuttosto dibattuta. Pur in mancanza di studi adeguati che dimostrino una reale associazione o la neghino, può essere utile escludere la presenza di trombofilia ereditaria in questi soggetti che, per effetto della loro patologia che si accompagna spesso a immobilizzazione, possono essere particolarmente predisposti allo sviluppo di complicanze tromboemboliche venose. La patologia trombotica dei bambini riguarda in particolare i portatori di cateteri venosi e/o quelli con neoplasie in corso di chemioterapia e non. Il ruolo della trombofilia ereditaria nel bambino non è del tutto chiara. Vi sono numerose segnalazioni in letteratura che riportano un possibile ruolo dei difetti degli inibitori della coagulazione e dell’APC-resistance nel determinare eventi trombotici venosi e arteriosi (stroke) in età pediatrica. 18 Considerazioni conclusive Nei paragrafi precedenti si è cercato di mettere in luce non tanto gli aspetti conoscitivi legati alla trombofilia in generale ed ai singoli difetti ereditari in particolare, alle loro problematiche classificative e alla correlazione genotipo-fenotipo, quanto piuttosto alcuni aspetti pratici di diagnostica laboratoristica ragionata al fine di poter utilizzare al meglio ed orientare la scelta dei test oggi disponibili nella maggior parte dei laboratori. Tale scelta va contestualizzata al tipo di pazienti che giungono con richiesta di screening. In buona sostanza, con un test funzionale cromogenico per l’attività dell’antitrombina, un test coagulometrico per l’attività della proteina C, un test per l’attività della proteina S ed un test per la valutazione della resistenza alla proteina C attivata si è in grado di mettere in luce l’esistenza di un potenziale problema trombofilico (Tabella 5) e comunque di sospettare la presenza di quelle patologie su base ereditaria oggi ritenute fortemente associate a rischio trombotico. Questo allo stato attuale costituisce il “pannello” di minima da applicare routinariamente. E’ chiaro che alla identificazione deve necessariamente seguire una caratterizzazione dei difetti che deve essere effettuata con test immunologici e/o di biologia molecolare in laboratori specializzati. TEST DI SCREENING PER TROMBOFILIA (primo livello) • PT, PTT, TT • Antitrombina attività • Proteina C attività (coagulometrico) • Proteina S attività (coagulometrico) • Resistenza alla APC (modificato) • Lupus anticoagulant Tab. 5. 19 Prospettive future Proprio nell’ottica di una semplificazione della diagnostica della trombofilia, soprattutto diretta verso esigenze dei laboratori di routine, sulla scorta delle osservazioni della interferenza sopramenzionata del FV Leiden nei dosaggi funzionali coagulometrici di proteina C e proteina S , sono stati messi a punto dei test “globali” di funzione del sistema anticoagulante della proteina C (55,56). Il principio è quello di analizzare con un unico test la funzione del sistema anticoagulante “in toto” e di identificare l’eventuale difetto di funzione. Pertanto difetti di proteina C, proteina S e resistenza alla proteina C attivata, in grado di alterare la funzione di questo sistema, potrebbero essere sospettati sulla base di un test globale alterato. Alcune perplessità sono emerse in seguito al fatto che alcuni dei difetti di proteina C o proteina S non vengono identificati dal test globale. A tal proposito, un’ipotesi di estremo interesse che resta da verificare, è quella che la funzione globale del sistema sia sufficiente a garantire una “normale” fisiologica anticoagulazione pur in presenza del difetto sottostante. Con la messa a punto dei test globali si potrebbe così prospettare il loro utilizzo in routine per una valutazione del sistema di anticoagulazione fisiologica della proteina C accanto ai test PT ed aPTT comunemente eseguiti. I risultati ottenuti con studi preliminari dei test globali applicati in routine sembrano promettenti. Si intravvede così la possibilità di un approccio semplificato che preveda l’esecuzione di pochi test di screening per la valutazione basale del potenziale trombofilico nei pazienti con malattia trombotica e non, più idoneo a far fronte alle crescenti richieste di screening emocoagulativo a cui si è assistito in questi ultimi anni. 20 BIBLIOGRAFIA 1. Virchow R. Gesammelte Abhandlungen zur Wissenschaftlichen Medizin. Meidinger Sohn, Frankfurt, 1856, 219. 2. Jaffe EA. Biochemistry, immunology and cell biology of endothelium. In: Colman RW, Hirsh J, Marder VJ, Salzman EW (edit): Hemostasis and Thrombosis. Basic principles and clinical practice. JB Lippincott, Philadelphia, 1993: 718-744. 3. Kefalides NA. The biochemistry and molecular biology of extracellular matrix. In: Colman RW, Hirsh J, Marder VJ, Salzman EW (edit): Hemostasis and Thrombosis. Basic principles and clinical practice. JB Lippincott, Philadelphia, 1993: 745-761. 4. Salzman EW, Hirsh J. 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