La bella e la bestia

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La bella e la bestia
La Bella e la Bestia
La Bestia mi vinse a mio padre con una mano a poker.
Una strana pazzia colpisce i viaggiatori del Nord quando raggiungono questo paese. Giungiamo da
luoghi dal tempo terribile; a casa siamo in perenne lotta con la natura, ma qui, qui pensi di essere
giunto nell’Eden, nella terra promessa dove il leone dorme con l’agnello. Fecondata ogni anno dal
sole, questa fertile terra delizia la vista con fiori multicolori e satura l’aria di voluttuosi profumi.
Frutti squisiti sembrano maturare apposta per inebriare i sensi. Ma il desiderio umano è insaziabile,
come per una droga che induce rapida assuefazione, i sensi infettano il cervello e sembrano gridare:
di più, ancora lussuria! Invece gli alberi si spogliano e la neve arriva, anche qui, svelando che è solo
illusione, la vana speranza dell’uomo di trovare la felicità sulla terra. Prima o poi la neve ti
raggiunge, non si può scappare al proprio destino. La osservavo danzare frenetica dietro le finestre,
quel candido oracolo che presagiva la fine della mia infanzia e l’inizio, col rapimento dall’affetto
paterno, del declino verso un inverno gelato ed eterno come l’Inferno.
Chi avrebbe potuto rifiutare l’invito che il suo valletto ci portò nei nostri alloggi? Di sicuro non il
mio ossequioso padre, così onorato di ricevere il personaggio più illustre del paese e di poterlo
intrattenere con una fruttuosa partita a carte. La Bestia, un soprannome certo dovuto al suo stemma
araldico. L’avevo fissato a lungo il leone impresso nella cera sanguigna che sigillava la lettera,
fantasticando, emozionata, sulle fattezze del nobile signore. L’invito era rivolto anche a me, creando
un precedente che avrebbe segnato finalmente il mio ingresso in società.
Quando arrivò il gentiluomo mi offrì la rosa che teneva nel taschino del suo abito impeccabile,
anche se fuori moda, mentre il valletto gli puliva il mantello dalla neve. Sotto al tavolo da gioco,
petalo dopo petalo, le mie dita nervose spogliavano quella rosa bianca, innaturale, fuori stagione. I
miei sensi erano sempre più turbati dall’aspetto dell’illustre ospite. Non avevo mai visto un uomo
tanto enorme e nonostante ciò elegante e aggraziato nei movimenti. Sebbene l’aspetto del suo abito
vecchio-stile facesse intuire che l’aveva acquistato anni addietro, molto tempo prima che si
rinchiudesse nella sua fortezza di solitudine, ciò nonostante sembrava non aver bisogno di stare al
passo coi tempi. Solo ad una certa distanza avresti pensato che la Bestia fosse un essere umano
come gli altri, perché solo dal lontano non avresti notato la maschera che portava sul volto. Una
maschera su cui era dipinto il più bello dei volti, una vera opera d’arte. Un viso bellissimo, certo,
ma forse così simmetrico nei tratti da non poter essere del tutto umano. Un profilo era il riflesso
perfetto dell’altro, perfetto in maniera inverosimile. Portava anche una parrucca dai boccoli
posticci, del tipo che si vedono nei vecchi ritratti e dei guanti bianchi che ricoprivano le sue mani
enormi, le uniche parti del corpo impacciate nei movimenti. Faticavi a credere che le carte fossero il
suo passatempo preferito, a giudicare dalla difficoltà con cui le teneva in mano. La stanza era satura
del suo profumo, troppo prepotente e dolce. Ci doveva essersi fatto il bagno, e aver inzuppato anche
i vestiti, per rendere fastidioso un così buon profumo. Di cosa mai puzzava tanto da aver bisogno di
un tale espediente? Perfino la sua voce aveva qualcosa di inquietante e intrigante allo stesso tempo.
Le sue parole erano amplificate dalla maschera, come se echeggiassero in una gola profonda prima
di uscire rauche e incomprensibili. Solo il servo riusciva a interpretarle e solennemente le ripeteva,
come se stesse traducendo un’antica lingua e non sopperendo a qualche evidente difetto.
Prima che la mia rosa perdette l’ultimo petalo, a mio padre pure non era rimasto niente. Solo me.
Sul banco erano girate cinque carte, comuni ai due giocatori, due assi, quella di fiori e quella di
cuori, fante e donna, sempre di fiori, e un due di picche. So in cuor mio che era sicuro che non mi
avrebbe mai persa, sarei stata messa sul piatto solo con la certezza di vincere e solo il tempo
necessario per recuperare le nostre terre e ricchezze perdute. Non solo, la Bestia aveva scommesso
il suo palazzo, le sue terre, le sue rendite, i suoi scrigni, le sue opere d’arte, i suoi titoli…
Il gioco d’azzardo è una malattia che si nutre della superstizione. Mio padre ovviamente credeva nei
miracoli, quale giocatore non ci crede? La definizione stessa di miracolo come evento impossibile è
fuorviante. Cos’è in realtà un miracolo se non solo altamente improbabile? Come la coincidenza di
avere in mano le rimanenti due assi, il miracolo che mio padre attendeva per rivincere tutto, ma a
quale prezzo! Mio padre non mi avrebbe valutata meno di un regno, non mi avrebbe mai dato via se
nel piatto non ci fosse stato molto di più e combinazione, quella era la posta in gioco. La Bestia mi
accettò come puntata e mostrarono le carte, le due assi di mio padre contro il suo dieci e il suo re di
fiori. Era quasi l’alba, un silenzio assordante avvolgeva la stanza, come se il mondo avesse
trattenuto il respiro e nulla fosse accaduto o potesse accadere. Colui che da allora in avanti avrei
chiamato mio signore si alzò dal tavolo da gioco, lasciando mio padre con lo sguardo fisso sul
tradimento delle sue carte, sul miracolo che gli si era voltato contro. Da questo accecato, non aveva
considerato la possibilità di una fatalità ancora più improbabile. Il valletto coprì il suo padrone con
il mantello mentre spiegava che sarebbe tornato la mattina successiva a reclamare le sue vincite e
per condurmi a palazzo.
“La mia perla, la mia inestimabile gioia, perduta per sempre” piagnucolò mio padre. Al che la
Bestia emise un improvviso e terribile suono, un incrocio tra un ruggito e un urlo; le piccole
fiammelle delle candele vibrarono nella stanza. Il valletto tradusse:
“Il mio padrone dice: se ha così poca cura dei suoi tesori, dovrebbe aspettarsi che gli vengano
portati via”
Il gentiluomo fece il più profondo degli inchini, quasi a toccare terra con gli arti superiori per
andarsene sulle quattro zampe, ma fu solo un’impressione, si rialzò e dateci le spalle uscì dalla
stanza con passo felino.
Continuai a fissare la neve finché, appena prima dell’alba, cessò di cadere.
La carrozza della Bestia, dalle linee eleganti anche se antiquate, era di legno scuro. Era trainata da
un cavallo nero e vivace, che soffiava nuvole di vapore dalle narici mentre pestava irrequieto la
coltre di neve ghiacciata. Il valletto cominciò a caricare le vincite del suo padrone, mentre salutavo
mio padre in lacrime.
Perduta alla Bestia! E quale, mi chiedevo, era l’esatta natura della sua bestialità? Mi avrebbe
picchiata, mi avrebbe privato dell’innocenza con la forza. Sinceramente non vedevo alcuna
differenza con ciò a cui la mia nutrice mi aveva preparata: alla prima notte di nozze, alla vita
coniugale. Ma il mio signore non era come ogni altro essere umano, non aveva un volto come il
mio, altrimenti perché avrebbe portato una maschera? Che fosse rimasto sfregiato? Che fosse affetto
da una grave malattia? Oppure la spiegazione era molto meno scientifica? Tempo addietro mio
padre mi raccontò che i cacciatori del nostro villaggio gli portarono un teschio trovato durante la
battuta di caccia. Aveva due lunghe corna caprine sulla fronte e non vollero tornare sul luogo del
ritrovamento senza il prete, perché quel teschio aveva la mascella di un uomo, non era forse così?
No, probabilmente no, non esistono tali mostruose creature, metà uomini e metà animali. Solo
superstizioni, favole per spaventare i bambini. Così pensava quella bambina delle storie che
avevano allietato la sua infanzia, quel giorno in cui la sua infanzia finì.
Il viaggio stava durando troppo e faceva freddo nella carrozza che mi trasportava. Tenevo in mano
il bouquet di rose albine che avevo trovato sul sedile alla mia salita, come se un mazzo di fiori
potesse riconciliare una donna a una sua qualsiasi umiliazione. Mi ribellai a quel pensiero, volli
gettarlo fuori. Aprii la porta della carrozza e lanciai il mio bouquet funebre nella fanghiglia gelata
della strada. All’improvviso si alzò un tagliente e gelido vento che punzecchiò il mio volto con la
neve, tanto ghiacciata da sembrare chicchi di riso. Il mio corteo nuziale procedeva. Attorno a me
nulla era vivo, un sottile e candido velo di immobilità ricopriva ogni cosa. La nebbia si alzò quanto
bastava a rivelare di fronte a me i profili di un castello fatiscente, dalle imponenti torri diroccate e
dalle guglie tanto ardite che sembravano voler sfidare il cielo. Sullo sfondo bianco si intravedevano
i contorni sfumati dalla nebbia di oscure e chine figure, i gargoyle che mi accoglievano minacciosi.
Fissandomi dall’alto verso il basso mi davano il benvenuto in quella trappola per uomini, nella
megalomane dimora del mio signore, nella sconfinata prigione che avrei dovuto chiamare casa.
Notai che la Bestia aveva comprato solitudine e non lusso, con i suoi soldi.
Il cavallo passò attraverso le grandi porte di bronzo, lasciate aperte alle intemperie come quelle di
un fienile, e il valletto mi aiutò a scendere dalla carrozza. Mi ritrovai direttamente nel gran salone e
contemporaneamente nell’odoroso tepore di una stalla, dolce per il fieno e acre per il letame di
cavallo. Un coro equino di nitriti e di calpestii di zoccoli risuonò all’interno dell’alto salone,
decorato fino al soffitto con meravigliosi affreschi. Rappresentavano cavalli, cani e uomini in un
bosco dove i fiori e i frutti crescevano insieme sugli stessi rami.
Mi chiesi perché la Bestia avesse lasciato ai cavalli l’uso della sala più importante del palazzo.
Il servo mi informò che il mio signore mi attendeva.
Porte mancanti e finestre rotte lasciavano entrare il vento da ogni dove. Scale dopo scale, attraverso
archi di marmo e porte aperte, intravedevo le stanze aprirsi una nell’altra come scatole cinesi,
nell’intricato diramarsi degli appartamenti più interni e bui. Il prezioso mobilio era ricoperto da
lenzuola di polvere, i candelabri avvolti da ragnatele. Il palazzo era stato smantellato, come se il
proprietario stesse per andarsene oppure non si fosse mai trasferito del tutto.
La Bestia aveva scelto di vivere in un palazzo inabitato.
Il mio signore dimorava nella parte alta del castello, in una piccola, soffocante e oscura camera.
Non avrei sorriso. Lui non poteva sorridere.
Nella sua intimità raramente disturbata la Bestia indossava un kimono nero di seta damascata, tanto
lungo da nascondergli i piedi. Celava i suoi avambracci nelle ampie maniche e sedeva in
un’imponente poltrona, dallo schienale alto e dalle gambe larghe, in cui erano finemente intagliate
delle zampe leonine. L’opera d’arte che era il suo volto mi sconvolse ancora.
Il valletto tossì, su di lui cadde il compito di trasmettere i desideri del suo padrone
“Il mio padrone ha un solo desiderio...”
Sembrava facesse fatica a parlare, poiché il desiderio del proprio padrone, per quanto triviale, può
sembrare insopportabilmente insolente, se pronunciato da un servo, e il suo ruolo di intermediario
lo metteva chiaramente in imbarazzo.
“...Desidera vedere la bella fanciulla completamente nuda, una sola volta, dopodiché sarà libera di
tornare da suo padre, con più soldi di quanti il genitore ne abbia persi a carte e anche numerosi
regali come pellicce, gioielli e cavalli…”
Rimasi esterrefatta alla richiesta. Non riuscii a trattenere una risatina nervosa, di quelle che
sembrano un nitrito e, la mia educatrice mi aveva spiegato, le signorine per bene devono evitare.
Ma premetto che la mia risposta non la diedi per soddisfare le aspettative della società che mi aveva
cresciuta, non furono un semplice riflesso condizionato:
“Può rinchiudermi in una stanza senza finestre, signore, e prometto che per lei alzerò la gonna. La
porterò fino a coprirmi il volto, per nasconderlo, ma mai rimarrò nuda di fronte a lei. Dopo che avrà
fatto di me ciò che vuole, senza scoprirmi il volto, stringerò la gonna con un laccio attorno al collo e
mi soffocherò. Se vorrà ricompensarmi, la prego di non darmi di più di quanto non darebbe a
qualsiasi altra donna in simili circostanze e di far pervenire il suo dono al mio povero padre, perché
preferirei essere morta, piuttosto che guardarmi allo specchio macchiata da un simile disonore.”
Come fu piacevole colpire la Bestia dritta al cuore. Perché una lacrima scintillò nell’angolo
dell’occhio mascherato. La lacrima tremò per un attimo sul bordo dello zigomo finto e poi scivolò
lungo la guancia dipinta. Una lacrima! Una lacrima di vergogna sperai. Per la prima volta da
quando ero entrata l’enorme statua di marmo si mosse. Ritirò le braccia dalle maniche e vidi al
posto delle mani due zampe pelose dai lunghi artigli trattili. Colse la lacrima, prima che cadesse a
terra.
Più spaventato di me, il valletto si affrettò a farmi uscire e mi condusse nelle mie stanze,
accompagnata per tutto il tragitto dal melenso profumo in cui la Bestia si era lavato e a cui il mio
olfatto non riusciva ad abituarsi. Mi lasciò in un boudoir elegante, sebbene antiquato, con divani di
un broccato rosa pallido e grandi lampadari di cristallo che diffondevano arcobaleni di luce nella
stanza calda e ben illuminata.
“Per sopperire alla sua solitudine, mia signora…” disse il lacchè battendo le mani.
Da dietro le ante di una credenza rispose un colpo e dello sferragliare d’ingranaggi. Le ante si
aprirono di colpo e ne uscì fuori la soubrette di un operetta, dai lucenti boccoli color nocciola, le
guance rosa e due grandi e roteanti occhi azzurri. Feci fatica a riconoscerla sotto la cuffia e i pizzi
della veste da notte. Portava in una mano uno specchio e nell’altra un piumino per la cipria. C’era
un carillon dove sarebbe dovuto essere il suo cuore e la carica della sua molla trasmetteva
movimenti incredibilmente disinvolti e naturali agli arti di quella creatura.
“Niente di umano vive qui”
La mia dama di compagnia si fermò e fece un inchino. Dal fianco sinistro sporgeva l’impugnatura
di una chiave. Era una macchina meravigliosa, il più delicato e bilanciato assemblaggio di
ingranaggi creato dal suo padrone. L’automa mi assomigliava in maniera inquietante, sembrava mi
stessi osservando in uno specchio, ma lentamente il suo cuore di metallo cominciò a rallentare,
quasi faticasse a battere. Le note del carillon si separarono sempre più, fino a risuonare come
singole, gocce, di pioggia, per poi smettere del tutto e abbandonare l’automa ad un sonno
scomposto. Non mi rimase che fare altrettanto, addormentarmi controvoglia.
Al mio risveglio trovai un biglietto:
“Il mio padrone la invita a fare una cavalcata per distrarsi, ma con la raccomandazione di non
allontanarsi dai confini della tenuta”
Che invito era mai quello? Sarei potuta fuggire… Uscii dalle mie stanze e venni guidata
nell’intricato labirinto fino al salone dai nitriti dei cavalli che diventavano sempre più chiari e
distinti.
Le porte ancora spalancate lasciavano entrare la luce del sole; mi resi conto solo allora che era
mattino. Un piccione o due trovava riparo dal freddo all’interno della sala e beccava la biada dei
cavalli. Il piccolo cavallo nero, che mi aveva portata al castello, mi diede il benvenuto con un nitrito
e uno sbuffo. Guardandolo capii che era stato preparato perché lo cavalcassi. Ho sempre adorato i
cavalli, sono delle così nobili creature. Che sensibilità ferita nei loro occhi e che forza piegata al
servizio altrui. Accarezzai il manto nero e lucente del mio compagno che mi rispose con un
affettuoso bacio sulla fronte.
“Liberami, portami via da qui” gli sussurrai all’orecchio pulsante e attento.
Quel mattino il freddo era pungente e la luce del sole riflessa dalla neve feriva gli occhi.
Mentre la mia cavalcatura mi riportava a casa, meditavo sulla mia condizione, su come ero stata
comprata e venduta, passata di mano in mano. Pensavo alla ragazza meccanica. Non mi era forse
stata imposta la stessa vita fittizia tra gli uomini che il burattinaio aveva dato a quella bambola?
Mi ero allontanata abbastanza da ritenermi fuori pericolo e finalmente libera, quando all’improvviso
venni disarcionata da cavallo. Un branco di lupi rabbiosi e affamati ci aveva teso un agguato. Mi
ritrovai nel fango ghiacciato che lentamente inghiottiva i lembi del mio abito, legandomi a terra e
impedendomi i movimenti. Ero spacciata, un agnello al macello, temetti, prima che l’impensabile
accadesse. Il leone piombò sopra di me per difendermi. Era lui, la Bestia, senza più travestimenti,
con il solo pelo marrone, folto e lucido a proteggere i suoi muscoli tesi; puro concentrato di forza
animale. Era terribile guardarlo, sentii il petto lacerarsi come se trafitto da una meravigliosa ferita
quando i suoi occhi d’oro, quelle strette pupille, incontrarono le mie per un istante. Era enorme,
spaventoso, niente di lui ricordava alcunché di umano. Solo nel corpo, in qualche articolazione,
l’anatomia umana si univa a quella di un maestoso felino. Disteso a quattro zampe sopra di me, lo
vedevo eccitato, sentivo il suo odore che in ogni modo aveva cercato di camuffare, il suo respiro
profondo e ritmico.
Subito si preparò ad attaccare, caricando le zampe posteriori e lanciandosi sul primo lupo che ebbe
il coraggio di sfidarlo. Lo abbatté in un colpo, ma subito gli altri lo accerchiarono per assalirlo da
ogni lato. Erano troppi perché riuscisse a fermarli tutti assieme. Lanciò un urlo terribile che scosse
la neve dagli alberi. Ebbe su di me lo stesso effetto, tremai di terrore e precipitai in un tunnel buio e
dalla fine ignota.
Quando ripresi i sensi, mi ritrovai nella mia stanza. Sul divano accanto al letto era disteso l’abito
che indossavo, tutto sporco e lacerato. Qualcuno doveva avermi spogliata e messo il kimono che
indossavo. Non era il suo, questo era rosa e non mi arrivava neppure al ginocchio. Chiunque fosse
stato aveva avuto l’accortezza di lasciarmi l’intimo addosso. Bussarono alla porta. Controllai che la
vestaglia fosse a posto e risposi:
“Avanti”
Il valletto con il suo solito fare servile entrò facendo un inchino:
“La fanciulla è libera di andarsene, il mio padrone non vuole obbligare nessuno a rimanere contro la
sua volontà”
Questo proprio non me l’aspettavo, mi guardai attorno imbarazzata senza sapere cosa dire,
dopotutto mi aveva salvato la vita. Il mio sguardo cadde su un grande specchio in cui vidi una
pallida ragazza dagli occhi vuoti, che a stento riconobbi. Il valletto mi chiese gentilmente per
quando avrebbe dovuto preparare la carrozza, come se non avesse alcun dubbio che me ne sarei
andata alla prima occasione, mentre la mia dama da compagnia, la cui faccia mi ricordava la mia
molto di più del riflesso nello specchio, continuava a sorridere raggiante e graziosa.
“La vestirò con i miei abiti e manderò lei indietro a recitare la parte della figlia di mio padre, lui non
si accorgerà neanche della differenza” pensai
“Lasciami sola” dissi al valletto.
Tornai allo specchio pensando al desiderio della Bestia.
Ero così poco abituata a vedere la mia pelle, che ogni volta togliermi tutti i vestiti lo sentivo come
una sorta di scorticamento. Non è naturale per gli esseri umani andare in giro nudi, da quando per la
prima volta ci coprimmo i lombi con delle foglie di fico. Eppure la Bestia mi aveva chiesto poco in
confronto a quello che ero pronta a dargli. Avrei scommesso che i suoi occhi sarebbero divampati
dal desiderio se mi avesse visto come voleva, mentre in quel momento c’era solo quella triste
bambola a guardarmi, come se in realtà non mi vedesse. E in quel momento mi sembrò che per tutta
la vita, sin da quando lasciai il Nord, fossi passata sotto lo sguardo indifferente di occhi come i suoi.
Uscii d’istinto da quella maledetta stanza, non pensando al freddo terribile che regnava in quei
corridoi infiniti. Con mia grande sorpresa trovai tutte le porte chiuse e una temperatura che quei
muri non sentivano da secoli. Ero a mio agio nonostante avessi solo quel velo di seta a coprirmi. Mi
avvicinai ad una porta e provai ad aprirla. Chiusa a chiave. Erano tutte chiuse, tranne quella in
fondo al corridoio. Da questo passai in un altro e anche lì trovai aperta solo una porta. E così in un
altro e poi in un altro ancora. Sembrava che qualcuno avesse deciso di guidarmi in quel complicato
labirinto.
“Una fanciulla persa in un labirinto che non cerchi l’uscita, ma la tana del mostro che lo abita, o è
un eroina greca oppure una vittima sacrificale” pensai.
Ad ogni passo dubitavo sempre più che quel girovagare avesse una meta, ma ero rincuorata dal fatto
che in qualsiasi momento sarei potuta tornare indietro alla mia stanza, senza perdermi. Finalmente
giunsi alla porta che riconobbi subito come quella della sua camera, così rovinata e graffiata rispetto
alle altre, che erano sempre state lasciate aperte. Bussai delicatamente, ma agitata come non mai.
Nessuna risposta. Entrai spinta dalla consapevolezza che non mi avrebbe facilitato così la strada se
non avesse voluto vedermi.
La tana della Bestia. Il kimono nero era appeso allo schienale della poltrona, la parrucca da
manichino appoggiata su un bracciolo e la maschera che distorceva la sua voce sull’altro. La vuota
apparenza era lì, pronta a essere indossata, ma l’aveva abbandonata. C’era un terribile fetore di pelo
e piscio. Una candela incollata dalla sua stessa cera sulla mensola del camino, illuminava due strette
fiammelle nelle pupille a fessura della Bestia. Nonostante fossero le uniche luci nella stanza, notai
che era intento a leccarsi le ferite, avvolto dalle lenzuola sporche di sangue del letto su cui giaceva.
La prima e più primitiva delle paure mi assalì. La paura di essere divorata. La Bestia, feroce, ferita a
causa mia, con ancora il sapore del sangue in bocca ed io, bianca, tremante, inesperta, che mi
avvicino a lui come per offrirgli me stessa, per saziare quel suo appetito che speravo non
richiedesse la mia estinzione.
“A cosa devo il piacere della sua presenza?” disse all’improvviso con una voce rauca e profonda
come il tuono. Non mi fermai a riflettere sul perché ora la sua voce mi era comprensibile, qualsiasi
cosa sarebbe potuta accadere ora che ero nel campo di forza dei suoi occhi
“Volevo porle una domanda”
“Cosa voleva chiedermi?”
“Perché mi voleva vedere nuda?”
“Ho un debole per la bellezza, e lei certo è la più bella opera d’arte su cui i miei occhi abbiano
posato lo sguardo. Mi può biasimare per voler vedere un tale capolavoro senza che sia coperto da
veli, ma nella sua interezza? Vede, io sono un esteta. Ho dedicato la mia intera esistenza all’Arte. Il
fine della mia vita, è sempre stato quello di comprendere il mondo e me stesso, e a voler essere
preciso ho sempre ritenuto che l’Arte fosse l’unico mezzo con cui poterlo fare. La pittura, la
musica, la filosofia, la scienza hanno tutte in comune lo stesso obbiettivo, forgiare e incastonare
nella propria opera il bello, l’armonia, il sublime che c’è nel mondo e quindi anche dentro di noi.
Lasci che le spieghi la mia teoria: il più grande affronto a Dio è proprio l’atto artistico, e per questo
mi ha punito così crudelmente. Considera l’Arte un tentativo di modificare il mondo che Lui crede
di aver creato perfetto, la sub-creazione, che noi chiamiamo Arte, è ai Suoi occhi un tracotante atto
di vanità, un peccato da estirpare. Guardi la mia condanna, non posso più creare con le mie mani,
non posso più suonare, né dipingere. Io che ero là, quando per la prima volta ci rivoltammo contro il
nostro Creatore e facemmo dell’Arte…”
“Ma lei chi è?”
“Presi parte alla grande Musica che creò il Mondo. Dio aveva composto la più bella opera mai
scritta e voleva che noi, i suoi angeli fedeli, la suonassimo per Lui. Era davvero meravigliosa,
perfetta in ogni nota. Ma ecco, con il proseguire del tema, non riuscivo a sopportare di eseguire solo
le indicazioni del Compositore, di rimettermi alla Sua volontà e non dare il mio contributo
personale. Ebbi il desiderio di inserire il frutto della mia immaginazione e della mia abilità, che Dio
stesso mi aveva donato, ritenevo ingenuamente, per farle fruttare. Cominciai ad intrecciare i miei
pensieri alla Musica e attorno a me fu subito dissonanza. Quella momentanea discordanza tuttavia,
migliorava la Grande Musica perché preludeva una più perfetta armonia, il gran finale che il cuore
attendeva con trepidazione. Sempre più miei fratelli cominciarono ad intonare la stessa musica.
Sembrò alla fine che vi fossero due motivi, possenti come draghi, che si intrecciavano e si
respingevano, si rincorrevano e si scontravano. Nel bel mezzo dell’esecuzione, mentre il Paradiso
oscillava e il tremore si diffondeva nel vuoto infinito, Dio levando le mani, rinchiuse la sinfonia nei
pugni e tutto il resto fu silenzio.
“Guardate la vostra Musica!” ed Egli ci mostrò una visione, conferendoci la vista là dove prima era
solo udito. Scorgemmo il Mondo, perfetto come Dio l’aveva concepito, un Paradiso terrestre, senza
dolore, senza fatica. Ed ecco Adamo, a cui viene affidato il compito di pastore di ogni creatura. Ed
ecco me, sotto forma di serpente che mi avvicino ad Eva. Le offro la conoscenza, la consapevolezza
del Bene e del Male, di essere come me e come Dio. Il libero arbitrio l’ho donato io all’Uomo, non
Dio. È sempre stato troppo protettivo nei vostri confronti, non voleva sceglieste. Ma che merito c’è
in questo? L’ho già detto che sono un esteta? Dio mi punì. Mi diede queste sembianze mostruose,
per contrappasso mi trasformò in una bestia. Gli animali non posso peccare, non è così? Non sono
responsabili delle loro crudeltà, come invece sono io”
“Lei non è crudele, mi ha salvato la vita”
“Può vedere la cosa come vuole, io ho solo difeso una mia proprietà”
“No, una cosa è ciò che è, non ciò che pensiamo che sia. Ora ho capito quel che voleva da me, non
sono altro che un suo esperimento, non è così? Con la sua magia, con le sue abilità, avrebbe potuto
ricreare perfettamente una mia copia, una schiava obbediente, ma la mia bellezza non risiedeva nel
mio aspetto esteriore, era dentro di me. Oh Lucifero, voleva aprirmi gli occhi, mostrarmi che la mia
vita non era migliore di quella di un’automa. Voleva che scegliessi, che prendessi le redini della mia
vita e non che avessi fede in quello che gli altri dicevano fosse il mio bene. Il Bene… Ha
scommesso che avrei scelto il Male, vero? Che mi sarei tolta la vita, o peggio che mi sarei
concessa.”
“Io ho solo scommesso con Dio che avrei migliorato la sua opera d’arte, così come ho aggiunto il
Male alla Grande Musica solo perché la scelta del Bene fosse più meritevole, più bella. Nel
diventare malvagio, sono rimasto nel profondo un esteta.”
“Ditemi, ci si può innamorare di un demone?”
“Nella mia lunga vita ho avuto molte compagne, ma mai nessuna mi ha amato, mi guardi! Come si
può amare una Bestia? C’è stata chi ha amato le mie ricchezze, chi ha amato il piacere che le
procuravo, chi le mie doti, ma non la mia natura”
“Allora cosa vuol dire amare?”
“Si rende conto che sta chiedendo al diavolo cosa vuol dire amare?” Chiese in tono incuriosito
“Sì, me ne rendo conto…” risposi un po’ imbarazzata.
“Immagino che amare sia esattamente quello che ha fatto il mio Nemico, vi ha amato tanto da fare
un figlio con voi, e di sacrificarlo per salvarvi. Suo figlio ha detto: “non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Ha amato
la vostra capacità di peccare, ha sacrificato la sua innocenza alla vostra crudeltà, l’agnello è stato
divorato dal leone.”
“Se io vi amassi, questo vi libererebbe dalla vostra maledizione e il Male non esisterebbe più?”
“Mia cara, il Male è necessario, come la morte, il sacrificio, il dolore. Se non ci fosse più il Male, io
non esisterei più, lo capisce? È la mia natura.”
Muahahahahah! La sua risata malvagia mi fece accapponare la pelle, ma ripresami da quella doccia
gelata, ricominciai a bere, per dissetare il mio bisogno di sapere:
“Credo di aver capito, per amarvi veramente devo accettare la vostra natura malvagia e perdonarvi,
come ha fatto Cristo!”
A quel nome sentii le sue ferite riaprirsi.
“Deve accettare la sua di natura malvagia, capire che una sua parte lo è, altrimenti non sarebbe
umana. La metà degli esseri umani sono animali addomesticati, che obbediscono ad ogni ordine che
viene dall’alto, l’altra metà sono bestie selvagge, che vivono dei loro istinti, di eccessi e decadono
nel degrado più infimo. Dove è finita la scelta? Il mio contributo alla perfezione dell’essere umano?
A me piacciono i santi che cadono in tentazione, come il mio Nemico preferisce i malvagi che si
convertono dopo una vita di atrocità.”
“Ecco perché Dio ha permesso che il Male esistesse, ha visto del buono nel suo dono”
Hihihihihiii! Una risata da iena echeggiò nella stanza, chiaramente quelle parole lo divertirono.
“È una condanna, non un dono”
“È entrambe le cose”
Allora mi fu tutto chiaro. Il peccato originale ha sempre coinciso con il primo desiderio dell’uomo.
Quello di librarsi in aria per superare l’orizzonte. Come dono la capacità di volare, come
maledizione una meta irraggiungibile, perché per quanto ci possiamo spingere oltre, ci sarà sempre
un orizzonte da superare. Siamo solo dei passeri che cercano dentro di sé l’inesauribile forza
necessaria per percorrere i cieli infiniti. Ciononostante è proprio questo folle volo che ci
contraddistingue come essere umani. Non accettare di essere finiti, limitati, determinati dagli istinti
e dall’educazione, ma voler creare, superare i propri limiti, vivere in eterno. Essere simili a Dio.
Risoluta, slacciai il kimono. Lentamente lasciai scivolare la veste dietro le spalle per offrire ai suoi
occhi la mia pelle bianca, i miei capezzoli rossi che mai nessun uomo vide.
“Ho preso la mia decisione, sarò tua…”
Cominciò uno strano rituale di corteggiamento. Allungai una mano verso di lui che invece cercò di
spaventarmi, di impressionarmi ruggendo. Vidi la sua gola rossa, i suoi enormi denti gialli. Feci un
passo in avanti. Annusò l’aria, come per sentire la mia paura; non poté. La mia mano incontrò la sua
morbida e folta criniera.
“Ti desidero…” ringhiò
“Fai di me ciò che vuoi”
“Ti svelerò i segreti del mondo, ti mostrerò i suoi abissi più profondi e le sue vette più alte, ti
insegnerò le arti oscure”
“E io ti insegnerò come si ama...” quelle dolci parole lo spaventarono più di un esorcismo
“Ti farò soffrire come non puoi neanche immaginare, ti tradirò quando mi sarò annoiato di te, ti
abbandonerò quando invecchierai”
Sapevo benissimo che l’avrebbe fatto, ma non mi importava. Avrei vissuto veramente, della verità
che solo lui poteva offrirmi e della mia vera bellezza che solo lui riusciva a vedere.
Avremmo passato molto tempo assieme, fuori e dentro l’un l’altro, mi avrebbe permesso di
cavalcarlo attraverso luoghi ancora vergini e inesplorati, di seguirlo nelle città più belle del mondo,
dove saremmo stati invitati ai balli e alle cene di corte. Liti furiose si sarebbero alternate a momenti
di pura estasi. Lo avrei tenuto tanto occupato da fargli trascurare il suo ingrato compito. E così fu.
Da allora non sentiste più parlare della Bestia, tanto che ormai tra gli uomini si dubita perfino della
sua esistenza.