UN`ALTRA CHIESA E` POSSIBILE FEDE O RELIGIONE?

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UN`ALTRA CHIESA E` POSSIBILE FEDE O RELIGIONE?
Estratto da Micromega n.6 del 2005 – pagg.163/190
UN’ALTRA CHIESA E’ POSSIBILE
Un dialogo tra quattro ‘preti di frontiera’, in radicale alternativa alla Chiesa costantiniana del
cardinal Ruini: la Chiesa – Gerarchia trionfante nel secolo, le tentazioni del potere che la
immergono nella ‘realtà penultima’, l’oblio del Vaticano II, un dire che sembra ridotto al solo ‘no
no’ di fronte a qualsiasi apertura.
FEDE O RELIGIONE?
Don VINICIO ALBANESI/ don PIERLUIGI DI PIAZZA/ padre NINO FASULLO/ don
ANDREA GALLO
Giovedì 13 ottobre è stata pubblicata da quotidiano La Repubblica, nella rubrica “risponde Corrado
Augias”, una lettera scritta da don Aldo Antonelli, parroco di Santa Croce di Antrosano in provincia
dell’Aquila, diocesi di Avezzano. La pubblichiamo perché abbiamo chiesto ai partecipanti al nostro
dibattito di cominciarlo esponendo le riflessioni (ma anche le emozioni) che essa suscita in un prete.
Stimato dott. Augias,
di fronte alla vergogna di leggi-foraggio, che poi diventano, lo sappiamo, leggi-bavaglio
(l’immissione in ruolo dei professori di religione e l’esenzione Ici per gli immobili di proprietà
della Chiesa) noi fedeli e semplici sacerdoti non possiamo tacere. Se lo facciamo noi grideranno le
pietre! Davanti a certe cose mi tornano alla mente le stupende parole della Lumen Gentium: “La
Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinuncerà
all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare
della sincerità della sua testimonianza o nuove esigenze esigessero altre disposizioni” (n.76).
Parole piene di Vangelo, frutto di amore per il mondo, lo stesso per il quale il Nazareno ha dato la
vita, parole che sembrano echi lontani di una Chiesa che non c’è più. Mi chiedo con angoscia: che
cosa hanno a che fare quei nostri vescovi, adulatori dell’altrui parola, con l’assise meravigliosa
che nel Concilio Vaticano II ammaliò il mondo intero, profetica risonanza, quella sì, della di Lui
Parola?
Fa male, ferisce a sangue e toglie speranza il silenzio venale di una gerarchia capace solo di
gridare all’untore. Che non viene neppure sfiorata dal dubbio dell’immoralità devastante che
l’attraversa mentre fa incetta di regalie e privilegi, mentre i semplici fedeli e i cittadini sono
chiamate a rinunce e sacrifici.
Meno ci scandalizza, anche se dentro morde lo sdegno, la blandizie di un governo aduso a
carezzare il clero e bastonare il popolo. Non più quindi, “Libera Chiesa in Libero Stato” ma
“Piccolo Stato in infida Chiesa”.
Don Vinicio Albanesi: Una Chiesa che non c’è più: è questo il problema centrale che emerge
nitidamente dalla lettera di don Aldo Antonelli. La domanda di questa nostra riflessione, in fin dei
conti, è se esista o meno un messaggio evangelico. Non se esso esista oggettivamente, bensì se e in
che modo noi tutti, in quanto popolo cristiano, siamo in grado di testimoniarne l’esistenza. Il cuore
della debolezza della presenza cristiana nel mondo deriva da questa sorta di incapacità di vivere,
prima ancora che di comunicare, il messaggio.
All’interno della Chiesa non mancano certamente i documenti. Penso ad esempio ai preparativi del
IV Convegno ecclesiale nazionale che si terrà a Verona nell’ottobre 2006. Tuttavia si tratta spesso
di elaborazioni che esprimono poco. Da un lato si assiste a un ritorno di un senso religioso
decisamente vago, dall’altro c’è un cristianesimo di cui troppi si appropriano in modo
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assolutamente incongruo. Penso a molti nostri politici, che sono pubblicamente bigami e poi si
dichiarano cattolici. E sono anche, per la verità, molto ascoltati.
Il messaggio cristiano si dissolve spesso in un puro verbalismo, connesso a una specie di estetismo.
Sembra che narrando semplicemente la Parola o eseguendo celebrazioni si riesca a dire il messaggio
di Cristo.
Ma questo non è più vero.
E’ evidente che, di fronte a questo vuoto, il livello della proposta evangelica si abbassa alla
sopravvivenza della Chiesa come istituzione e dei suoi dettagli materiali. Penso all’esonero dell’Ici
per gli edifici ecclesiastici, che somiglia in realtà alle piccole regalie di cui può godere al limite un
fanciullo.
Il problema vero è che il cristiano, oggi, o non è coerente, o non sperimenta un adeguato
approfondimento di quello che significa il cristianesimo. Il che si traduce spesso in un’esperienza
edulcorata e priva di una vera proposta.
La nostra Chiesa, da questo punto di vista, si dimostra incapace. Siamo di fronte a una crisi seria.
Da che cosa prende origine? Di sicuro ha infiniti sintomi: le parrocchie si svuotano, le vocazioni
mancano, i comportamenti dei singoli oscillano, i confini dei criteri di condotta sono spostati
all’indefinito.
Confessando ad esempio i ragazzi che giungono alla cresima, ci si rende conto del fatto che non
sanno rintracciare delle regole, che non sanno riconoscere dove si impone loro un determinato
comportamento o magari in che cosa consista la vera trasgressione. Ciò dipende in gran parte dai
genitori, che a loro volta oscillano tra comportamenti anche molto difformi tra loro. E questo non
solo perché non hanno un’etica, ma perché addirittura non possiedono i criteri stessi di un’etica.
Di fronte a questo vuoto, la Chiesa prova un senso di fatica e di scoramento. Lo stesso dialogo
interreligioso fa paura si assiste ad un’accentuazione dogmatica della verità. Abbiamo ormai
infiniti documenti ecclesiastici che elaborano verità, così come infinite narrazioni del mistero
cristiano. Ma tutto è come privo di vita, senza proposta, senza un messaggio di speranza che vada al
di là delle parole che lo esprimono.
L’elemento su cui riflettere, dunque, non è soltanto questa crisi profonda, ma anche gli
atteggiamenti e le risposte della Chiesa istituzionale, che lasciano perplessi.
Don Pierluigi Di Piazza : La lettera di don Aldo Antonelli ha suscitato in me analoghe reazioni.
Essa contiene innanzitutto una grande esigenza di profezia, che si esprime al tempo stesso in forma
di nostalgia. Penso al riferimento alla Lumen gentium e ad una Chiesa che pare non esserci più,
ossia alla Chiesa del Concilio Vaticano II. Una Chiesa che vedeva presenti i vescovi di tutto il
mondo, che apriva se stessa al mondo e se ne lasciava interrogare. Laddove, proprio in questi giorni,
il Sinodo mondiale dei vescovi registra una situazione di sostanziale chiusura rispetto alle voci che
vi introducono elementi seri di riflessione. Voci che vengono messe a tacere da una linea ufficiale
che ci fa ascoltare soprattutto dei no. No a una discussione del celibato obbligatorio per i preti, no
alla comunione ai divorziati che si sono risposati o che convivono, no alla possibilità della
comunione fra cristiani cattolici e cristiani ortodossi. Una serie impressionante di risposte negative;
non ho una posizione relativistica, tutt’altro, ma proprio di grande considerazione per la storia delle
persone, per la loro ricerca di senso, di fiducia, di accoglienza.
Personalmente, anche a partire dall’esperienza del Centro Balducci, inquadro la questione da
diverso tempo, e oggi sempre di più, nel senso di una distinzione fra fede e religione. Un conto è
infatti la fede, altro la religione. La fede può essere intesa come quella dimensione del
coinvolgimento profetico che riguarda tutto il nostro essere e tutta la nostra vita, e quindi che
riguarda la nostra sensibilità e le nostre opzioni di fondo, il rapporto con noi stessi, con Dio e con
gli altri, con il denaro, con il potere, con le armi e le guerre; con tutto ciò che costituisce la realtà del
mondo come tale e quindi in alternativa il servizio, la non violenza attiva e la pace, l’accoglienza e
la solidarietà… Inteso in questo senso, il coinvolgimento della fede è quello che ci porta a vivere
alla sequela umile e convinta, ricercata giorno per giorno, di quello straordinario Gesù di Nazareth.
Questa è la fede.
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La religione, invece, è quello che si configura come dogma, verità, rito, simbolo, istituzione. E
allora può darsi che una religione massiccia e severa possa anche uccidere la fede. Il rapporto fra
fede e religione è sempre molto delicato e dialettico. Anche noi preti, che siamo convocati a questo
dialogo, ci interroghiamo se siamo in qualche modo preti di fede o preti di religione. La Chiesa, in
quanto istituzione, è Chiesa di religione o è una Chiesa pervasa dal coinvolgimento profetico della
fede? Questa mi pare la grande questione, da cui derivano gli atteggiamenti e le decisioni concrete.
Quando si assiste agli interventi di autorità d cui parlava anche don Vinicio, mi sembra che emerga
in modo più evidente la Chiesa come istituzione religiosa. In concreto, ad esempio, quando si parla
degli insegnanti di religione può costituire un problema la questione di entrata in ruolo. Però la
questione è molto più seria. In occasione del concordato fra Stato e Chiesa vi è stata a mio modesto
avviso una duplice responsabilità. Una della Chiesa, che pretendeva allora con supponenza di
risolvere il problema dell’educazione dei giovani alla fede con un’ora di religione cattolica nelle
scuole. E l’altra derivante dalla supponenza di uno Stato, in quel caso non laico, ma venato piuttosto
di un laicismo molto banale e superficiale, consistente nel demandare completamente all’istituzione
Chiesa la questione della religione. Si dovrebbe rivedere radicalmente la questione, data anche la
crescente diversità culturale e religiosa dei giovani presenti nelle aule scolastiche, in cui sono
sempre più presenti anche i figli degli immigrati. Sarebbe auspicabile che ci fosse un’ora di scuola
non di religione cattolica, ma di istruzione religiosa, relativa cioè al fenomeno religioso come tale e
a tutte le religioni, gestita dall’istituzione della scuola pubblica in modo non confessionale.
Personalmente ho vissuto nella contraddizione l’esperienza positiva di 30 anni come insegnante di
religione. Quando ci fu il concordato dichiarai pubblicamente al collegio docenti la mia difficoltà;
ho poi cercato di svolgere il mio compito in modo non confessionale, affrontando con i giovani le
questioni di fondo della vita e della storia in modo ampio e pluralista, nella ricerca del dialogo,
certo con attenzione alla dimensione religiosa.
Per quanto riguarda la vicenda dell’esenzione degli immobili ecclesiastici dall’Ici, come diceva già
don Vinicio appare come una banale regalia, un privilegio. Come Centro Balducci, che si occupa
soprattutto dell’accoglienza delle persone immigrate, profughe e rifugiate, abbiamo utilizzato una
risorsa che ci è venuta dalla fondazione Migrantes della Conferenza episcopale Italiana, attingendo
all’8 per mille. Anche qui, tuttavia, sarebbe auspicabile che vi fossero modalità autenticamente
paritarie o egualitarie per i finanziamenti. Sarebbe bello che i cittadini potessero segnalare in modo
non discriminatorio le loro scelte. Il che sarebbe possibile soltanto conoscendo in modo più preciso
l’utilizzo che viene fatto dei finanziamenti. Affinché l’intenzione dei cittadini si indirizzi
concretamente e in modo verificabile a progetti di solidarietà. Però debbono essere chiari e
trasparenti tanto l’intendimento quanto la verifica di come il denaro viene impiegato. Non l’8 per
mille alle confessioni religiose, ma ai concreti progetti di solidarietà, che siano fatti da una
confessione, da più confessioni, o eventualmente anche da organizzazioni non religiose.
La Chiesa o è profetica o non è Chiesa. Se la Chiesa si fa Chiesa politica, è un’istituzione come le
altre, con l’aggravante di utilizzare Dio, e oscura il messaggio del Vangelo, che dovrebbe non solo
annunciare con le parole, ma soprattutto testimoniare con le scelte di vita. Le alternative al potere,
al denaro, alla guerra, alle discriminazioni e ai razzismi.
Padre Nino Fasullo: Ho letto la lettera di don Aldo Antonelli con viva soddisfazione, ritrovandovi
valutazioni e sentimenti che coltivo da tempo. Qualcosa si muove, mi sono detto, qualcosa cova
sotto la cenere, possiamo sperare. Oggi nella Chiesa c’è un grande disagio. Al suo interno c’è poca
libertà di pensiero e di parola, manca il dibattito. Non pochi sacerdoti manifestano, in privato,
sofferenza per il modo con cui la Chiesa viene governata. La base, fatta di preti, di laici, di suo re,
non viene ascoltata. Tutto, o molto, è sotto controllo. Ci vuole poco, forse, ma non vorrei esagerare,
e si passa al clima persecutorio, di caccia alle streghe dei tempi del modernismo. Qualche anno fa è
stato rintuzzato, in pubblico, perfino un vescovo che aveva osato pensare in modo diverso. E dire
che, nella Chiesa, tutti i vescovi hanno pari dignità, uguale potere, stessa libertà: nessuno è
superiore a un altro. Quel che manca nel governo della Chiesa è lo stile pastorale ispirato alla
mitezza di Gesù: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo”, esortò l’apostolo Paolo.
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E’ raro vedere sulla bocca di vescovi che governano importanti chiese italiane, parole miti, attinte
alla Sacra Scrittura, discorsi spirituali costruttivi. Sembrano un puro ricordo pastori della statura di
Michele Pellegrino a Torino, di Giacomo Lercaro a Bologna, di Giovanni Battista Montini o di
Carlo Maria Martini a Milano, per non parlare di Angelo Giuseppe Roncalli a Venezia. Quella
attuale, nella Chiesa, appare una linea di chiusura, di arroccamento, di rigorismo etico aggressivo
esasperato ed esasperante. Un rigorismo, tutto sommato, in giustificato, perché poco attento alle
sofferenze degli uomini quando, ad esempio, si trovano dentro un matrimonio sbagliato o fallito,
anche colpevolmente. Si preferisce insistere, un po’ ossessivamente, sulle questioni della bioetica e
della legge naturale. Si cerca denaro, si investe sugli spot pubblicitari, si cura perfino
l’abbigliamento clericale (inclusi gli assurdi polsini d’oro scintillanti nelle benedizioni). Invece si
parla poco di sacra Scrittura, di preghiera, di Concilio, di santità, come faceva un vescovo dei tempi
andati, Alfonso de Liguori…
La lettera di don Aldo appare un grido coraggioso in favore di una chiesa che nelle città deve
splendere di luce evangelica, libera e accogliente, mentre deve manifestare ostilità solo verso la
violenza, la guerra, la criminalità organizzata, i potenti di ogni risma, dei quali dovrebbe
smascherare senza riguardi le trame di iniquità (tutte contrarie alla legge del Signore), e non tacere
coprendo le malefatte.
Il disagio che oggi serpeggia nella Chiesa è causato dal fatto di non vedere comportamenti ispirati
alla mitezza del Vangelo: “Venite a me, voi tutti che faticate oppressi da osservanze gravose: Io vi
libererò da quel peso. Accettate il mio insegnamento… perché non mi impongo con la violenza e
nel mio cuore sono vicino agli umili” (Matteo 11, 28).
C’è bisogno di maggiore libertà nella Chiesa. Bisogno di parlare e scrivere liberamente, al riparo
dalle censure talvolta poco rispettose della dignità umana. Da una Chiesa in cui la libertà è molto
controllata difficilmente passa il Vangelo. Più facilmente passa la linea di chi vi esercita il potere.
Infine, anche Dio ne soffrirebbe, perché neppure la sua libertà vi troverebbe spazio. Potrebbe
accadere anche che, volendo esprimersi liberamente, per farsi ascoltare Dio dovrebbe uscire e
parlare e compiere gesti tramite uomini e donne che “non sono dei nostri”.
La linea dell’ascolto è la linea del Concilio. Ma non si può dire che oggi la Chiesa italiana venga
fatta camminare sulle vie del Concilio. Si può dire forse che la linea ufficiale passa, sì, ma solo
cancellando il Concilio. Cancellare il Concilio, però, significa cancellare la Parola di Dio e il
magistero (solenne) della Chiesa. Non ci si mette impunemente contro il Concilio, molto più lecito
è criticare chi critica il Concilio e lo mette da parte.
Questo del Concilio è il capitolo forse più drammatico della Chiesa italiana. Occorre tornare al
Concilio, altrimenti si fugge dalla Chiesa. Occorre tornate, ad esempio, al discorso che Giovanni
XXIII fece l’11 ottobre del 1962. Il discorso in cui il papa dissentì dai profeti di sventura che non
amano il mondo, come invece lo ama Dio. Cattivi profeti, quelli di sventura, che non sanno usare la
medicina della misericordia, della pietà e della compassione.
Quella del Concilio è una Chiesa che, piuttosto che condannare o scagliare (per prima) pietre,
insegna ad ascoltare, dialogare, perdonare, accompagnare i poveri e i bisognosi. Insomma, quella
del Concilio è una Chiesa aperta che accoglie tutti con il carico dei loro problemi, delle loro ansie,
contraddizioni e peccati. Nessuno può rinunciar alla Chiesa del Concilio. Chi la rimuove, rischia di
privare la gente del Vangelo, della libertà e della speranza. Penso, però, che, nonostante tutto, nella
Chiesa non si voglia arrivare a tanto. Né intendo giudicare le intenzioni. E’ necessario, però,
chiarire equivoci e superare tentazioni.
Penso che la lettera di don Antonello rappresenti una boccata d’ossigeno proprio in riferimento al
bisogno di una Chiesa che riprenda a camminare serenamente sulle vie interrotte del Concilio, non
dando ascolto ai profeti di sventura che starnazzano qua e là. Se segue il Concilio, la Chiesa più
efficacemente può servire la causa della pace cui anelano gli uomini. Se ci si parlasse e ascoltasse,
se si mettessero insieme intelligenze, esperienze e forze, che nella Chiesa non mancano, e si aprisse
un dibattito e un confronto responsabile, allora si diventerebbe tutti più credibili, al fine di
rappresentare una fede e un cristianesimo più miti a servizio dei poveri e della libertà.
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Può sembrare strano. Ma c’è chi, nella Chiesa, vuole che si torni a dare l’ostia consacrata ne lla
bocca e non più nella mano della gente. Ci si può chiedere che cosa costoro abbiano capito, non
dico del Concilio, ma della fede cristiana. Perché non c’è dubbio: se l’ostia non si può dare nella
mano, meno ancora si può dare nella bocca. O si vogliono privare i cristiani (tutti battezzati)
dell’eucaristia? La verità è che coloro che vogliono tornare al vecchio sistema amano emanare
elenchi di proibizioni pensando che in questo modo si risolvono questioni che dipendono da cause
antiche e complesse. In realtà, c’è sfiducia in Dio e nei cristiani, i quali vengono trattati da sudditi e
da minorenni. Piuttosto che parlare di embrioni, di referendum e di leggi, non sarebbe meglio
discutere di fede, di sacramenti, di preghiera e di giustizia, nonché di storia della Chiesa?
Dopo il Concilio la Chiesa fu percorsa da un’aria calda di primavera.
Si ebbe una fioritura di iniziative che rinnovarono modi di pensare e di giudicare la Chiesa stessa e
la città. Nacquero ovunque gruppi spontanei. I giovani pregavano e cantavano con entusiasmo nelle
chiese. Si incontravano più volte la settimana per leggere la Bibbia i documenti del Concilio, e si
cercavano risposte a problemi difficili come, in Sicilia, quello della mafia. La questione della libertà
politica e della giustizia sociale appassionava tutti, giovani e meno giovani. Fu una stagione di
rinnovamento della testimonianza cristiana. Ma tutto fu fatto durare poco perché fu molto
contrastato. Alla fine degli anni Settanta la situazione si fece ancora più difficile. Iniziò il calo della
partecipazione alla vita della Chiesa. Tutto lo spazio fu dato, invece, all’Opus Dei e a Comunione e
Liberazione e ai gruppi carismatici spiritualistici che non ponevano problemi. Lentamente, lungo
27 anni, si è arrivati ai problemi di oggi.
Don Andrea Gallo: Innanzitutto vorrei ringraziare sia il quotidiano La Repubblica che Corrado
Augias. Entrambi hanno avuto una bellissima idea dando spazio ad un parroco di una diocesi
certamente non esente da difficoltà. Sottoscrivo in pieno i contenuti della lettera di don Aldo
Antonelli.
Bisogna dire e accettare la realtà. Personalmente sono presbitero da oltre 46 anni e conosco i valori
evangelici. Ma conosco anche la struttura della Chiesa, che rispetto, dovendo accettare com’è giusto
la disciplina canonica. Occorre dire, fin da subito, che la nostra santa madre Chiesa, nonostante
siano trascorsi quarant’anni dal Concilio, è una monarchia assoluta medioevale. Non c’è niente da
fare. La Chiesa ha assunto modelli mondani. E’ una Chiesa che domina, una Chiesa che si pretende
signora della storia e detentrice di un verbo umano universale. Il suo cristianesimo, quindi, non può
che stemperarsi in umanesimo.
A volte, nella Chiesa, ci sarebbe bisogno di grandi silenzi. E invece il cardinal Sodano, presente
come segretario di stato all’Onu, alla domanda su cosa pensava dell’Iraq, delle truppe di
occupazione, del macello quotidiano, ha tranquillamente rilasciato un’intervista in cui dice che è
nostro dovere rimanere in Iraq. Il tutto, paradossalmente, proprio in una sede come quella delle
Nazioni Unite.
Il cristianesimo e l’Evangelo corrono il rischio di essere ridotti ad un mero progetto politico. E
mentre si denunciano come esaurite e improponibili le antiche forme della Chiesa costantiniana, in
realtà si continua a presumere, in nome e per conto della fede, di avere la possibilità di controllare
la storia, di interpretare infallibilmente e provvidenzialmente i suoi segni e di risolvere alla fine
qualsiasi problema. Quanti “perdoni” ha chiesto Wojtyla alla storia.
Il punto centrale e fondamentale da affermare è solo questo: la Chiesa deve riconoscere prima di
tutto la dignità autonoma della storia umana. Nella certezza del Regno di Dio che viene, nessuna
forma di vita o di società, nessun progetto politico appare definitivo e perfetto. E’ qui che si innesta
il compito di vivere la propria ispirazione cristiana in compagnia degli uomini. E’ qui che si apre il
luogo della profezia dei cristiani: sempre insieme agli altri uomini. Il cristiano è abitante della polis,
ha diritti doveri al pari di tutti, ma ha anche la cittadinanza dei cieli. “Cieli nuovi, Terre nuove”.
Come può la parola di Dio ispirare l’azione politica del credente? Occorre fare molta attenzione,
perché i cristiani, per come la vedo io, hanno esattamente gli stessi strumenti di analisi degli altri,
non strumenti speciali. Vogliamo avere il coraggio di dire a tutti che la fede non fornisce alcuna
certezza politica? E che questa deve nascere in modo chiaro e trasparente da una partecipazione
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democratica e dal pluralismo? E ancora ci si strappa le vesti, gridando allo scandalo, per la
sperimentazione della pillola RU486 da parte della regione Piemonte. Come si può far finta di
niente nella dolorosa situazione a colpi di principi?
Il pluralismo non soltanto è legittimo, bensì è autenticamente necessario. Il mio attacco,
ovviamente, non è soggettivo. Sono tanti, i testimoni autentici nella nostra come in tante altre
Chiese e in tante altre religioni. L’attacco è rivolto piuttosto alle strutture gerarchiche, chiuse e non
evangeliche.
La realtà è che manca la norma normante del cristiano nella Chiesa. E qual è questa norma? Il
vangelo. Se è così, bisogna ribadire che tutto il resto, compreso il ministero episcopale della parola
e dell’unità, non riguarda affatto la compaginazione della società, ma soltanto la comunione
ecclesiale e dunque non può indirizzarsi ovunque. Se questo è vero, c’è spazio per tutti. E qui penso
sempre a padre Ernesto Balducci.
Visto che tutto questo manca, non stupisce che siano in molti a rilevare come la Chiesa, negli ultimi
venti anni, abbia completamente abbandonato lo spirito del Concilio. Anche se nella sua prima
omelia lo stesso papa Ratzinger, alla Cappella Sistina, ha affermato che riprenderà il Concilio, fino
a questo momento l’impostazione conciliare non è stata nemmeno vagamente sfiorata. Ogni tanto
c’è giusto qualche accenno. Insomma, lo si chiami come si vuole, ma c’è bisogno, ogni volta, di un
grande spirito di rinnovamento. E invece alla stampa viene addirittura impedito di assistere ai lavori
del Sinodo. Un Sinodo cattolico, cioè universale, che è lì, chiuso nelle Mura Vaticane. Anche se
non stupisce che molti rilevino come la Chiesa, sempre negli ultimi vent’anni, sia diventata sempre
più ministra di parole politiche, sociali, etico- morali, economiche, attuando una vera e propria
immersion nella realtà penultima. Una dimensione che l’ha resa quotidiana e semplice custode
dell’etica.
Un’etica che spesso non è seguita neppure dai fedeli. Un’etica che l’ha portata a ridurre il
messaggio cristiano a morale sociale.
Quello che mi fa male, da piccolo partigiano, e che qui la fede scompare e la politica ne viene
danneggiata. Lo accennava già don Vinicio Albanesi. Anche a Genova abbiamo solo il 7-10 per
cento dei praticanti del precetto festivo. Ma accade anche, e lo ripeto soprattutto da cittadino, se non
da laico, che tutto questo danneggi la politica. Altro che chierichetti e atei devoti. E’ qui che
nascono i compromessi. La politica è secolare, ma la fede, che è e resta una virtù, non lo è.
Perciò ringrazio di nuovo Augias e la Repubblica. Quando sono arrivati i ragazzi a portarmi il
quotidiano con la lettera di don Aldo Antonelli, non ci volevo credere, nemmeno si trattasse del
Manifesto o di Liberazione. Penso che la lettera sia un segno di speranza. Sarò ottimista, ma
andando in giro per l’Italia trovo segni da tutte le parti, soprattutto nella convinzione di chi vuole
riabilitare il giusto ordine del reciproco interrogarsi di Parola e politica, di fede e storia.
Occorre riflettere sul compito – e questa è una missione vera – di chi nella Chiesa ha il ministero
della Comunione, di chi amministra la carità nella Chiesa di Roma. Tutte le sere ricordo i miei tanti
papi, i papi che ho già avuto: papa ratti, papa Pacelli, papa Roncalli, papa Montini, papa Luciani e
papa Wojtyla. Dov’è il servizio di Pietro? Io ci credo e lo amo, ma dov’è? E poi rivolgo anche un
pensiero ad ogni vescovo che amministra una diocesi, ad ogni presbitero, ad ogni donna e ad ogni
uomo che abbia in qualsiasi posto e in qualsiasi modo il ministero ecclesiale della Parola e della
direzione di una comunità cristiana.
L’esempio i vescovi ce l’hanno. Per sette anni è stata bloccata la causa di beatificazione – adesso
dicono che sia ripresa – del vescovo salvadoregno Romero, questo fulgido esempio di martirio. Un
pastore quasi del tutto dimenticato, che si è totalmente identificato col suo popolo oppresso.
La Chiesa non può intromettersi nella direzione della società terrena. La sua voce deve essere
profetica, come già è stato detto. L’esigenza di profezia rimanda la nome di Dio. Penso agli amici e
ai maestri del monastero di Bose, in particolare al priore Enzo Bianchi, che lo insegnano da sempre.
La profezia non ha bisogno di diventare politica, economia, tecnica, morale.
La mia gioia, da piccolo prete di strada, è di stare a fianco dei poveri, dei giovani, degli operai, dei
soggetti mal riusciti oppure ghettizzati. Nelle rivendicazioni ambientali dei Verdi, in quelle
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dell’autonomia, nel cuore antico della gente, nella ragione comune e nel buon senso. La Chiesa
istituzionale altrimenti rischia di lasciarli fuori di casa. E questo è uno scandalo. Sarà essa stessa,
cioè, a subirne lo scandalo. “Sono venuto a portare la buona notizia ai poveri”.
Una parola autenticamente profetica avrà naturalmente una precisa ricaduta nella polis, ma se
dimentica la propria qualità – ecco di nuovo l’insegnamento di Enzo Bianchi, priore di Bose – di
eco della parola di Dio, ossia se pretende di travalicare immediatamente nella sfera politica, nella
mera etica umana, nel dominio dell’economia e della tecnica, allora introdurrà semplicemente germi
di contrapposizione, come del resto sta avvenendo nella comunità ecclesiale, se non nella stessa
comunità cristiana in senso ampio.
E il vescovo, in tutto questo, dov’è? Se la croce è l’abolizione dell’inimicizia, il vero vescovo è
l’operatore di pace: mite, misericordioso, in dialogo con tutti, assetato di giustizia. Il vescovo è per
sua stessa natura colui che non può creare nemici. Questa è la mia piccolissima testimonianza.
MicroMega: La religione cattolica, nel senso della Chiesa gerarchica, sembra trionfante, mai tanto
ascoltata dagli establishment, dai media, da chi fa opinione. Voi considerate questo potere un limite
e addirittura un rischio per il messaggio evangelico. Contrasto non nuovo, quello tra gerarchia e
Chiesa “di base”, che solo il Concilio Vaticano II aveva saputo affrontare.
Quello che sembra oggi mancare, però, è proprio la voce di questa Chiesa “di base”. Oggi
l’immagine della Chiesa è un’immagine compatta, molto allineata sulla Chiesa gerarchica, la quale
al suo interno sembra infinitamente più compatta che mai. La Conferenza episcopale italiana di
Ruini appare un organismo francamente monolitico.
Questa mancanza di visibilità corrisponde a una effettiva restaurazione, a una normalizzazione
compiuta, per cui le comunità e i fermenti che voi rappresentate costituiscono eccezioni ed episodi
marginali nella Chiesa, oppure questo fermento c’è, come c’era venti o trenta anni fa, e
semplicemente la Gerarchia,e i media ossequiosi, hanno saputo mettere la sordina al fenomeno?
Albanesi: Vi è una solitudine di tutti e in particolar modo dei cristiani, giacché la secolarizzazione
investe la cultura e la società nel suo complesso. Vi è un oggettivo stato di difficoltà: le chiese si
sono svuotate, i ragazzi hanno altri riferimenti, è sempre più arduo proclamare il Vangelo.
Probabilmente non siamo riusciti a capire da dove veniva il pericolo. Il pericolo veniva da destra,
nel senso che il consumismo, il radical chic, la superficialità, l’edonismo, l’efficientismo e via
dicendo formavano una ruggine leggera, ma feroce e inarrestabile. La Chiesa ha visto nei
movimenti ideologici degli anni Settanta un pericolo. Perciò li ha zittiti: ma non si è resa conto del
rischio che correva dall’altra parte. La solitudine esistente ha almeno due conseguenze. La prima è
la difficoltà di chi vive alla periferia, a diretto contatto con l’umanità più disagiata. E’ difficile
raccogliere le forze di tutti, anche perché gli orientamenti conciliari e soprattutto la riflessione preconciliare si sono dispersi. A questa riflessione, ad esempio, è dedicato integralmente l’ultimo
numero della rivista internazionale di teologia Concilium.
La seconda difficoltà riguarda la struttura monolitica della Chiesa, che in realtà è una debolezza e
non una forza. Questa monoliticità si situa infatti più in basso della fede, per attestarsi tatticamente
sulla prudenza di un sapersi regolare, di un moderatismo anziano, di una specie di buon senso a
buon mercato. Proprio per questo, nel momento in cui all’esterno della Chiesa ci si appropria della
definizione di un’appartenenza cattolica e si riceve persino la benedizione della gerarchia, chi è
minimamente consapevole non può non mettersi in guardia. Perché? Perché il cristianesimo è e
deve restare scomodo. Il cristianesimo ha un messaggio duro e difficile da seguire. Nel momento in
cui si viene benedetti, in qualche modo c’è un trucco del quale si dovrebbe diffidare, piuttosto che
esserne lusingati. Per tacere, del resto, del riscontro pratico di tutto ciò: famiglie che si sfasciano,
comportamenti sociali e politici che vanno alla deriva, il mondo stesso che viene dimenticato.
Lo dico pubblicamente: nessuno, nella Chiesa italiana, parla più del mondo. Non del mondo italiano
o del nostro piccolo mondo regionale, bensì del mondo in tutta la sua ampiezza. E se la religiosità
cristiana dimentica questa sua universalità è finita, nel senso che si trasforma, come diceva don
Pierluigi Di Piazza, in una specie di religiosità, in una setta. E il cristianesimo ha resistito nei secoli
esattamente perché setta non era.
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Contro tutto questo esiste ancora una qualche forza nella base, che tuttavia non vedo né studiata né
presa in considerazione e anzi quasi abbandonata a se stessa. Penso a quanta gente muore nelle
missioni, al martirio che continua e non fa più scandalo, a chi muore ovunque in nome di Cristo,
oppure alla vera e propria resistenza di tanti preti ormai soli e anziani, che vivono abbandonati in
certe parrocchie senza essere significativi per gli altri. Penso a molte fedi semplici, che resistono
agli attacchi dell’edonismo. E però, sul versante opposto, penso alla popolarità di certe devozioni
che vanno al di là della modernità.
La visione esteriore e purtroppo attuale di una Chiesa oltremodo presente nella realtà politica e
dogmaticamente monolitica è una visione distorta e per molti massmediatica, che rischia di non
reggere più l’impatto con la realtà.
Di Piazza: Personalmente vivo con grande dolore e tribolazione i cedimenti alla lusinga del potere:
mi impaurisce appunto una Chiesa del potere, anche se è una realtà che non ci schiaccia, o almeno
così speriamo, dal momento che continuiamo un cammino non solo tra di noi, ma con le tante
amiche e tanti amici che rappresentano ed esprimono anche la voce di tante persone e di tante
comunità, qui in Italia e in tanti luoghi del pianeta con cui siamo in relazione…
Fra qualche giorno saranno trent’anni che sono prete. Di recente, in un’intervista a un giornale
locale, riflettevo sulla questione del potere e su come esso, dal punto di vista dell’istituzione
religiosa e non della fede, si concentri sui tre aspetti che del resto ritornano anche nel dibattito
politico recente e nel Sinodo che abbiamo ricordato. I tre aspetti in cui si concretizza il potere
religioso sono la sacralità (come potere di separatezza dal mondo e dalla laicità), la sessualità e
l’economia.
Il messaggio del vangelo, su questo, è chiaro: non esiste una sacralità come separatezza. Gesù non
era un rabbino diplomato e non era un sacerdote: era un laico, ha fatto il falegname per trent’anni.
Attraverso i suoi gesti e le sue parole ha comunicato questo amore incondizionato, che come tale
poteva venire solo da Dio, che lui nella storia ha presentato nella sua persona.
Storicamente, stiamo ricostruendo quello stesso apparato che ha ucciso Gesù di Nazareth e che era
fondato sulla sacralità come separatezza dal mondo, dalla vita delle persone. Invece il testo biblico
nella sua interezza e il Vangelo con forza particolare parlano di santità, che è ben diverso. Non
luoghi, persone e gesti separati o abiti speciali – l’intero immaginario che invece ci è di fronte –
bensì una santità nel senso di una profondità al massimo possibile dell’umanizzazione delle persone
e della storia, nella continua relazione tra storia e trascendenza, trascendenza e incarnazione
nell’umanità storica.
Allo stesso tempo occorrerebbe poter dialogare nella Chiesa sulla sessualità in tutti i suo aspetti: ma
fino a quando anche la questione della donna non sarà affrontata nella sua profondità e nella sua
ampiezza ciò non sarà possibile; questo potrà avvenire solo se le donne saranno protagoniste con la
loro differenza di genere. Lo stesso va le per la questione economica di cui prima abbiamo
accennato in relazione all’esenzione al pagamento dell’Ici: la Chiesa deve essere un segno credibile
del Vangelo per come utilizzare il denaro: in modo limpido, trasparente, solidale.
Quando c’è un intreccio di tutti e tre gli aspetti in modo negativo, dentro un’istituzione forte come
quella attuale, si ha l’impressione di una sorta di schiacciamento.
Altro è la fede.
Don Andrea ricordava prima padre Ernesto Balducci; ne cito un passaggio molto profondo, già
risalente quindi a diversi anni fa: tutte le religioni sono a un bivio, tutte. La prima scelta è quella di
continuare semplicemente ad accogliere le persone impaurite dalla complessità del mondo, dallo
spaesamento, dall’incertezza personale e comunitaria, consolandole però esclusivamente dentro le
nicchie della sacralità e rassicurando semplicemente l’identità personale. Certamente l’aspetto della
consolazione della fede è importante e significativo, ma non ha senso, nell’itinerario di una fede
profetica, una consolazione che non sia al tempo stesso comunicazione di un coinvolgimento
profondo nei confronti dell’altro, soprattutto dell’altro che fa fatica, che è colpito, che è emarginato
o che comunque è in difficoltà ed è vittima, ma che può diventare, in un processo comunitario,
protagonista della sua storia di liberazione.
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Le religioni tutte, anche se noi parliamo in particolare del Vangelo e dell’alternativa irriducibile tra
fede e religione, debbono spostare il loro baricentro dentro la storia nei luoghi in cui vivono i
drammi e le speranze dell’umanità.
Rispetto alla questione della visibilità o meno di una possibile Chiesa di base e dei suoi fermenti
evangelici faccio un esempio: in Friuli riuniamo da nove anni un gruppo di preti e di laici che con
un coinvolgimento significativo percorrono ogni Quaresima una Via Crucis da Pordenone alla base
di Aviano, che è un simbolo, in Italia e in Europa, della prepotenza armata. Da Aviano sono partiti i
cacciabombardieri per l’ex Jugoslavia; ad Aviano ci sono una cinquantina di bombe atomiche,
nessuno l’ha mai smentito. Ebbene, quando camminiamo verso la base per quei dodici chilometri –
meditando e pregando – ci accorgiamo che non ci sono, ad esempio, tanti giovani cattolici che
frequentano le cattedrali e altre realtà dei movimenti ecclesiali. Dico questo con tutto il rispetto,
ponendo però un problema: di fronte ad una proposta come la nostra, le persone che si aggregano di
preferenza dentro l’istituzione non ci sono, non partecipano. Perché mai? Perché si dice che la
nostra Via Crucis è politicizzata, che noi stessi politicizziamo la fede, come se tra l’altro in tutto
quello che si sta verificando in questi giorni non ci sia una politicizzazione e una resa al potere,
stavolta però della fede che, quando non è peggio, si trasforma in acquiescenza della situazione
esistente.
Come diceva don Vinicio, ci troviamo in una situazione per certi versi inedita, che non possiamo
non guardare in faccia. La religione oggi diffusa è quella che serve alle persone soltanto in
determinati momenti della vita, magari quelli più tradizionali. Ma altro è la fede che coinvolge – sia
nelle nostre comunità locali che nelle comunità – dentro la storia di un mondo sempre più
interdipendente e drammaticamente segnato dalle grandi questioni dell’impoverimento, della fame,
della guerra, delle oppressioni, delle discriminazioni, dell’aggressione all’ambiente. Che fede
sarebbe mai, del resto, se non ci coinvolgesse dentro alla storia del mondo?
Sebbene il mio personale osservatorio sia limitato, a me pare che ci siano esperienze significative
nella base, anche se forse non sono più vivaci come un tempo, poi non si fanno sentire, manca loro
una visibilità. Alle volte, e mi permetto una riflessione su me stesso e sulla nostra comunità di fede
intrecciata con il Centro di accoglienza, quando si è cercato di parlare all’interno della Chiesa, per
esempio delle specifiche questioni che riguardano i preti, non in quanto tali ma in quanto inseriti in
una comunità, si è incontrato spesso un muro di gomma nell’istituzione. Manca cioè il dialogo,
come prima veniva giustamente osservato. Ciascuno si ritira in se stesso, anche dal punto di vista
umano e psicologico. E compie il suo percorso in proprio, con il pericolo che alle volte si isoli
anche rispetto a chi fa lo stesso percorso. Ognuno cerca di compiere il suo senza la possibilità di
dialogo nel senso più veritiero della parola all’interno della Chiesa, che non è certo quello
dell’ascolto occasionale e tanto meno solo di un colloquio a termine, più o meno attento a una
situazione che poi magari viene giudicata di mera rivendicazione. Non è questo il punto. Si tratta di
far emergere il soffio che proviene dall’ascolto della vita, dall’ascolto della storia. Senza l’ascolto e
la possibilità di un dialogo aperto e veritiero non c’è futuro. Nella Chiesa manca un dialogo
autentico, in cui si possano nominare le “cose” della vita così come esse sono. Così ognuno procede
per conto proprio.
Un altro aspetto essenziale è quello che riguarda i mezzi di informazione. Anche quando c’è
qualche esperienza positiva e significativa, come la lettera di don Aldo Antonelli da cui siamo
partiti, si ha l’impressione di vivere in una società che consuma tutto. Non solo da un giorno
all’altro, ma quasi da un istante all’altro. Si volta subito pagina. E allora sia le situazioni più belle e
positive che quelle più dolorose e difficili letteralmente si consumano, senza che diventino
occasione di riflessione, di interlocuzione …
Infine, ho l’impressione che sia debole e che manc hi una rete. Forse questo nostro dialogo è un
segno e un punto d’avvio, ma ci vorrebbero più possibilità di comunicazione per far emergere anche
in Italia il volto di questa chiesa che vive alla base, ma non emerge come dovrebbe.
Anche la domanda della visibilità del cristiano posta dalle gerarchie appare in un certo modo
paradossale. Talvolta capita anche a noi, nelle comunità in cui siamo inseriti, di non accorgersi della
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presenza e delle potenzialità delle persone, di quello che esse mettono già in atto. E questo accade
per disattenzione, per supponenza, per pregiudizio, salvo poi dire che non ci sono persone
disponibili. Così avviene a livello della Chiesa romana, ma anche delle chiese diocesane. Il concetto
stesso di comunione è inteso talvolta in modo nominalista. Se un’esperienza non parte dalla diocesi
o dal centralismo della Chiesa istituzionale, va subito incontro al sospetto. Eppure in tutta Italia vi
sono comunità, come quelle rappresentate dagli amici con cui ho il piacere di interloquire qui, che
sono il segno di esperienze straordinarie. Esperienze che procedono da anni, inserite pienamente
dentro la storia, in rapporto con le storie delle persone. E i Vangeli non sono forse i racconti delle
storie degli incontri di Gesù di Nazareth con le persone?
Fasullo: Il fatto che questo confronto sia stato organizzato da MicroMega anziché da una rivista o
da un giornale cattolico, dimostra, almeno fino a un certo punto, che all’interno della Chiesa ciò non
è facile che accada. Prevale l’esclusione e il controllo. Come del resto in tv: solo alcuni vi
compaiono, arrogandosi la rappresentanza della Chiesa e della categoria di cattolico.
L’impressione di trovarsi di fronte a una chiesa trionfante è diffusa. Ma bisogna distinguere:
religione e fede non coinc idono perfettamente. Io so che le parole “vincere” e “trionfare” ripugnano
alla fede, le sono estranee. Dio non vince mai, e non solo perché non lotta. L’hanno anche insegnato
i teologi più seri: una cosa è religione, altra cosa è fede cristiana. Spesso, anzi, le due si rapportano
in modo inverso: più religione, meno fede, e viceversa.
Nel 1998, a Palermo, per un’intera settimana, abbiamo riflettuto su questa distinzione in rapporto al
problema della violenza e della mafia. Era salito alla ribalta un equivoco: a un mafioso venivano
dati clandestinamente i sacramenti. In casa di un noto mafioso era stato trovato un altare con relativi
vasi sacri per la celebrazione della messa e di altri sacramenti. Alcuni sacerdoti vi svolgevano
“stabile” servizio. Non è chiaro se quei preti abbiano abbandonato quell’attività. Non so neppure se
la distinzione tra religione e fede cristiana abbia fatto passi avanti nella coscienza della gente. Non
sono sicuro, cioè, che sia diventato ovvio che un mafioso può essere religioso quando e come vuole,
ma non potrà mai, mentre fa cose mafiose, essere e dirsi anche cristiano, ovvero, discepolo di Gesù
Cristo.
La presenza della fede, ovvero dei cristiani nella vita pubblica e istituzionale, ha sempre costituito
un problema nella Chiesa. La storia conosce compromessi, raramente limpidi e convincenti. Tutti
conoscono il fenomeno del costantinismo, ovvero dei rapporti di mutuo sostegno, di scambio
politico e culturale tra potere politico e potere religioso. E’ una tentazione perpetua stigmatizzata
dal Vangelo. Anche oggi la tentazione è attiva, nonostante il Vangelo, nonostante il Concilio. La
chiamano neo-costantinismo e può sfociare nel clericalismo: uno degli ostacoli più insidiosi per la
fede. Ma come la fede va tenuta distinta dalla religione (Gesù fu ucciso per sentenza religiosa e
clericale) così la Chiesa non va confusa col clero o, peggio, con Dio. Dio non è sotto la tutela della
Chiesa. Oggi, nella chiesa sembra ci sia un certo cedimento alla tentazione di far politica, di
esercitare il potere, di dettare legge, di dirigere il governo e il parlamento. Ciò non è possibile. Non
si può cedere in nessun modo a questa tentazione. La Chiesa non ha ricevuto alcun mandato a
esercitare il potere sulle città, non è stata istituita per governare, guidare il mondo, orientare la
storia. L’umanità, che è molto più grande della Chiesa, se la guida liberamente Dio col suo amore,
senza chiedere consiglio a nessuno. La Chiesa può (deve) solo rappresentare l’amore gratuito di Dio
nei modi storicamente possibili e più coerenti.
Se la Chiesa oggi sembra trionfare, nessuno può affermare che Dio vi abbia parte o faccia suoi i
trionfi della Chiesa. In realtà, si tratta piuttosto di una Chiesa troppo ripiegata su se stessa, che
provvede più a sé che agli uomini, che dimentica i poveri. Conoscendo la storia di Gesù possiamo
andare sicuri: se la Chiesa vince, Dio perde. Una Chiesa che pensa a se stessa difficilmente riesce a
farsi capire e ascoltare dagli uomini. Diventa chiusa, dura, rigorista. Rischia di no n comprendere più
la parola evangelica.
Agli inizi degli anni Settanta, dietro la spinta del Concilio, uno dei discorsi dominanti nella Chiesa
riguardava i rapporti tra fede e politica, fede e storia. Ci si svegliava, allora, dal sonno di un
ambiguo spiritualismo utile solo a tenere i cristiani lontani dai problemi difficili che soffocavano le
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città. A Palermo e in Sicilia, il problema più grosso era costituito (lo è ancora) dalla mafia. Era
arduo, perché comportava emarginazione, sostenere che la Chiesa doveva prendere posizione e dire
apertamente che non si poteva essere cristiani e insieme mafiosi. Erano anni spietati. La morte
umiliava la città: e ancora non erano arrivati i terribili anni Ottanta! Ma solo in pochi si reagiva.
Ancora nel 1982 (il 3 settembre di quell’anno veniva ucciso il generale Dalla Chiesa) si discuteva,
da parte di alcuni, se la mafia doveva costituire un problema anche per la Chiesa. Era il tempo in cui
la Chiesa italiana aveva un suo partito politico (la Democrazia cristiana) ampiamente compromesso
con la mafia (Andreotti docet). Fu una battaglia lunga difficile, al termine (?) della quale si può dire
che passi importanti sono stati compiuti, ma non troppi.
Credo che la lezione più importante da apprendere da quella esperienza sia piuttosto chiara: la
Chiesa aiuta le città a liberarsi dai propri problemi se è libera e cammina con la gente, e se sulle
proprie spalle porta insieme agli altri i problemi di tutti. Tenendosi, però, lontana dalle cabine di
comando, astenendosi dal dirigere i governi, rinunciando a dettare condizioni ai parlamenti, nonché
a suggerire (imporre) comportamenti elettorali o referendari. L’ha insegnato il Concilio: una Chiesa
povera e libera è più credibile di una piena di denaro e di legami (tanto più stretti quanto meno
confessabili) col potere politico.
Gallo: Il problema, per me, è sempre quello del Servizio di Pietro. Anni fa, mi trovavo nell’ascolto
appassionato del grande maestro monaco Arturo Paoli. Gli domandai cosa pensava della Chiesa,
Candidamente, come fa ancora adesso che è quasi centenario, mi rispose: “Caro Andrea, è sede
vacante”. In effetti è questo il punto centrale. Personalmente, allora rimasi meravigliato. Amo la
mia Chiesa. I valori evangelici me li hanno trasmessi i miei vecchi genitori, una famiglia povera di
lavoratori: la mamma, la nonna, il papà. Allora domandai ad Arturo Paolo: “Ma allora chi
governa?” . “Governa l’Opus Dei”.
Ora è chiaro che i fermenti continuano ad esserci anche in Italia, per non parlare di quel che accade
in tutto il mondo. Il vangelo è un seme. Gesù continua a fare seguaci. Ma in Italia, per esempio, il
cardinal Ruini ha compreso perfettamente la situazione. Sono anni che riportano avanti azioni per
così dire di insabbiamento. Un’operazione che non era mai riuscita fino in fondo come adesso. E
che è stata condotta valorizzando, illustrando e premiando quelle comunità particolari per la dignità,
la coerenza e la testimonianza al magistero. Tutta una serie di esperienze ben precise, da
Comunione e liberazione alla Comunità di sant’Egidio, dai Legionari di Cristo all’Azione cattolica
compresa.
Ho trovato inoltre così assurda quella specie di propaganda, davvero bassa e volgare, contro il
referendum sulla procreazione assistita. Nessuno o quasi ha avuto il coraggio di dirlo, e me ne
meraviglio. In Italia ci sono centinaia di vescovi: possibile che Ruini, alla Cei, esponga le sue
indicazioni e nessun vescovo si muova? Allora sono prigionieri. Persino le Acli hanno dato la loro
adesione. L’unica ad aver mostrato qualche perplessità è stata l’Agesci, richiamando il sacrosanto
primato della coscienza. E in questa gabbia i giovani e le famiglie finiscono per essere contenti.
Aderiscono a Cl, i fidanzatini vanno al meeting, gli universitari a Sant’Egidio, e dappertutto si
rafforza questa gabbia. Mai l’Azione cattolica aveva rinunciato alla sua dignitosa autonomia nella
fedele e storica collaborazione con i vescovi.
Tuttavia i fermenti continuano ad esserci. La meditazione si approfondisce e si può essere fieri
dell’operato delle comunità di base, che non sono scomparse. Tra di esse mi piace sempre ricordare,
come punto di riferimento, l’isolotto del caro amico e fratello Enzo Mazzi. Di certo la stampa non
se ne occupa un granché, anche perché le comunità di base sono fuori da questo ecclesiocentrismo
imperante in cui si dimentica che la Chiesa è già sempre mediazione e non ha ragione di esistere per
se stessa, ma solo come strumento e segno della salvezza che Dio ha preparato per ogni uomo.
E allora ritorniamo al punto centrale del Concilio. Personalmente mi onoravo dell’amicizia del
cardinal Lercaro, uno dei moderatori conciliari, che era genovese. All’epoca, Lercaro era
arcivescovo di Bologna e quando rientrò all’arcivescovado dopo il Concilio, lo aprì a tutti i ragazzi
con un concreto gesto bellissimo e altamente simbolico. Il messaggio meraviglioso è tutto qui, nella
natura di un Dio che spogliò se stesso prendendo la natura di uomo e finanche di servo (Fil 2,7): da
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ricco che era si fece povero. Quello che oggi non c’è più è esattamente la grande Chiesa dei poveri,
con i poveri.
Ma l’obiettivo della Chiesa devono essere proprio i poveri. E ci sono molte persone, con tante storie
diverse, che lavorano a questo obiettivo comune. Naturalmente non si mettono la divisa del
cristiano o la veste bianca del battesimo. Però perseguono l’obiettivo di smascherare l’idolatria, che
significa illuminare sentieri pubblici. Questo è quello che sentono e cercano: un’indicazione di
senso e di speranza, accompagnata come qualcuno ha detto dallo smascheramento delle disumanità,
ovunque esse si celino. Pochi giorni fa ero a Vicenza con i ragazzi – di cui poi ne hanno denunciato
quarantacinque – per dimostrare contro il progetto di ampliare la Caserma Ederle (grande base
nordamericana). Lo smascheramento della disumanità è sempre presente nella capacità di destare il
salutare scandalo del Vangelo e di sollevare una denuncia profetica contro le ingiustizie.
Occorre vigilanza, il che significa saper coltivare un’istanza critica contro i rischi di una Chiesa che
assurge a potere politico. Oggi questa vigilanza non c’è più, perché domina esattamente la
tentazione del potere.
Questa Chiesa, che ha addirittura la sindrome dell’accerchiamento, è una Chiesa che non è
osteggiata e anzi è ascoltata e omaggiata dal potere.
Ricordiamoci del Giubileo con le passeggiate dei politici o della santificazione di san Escrivà.
Ricordiamoci soprattutto di papa Wojtyla che visita il parlamento italiano, riceve applausi
scroscianti, chiede un piccolo gesto di clemenza per quella discarica umana e sociale che sono le
carceri italiane e cosa gli si risponde? No. Possibile che i vertici della Chiesa non si rendano conto e
non abbiano minimamente protestato?
E allora la domanda è: come è possibile transitare dal governo dell’esistente alla profezia? La polis
è il luogo comune di tutti, è cioè uno spazio di valori comuni. In essa ci sono tanti cristiani, ma
anche tanti non cristiani. E’ tutto qui il nocciolo della questione? O bisogna maturare finalmente un
campo autonomo della vita pubblica, nel senso di un luogo in cui tutti insieme costruiamo qualcosa.
E’ qui che non si vuol capire come stanno le cose. Leggete la Dominus Jesus del 2000., di cui
parlavo ancora di recente con il teologo Giulio Girardi, che l’ha molto approfondita. Come può
essere compatibile tale documento con il dialogo e l’ecumenismo? Fintanto che il papa Ratzinger
non la ritira, mi meraviglio che si possa ancora fare un solo passo innanzi.
Credenti e non credenti costruiscono un umanesimo, non un umanesimo cristiano, ma comunque un
umanesimo nella comune passione per l’uomo. Uomini si nasce, cristiani lo si diventa per scelta. E
allora vorrei tirare in ballo colui che rimane ancora un orientamento per tutti noi preti, il nostro
grande don Lorenzo Milani, che su questo punto sapeva prendere le dovute distanze dall’istituzione,
per stimolare, per amare la nostra Chiesa.
Noi siamo qui. Ricordiamoci che i fermenti ci sono e siamo sempre pronti ad attendere, ad invocare,
a sperare nel Regno e nella venuta gloriosa del Signore (1 Cor), a nutrire compassione, a
impegnarci attivamente come cristiani per la pace, per la giustizia verso i più poveri, i senza dignità,
gli oppressi.
Che cos’è centrale per il cristiano? E’ la parola della croce (1 Cor 1,18), è l’annuncio del Regno:
che tutto sia purificato. E allora ecco che la paglia brucerà, ma l’uomo resterà sempre questa pietra
preziosa.
Esiste sempre un rischio, per il cristiano come per la Chiesa, di sbagliare nella lettura della fede e
della parola. Ma allora non rimane che combattere e impegnarsi. Lo dico a tutti coloro che incontro:
se vorranno sbattermi di fuori dalla Chiesa, lo faranno. Ma avranno davvero il coraggio di sbattermi
fuori dalla “mia” casa, soltanto perché dico queste cose?
Sono sempre pronto a correggermi. Ma allo stesso tempo voglio continuare a combattere il peccato
strutturale dell’intromissione nella cosa pubblica, delle indebite ingerenze, delle volontà teocratiche,
del tentativo di restaurazione della cristianità di Costantino. I cristiani non devono temere
Diocleziano, devono temere Costantino.
MicroMega: Avete parlato di tentazioni costantiniane, e di riduzione del cristianesimo a una morale
sociale.
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Voi vivete situazioni di frontiera, con persone che spesso sono tossicodipendenti, prostitute, malati
di aids, e tutti i giorni dovete affrontare le scelte morali che la Cei sempre più spesso chiede ai
parlamenti di trattare con norme di legge sanzionate penalmente. Forse si cercherà di rimettere in
discussione l’aborto, e intanto si cerca di proibire l’aborto chimico (pillola RU486), molto meno
traumatico di quello chirurgico. E viene reiterato l’anatema contro il preservativo, anche in quelle
regioni dove l’aids è una piaga tale che oltre il 20 per cento dei bambini viene al mondo già con
l’aids.
Quanto al problema della sofferenza terminale e del suicidio assistito, si vuole che in Italia neppure
lo si affronti, mentre un organismo molto conservatore, come la Camera dei Lord, ha deciso di
porlo all’ordine del giorno del parlamento inglese, perché una legge lo depenalizzi.
Vista dall’osservatorio delle vostre comunità, che possibilità c’è di comunicare un messaggio
cristiano di testimonianza profetica, un messaggio “dalla parte degli ultimi”, insieme al messaggio,
più che mai ribadito dalla Chiesa-istituzione, della condanna non solo morale ma, se i parlamenti si
piegano, anche penale dei comportamenti richiamati? E non abbiamo neppure accennato al
problema dell’omosessualità…
Albanesi: Per chi vive in prima persona i problemi degli uomini non esiste alcuna dicotomia. Il Dio
cristiano è un Dio misericordioso, un Dio accogliente, un Dio che va verso la vita, un Dio che vuole
allontanare la morte delle sue creature. Nel momento in cui vengo a contatto con storie
drammatiche, la prima spinta dev’essere sempre quella dell’accoglienza, della misericordia,
dell’aiuto al superamento delle difficoltà.
Tutto questo non può mai inficiare i comportamenti e i giudizi morali del cristiano, per il semplice
motivo che non sono o a dover giudicare ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui una ragazza
straniera che no né in grado di mantenere un figlio viene da me e mi dice che ha abortito, il mio
dovere è prima di tutto quello di accoglierla. Che cosa poi lei abbia compiuto davvero con il suo
gesto, io no n posso dirlo fino in fondo, perché mi è stato proibito di giudicare. Espressioni
evangeliche come “non giudicate” o “non condannate” (Luca 6,37) si connettono all’idea che il
grano e la zizzania saranno separati soltanto alla mietitura (Matteo 13, 30), il che significa alla fine
dei tempi, quando peraltro i ladri e le prostitute ci precederanno nel regno dei Cieli (Matteo 21, 32).
Tutto questo dice una sola cosa: che abbiamo il dovere di accogliere e di accompagnare tutti in vista
della salvezza. Questo è il primo e forse l’unico dovere che abbiamo.
E’ evidente che insieme a questo noi cerchiamo anche di prospettare la verità e quindi di suggerire
l’adesione a un messaggio di speranza. Ma è soltanto un messaggio quello che noi diamo. Non
spetta a noi verificare i tempi, i modi, i luoghi e la coscienza di ciascuno nei confronti di questo
stesso messaggio.
Personalmente non vivo alcuna contraddizione. Di fronte a chi soffre mi ricordo esclusivamente
dell’ideale che il Signore ci ha dato. Se qualcuno è in stato di difficoltà, lo aiuto a ricercare Dio e lì
mi fermo. Non spetta a me dare una valutazione definitiva, non posso farlo. L’onorevole Buttiglione
diceva pubblicamente, non molto tempo addietro, che gli omosessuali erano in stato di peccato. Il
catechismo in realtà non dice che sono in peccato, semplicemente perché nessuno può dirlo e perché
d fronte alla coscienza, che è il limite oltre il quale non posso mai andare, devo solo accogliere le
istanze e i bisogni che mi vengono presentati.
Ormai abbiamo capito che, lungo il corso della storia, l’ideale del cristianesimo va sempre
contestualizzato e approfondito, che occorre comunque rifletterci sopra una volta di più. Posso
seguire, ascoltare, indicare, ma non posso cristallizzare la storia legandola a qualcosa che non tiene
conto di quella dimensione centrale che è la dimensione del bisogno, del dolore e dell’aiuto.
Di Piazza : Ancora una volta mi sento in sintonia con don Vinicio. Si tratta di un modo di vedere le
cose che è già in se stesso una profezia sulle persone, sulle relazioni e sul modo. A questo riguardo,
ricordo sempre la posizione del segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer e il suo auspicio
e impegno perché la società si liberi dall’aborto; che nessuna persona cioè si debba trovare nella
necessità di porsi tale dilemma. Questa è ovviamente la prospettiva ideale di tutti; credo che tutti in
linea di principio siano contrari all’aborto; nel concreto delle situazioni umane, come diceva don
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Vinicio, deve esserci un’accoglienza, un accompagnamento, un incoraggiamento delle persone, e un
sostegno a riprendere e rinnovare le ragioni della vita, esprimendole nella relazione con gli altri.
In una società pluralista dal punto di vista delle ispirazioni e dei percorsi, tutti sono chiamati a
contribuire affinché le leggi siano il più possibile umanizzate, con attenzione particolare, ma non a
parole quanto nei fatti, alla prevenzione.
Ma questo vale per tutto ciò che riguarda la convivenza di un popolo civile. A maggior ragione
dunque, in quelle situazioni così delicate e difficili, di fronte alle qual ci coglie un profondo
tremore, visto che si tratta delle vicende umane più nascoste, delle storie più intime delle persone,
come appunto l’aborto.
La medesima cosa dobbiamo dire per l’omosessualità e per l’esperienza fondamentale
all’accoglienza, da parte della Chiesa, di persone che vivono le loro relazioni e al contempo si
lasciano guidare, in determinate situazioni, proprio dalla parola del Vangelo. Occorre vivere e
affrontare queste situazioni in modo integralmente umano.
Lo stesso vale, ancora, per quanto riguarda le coppie di fatto. Anche in questo caso sussiste
certamente il diritto, da parte della Chiesa, di richiamare il senso della famiglia. Ma per chi crede e
si orienta a questo, sperimentandolo fino in fondo, vivere l’esperienza della famiglia (che può essere
un segno anche per gli altri) non significa mai condannare altre persone che vivono situazioni
diverse per ribadire il valore assoluto della famiglia. Deve accadere piuttosto il contrario. Si vive
l’esperienza della famiglia nel pluralismo delle situazioni e solo a queste condizioni si può davvero
essere un segno anche per gli altri. Altrimenti terremmo un comportamento paradossale: negare gli
altri per affermare noi stessi … e sarebbe un corto circuito assolutamente infruttuoso a livello
umano.
Il Vangelo, con il suo richiamo a una grande idealità umana, ci insegna una umanizzazione integrale
della vita e dei rapporti sociali, in cui le persone, possibilmente, non entrino in situazioni di
sofferenza, di difficoltà o addirittura di tragedia. Nello stesso tempo, e questo Gesù di Nazareth lo
esprime in modo esemplare e straordinario, deve emergere in noi una capacità di prestare
attenzione, di prendersi cura, di rincuorare. Quante volte nel Vangelo ricorre la frase: “Va’ in pace”.
Ecco la Chiesa che accoglie, la Chiesa di una serenità ritrovata nell’intimo, di possibilità di vita che
possono a poco a poco riprendere a manifestarsi. Secondo la mia esperienza e secondo quella di
tutti noi, in certi casi così lunga e intensa, se la Chiesa, come comunità di fede, non è accogliente,
non è Chiesa. Gesù di Nazareth è stato esattamente il Dio dell’accoglienza. Quando parliamo poi di
fede e di religione, come stiamo facendo ora, e quando parliamo di Dio, si tratta sempre di capire in
quale Dio si crede o a quale Dio ci si riferisce. Giacché c’è il Dio dei ricchi, dei prepotenti, dei
privilegiati, che spesso è il Dio della guerra, della superiorità che schiaccia gli altri, della
discriminazione. Rispetto a questo Dio io mi dichiaro ateo. L’altro Dio a cui credo e a cui mi affido,
è il Dio di Gesù di Nazareth, che è colui che prospetta – senz’altro in modo esigente – il nostro
futuro, e nello stesso tempo, accoglie le persone, le valorizza e le incoraggia… Questa è la mia
posizione.
Fasullo: Chi è credente fa esperienza quotidiana della misericordia di Dio. Non può, quindi, dire
sempre e solo dei no, dei divieti. Altrimenti la sua fede rischia di essere finta, una presunzione.
Un’etica ispirata al Vangelo è comprensiva, aiuta, carica, apre, dà la possibilità concreta di liberarsi
da ciò che può costituire un peso, un ostacolo a una piena responsabilità circa le proprie azioni.
Senza speranza non c’è etica. C’è solo la dittatura di alcuni su altri.
La Chiesa, del resto, ha un modello altissimi (obbligato) cui ispirarsi: il comportamento di Gesù con
la donna colta in flagrante adulterio e sottoposta al suo giudizio. “Donna, dove sono i tuoi
accusatori? Nessuno ti ha condannato? Neppure io ti condanno”. La morale, almeno quella che si
ispira al vangelo, non condanna mai. Non uccide, dà vita. Creare moralità, o anche solo pretenderla
(sempre) dagli altri (ma la morale non si pretende mai: si offre soltanto), esclude ogni forma di
condanna e include ogni parola e gesto che possano sostenere e spingere gli uomini e le donne ad
andare avanti, a farsi e rifarsi una vita libera e dignitosa. Appunto: sul modello della parola di Gesù
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rivolta all’adultera. Se non si è capaci di una morale con questi caratteri, anche nella Chiesa, è
meglio tacere.
Pertanto, la Chiesa conosce bene la storia della misericordia di Dio, che sa dispensare con
generosità se fa spazio alla saggezza e alla prudenza e abbandona gli inutili toni di rigorismo
razionalista,
C’è un grande teologo morale nella Chiesa, Alfonso de Liguori, il quale attesta di non aver mai
congedato dal confessionale una persona senza averla prima perdonata. Questo, si badi, non
significa che de Liguori abbia sempre trovato infallibilmente una via d’uscita (giudiziale) per tutti.
Significa, più semplicemente, che, talvolta, si asteneva, che rinunciava anche a pronunciare
sentenze sicure e irreformabili sui comportamenti umani: non si attardava nel giudicare. Perdonare e
assolvere, pertanto, non vuol dire sempre e soltanto giudicare, significa piuttosto liberare, spingere,
dare fiducia, consegnare gli uomini e le donne (se ci si crede) alla benignità, alla grazia, all’amore
di Dio, che sono, appunto di Dio e non degli uomini. O c’è qualcuno che possa misurare l’altezza, la
profondità, l’ampiezza della grazia che Dio incondizionatamente dà agli uomini?
Sul terreno dell’etica, forse, si può sbagliare in due modi. O con l’eccesso di tolleranza – come dire:
tutto è lecito, tutto è indifferente, non esiste il male, non esiste il peccato. Oppure col rigore, o
peggio, con l’eccesso di rigore. Un cristiano che conosce Gesù Cristo non può mai sbagliare con
l’eccesso di rigore. Può sbagliare (ammesso che sbagli) solo con l’eccesso di tolleranza e di
benignità, con l’eccesso di apertura e di accoglienza. Mai chiudendo le porte, mai facendo disperare
la gente. Questa, io credo, è la grande lezione alfonsiana consegnata non solo alla Chiesa.
Gallo: Proprio ieri sera ho ricevuto una lezione ad un dibattito interetnico e interculturale. E’
intervenuta una ragazza, mi sembra che fosse peruviana. Ha letto semplicemente l’art. 2 e l’art. 3
dei principi fondamentali della Costituzione italiana: i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza
di tutte le donne e di tutti gli uomini. Mi ricordo che i vescovi, in un momento di illuminazione –
ecco il vento dello spirito – il 23 ottobre 1981, hanno composto un documento del consiglio
permanente della Cei dal titolo La Chiesa italiana e le prospettive del Paese. Al capitolo VI del
documento si parlava degli ultimi e degli emarginati, del fatto che tutti potevamo recuperare un
genere diverso di vita. Ed ecco qui il punto: entriamo anche noi umilmente nella Costituzione
repubblicana dei valori laici. Dobbiamo riscoprire una buona volta i valore del bene comune, primo
fra tutti la “tolleranza”.
Ora, richiamandomi a quello che ho detto prima, dovremmo dire a tutti i vescovi, che riconosciamo
come successori degli apostoli, che occorre rispettare anche tutti coloro che non vanno in chiesa.
Noi stessi siamo pietre vive e costruiamo questa nostra Chiesa, tuttavia non riusciamo a
comprendere il perché di questa prepotenza gerarchica, così tanto mondana e così poco fraterna.
Se la Chiesa è comunione, koinonìa, essa è prima di tutto antidiscriminatoria e antigerarchica.
Altrimenti, come potremmo parlare di essa come di una fraternità? Li abbiamo letti gli Atti degli
Apostoli? Lo stesso centralismo romano-occidentale è molto poco cattolico e quasi per nulla
favorevole all’ecumenismo, in casa nostra e fuori, all’estero.
Non possiamo in questa nostra conversazione dimenticare le sorelle e i fratelli migranti, che sono
espulsi e trattati come non-persone. In una realtà di maxi emarginazione, della fame nel mondo e
delle guerre, non è umiliante assistere nella no stra Chiesa ad un iperortodossismo che si tramuta in
caccia alle streghe? Ancora di recente, monsignor Levada, prefetto per la Congregazione per la
dottrina della fede, ha sostenuto che “è peccato votare i candidati politici che ammettono leggi a
favore dell’aborto” , preoccupato più di frenare che di promuovere una riscoperta di una maternità
responsabile. “E’ fatica divina essere umani tutti i giorni”, recitava padre Turoldo.
Mi verrebbe da ricordare cinque o sei maestri della teologia di liberazione, tra cui il nostro Giulio
Girardi. Potrei ricordare le cattedre decapitate e le gerarchie così tanto preoccupate e così poco
sensibili alla comunione, al pluralismo religioso, al pluralismo teologico. Ostili a tutto ciò che è
estraneo alle loro esigenze nella pratica e nella realtà di altri mondi, hanno creato in molti cattolicied è qui la grande tristezza – un complesso di paure ecclesiastiche. Penso all’ultima vicenda del
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quorum referendario e dell’astensione imposta dall’alto, alla sottomissione infantile, al
conformismo sterilizzante. Altro che riscoperta di valori.
Quando nella Chiesa non si respira, è perché agli uni e agli altri – e mi ci metto anch’io – manca il
vento dello spirito. L’umanità più soffrente viene sottoposta di giorno in giorno ad una grande
oppressione dal mercato, dalla tecnologia e dalla deterrenza totale. E genera l’urgente esigenza di
chiedere alla Chiesa e a tutti – a ciascuno di noi: laici, vescovi, preti, papi – un incessante ritorno
alla missione di Gesù. “Sono tra voi come colui che serve”.
Domenica 16 ottobre il testo evangelico recita proprio il “Date a Cesare quel che è di Cesare e a
Dio quel che è di Dio” (Marco 12,7). E siccome rifanno commentare un minuto e mezzo il Vangelo
alla televisione, alla fine ho ricordato che Gesù ha detto: “Non sono venuto per essere servito, ma
per servire” (Matteo 20,28).
La domanda del Concilio fu in fondo: Chiesa di Cristo, che cosa dici di te stessa al mondo? Che
cosa dici al mondo di Cristo, figlio di Dio morto e risorto, con il tuo modo di essere e di presentarti?
Come potresti annunciare meglio, in qualunque parte della terra e in tutte le circostanze storiche, il
Dio padre e madre, così come la madre di nostro Signore Gesù Cristo e il suo progetto d’amore?
Il pericolo più grave, per l’affermazione del Vangelo, non è costituito da quelli che lo combattono,
ma da quelli che lo naturalizzano. Il pericolo più grave non è la persecuzione, ma la
mondanizzazione. Duecento capi di Stato ai funerali di papa Wojtyla . Io non ci sono andato per
non trovarmi con degli assassini. E non voglio fare nomi. Vorrei citare piuttosto l’imperatore
Teodosio che nel IV secolo viene cacciato via dal vescovo di Milano Ambrogio, dopo la notizia
della strage di Tessalonica. Chi è stato Gesù? Che cosa voleva davvero? Ha ancora senso ispirarsi al
suo messaggio? E semmai, quale senso può ancora avere, a duemila anni dalla sua nascita, in un
mondo così radicalmente diverso dal suo? Noi abbiamo gioito col Concilio Vaticano II, che ha
cercato di dare risposta a queste domande, indicando anche una traccia da seguire. Dov’è finito il
suo messaggio? Dov’è finita la liberazione dei poveri? Entrambi sono stati rimossi dai nostri
compromessi personali e collettivi. Sono d’accordo con quel grande vescovo brasiliano (monsignor
Pedro Casaldàliga – Mato Grosso), che aveva scritto sulla facciata della sua cattedrale: “Il mondo si
divide fra oppressori e oppressi. Tu, cristiano, che stai per entrare, da che parte stai?”.
MicroMega: Avete detto tutti che la stagione del Concilio invece che proseguire è stata bloccata,
ma qualcuno ha detto addirittura che la Chiesa sta vivendo una restaurazione pre-conciliare. Tutto
questo però è avvenuto sotto il pontificato di Karol Wojtyla, che per altro verso è il pontificato che
viene considerato un momento straordinario, felice per la Chiesa. I Funerali di Wojtyla hanno visto
la partecipazione di capi di Stato, ma anche una partecipazione popolare che ha ritmato “Santo
subito”. In che misura questa restaurazione pre-conciliare è addebitabile al pontificato di Karol
Wojtyla,o a quali suoi aspetti?
Albanesi: La storia di papa Wojtyla ci conferma quello che ciascuno di noi sa bene, ossia che solo
il Signore è perfetto. Il papa aveva una grande visione e quindi anche un grande coraggio, nel senso
che veniva da una storia personale ed episcopale molto drammatica e, una volta asceso al
pontificato, ha espresso questa apertura al mondo, direi quasi all’universo, con fede profonda. E qui
sta la sua santità.
Dall’altra parte non bisogna dimenticare che proprio per la sua esperienza di una Chiesa
perseguitata, ha concepito la Chiesa stessa in termini per così dire non conciliari. Si tratta
naturalmente di un’affermazione forte. Ma la sua impostazione ecclesiale no n era l’impostazione
caratteristica della Chiesa d’Occidente, dove le opinioni, la teologia, le esperienze religiose, i
movimenti e tutta una serie di elementi vivi e fecondi non possono essere paragonati alla solida
compattezza di una minoranza perseguitata, qual era invece quella che il papa, come giovane prete e
poi come vescovo, aveva vissuto in Polonia.
Questa esperienza, trasposta in Occidente, ha creato una sorta di duplicità. Da un lato, il papa si è
occupato dei grandi scenari, dell’impatto del messaggio, del cristianesimo vissuto con convinzione,
con forza e anche con capacità organizzativa. Dall’altro ha scontato il limite di una Chiesa
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concepita in termini pre-conciliari. Una Chiesa in cui i fedeli cristiani hanno sperimentato poche
aperture, ad esempio da un punto di vista dottrinale.
Di Piazza: Mi trovo di nuovo in profonda sintonia. Anch’io, su papa Wojtyla, distinguerei per amor
di sincerità due aspetti. Un grande leader, un grande comunicatore, un papa che su alcune questioni
di fondo ha parlato in modo forte e a volte unico: penso al tema della pace, alla guerra in Iraq, ai
diritti umani, anche alla richiesta di perdono per l’oppressione esercitata nei secoli dai cristiani, alle
immagini così emblematiche delle visite ad Auschwitz, ai luoghi emblematici della schiavitù dei
neri, nelle sinagoghe, nelle moschee, e infine al dialogo con le religioni. Pace, giustizia, dialogo,
attenzione all’equilibrio dell’ecosistema hanno caratterizzato in profondità il suo pontificato.
Ma nello stesso tempo, come già diceva don Vinicio, provenendo da una situazione in cui il
cattolicesimo costituiva una forte identità per molti aspetti una difesa fondata sul continuo
rafforzamento di tale identità sacralizzata, il papa ha portato con sé quell’esperienza peculiare. In
fondo lo stesso coraggio che ha espresso su temi così forti come quelli a cui ho accennato, è
equivalso, all’interno della Chiesa, alla conferma definitiva di questa identità forte, e per questo
chiusa.
Il questo senso, le grandi questioni già accennate sono rimaste per così dire in sospeso, dal discorso
dell’identità attuale del prete all’obbligo del celibato, dal discorso sulla donna all’analisi della
sessualità, dal discorso dottrinale a quello sul dialogo democratico all’interno della Chiesa. Così
come il papa si è aperto con voce profetica sulle grandi questioni del mondo, all’interno della
Chiesa c’è stato un irrisolto connubio tra chiusura e sacralità.
In fondo, il papa acclamato da milioni di giovani, il papa che ha sperimentato una così grande
partecipazione agli eventi della storia – che lui stesso molto spesso ha suscitato - ci ha anche
consegnato un papato drammatico e, paradossalmente, isolato … Le sue parole, spesso, non sono
state ascoltate dagli stessi giovani che lo applaudivano che quasi contemporaneamente smentivano
il suo insegnamento. Soprattutto, non è stato ascoltato dai grandi della terra, né in vita né in morte.
Se dopo aver preso parte al funerale del papa, essi fossero ripartiti - Bush in primis – con propositi
diversi, ad esempio rispetto alla guerra, certamente quella partecipazione sarebbe stata significativa.
Ma poi, vedendo come sono andate le cose, mi pare che essa si sia rivelata puramente strumentale.
Fasullo: A me piace ricordare Giovanni Paolo II, anzitutto, come il papa della pace: il papa che
seppe dire “mai” alla guerra, a cominciare da quella americana contro l’Iraq. E’ stato questo, forse,
il motivo che ha spinto i giovani a raccogliersi sotto la sua finestra per l’ultimo saluto. Lo venero,
poi, come il papa del perdono: il papa che ha insegnato alla Chiesa a chiedere perdono per i propri
peccati. Infine, lo ricordo come il papa che si unì in preghiera ai rappresentanti delle religioni non
cristiane; quindi, come il papa dell’incontro con le religioni.
Insieme a questi ricordi, però, mi sembra equo non dimenticare, con il rispetto che gli si deve, altre
cose che appaiono poco apprezzabili e problematiche. Anzitutto, fece di tutto per ridurre la Chiesa
alla sua persona, mentre la Chiesa è, ovviamente, ben più grande e ricca del papa. Questo significa
che papa Wojtyla fece puntare sopra la sua persona tutte le luci della Chiesa. La quale è una
pluralità di uomini e donne tutti titolari di fede, di carità, di cultura, di sensibilità, di esperienze, di
intelligenze e capacità, sogni e meriti che nessun papa può mai superare o anche solo eguagliare. La
Chiesa è di Dio, disse Giovanni XXIII, non del papa.
Giovanni Paolo II ha dato poco spazio al Concilio. A differenza di Paolo VI, non ha dedicato mai,
nei mercoledì, una catechesi agli insegnamenti del Conc ilio. Sebbene, sia all’inizio che alla fine del
suo pontificato (nel testamento), abbia dedicato espressioni lusinghiere al Concilio, nella pratica
non l’ha seguito. Non può essere ricordato come papa del Concilio.
Infine, non va dimenticato che tra le prime cose fatte da papa Wojtyla c’è stato l’imbavagliamento
dei teologi, a cominciare dai teologi latinoamericani della liberazione. Li ha processati, condannati e
privati delle cattedre uno per uno, a cominciare da quelli più noti e autorevoli. Come a dire: nella
Chiesa tacciano tutti, parlo solo io. Anche per questo, oggi, sembra difficile pensare a un nuovo
Concilio: con quali teologi si farebbe? Non ce ne sono più. Non scrivono, non parlano, forse vivono
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nelle catacombe. Il Concilio Vaticano II si servì, soprattutto, dei teologi francesi e tedeschi. Il
prossimo Concilio di quali si potrebbe giovare?
Possiamo solo sperare che col nuovo pontefice ci sia nella Chiesa un po’ di libertà e di serenità in
più, cioè più possibilità di studio e di ricerca, di informazione di parola. Perché la Chiesa, d cui tutti,
ognuno per la funzione che svolge, portiamo una responsabilità, deve rappresentare la libertà della
grazia, la benignità del perdono, la possibilità del ritrovarsi insieme per rappresentare che il regno di
Dio è tra noi. E per servire in modo credibile la causa della pace. Speriamo che Benedetto XVI non
deluda, per quanto dipende da lui, le attese evangeliche dell’umanità. Lo può fare riagganciando la
Chiesa al Concilio. E, più ancora, al santo Vangelo.
Gallo: Sono certo che non tocchi a me giudicare il pontificato di papa Wojtyla, che certamente ebbe
grandi luci soprattutto nel 2003, con la Pacem in terris (sic! Ma non è di papa Giovanni?ndr) e
l’impegno reale per riuscire a evitare questa follia della guerra in Iraq. Tuttavia vorrei aggiungere
che in questo pontificato erano tutte significative le nuove nomine episcopali. Pensiamo ad esempio
a come si è affievolito nei decenni il progetto della Conferenza episcopale panamericana, che era
stata la vera e profonda interpretazione del Concilio, da Medellin (1968) a Puebla e a Santo
Domingo, con tutti i vescovi ormai ospiti dei grandi alberghi .
Oggi le comunità di base sono completamente dimenticate e dileggiate. Ma sono “vive”. Ho già
citato la comunità dell’Isolotto e vorrei aggiungere la comunità San Paolo a Roma. Le comunità di
base sono un fuoco ardente che si vorrebbe soffocare. Ma la coscienza di molti credenti continua a
domandarsi cosa sia diventata la Chiesa oggi. E spesso si chiede se la Chiesa non si sia ridotta, da
mezzo per la realizzazione del Regno di Dio, a fine e scopo di se stessa, della sua propria azione.
C’è da rallegrarsi, in questa realtà pluralista, che ci sia ancora qualche libertà democratica, che si
riesca ancora ad organizzare qualche convegno. Il mondo laico, tra cui la stessa rivista MicroMega,
può aiutare molto – e talvolta lo fa come in questa occasione - nel ridare spazio a chi lo ha perduto.
Non vedo molte altre possibilità. Il quotidiano cattolico L’Avvenire, a tutte le nuove istanze, non
concede una riga.
E certe volte mi vien da pensare che siamo sordi noi per primi. Tutti gli anni, infatti, le comunità di
base fanno un convegno. Perché non partecipiamo tutti? Ripartiamo dai primi responsabili,
dall’Isolotto, San Paolo, Oregina qui a Genova, un piccolissimo gruppo.
Le comunità di base hanno intuito dal Concilio che il diritto degli oppressi è diventare soggetti della
loro liberazione. E quando questo gli viene negato, nella misura in cui si contesta il loro diritto di
conquistare la libertà attraverso la lotta, che cosa rimane loro? E come si coniuga questa
oppressione strutturale e mondiale con il grande discorso della nonviolenza?
Una preoccupazione riguarda anche gli ultimi documenti dei vertici ecclesiastici. Ricordiamoci
sempre dell’invito di quel grande pedagogo che fu Paulo Freire: non ci si libera da soli, nei nostri
piccoli spazi, nel silenzio. Io amo molto la preghiera, ma ciascuno di noi non libera l’altro, al
contrario di quanto sostengono alcuni intellettuali, se non ci si libera tutti insieme. Per i credenti,
rispondendo alla vocazione cristiana.
Vorrei menzionare infine lo sgomento di moltissimi giovani dinnanzi al rifiuto incondizionato del
marxismo da parte della Chiesa. Il che mi sembra una mediocre perdita di tempo e in quest’ottica un
logico sviluppo del rifiuto della secolarizzazione, virtualmente contenuto nel Sillabo di Pio IX, del
quale, a quarant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II, viene riaffermata in qualche modo
l’attualità. Questo, caro don Antonelli, ci dà la misura di come stiamo procedendo confusamente.
In una parola, l’autonomia della ragione e della sfera profana, proclamata soltanto a livello formale,
viene costantemente negata e svilita nella sua sostanza. Per i cristiani la parola di Gesù è unica: “In
questa terra che lotta, sia te luce, sale, levito, chicco di grano che marcisce e dà frutto”.
In questi giorni, nella grande bacheca che abbiamo in comunità, ho trovato scritto: “Il male grida
forte”. Però, dopo qualche giorno – e questa è la mia conclusione – ho trovato una frase splendida:
“La speranza grida ancora più forte”.
(A cura di Adriano Ardovino)
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Le comunità, associazioni, singoli preti e singoli credenti, che si riconoscono in queste riflessioni e
vogliono stabilire una rete di contatti possono inviare una e- mail con i loro dati (ed eventuali
commenti e proposte) a:
[email protected]
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