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Sabato 20 settembre 2008
MOTTOLA
La Trottola nei tempi in cui si riteneva
che il divertimento fosse un lusso
Norme e nomenclature e segreti di un giocattolo in un interessante affaccio nella tradizione
mottolese del mondo poetico dell’infanzia prima dell’arrivo miracoloso del creduto benessere
dei nostri giorni
di Pasquale Lentini
I tempi passati, almeno per il
Meridione d’Italia, sono stati molto
avari di benessere. E i piccoli,
pronte cavie destinate ad
incrementare l’amaro stato
economico di ogni casa di
lavoratori, erano quelli che forse
sopportavano le tristi brume
sospese sulla società.
Per istinto di natura, sognavano i
balocchi, pensavano ai giunchi,
ma si trovavano a lavorare da ora
antelucana a tardo buio serale i
bimbi e i fanciulli per lo più vestiti
con gli stracci sfruttati dagli adulti.
Pochi, anzi pochissimi erano i
fortunati che, capitati in famiglie
più o meno agiate, potevano
disporre un poco di qualche ora
libera e di qualche oggetto di
svago.
calzoncini; raramente era presa in
considerazione quella di una metà
tasca. Quando le parti contraenti
non erano di pari età o di pari
robustezza fisica, all’avvenuto
consumo della roba mangiabile da
parte di chi aveva preso l’offerta,
si ritentava di rifiutare lo smercio
con un finto ripensamento. Molte
volte, però, succedeva pure che il
giocattolo non era più nelle
condizioni di essere utilizzato
ancora, perché andato in rovina e
sottoposto a stucco e a colla in più
punti. Per tali ragioni scoppiavano
spesso delle accese risse, nelle
quali il più debole rimaneva
graffiato, pestato e ... spogliato e
non più risarcito del piccolo capitale
destinato all’acquisto del bene
ludico.
Era, quindi facile sentire il discolo
ritrattatore dire:
con estrema faciloneria e con tanta
tranquillità.
Ma per i ragazzi, almeno fino a
qualche decennio dopo la prima
metà del Novecento, entrava a far
parte dell’ordine delle trottole
anche un tipo moderno, prodotto
industrialmente con legno poco
pregiato, tenero, leggero e poco
consistente, qualità per cui
all’unisono, in ogni angolo del
nostro Salento era chiamato
"tavolett", voce letteralmente
echeggiante la tradizione di
"tavoletta". Il termine, è ovvio,
come abbiamo già accennato, era
venuto fuori in riferimento al
materiale principale che lo
costruiva. La tavola, secondo la
concezione dialettale, è
un’assicella, ma ha come
fondamento l’etimo latino "tabula".
Infatti, nel pezzo, quando si
Panorama della parte orientale di Mottola nel 1909.
Comunque, poiché la maggior
parte di questi ultimi, gli invidiati
figli del ceto medio borghese erano
mandati alla bottega, succedeva
che durante il loro periodo di
apprendistato si godevano, con
modeste e misere gioie, la lieta
stagione della loro vita che
declamò Giacomo Leopardi: “Godi,
fanciullo mio; stato soave, stagion
lieta è codesta.” Da Il sabato del
villaggio, W. 48 e 49.
Il problema, tuttavia, non era il
guadagnarsi lo spazio libero, ma
anche l’incombere inevitabile di un
secondo fattore, più importante del
primo, cioè possesso, se non
proprio il risparmio di qualche soldo
per divenir proprietario di un
ninnolo qualsiasi.
Anzi il più delle volte, per realizzare
un’aspirazione un po' azzardata,
si faceva “lu cangimerc’ “, cioè, il
baratto, fra ragazzi e ragazzi,
pregando il destino di far incontrare
il più presto uno disponibile per
questo scambio di merci. Tuttavia,
le occasioni erano tante.
Quando eravamo piccoli noi,
vigente lo stato belligerante della
Seconda Guerra Mondiale, la fame
si affacciava alla porta di ogni casa.
Ma questi tempi non erano tanto
diversi da quelli di intensa
indigenza vissuti dai Meridionali
nell’Ottocento e nella prima metà
del Novecento.
Sicché facilmente in quei periodi
si offrivano cibarie in cambio di
oggetti, in cambio persino di
vestiari usati. I ragazzi delle
famiglie meno tristi, potendo
disporre di qualche furtarello dal
ripostiglio di famiglia, davano fichi
secchi, ceci cotti, fette di pane,
farinella di granoturco, fave lesse,
fave arrostite. Ma per chi non si
faceva prendere per la gola
c’erano spezzoni di matite
copiative, pezzi di funicelle,
quaderni semipieni, cappelli vecchi
e ciò che altro capitava alle mani
del giovanissimo offerente per
ottenere in cambio il balocco
sognato, anche se seminuovo,
anche se rubato, anche se reduce
di tanti trastulli e così rovinato da
far presagire prossima la sua fine.
Le misure dei cibi erano fatte a
sacca piena della giacca o dei
- Dart ndrèt cio ca m’ha dèt nna
pozz. M’ l’agghije mangèt tutt. E
ce vu’ chiú? (Darti indietro quello
che mi hai offerto non posso. Ho
mangiato tutto. E che cosa vuoi
più?)
Comunque, quando in epoca più
vicina alla nostra in paese ci furono
scolari in numero consistente e
tirocinanti artigiani ancor in folte
schiere, spopolando gli olivi e le
masserie, l’avvio dell’autunno non
solo apriva le porte alle elementari
e sovrappopolava i laboratori locali,
ma anche dava il via alla felicità
dei giuochi di strada.
Un poco per sollecitata
magnanimità, un poco per
ambiziosa ostentazione verso
familiari e conoscenti, i genitori più
moderni lasciavano che qualche
monetina di metallo per taluna
circostanza, come lo svolgimento
di un incarico, allora chiamato “ lu
s’rvizzije”, si cumulasse nelle
disperate tasche dei propri
rampolli. Ma solo qualche
monetina del valore di pochi
centesimi di lira, così impensabile
e difficile ad arrivare a quest’ultima,
perché per farne una sola ce ne
occorrevano cento.
Quanti progetti con quei soldini:
l’astuccio portapenne, la gomma,
la penna, il nettapenne, la matita
con la gomma da cancellare
all’apice superiore, le caldarroste,
le mondine, la lattughina da
mangiare a sera presso la porta
dell’ortolano ...
Però, alla prima occasione ecco,
ecco primeggiare fra tutti questi
desiderata il sospirato "ch’rruch'l
", altrimenti detto la trottola. Si
faceva finalmente realtà con quel
gruzzoletto il sogno trascinato di
generazione in generazione forse
dalla preistoria.
Veramente il termine usato dai
nostri genitori per questo gingillo
dello svago era "strumm'l ". Tanto
è giusto che ancora oggi, stagione
in cui il detto giocattolo è divenuto
pregio di museo, si continua a dire,
secondo l’antichissima abitudine,
" Ce sté sciuchèm a lu strumm'l ?
"; ossia "Per caso stiamo giocando
con la trottola (come i bambini)?",
per indicare che sta per verificarsi
un fatto preso con poco impegno,
spaccava, le fibre tenere
intercalate a quelle più consistenti,
si vedevano in senso longitudinale,
dall’alto in basso.
La voce più conosciuta, e nota dal
bel periodo greco, in tutta l'Italia
Meridionale è dunque "strumm’1",
dal nome "strombos", proponente
la forma di "fuso" e di "pigna".
Attualmente questa parola, con
leggere difformità, da quel fonema
della Grecia ritorna comune negli
idiomi di molte cittadine della
colonizzata Magna Grecia. Così
la troviamo nella Sicilia, come a
Licata (strummulu), a Riesi
(rumulu), a Piazza e a Caltagirone
(rummulu), a Casteltermini
(strummuluni); nella Calabría,
come ad Oriolo (strummula), a
Cosenza, ad Aprigliano e a
Castrovillari (strummulu); nella
Campania, come a Sorrento
(strummolo), a Napoli (strummule);
nell’Abruzzo, come a Campobasso
(strommele); nella Puglia, come a
Ginosa (strummu), a Castellaneta
(strummele), a Mottola (strumm’l).
L’eccezione di Maglie, in provincia
di Lecce, che usa "truddu", è forse
spiegabile con una forma
vezzeggiativa del verbo dialettale
" duré ", "girare", per cui da un
"duruddu", sta per "piccolo corpo
girante", ovvia contrazione con la
perdita della "u", sostituita con il
rafforzamento della lettera "t"
iniziale: "truddu". Mentre rimane
difficile, ma non superabile,
l’indagine nell’area di Martina
Franca e di Crispiano, dove per lo
stesso giocattolo, costruito
dall’artigianato locale, corre la
parola “perruezzule”, che para
piovuta dal cielo, ma non è così.
Infatti il nome “p’rruzz’l “, entrato
pure nel linguaggio mottolese, da
queste parti sta ad indicare un
corpo che ruota intorno a se
stesso, intorno ad un “perno” che
ruota, che gira, che ruzzola e che
attinge il suo etimo dal greco
“peiros” che porta a tale significato.
Ma “lu p’rruzz’l”, diventato
diminutivo come “lu p’rruzz’licchije”
e pure impropriamente
“ch’rruch’licchije” a Mottola ci porta
ad un altro tipo di trottola, costruito
da mani di pastorelli e di fanciulli
di paese e pure in uso fin
Una ghianda e la trottolina fatta dal frutto dell’albero del leccio.
dall’antichità. Era, insomma, una
trottolina che si faceva con un frutto
di leccio, ossia con una ghianda
recisa trasversalmente con un
coltello o consumata dalla base
fino alla linea mediana con lo
strofinio su una superficie ruvida.
Quindi, preso uno steccolino, in
tempi recenti sostituito da uno
zolfanello, veniva infilato al centro
della sezione circolare e si prillava
con il pollice e l’indice in modo da
farlo roteare. Ecco il famoso
“p’rruzz’l” con cui si facevano gare
di durata nella roteazione, con il
perditore che arrossiva quando
“squagghièv”, cioè quando “si
scioglieva dalla forza di
prillamento” e cessava di rimanere
in equilibrio sulla punta.
I ragazzi con menti ricche
d’inventiva e con intenzioni di
scoprire nuove esperienze si
divertivano a presentare le loro
scoperte con farli apparire come
funghi saltellanti mettendoli a girare
non
come
facevano
ordinariamente tutti, ma sulla punta
del legnetto di prillamento. Detto
ninnolo non era difficile vederlo sul
piano degli scrittoi dei banchi di
scuola, mentre in grembiuli neri
frequentavamo le elementari,
perché in più esemplari entravano
nelle tasche prima del fazzoletto
da naso e vi rimanevano per tutti
i mesi dell’autunno. Poi quel gioco
si accantonava per riprenderlo
nell’anno prossimo, perché le
ghiande incominciavano a seccare
e non erano più buone per
quell’artigianato.
Intanto negli anni Settanta del
Novecento, lo vedemmo fatto di
plastica e con diverse sfaccettature
su cui erano segnati tre simboli, 1
- X - 2, per mettere le previsioni
nella giocata della schedina del
totocalcio.
E, caso piacevole, nel ricordo
degli anziani contadini mottolesi
emerge la risposta a tutti questi
regionalismi.
Infatti, i nonni nostri, quando
volevano farci un regalo inusitato,
ci portavano presso un albero di
pini e, sollevatici con le loro braccia
per tirare giù il ramo più vicino, ci
facevano staccare, torcendo, un
verde frutto di pigna, senza
sgobbature e nella forma perfetta,
dicendo:
- Ora andiamo a giocare "a lu
strumm'l", come facevano gli
antichi. A casa, infilzato un chiodo
qualunque nella punta del pinolo,
prendevano la corda e, compiuto
il necessario avvolgimento,
cercavano di lanciarlo per farlo
"g'rè" o “duré “, ossia, “girare” o
“roteare”.
Se andava aggiungevano "dùr’ ”,
ossia "rimane a girare intorno a se
stesso", “riesce bene a girare
intorno a se stesso”. Nel senso
opposto, per la non perfetta forma,
si diceva che “nang’ dùr’ ”, o meglio
“non riesce a roteare”. Un
insegnamento, un gioco,
un’esperienza, una prova: ecco
"lu strumm'l "!
Da ciò crediamo, se non fu vera e
propria invenzione, che nei tempi
remotissimi, quelli degli uomini
primitivi, in concomitanza di due
loro attività: quella della ricerca
delle esche per il fuoco, per cui in
una banale occasione uno di essi
abbia lasciato cadere dalle sue
mani la pigna, che per l’inerzia,
ruotando su se stessa, diede l’idea
di poter divenire un diversivo, un
passatempo; oppure, con
maggiore probabilità, di quell’altra
funzione riguardante il rudimentale
sistema di accendere il fuoco
facendo ruotare fra le mani
un’assicella che provocando calore
e scintille, con l’attrito su un corpo
legnoso e secco di sfregamento,
innescava la fiamma. Sicché,
contro il parere di alcuni studiosi
che affermano il contrario,
saremmo propensi a credere che
dalla trottola ne venne fuori l’idea
del fuso, quando lanciato il
congegno rotante, un tratto della
corda di avvolgimento o di uno
sfilaccio lanoso incontrato sul
terreno vi rimase attaccato con
conseguente suo attorcigliamento.
Ma, a parte questo difficile
accedere alle origini della trottola,
che sa dell’ingenua problematica
che si domanda se fu prima
l’esistenza dell’uovo o quella della
gallina, e non risponde ai fini della
nostra disanima, tanto da lasciarla
ad altri più competenti di noi, fu
fonte, certamente, del linguaggio
dei Romani la parola "ch’rruch'l ",
ripetuta anche come “curruchele”
per molti secoli in più punti del
Tarentino e del Brindisino.
Si sente in queste due aree
pugliesi "curruculu", per cui
adotteremmo una base
"curruculus", costituita da una
prima parte "currus", nel significato
di "nave", con l’aggiunta del
suffisso "culus", per esprimere il
concetto del diminutivo, perché
con lui si allude alle caratteristica
di una nave che si barcamena allo
spirare dei venti e al muovere delle
onde sul mare.
Non è, peraltro, sforzato
l’accostamento della figura di una
leggera imbarcazione che subisce
le oscillazioni dalle onde, mentre
procede nella sua rotta, e l’alterno
abbassamento sui lati del
giocattolo nella rotazione causante
un suo incerto traslare. Collegata
e chiarita l’idea dell’una, la nave,
e dell’altro, nacque il diminutivo
dell’oggetto rotante, “curruculus”
o “curruculu”, forse proprio
dall’idioma di antichi carpentieri
navali, quasi primi inventori di tale
balocco artificiale. E per
completare, perché poi non
contribuirvi pure con l’omofonico
"curro", del verbo "currere" latino,
che al passato remoto ha 1’uscita
"cucurrere"?
Del resto il principio delle due
radici, anche se proveniente da
continua a pag 22