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Salvatore Rotta
Russia 1739:
il filosofo sedentario e il
filosofo viaggiatore
19991
1 In AA.VV., Settecento russo e italiano, atti del convegno “Una finestra sull’Italia. Tra Italia
e Russia, nel Settecento” tenutosi all’Università di Genova il 25-26 novembre 1999,
Bergamo 2002, pp. 33-71. La trascrizione curata da www.eliohs.unifi.it è stata qui
corretta e precisata. Nelle immagini sono, da sinistra, P.M. Doria e F. Algarotti.
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Il filosofo sedentario è Paolo Mattia Doria. Nato a Genova il 24 febbraio
1667, era figlio di Giacomo e di Maria Cecilia Spinola, donna di gran casato
e piena dei pregiudizi del suo stato2. Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli
per recuperare certi suoi crediti, tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale
del Regno che non se ne mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel
1746). Non accettò neppure il pressante invito, fattogli nel 1730, dal
generale sassone Johann Mathias von Schulenburg (1661-1747) a visitare
Corfù che costui, passato al servizio di Venezia dopo aver militato in tutti gli
eserciti d’Europa, aveva abilmente difeso contro i Turchi nel 1716: per il
Doria l’azione più brillante di questo sperimentatissimo uomo di guerra3.
Amicissimo del Vico, nel 1709 aveva pubblicato quel suo trattato della
Vita civile, che, a parere del più accurato radiografo dell’opera del
Montesquieu, Robert Shackleton, sarebbe una delle fonti dell’Esprit des lois4.
In ogni caso, anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera
francese, apparsa – si sa – nel 1748. Il Doria fu scrittore copioso di filosofia
politica e, ahimè, di matematica. I testi che ci interessano sono quattro, due
editi, due inediti: Il capitano filosofo, ponderoso trattato di teoria militare
2 Luogo e data di nascita, nonché rapporti e legami familiari sono stati ricostruiti da me su
carte d’archivio: S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca, in “Il movimento
operaio e socialista in Liguria”, VII, 1961, p. 225 n.; S. Rotta, Paolo Mattia Doria, in Dal
Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1978, pp. 835-968 (d’ora in avanti: D); S. Rotta, Paolo Mattia Doria rivisitato, in
Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Atti del convegno di studi (Lecce, 4-6
novembre 1982), Galatina, Congedo, 1985, pp. 389-431. La comunicazione era stata
pubblicata la prima volta su “Studi settecenteschi”, III-IV, 1982-1983, pp. 45-88 (d’ora in
avanti: DR).
3 Nel 1726 lo stesso Schulenburg così riassumeva, a uso dell’allievo de Folard, la sua
carriera: «je me suis trouvé pendant plus de quarante ans, pour ainsi dire, aux quatre
coins de l’Europe, de sorte que j’ai fait la guerre avec et contre les nations les plus
connues sur notre globe» (J.Ch. De Folard, Commentaire sur Polybe, III, Paris, 1728, p.
164). Sui suoi rapporti con il Doria e su quest’ultimo teorico della guerra cfr. DR, 84-87;
cfr. anche Rotta, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento, cit.,
pp. 427-430).
4 R. Shackleton, Montesquieu et Doria, in “Revue de littérature comparée”, LVII (1955), pp.
173-183.
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uscito nel 17395; le Lettere, e ragionamenti varj, apparso nel 1741, dove si
legge un esame critico dell’Histoire de Charles XII del Voltaire pubblicata
dieci anni avanti; due opere lasciate inedite dall’autore tra i tanti suoi
manoscritti, tratte in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, e in modo non
proprio impeccabile, da un gruppo di studiosi dell’Università di Lecce: il
Politico alla moda del 1739 (che già aveva ricevuto miglior cura nelle mani
di Vittorio Conti) e Il commercio mercantile del 1742: una delle sue ultime
opere6. Che il Doria fosse osservatore politico acuto si può dimostrare, per
esempio, con un passo del Politico alla moda sulla Prussia. Re ne era ancora
Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del potentissimo esercito
prussiano: «Pare che egli aspiri – commenta il Doria – ad ingrandire il suo
stato […] con l’acquisto della Slesia, quando si divideranno li stati ereditarj
dell’Imperatore»7. Federico Guglielmo, alieno d’altra parte a sciupare con
una guerra quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo l’anno
successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani dei defunto
re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II.
I due saggi nutriti che ho pubblicato su questo autore mi consentono di
essere breve. Bestia nera dell’ultimo Doria, dell’autore cioè del Commercio
mercantile (non a caso proprio in quest’opera egli si fece propugnatore della
disobbedienza civile8) era la politica «mercantile» del suo tempo,
espressione che in lui non connota un sistema di scambi, ma un modo
perverso di concepire i rapporti politici: quelli tra governanti e governati,
quelli tra stato e stato, quello degli ordini all’interno degli stati, quelli infine
tra uomo e uomo. Proprio quel gran mercanteggiare, quel disporre della vita
dei popoli senza minimamente consultarli, quel passarseli di mano in mano
era ciò che più faceva ardere di sdegno il Doria. Quei prìncipi bassamente
calcolatori, che non coltivavano altro disegno politico che quello di arricchire
il loro erario privato, non erano forse più simili a mercanti – e a mercanti
indegni, perché mancatori di fede – che a guide e mantenitori di quegli
organismi delicati, sempre pronti a esplodere a causa delle tensioni interne
e della naturale turbolenza degli uomini che sono le società politiche? Caso
esemplare di questa “mercantilizzazione” della politica: la Russia. La sua
situazione internazionale era, prima dell’avvento di Pietro, del tutto
marginale. Paese vastissimo sembrava che fosse «utilissimo più che niun
altro regno del mondo dei commercio» e capace «d’inondare l’Europa». Ma
5 Una nuova edizione è P.M. Doria, Il Capitano Filosofo, a cura di M. Proto, Macerata,
Lacaita, 2003. (N.d.C.)
6 I dodici volumi di manoscritti del Doria, conservati presso la Biblioteca Nazionale di
Napoli, sotto stati pubblicati presso l’editore Congedo (Manoscritti napoletani di Paolo
Mattia Doria, a cura di G. Belgioioso, M. Marangio, A. Spedicati, P. De Fabrizio, I-V,
Galatina, Congedo, 1979-1982). Il politico alla moda si legge nel volume V, a cura di M.
Marangio, pp. 25-131; Il commercio mercantile nel volume IV, a cura di F. De Fabrizio, pp.
277-410. Il politico alla moda era stato già pubblicato da Vittorio Conti in appendice al suo
saggio Paolo Mattia Doria dalla Repubblica dei togati alla Repubblica dei notabili, Firenze,
Olschki, 1978, pp. 129-259.
7 Doria, Il politico alla moda, in Conti, Paolo Mattia Doria, cit., p. 203.
8 D, 962-968.
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era purtroppo spopolato («a cagione che è stato governato da i loro czari
con tirannia, era poco men che tutto spopolato» tranne «quelli paesi che
sono vicini al fiume Volga»). Non era stato perciò temibile da parte
dell’Europa: «un’inondazione de’ soli moscoviti» era allora impensabile. Il
clima rigidissimo non favoriva d’altra parte il commercio con i forestieri; e
meno ancora lo favoriva il bassissimo livello culturale delle popolazioni: «Li
popoli […] sono stati incolti sino alla venuta di Pietro Alexiovitz nelle virtù
militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro czari ad uso di bestie, onde
poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che come uomini, hanno avuto
pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni altro non facevano che
ubbriacarsi e poi si cadevano a terra». Le donne non facevano eccezione.
Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi. Nelle molte guerre
combattute con i Polacchi «sono sempre stati battuti sin’a tanto che li
Polacchi hanno dato il sacco a Mosca»; e pochissima perizia e scarsa
disciplina avevano dimostrato nei frequenti conflitti col Turco. Di questa
incapacità militare è prova il fatto che Carlo XII, nel 1700, poté battere a
Narva con soli ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Né
migliore era la situazione religiosa. Greci scismatici, erano «osservantissimi»
dei riti e delle «penitenze esteriori» e obbedientissimi dello zar e del loro
patriarca; ma i loro costumi erano pessimi. Le tre quaresime all’anno che
facevano e tutte le messe che sentivano non li facevano migliori: «in mezzo
alla loro ignoranza ed alla loro barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel
commercio e cattivi uomini». La loro non era religione, ma «superstizione»;
e c’era da augurarsi che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i
cattolici romani.
Pietro, uomo «dotato dalla natura capace di altissime virtù», aveva
concepito il disegno lodevolissimo di «civilizzare» la sua nazione e di
«coltivarla nella virtù per lo mezzo del commercio colle altre nazioni». In
breve: «mutare la forma del governo barbaro in forma di governo politico»9.
Commise però l’errore, comune a tutti i prìncipi europei, di credere che la
politica «consista nel commercio […] e nel mantenere esercito numeroso, e
che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora per massima la
massima che hanno li nostri principi, cioè che la gloria del principe consista
nel dominare il popolo a sé soggetto e nel conquistare gli altrui stati, onde
poi pongono in tutto in bando la cura di promuoverne i popoli la vera morale
e quelle vere virtù le quali sono […] li veri e li soli fonti della vera politica».
Per raggiungere il suo fine di «coltivare li moscoviti nelle arti, nel commercio
e nella guerra» non aveva risparmiato fatiche. I suoi successi erano sotto gli
occhi di tutti. Aveva creato dal nulla un’eccellente scuola di architettura
navale e li aveva resi abili in molte altre attività tecniche («oggi li moscoviti
fabricano vascelli, e fabricano tutte le altre cose alle quali nei passati tempi
non hanno mai veramente pensato»); aveva aperto il commercio con la
9 DR, pp. 68-69 n. 19 (cfr. anche Rotta, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria
fra rinnovamento, cit., pp. 411-412); Doria, Il politico alla moda, in Conti, Paolo Mattia
Doria, cit., p. 206.
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Cina, con la Persia, con l’Olanda, con la Svezia, con la Francia e altri paesi
ancora («il czar ha introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio»);
aveva, con l’aiuto di ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi,
disciplinato e ben istruito nell’arte di combattere l’esercito («l’infanteria
moscovita è la migliore che sia in Europa»). L’ultimo perfezionamento
dell’esercito era sì dovuto all’opera di due stranieri – il tedesco Burchard
Christoph Münnich (1685-1767) e l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) – ai
quali la zarina Anna, buona continuatrice della politica petrina, aveva
concesso i maggiori poteri. Ma era stato pur sempre Pietro che aveva dato il
primo e decisivo impulso e li aveva ingaggiati al suo servizio. E sua era stata
la cura d’introdurre in Russia lettere e scienze, chiamandovi «con
grandissimi soldi» molti scienziati delle università d’Europa per formarvi
quell’Accademia delle scienze che Caterina I aveva poi realizzato.
Se i russi avevano assimilato dunque perfettamente le tecniche e
l’organizzazione delle risorse dell’Occidente non per questo erano però
divenuti più «virtuosi»: che pure era il secondo punto dei programma di
Pietro. Bisognava cercare la radice di questo fallimento nella ristrettezza
della sua visione politica: «non era filosofo, non era capace d’intendere
l’origine e l’essenza della vera politica». I rapporti dei cittadini con il potere
non erano mutati: i Russi schiavi erano e schiavi erano rimasti10. La loro
ferocia si era tutt’al più convertita in malizia11. Il commercio, la disciplina
militare, il progresso nell’uso delle tecniche non bastano per far avanzare in
civiltà. Il Doria non pensava tuttavia che quell’europeizzazione precoce e
violenta avesse compromesso per sempre la possibilità d’incivilimento dei
russi. Sarà questa un’idea di Rousseau: «Les Russes ne seront jamais
vraiment policés, parce qu’ils l’ont été trop tôt»12.
Pietro era stato un eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi – così aveva
detto sin dal 1709 – «quegli uomini forti e coraggiosi ma dotti e savj tutto
ad un tempo, i quali alla felicità del popolo e dello stato le loro eroiche
azioni indirizzarono ed in conseguenza di ciò prima penseranno agli interni
ordini politici dello stato, dai quali nasce l’interno utile e naturale
commercio, e poscia al commercio con le straniere nazioni ed in questa
guisa faranno fiorire nei lor paesi la ricchezza alla virtù congiunta». Il Doria
è molto avaro nel rilasciare patenti di eroismo: la nega anche a Carlo XII.
Era stato sì «un mostro di coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle
fatiche»: un temerario, non un eroe. Aveva rovinato la Svezia, il suo paese,
10 P.M. Doria, Lettere, e ragionamenti varj, Perugia [ma Napoli], 1741, p. 60.
11 Doria, Il politico alla moda, in Conti, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
12 J.J. Rousseau, Du contrat social, in Oeuvres completès, III, Paris, 1964, p. 386 (libro II,
capitolo 8); C. Wilberger, Peter the Great: an Eighteenth-Century Hero of Our Times?, in
“Studies on Voltaire and the Eighteenth Century”, XCVI, 1972, pp. 5-127 (in particolare le
pp. 19-62); D.S. Von Mohrenschildt, Russia in the intellectual life of eighteenth century
France, New York, 1936. L’autore sostiene che attorno al 1760 le posizioni degli
intellettuali francesi erano divise in «Russian or anti-Russian group» e in «Voltaire or proRussian group» (p. 242). Il primo gruppo includeva Mably, Condillac, Raynal e Mirabeau.
Nella prima categoria militavano Diderot, Alembert, Grimm, La Harpe, Marmontel, de
Jaucourt. Divisione troppo netta (Wilberger, Peter the Great, cit., pp. 63 e segg.).
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e non si era proposto nessun fine virtuoso, come sarebbe stato quello di
liberare dalla servitù i popoli che conquistava13. E la nega, in polemica con
Voltaire, al suo grande antagonista: Pietro. Il successo delle riforme
compiute da quest’uomo brutale era incontestabile: la Russia era divenuta,
vasta e ricca com’era, «la più potente Nazione d’Europa»14. Ma egli non
aveva saputo dare alla sua autorità la forza di un fondamento morale. Il
potere degli zar era enorme, ma fragile. I supplizi più atroci non bastavano
a spegnere nei russi il desiderio di «divenire liberi» alla maniera dei vicini
svedesi alla morte di Carlo XII; come avevano inutilmente tentato nel 1730.
«Le congiure contro la Czara – pronosticava – come prodotto da una piaga
assai profonda, si multiplicheranno sempre e alla perfine scoppieranno in
una universale rivoluzione, e ciò malgrado li numerosi supplicj che la czara
[indubbiamente Anna] prattica contro li congiurati»15. Per l’intrinseca
debolezza del potere zarista, non nutriva grandi timori per il futuro
d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia, questo «gigante di smisurata
grandezza», fosse riuscita a soggiogare l’impero turco – era questo, del
resto, il suo compito storico16 – e a formare uno stato che si stendesse dal
Baltico al Mar Nero e al mar di Grecia, fino ai confini con Venezia, non era
da temersi. Un’iniziativa russa ai danni di qualche paese europeo avrebbe
per prima cosa suscitato una grande coalizione contro l’aggressore17. Ma
13 Doria, Lettere, e ragionamenti varj, cit., p. 59; Doria, Il capitano filosofo, Napoli, Mosca,
1739, p. 16.
14 Doria, Il commercio mercantile, in Manoscritti napoletani, IV, cit., p. 350.
15 Doria, Il politico alla moda, in Conti, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
16 P.M. Doria a J.M. Von Schulemburg, 29 settembre 1731: «L’imperio Ottomano poi hà così
declinato da i suoi principj, che già sarebbe giunto, al suo fitte, se la pigrizia de Turchi nel
far commercio non tenesse allettate da i guadagni, e come stipendiate le nostre Nazioni
Mercantili […] quest’impresa però sarebbe riserbata più, che à verun’altro Principe al Zar
di Moscovia, il quale essendo della Religgione Greca, e come egli pretende, discendente
dagl’Imperadori Greci averebbe Subito entro le Viscere dell’Imperio un gran partito; ma il
vile Interesse e la discordia sono troppo più forti, che non è l’Amor della gloria, e quel del
ben d’Europa» (Manoscritti napoletani, III, cit., p. 203).
17 Il Doria si era posto il problema se lo zar di Russia potesse formare una monarchia
universale soprattutto nel Politico alla moda (Conti, Paolo Mattia Doria, cit., pp. 210-211):
«Supponiamo per primo che egli penetrasse con le sue rapide conquiste nel core della
Germania. Che li avverrebbe egli? […] Non avendo il Czar un numeroso popolo più
virtuoso, che il popolo alemanno, egli non potrebbe […] mutar gli ordini e le leggi dei
paesi». Che cosa dunque potrebbe fare? «Egli avrebbe a stabilire le sue conquiste,
ponendo in tutti li paesi conquistati un gran numero di truppe per presidiare le piazze, e
per tenere in freno i nuovi popoli. In questo modo però indebolirebbe il suo esercito, e
frattanto i principi vinti si unirebbero in lega fra essi, e lo discaccerebbero dalla
Germania». Anche supponendo che lo zar andasse «a passi lenti, conquistando prima li
paesi di confine, e poi inoltrandosi a poco a poco nelle viscere della Germania», andrebbe
incontro alle stesse difficoltà, perché «nel lungo tempo ch’egli ponesse a conquistare, i
principi si unirebbero contro di esso», e anche quando riuscisse vittorioso degli ostacoli
«non potrebbe stabilir le conquiste per altra via, che per quella delli presidj di truppe
moscovite, onde gli suoi eserciti si diminuirebbero, ed egli sarebbe obbligato ad
abbandonare le sue conquiste». La conclusione è rassicurante: «Così dunque non possono
mai fare stabili conquiste quelli conquistatori, i quali non hanno virtuoso stato». In breve:
«con le sole truppe non si possono fare stabili conquiste».
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esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione territoriale degli stati, e
tanto più gravi quanto più il potere centrale, per la sua natura autocratica,
mancava di profonde radici. La forza degli eserciti non bastava ad assicurare
il successo durevole di un tirannico conquistatore.
Il filosofo viaggiatore – è appena il caso di dirlo – è Francesco Algarotti.
Durante i diciotto mesi trascorsi a Parigi, dov’era giunto ventiduenne nella
tarda estate del 1734, Algarotti aveva stretto importanti amicizie
(Maupertuis, Clairaut, Fontenelle, Voltaire…) e portato a buon punto la
stesura di quei dialoghi sull’ottica newtoniana e più in generale
sull’attrazione che aveva messo in cantiere sin dal 1730. Il 24 gennaio 1736
li dedicò con bella sfrontatezza (dice bene il Boss) a Fontenelle, il più tenace
e noto esponente del cartesianismo. Passato in Inghilterra nella primavera
di quell’anno aveva continuato, fra tutti quei newtoniani, a lavorarvi
attorno18. Tra gli altri, entrò in rapporto strettissimo con il principe moldavo
Antioch Kantemir (1709-1744), il figlio del celebre ospodaro Demetrio,
divenuto residente russo alla corte di San Giacomo19. Vi era stato promosso
poco più che ventenne nel 1732 dalla zarina Anna, non immemore dell’aiuto
ricevuto nel 1730 da quel «progressista», allievo di Feofan Prokopovič, a
riprendere il potere autocratico e a «se remettre à couper les têtes selon
son bon plaisir», lacerando la convenzione da lei accettata a Mittau che
rimetteva il potere sovrano nelle mani del supremo consiglio privato20. Non
che fosse, per carità, un partigiano del dispotismo. Aveva sempre pensato
che la monarchia temperata dall’aristocrazia fosse il migliore dei governi.
Ma, benché ammiratore del regime d’Inghilterra, aveva creduto che «dans
les circonstances prèsentes il convenoit mieux de respecter l’ordre établi»21.
Di quanto dubbia lega fosse il suo liberalismo, lo dimostrò proprio durante il
soggiorno inglese. Erano uscite anonime a Parigi nel 1735 le Lettres
moscovites del bergamasco Francesco Locatelli Lanzi. Era ai suoi occhi un
18 F. Arato, Il secolo delle cose. Scienza e storia in Francesco Algarotti, Genova, Marietti,
1991. Una bibliografia completa fino al 1991 in: F. Algarotti, Viaggi di Russia, a cura di W.
Spaggiari, Parma, Guanda 1991, pp. XXXVI-XLVII. Lo studio più recente è quello di S.
Kaufmann, Francesco Algarotti: the Elegant Arbiter of Enlightenment Architecture, London
1988. Le citazioni dei Viaggi fanno riferimento all’edizione Spaggiari. [Un’edizione
annotata dei Viaggi di Algarotti è sul sito www.larici.it. (N.d.C.)]
19 H. Grasshoff, Antioch Dmitrievic Kantemir und Westeuropa, Berlin, Akademie-Verlag,
1966; V. Boss, Newton and Russia. The Early Influence (1698-1796), Cambridge,
Cambridge University Press, 1972, pp. 116-127.
20 K. Waliszewski, Littérature russe, Paris, Colin, 1900, pp. 65-66; Waliszewski, L’héritage
de Pierre le Grand. Règne des femmes, gouvernement des favoris (1725-1741), Paris,
Flammarion, 1900, passim. Il supremo consiglio privato era stato creato l’8 febbraio 1726,
un anno dopo l’incoronazione di Caterina I per aiutarla nel governo del paese (R.M.
Massie, Peter the Great. His Life and World, tr. it., Milano, Rizzoli, 1985, p. 730); F.
Venturi, Feofan Prokopovič, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Cagliari”, 1953, pp. 648 e sgg.
21 O. Di Guasco, Vie du prince Antiochus Cantemir, in Satyres du prince Cantemir, Londres,
J. Nourse, 1750, p. XVII; F. Venturi, Incontri cosmopoliti: Lomellini e Cantemir, in “Rivista
Storica Italiana” CIII, 1991, p. 555.
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vile pamphlet dove «con la più estrema sfrontatezza ed ardire – così ne
scrisse al conte Ostermann – se la prende con la corte, i ministri e tutto il
popolo russo»22. Ostermann gli ordinò di conseguenza sia d’impedire la
pubblicazione della traduzione inglese dell’opera sia d’identificare e punire a
dovere l’autore. Il Kantemir non si diede per vinto. Ancora nel 1738, non
aveva rinunziato all’idea di «battere fortemente» l’autore, se non proprio di
sopprimerlo23. Quel libro, che era divenuto l’ossessione del principe, venne
certamente nelle mani dell’Algarotti (che dimostrò di essersene servito)24
entrato a far parte, durante i sei mesi del suo soggiorno inglese, di quel club
di bons vivants – diplomatici italiani per lo più – che si era venuto formando
attorno allo splendido (ma splenetico) Kantemir25. Come negoziatore, per la
verità, concluse poco. Non riuscì a far riconoscere dal governo inglese il
titolo imperiale della zarina (l’Inghilterra lo riconobbe a Elisabetta soltanto
nel 1742) né a concludere con l’Inghilterra quel trattato di alleanza militare
che da San Pietroburgo si sperava: i due obiettivi specifici della sua
missione26. Ma se poco negoziò, molto tradusse. Era una sua passione. Sin
dalla sua prima satira (1729) aveva invitato ad introdurre in Russia i grandi
libri che apparivano in Europa. Ne aveva lui stesso di lì a poco, nel 1730,
dato l’esempio traducendo quel gioiello cartesiano che era la Pluralité des
mondes di Fontenelle: un’opera apparsa mezzo secolo avanti. In Inghilterra
22 [F. Locatelli Lanzi], Lettres moscovites, Paris, Huart l’Ainé, 1735; tr. it. Lettere dalla
Moscovia, a cura di M. Chiara Pesenti, Bergamo, 1991 [Un’edizione annotata delle Lettere
è sul sito www.larici.it. (N.d.C.)]. Il governo russo ne ordinò la confutazione, uscita
anonima a Francoforte nel 1738, col titolo: Die so genannte Moscowitische Brieffe etc.,
utilizzata nelle note all’edizione italiana. La lettera a Ostermann in: A. Kantemir,
Socinenija, pis’ma i izbrannye perevody kniazja A.D. Kantemirs, a cura di P.A. Efremov, t.
II, Sankt-Peterburg, Glazunov, 1868, p. 98 (cit. da Venturi, Incontri cosmopoliti, cit., p.
547, n. 13). La lettera è del 14 novembre 1735. La traduzione inglese di William
Musgrave (Lettres Moscovites; or Muscovian Letters by an Italian Officer of distinction)
uscì a Londra nel 1736. “Russia” in luogo di “Moscovia” cominciò ad essere utilizzato verso
il 1716 da J. Perry, The State of Russian under the present Czar (cfr. D. Groh, La Russia e
l’autocoscienza d’Europa, Torino, Einaudi, 1980, pp. 48-49 nn. 12 e 13). Montesquieu,
malgrado che l’opera del capitano Perry, nella traduzione francese di Hugony (État
présent de la Russie, La Haye, 1717), sia tra le sue fonti (non l’unica, come vorrebbe la
Dodds, Les récits de voyages sources de l’“Esprit des lois” de Montesquieu, Paris, 1929,
pp. 110-113) continua a servirsi di Moscovie.
23 Kantemir, cit., pp. 99 e segg. (cit. da Venturi, Incontri cosmopoliti, cit., p. 547, n. 14). Sul
Locatelli cfr. G. Gallizioli, Memorie per servire alla vita del conte Francesco Locatelli Lanzi,
Milano, 1982.
24 Vedi più avanti, n. 115.
25 Grasshoff, cit., pp. 162 e segg.
26 A.G. Gross, The Lords Baltimore in Russia, in “Journal of European Studies” XVIII, 1988,
p. 78. Un trattato di amicizia e di alleanza difensiva tra Russia e Gran Bretagna, destinato
a durare venti anni, sarà stipulato dall’inviato inglese a San Pietroburgo, Finch, il 3 (14)
aprile 1741. Impegnava le parti contraenti a soccorrersi mutualmente con dodici navi da
guerra da una parte e dodici mila uomini dall’altra. Un articolo segretissimo obbligava la
Russia a fornire questo soccorso anche durante la guerra in corso della Gran Bretagna con
la Spagna nel caso che altre potenze (la Francia) fossero intervenute nel conflitto. Al
povero Kantemir, la reggente Anna Leopol’dovna ordinò frattanto nel giugno di tentare di
stringere un’alleanza difensiva con la Francia! (Waliszewski, L’héritage, cit., pp. 329-330).
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però da zelante cartesiano era divenuto zelantissimo newtoniano27. Lesse il
Newtonianismo dell’Algarotti sùbito che uscì, e tanto se ne entusiasmò da
raccomandare agli amici di leggerlo e rileggerlo e cominciò a voltarlo in
lingua russa28. Passato dalla sede di Londra a quella di Parigi nel settembre
del 1738 continuò in quella città per lui tanto noiosa la sua fatica29.
L’Algarotti, ritornato a Parigi da un lungo tour de France, aiutò l’amico in
quell’incombenza lusinghiera e ricevette da lui consigli preziosi per la
revisione della sua opera30. La nuova edizione uscirà in Napoli (ma Venezia)
presso il Pasquali nell’ottobre del 1739. Era dedicata a Anna Ivanovna. L’ode
che le va innanzi fu dunque composta prima del viaggio dell’Algarotti in
Russia31. Su questo punto concordano i due migliori biografi settecenteschi
27 Boss, cit., p. 121 e segg.
28 A.D. Kantemir alla marchesa di Monconseil, Londra, 10 luglio 1738: «Á propos de livres, il
en a paru un nouveau d’un gentilhomme vénitien, M. Algarotti, sur le système de Newton
et particulièrement sur son optique: il est écrit sur le même plan et presqu’en style
semblable que celui de la “pluralité des Mondes”. Je l’ai lus ces jours passés avec
beaucoup de plaisir. Il traite fort bien sa matière, et il n’est pas moins clair que badin, de
sorte que si vous voulex devenir Newtonienne à peu de frais vous le serez à la seconde
lecture de ce livre, sans cependant faire grand cas du language qui n’est pas toujours
italien. On me dit que l’autoeur est à Paris. Je le connais particulièrement: il est d’une
conversation fort enjouée, sans affectation, et il a beaucoup d’esprit et même du savoir,
de sorte qu’il mérite votre amitié» (Grasshoff, cit., p. 121). Non era dunque adulatorio il
riconoscimento da parte dell’Algarotti che egli conoscesse la nostra lingua «come già i
Bembi e i Buonmattei» (Il newtonianismo, edizione 1739, Avvertimento). Che il Kantemir
avesse cominciato a tradurre l’opera algarottiana «étant encore à Londres» è detto dal
suo traduttore e amico Guasco (Satyres du prince Kantemir, cit.).
29 La noiosità di Parigi è tema frequente della sua corrispondenza (A. Kantemir a G. Ossorio,
14 gennaio 1739: «Mes lunettes me font croire que Paris est aussi ennuyeux que
Londres»; a G.B. Gastaldi, lo stesso giorno: «Il n’est que trop vrai que je m’ennuie dans
la belle ville de Paris»; a Algarotti, il 6 novembre 1739: «Les jours se passent moitié à ne
rien faire et l’autre à faire des riens»; Grasshoff, cit., pp. 178, 307, 176). Il Kantemir
arrivò a Parigi il 19 settembre 1738 (Ibid., p. 290).
30 G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, I, Brescia, 1753, pp. 481-428: «Da Milano ripassò
di bel nuovo in Francia, e, scorse ch’ebbe alquanti mesi alcune di quelle provincie, si
trasferì a Parigi, ove trovò fatte due traduzioni in Lingua Francese de’ suoi Dialoghi. Nel
tempo medesimo traduceva questi in lingua russa il principe di Kantemir […]». Nell’agosto
sembra che l’Algarotti fosse a Parigi (E. Manfredi a F. Algarotti, Bologna 11 agosto 1738:
«È stato per noi una grata sorpresa il sentirvi tutto inteso a cercare le antichità nel
Languedoc, quando il vostro silenzio ci aveva fatto credere che foste occupato piuttosto
nelle mode di Parigi, dove secondo l’itinerario da voi inviatomi la presente mia lettera vi
dovrebbe finalmente trovare», cfr. F. Algarotti, Opere, XI, Venezia, Palese, 1792, p. 136).
Avviato ormai alla volta di Parigi era – pare – ancora in itinere nell’agosto (Mme du
Châtelet a F. Algarotti, Cirey 27 agosto 1738: «Je suis ravie de vous voir dans notre
pays… Je ne puis me plaindre que vous alliez recevoir à Paris les applaudissemens que
votre livre charmant mérite»; Algarotti, Opere, XVI, cit., 1794, p. 46). Non conosciamo, a
ogni modo, la data esatta del suo arrivo nella città. Di traduzioni francesi del
Newtonianismo se ne conosce all’epoca solo una: quella poco felice di Duperron de
Castera (Arato, cit., Appendice II, n. 2). Era apparsa invece, nel 1739, la versione inglese
di Elisabeth Carter (Ibid., n. 7).
31 Di questa ode si posseggono due versioni: quella appunto che va innanzi all’edizione del
Newtonianismo, stampata in Napoli [ma Venezia] nel 1739; e quella pubblicata
nell’edizione Palese (I, 1791, pp. 5-7). È questa seconda versione che è stata utilizzata
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dell’Algarotti: il Mazzuchelli e il Michelessi32. Tutti gli accenni dell’ode che
potrebbero far pensare a una conoscenza diretta di San Pietroburgo erano
in realtà ormai luoghi comuni negli ambienti colti, anche senza ipotizzare
notizie provenienti appunto dal Kantemir: l’introduzione nel 1735 dell’opera
lirica italiana, la creazione dei giardini e del padiglione Marly a Peterhof da
parte del Leblond, allievo di Le Nôtre; le vittorie dell’esercito russo nella
guerra russo-turca in corso da quattro anni. Da notare che quei giardini,
quando li vedrà, li giudicherà di «gusto tedesco».
Sin dalla prima edizione dei suoi dialoghi, nei quali aveva spezzato la
«dura lingua» di Newton in «più pulite muse», l’Algarotti considerava se
stesso efficace agente e promotore del newtonianismo nel mondo. Cercava
illustri protettori che lo secondassero in quest’opera di proselitismo. Sùbito
che furono stampati, nel 1738, li aveva inviati a Elisabetta Farnese, regina
di Spagna, affinché li diffondesse nelle terre dei suo vastissimo impero,
«Acciò non più Newton del nostro mondo / Sia a la metà più bella ignoto
dio»33. Ma la cultura spagnola – sia detto di passata – si mostrò refrattaria
alle novità scientifiche d’oltremanica: con l’eccezione del solito benedettino
Feijoo, che molti anni dopo mise Newton in testa a tutti i novatori, non vi
sono tracce a quest’epoca di ricezione dell’opera di Newton né in Spagna né
nelle sue colonie americane, malgrado il vigoroso interesse per le scienze
che in esse si andava manifestando34. Il Kantemir gli fece nascere la
dalla collega Volodina. Ignoro il rapporto tra i due testi, che pubblico entrambi in
Appendice. L’edizione del Pasquali era uscita nell’ottobre del 1739. Cfr. più avanti.
32 Mazzucchelli, cit., p. 482: «Il Principe, che aveva già conosciuto a Londra, gli comunicò
che questa traduzione era principalmente destinata alla defunta imperadrice Janowna; il
che diede a lui [Algarotti] motivo di comporre que’ versi alla medesima indirizzati, i quali
si leggono in fronte all’edizione fatta in Venezia col nome di Napoli»; D. Michelessi:
«quella prima [traduzione] fatta dal principe di Cantimir, quando era ambasciatore della
corte di Pietroburgo a Parigi, diede occasione al conte Algarotti di fare un bellissimo
componimento poetico, che si legge fra le sue opere, pieno d’entusiasmo, e d’immagini
grandi e vive in lode dell’imperatrica Anna Giovannona, quando egli le intitolò i Dialoghi, e
quando il predetto principe le mandò la sua traduzione» (D. Michelessi, Memorie intorno
alla vita e agli scritti del conte Francesco Algarotti, in Algarotti, Opere, I, cit., 1791, p.
XXVI). L’ultima notizia è senza fondamento.
33 Algarotti, Opere, I, cit., 1791, pp. 68-69: A Sua Maestà la Regina di Spagna, mandandole
il Newtonianismo.
34 B. J. Feijoo, Cartas eruditas, IV, Madrid, 1944, pp. 182-183: «Bacon y Boyle fueron
filósofos originales y profundos; más profundo y más original que los dos, Newton… A
Newton dió una antorcha de vivisima luz, con que pudo registrar amplissimos espacios de
aquel grande edificio, con quienes todos los filósofos anteriores nada habian visto, sino
tinieblas». Il celebre poligrafo aveva conosciuto Newton attraverso il compendio di W. J. S.
Van ‘Sgravesande, Philosophiae Newtonianae Institutiones, In usus Academicos, LeidenAmsterdam, 1728 (G. Delpy, L’Espagne et l’ésprit éuropéen. L’oeuvre de Feijoo (17251760), Paris, 1936, p. 345). Sulle scienze nell’America spagnola: «En el siglo XVIII existe
en toda la América española un gran interés por la ciencias […]» (M. Hernandez SánchezBarba, Las Indias en el siglo XVIII, in: Historia de España y América, a cura di J. V. Vives,
IV, Barcelona, 1974, p. 401). Il primo a insegnare pubblicamente nell’università di Lima la
fisica di Newton fu negli ultimi due decenni del secolo XVIII il padre Isidro Celis (Ibid., p.
402). Non esistono traduzioni in castigliano dei dialoghi di Algarotti (Arato, cit., pp. 137155).
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speranza di penetrare nell’altro emisfero. Nell’ode a Anna espresse l’augurio
che egli riuscisse a portare a termine la sua versione: «Ed anco fia, ch’egli
tua lingua apprenda [Newton] / Se tal, ministro alle sublimi cose, / Non
ispirano invan Minerva e Apollo». Lo stesso augurio espresse
nell’Avvertimento al lettore: «Egli [Kantemir] sia in breve il Propagatore del
Newtonianismo nel vasto Impero delle Russie, e la vera Dottrina sia ben
tosto, mercè lui, sparsa in nuovi Mondi, Et Terras alio sub Sole jacentes».
Ironia della sorte: nel 1740 l’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo
riuscirà a pubblicare finalmente la versione della Pluralité des mondes, fino
allora bloccata dal Santo Sinodo, sicché il Kantemir figura, contro la sua
volontà, nella storia letteraria russa come propagatore del cartesianismo35.
La versione dell’Algarotti, ammesso che sia stata portata a termine, è
andata invece perduta. Per parte sua, l’Algarotti era impaziente che la
nuova edizione del Newtonianismo, ornata di quell’ode che gli amici
bolognesi dicevano «maestosa» fosse recapitata nelle mani della
dedicataria36. Il 29 ottobre 1739, appena saputo che il libro «avec les vers à
l’Impèratrice» era ormai stampato, ne aveva fatto inviare (era allora in
Inghilterra) alla prima occasione all’amico russo un esemplare per lui e uno
per la zarina: «Je me flatte que V. E. – gli scriveva – sera agréer questa
povera opera d’inchiostro; et que la philosophie et les muses auront un
favorable accès auprès du Trône présentées par les mains de V. E.»37. Era
vero che nessuno a San Pietroburgo – né il conte Ostermann né altri – lo
aveva ringraziato per quei versi; ma si lusingava che «une fois qu’on saura
que V. E. les a approuvés, il seront trouvés egaux au grand sujet». Nel
luglio del 1740 il volume sembrava ormai avviato alla volta della capitale
russa. L’Algarotti, già fatto prussiano, se ne rallegrava: «Io sarei glorioso,
che sua maestà imperiale non indegnerà quello che la venerazione e
l’ammirazione m’hanno dettato, e son sicuro, che la bontà di vostra
excellenza per me farà valere cotesta bagatella […]»38. E si offriva di farsi
cantore perpetuo di quella donna straordinaria: «Felice me, se vostra
excellenza mi fa trovar grazia apresso di sua maestà imperiale, a cui
rededicherò i miei versi dai confini della Prussia e delle rive del Baltico»39.
35 Boss, cit., p. 116.
36 E. Zanotti a Algarotti, Bologna, 4 gennaio 1740: «Colla vostra lettera io ricevei da vostro
fratello la nuova edizione del Newtonianismo… I versi alla czarina sono maestosi e belli; e
sono piaciuti ancora a mio padre, che voi sapete essere adoratore del Petrarca e di quelli
del Cinquecento» (Algarotti, Opere, XII, cit., pp. 346-347).
37 Algarotti a Kantemir, Londra, 29 ottobre 1739: «J’ai reçu avant-hier une lettre de Venise,
dans laquelle on me mande que mon livre est dejà imprimé avec les vers à l’Impératrice»
(Grasshoff, cit., p. 123).
38 Algarotti a Kantemir, Charlottenburg, 7 luglio 1740 (Grasshoff, cit., p. 124).
39 Nelle lettere a Kantemir, Algarotti esce in lodi iperboliche della zarina: «La profonde
admiration avec laquelle j’ose lever les yeux sur cette puissante Impératrice, l’honneur du
sexe et l’exemple de l’univers […]» (Grasshoff, cit., p. 123). Scriveva – si ricordi – a un
protégé di Anna. Più che lusinghiero il giudizio su quella sorta di primo ministro e direttore
della politica estera che era Andrej Ivanovič (Heinrich) Ostermann (Algarotti a Kantemir,
Londra, 29 ottobre 1739: «Votre Excellence me permettra de le remercier de la lettre
qu’elle a daigné d’écrire a Mr le C.te d’Ostermann, qui mérite bien assurement qu’on fasse
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Ma quella copia non giunse mai nelle mani della zarina, venuta intanto a
morte il 16 ottobre 1740. L’Algarotti non nascose il suo disappunto40. Si
consolò con le grazie delle quali lo andava ora colmando il nuovo re di
Prussia, alla cui corte era «volato» nel giugno41.
Le aperture del Kantemir verso il mondo russo resero l’Algarotti sempre
più curioso di quel paese entrato ormai nel numero delle grandi potenze
europee. Oltre tutto, l’amico gli aveva forse fatto sperare onorevoli impieghi
per la sua persona, così irresistibilmente attratta verso la vita di corte.
Ripassato nel marzo del 1739 a Londra, poche settimane dopo il suo arrivo
fu invitato dall’eccentrico Charles Calvert, quinto Lord Baltimore, a unirsi a
lui in un grand Tour nel nord sul suo yacht “The Augusta”42. Il 21 maggio
le grand voyage»; (Grasshoff, cit., p. 122). Originario della Vestfalia, era stato fin dal
1711 uno dei più influenti e prudenti collaboratori di Pietro. Aveva senza dubbio grandi
qualità: parlava tedesco, olandese, francese, italiano, latino e russo alla perfezione
(Massie, cit., p. 597). Perla rara: tra tutti quei favoriti avidi di accumulare ricchezza,
quella vecchia volpe spiccava per «l’incorruttibile onestà» (V. Gitermann, Storia della
Russia dalle origini alla vigilia dell’invasione napoleonica, I, Firenze, 1963, p. 512). Cadrà
in disgrazia nel dicembre 1741, al momento del colpo di stato di Elisabetta (Waliszewski,
L’héritage, cit., p. 363). Algarotti lo aveva incontrato nel suo soggiorno a San Pietroburgo:
«Ebbe agio allora di conoscere il celebre conte di Ostermann […]» (Mazzucchelli, cit., p.
481).
40 Algarotti al fratello Bonomo, Londra, 12 novembre 1740: «Avrete inteso a quest’ora la
morte della Czarina […] Io ho il dispiacere che non abbia ne men veduto il mio libro dopo
il sì lungo tempo che è stampato» (Arato, cit., p. 74, n. 121).
41 Algarotti al fratello Bonomo, Londra, 5 giugno 1740: «Sul punto di mantare in carrozza
avant’ieri ho ricevuto la più bella lettera che sia mai stata scritta al mondo: mon cher
Algarotti, ella diec, mon Sort a changé je vous attend avec impatience. Ne me faites point
languir. Vado volo» (Arato, cit., p. 98).
42 Charles [non Frederick], quinto Lord Baltimore e proprietario del Maryland era nato nel
1699 (morirà nel 1751) da una famiglia cattolica (la madre, Charlotte Lee, era nipote di
Carlo II). Per riprendere i propri diritti sul Maryland il padre Benedict Leonard si era
convertito nel 1713 alla religione anglicana. Nel 1732-1733, Charles aveva fatto un
soggiorno di sei mesi nella colonia per riaffermarvi l’assoluta prerogativa del proprietario e
inaugurando quella che gli storici del Maryland chiamano «the politics of irreconciliability»
tra il proprietario da una parte e la «lower house» dall’altra (American National Biography,
4, 1999, pp. 244-245). L’amicizia con l’Algarotti è stata addotta come prova della sua
omosessualità dal reverendo Paul K. Thomas (“Maryland Historical Magazine”, Summer
1996, pp. 244-245). Nella prima edizione (1886) del Dictionary of National Biography la
frase di Carlyle («one of those worn-out beings, a hipped Englishman, who had lost all
moral and physical taste») era correttamente attribuita al figlio Frederick, sesto Lord
Baltimore, con il quale si estinse la famiglia (Th. Carlyle, History of Frederick II of Prussia,
called Frederick the Great, II, London, 1858, p. 667). Nella edizione del 1920 la frase
poco lusinghiera viene riferita invece a lord Charles, padre di Frederick (Cross, The Lords
Baltimore in Russia, cit., p. 77). Dopo la morte di Caterina I e di Giorgio I (1727), vi erano
stati segni di riavvicinamento tra Gran Bretagna e Russia. I rapporti diplomatici, rotti nel
1720, erano stati riannodati formalmente con l’invio a San Pietroburgo, nel 1728, come
console generale prima e poi, dal 1731 come residente, di Claudius Rondeau: uno dei
personaggi incontrati dall’Algarotti nella capitale. L’invio del Rondeau a San Pietroburgo
aveva coinciso con l’invio del Kantemir a Londra. Il Northern Tour era stato in augurato da
sir Francis Dashwood (1708-1781) che aveva accompagnato nel 1733 il barone George
Forbes, inviato straordinario alla corte russa per negoziare quel trattato di commercio che
sarà concluso l’anno seguente. Dashwood aveva soggiornato a San Pietroburgo venti
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Vecchio Stile – tre giorni dopo l’invito – l’imbarcazione fece vela da
Gravesend verso il golfo di Finlandia. Lord Baltimore era impaziente di
assistere ai grandi festeggiamenti organizzati a corte ai primi di luglio in
occasione del matrimonio di Anna Leopol’dovna, principessa del
Mecklemburgo, con Antonio-Ulrico di Braunschweig-Bevern. Questa coppia
male assortita di principi tedeschi avrebbe dovuto, secondo i piani di Anna,
generare il futuro zar. I suoi desideri saranno – bisogna dire – esauditi. Nel
settembre del 1740, poco innanzi la sua morte, riceverà tra le braccia
l’infante Ivan Antonovič. Ivan erediterà il trono all’età di due mesi l’11
novembre 1740 col nome di Ivan VI e sarà detronizzato a quindici da
Elisabetta, questa «donna incapace e crudele», che lo condannerà a marcire
in una prigione i restanti anni della sua vita43. Sarà ucciso dai suoi custodi
nel 1764, regnante Caterina.
L’Algarotti non era l’unico ospite. Sulla Augusta erano saliti altri due
giovani: l’ultimo figlio di Jean-Théophile Désaguliers, Thomas (1725?-1790),
che il padre “mandava in mare perché apprendesse la pratica della
navigazione” (si distinguerà invece come abile artigliere)44 e un suo
«rivale», un certo King, che sperava di fare «un corso di Fisica Sperimentale
a quella Imperadrice» e che si era portato dietro tutte le macchine
necessarie alle sue dimostrazioni45. Durante la navigazione darà in effetti
giorni nel giugno del 1733; e di quella visita ci ha lasciato un diario pubblicato solamente
nel 1959 (B. Kemp, Sir Francis Dashwood’s Diary of his Visit to St Petersburg in 1733, in
“Slavonic and East European Review”, XXXVIII, 1959, pp. 206 e segg.). Lord Baltimore
(nominato nel 1731 gentleman of the Bedchamber di Frederick, principe di Galles) faceva
parte di quel gruppo raccolto appunto attorno al principe ereditario (Lord Hervey, F.
Dashwood…) che aveva preso a favorire l’opera italiana in aperto dissenso col padre,
Giorgio II, che era «a rabid Hendelian» (G.H. Dorris, Paolo Rolli and the Italian Circle in
London (1715-1744), The Hague-Paris, 1967, p. 114). Che lord Baltimore non avesse
nessun incarico speciale di natura diplomatica è confermato da una notazione del
Giornale. Il generale della piazza di Revel’ non poteva credere «che la sola curiosità»
avesse condotto i due forestieri in quel freddo e remoto paese del mondo (F. Algarotti,
Giornale del viaggio da Londra a Petersbourg, f. 16r). Era stato forse l’«eloquent
informant» Kantemir a far nascere nell’eccentrico Lord Baltimore l’idea di un Grand Tour
diverso dal solito. Di turista, senza attributi paraministeriali, parla J. Black, The British
and the Grand Tour, London, 1985, p. 50). L’insolito progetto aveva suscitato tale
sorpresa che si pensò da qualcuno che fosse stato incaricato di una missione segreta
(Cross, The Lords Baltimore, cit., pp. 77-80). Tanto maggiore la sorpresa, e la
disapprovazione, degli ambienti bolognesi che avevano conosciuto l’Algarotti adolescente:
E. Zanotti a F. Algarotti, Bologna, 10 novembre 1739: «Ben vi avvisate, se credete di non
aver incontrato con questo viaggio l’approvazione della petroniana gente […] Pure ve ne
sono alcuni che hanno sempre più fatto concetto del vostro spirito, e che hanno lodata la
vostra curiosità» (Algarotti, Opere, XII, cit., 1792, pp. 336-337).
43 Su tutta questa tragica vicenda cfr. Gitermann, cit., pp. 516-517; Massie, cit., pp. 733734; K. Stählin, Geschichte Russlands, II, Berlin, 1930, pp. 275-278, 282 e segg., 290 e
segg. e passim.
44 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 4 (lettera I).
45 J. Torlais, Un Rochelais grand-maître de la Franc-Maçonnerie et physicien au XVIIIe
siècle: Le Reverend J.T. Desaguliers, La Rochelle, 1937; A.R. Hall, Jean Theophilus
Desaguliers, in Dictionary of Scientific Biography, edited by Ch. C. Gillespie, IV, New York,
1971, pp. 43-46.
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due prove della sua abilità, che l’Algarotti mostra di aver apprezzato46. La
presenza di un rampollo del Désaguliers e forse di un allievo del celeberrimo
sperimentatore al servizio Newton, «plus newtonien que Newton» stesso,
che a due riprese, nel 1722 e nel 1728, era sceso in campo in difesa
dell’ottica newtoniana contro Giovanni Rizzetti (la bête noire pure
dell’Algarotti) ci fanno certi che a Londra egli avesse frequentato quel
personaggio assai in vista del Refuge: incontri facilitati forse dalla comune
appartenenza alla massoneria47. Uomo dai gusti raffinati, Lord Baltimore si
era procurato un abile cuoco francese, al quale l’Algarotti farà allusione
chiamandolo scherzosamente col nome dell’autore di un celebre ricettario48.
Di quell’insolito viaggio l’Algarotti volle tenere un esatto giornale in un
quadernetto di cm 19x11 (un ottavo piccolo) di carte 74, oggi legato in
carta pecora bianca. Una mano ottocentesca gli ha dato per titolo Viaggio
da Londra a Petersburg nel vascello The Augusta di Mylord Baltimore nel
mese di maggio V. S. l’anno MDCCXXXIX: titolo riduttivo del contenuto,
poiché un terzo del quaderno è riempito delle impressioni di viaggio in
Polonia, Sassonia e Prussia. Precede una lunga nota dell’Archivista, stesa
probabilmente allorché quella reliquia, rimasta in possesso non si sa di chi,
venne messa in vendita nel novembre del 1848. Acquirente fu Thomas
Rodd. La nota ne garantisce l’autenticità e fa anche qualche considerazione
pertinente sul suo valore documentario49. È ora in possesso della British
46 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., pp. 162-165 (lettere IX e X); Algarotti, Giornale del
viaggio, f. 8rv.
47 Philosophical Transactions of the Royal Society, XXXII, 1722-1723, n. 374; XXXV, 17271728, n. 406. L’Algarotti replicò egli pure al Rizzetti: in una prima lettera aggiunta
all’edizione 1739 del Newtonianismo e in una seconda, aggiunta all’edizione del 1746. Sui
rapporti Algarotti-Rizzetti-Desaguliers cfr. Arato, cit., pp. 21-23, 35-36 e, ora, D. Arecco,
Massoneria e scienza nella Londra di Giorgio I, in “Atrium”, III, 2003, pp. 34-47.
L’affiliazione di Algarotti alla massoneria resta dubbia (Arato, cit., p. 37, n. 71). Giuseppe
Giarrizzo la dà invece per certa, sulla base di una lettera di A. Leprotti a E. Manfredi da
Roma, 13 marzo 1734: «ò ammirato ch’egli [Algarotti] essendo della famosa compagnia
dei Libres Maçons, non ha voluto darsi a conoscere» (Massoneria e Illuminismo
nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994, p. 437, n. 9). In questo caso, la sua
affiliazione andrebbe fatta risalire al soggiorno fiorentino e alla frequentazione di Antonio
Cocchi e Tommaso Crudeli. Nessun accenno a Algarotti in: M.A. Timpanaro Morelli, Per
Tommaso Crudeli nel 255° anniversario della sua morte (1745-2000), Firenze, Olschki,
2000.
48 Algarotti, Viaggi di Russia, I, 164: «un giorno di calma fece il Signor King con gran
destrezza la notomia dell’occhio di un castrone. Il qual castrone fu poi cotto con egual
dottrina dal nostro Martialò». Si tratta di F. Massialot, Le cuisinier roial et bourgeois, Paris,
1691.
49 British Library, Add. Mss., 17482, f. 1r-2r: «Si comprende quanto debba tenersi in pregio
questo Codice, il quale potrebbe incontrare dal pubblico un favorevole accoglimento col
somministrare almeno materia per corredare di note una nuova edizione delle Lettere
sulla Russia e servire a correggere qualche sbaglio incorso nelle antecedenti edizioni come
ce lo fa credere l’esempio che ci porge la lettera a Mrd Hervey del 2 giugno del
sopraindicato Anno 1739». Alludeva alla data della lettera V (in realtà 21, non 2 giugno)
che coincide, nell’edizione Coltellini, con quella della lettera III da Cronstat. Nell’edizione
Briasson era correttamente indicata la data del 6 luglio, che i più accurati editori moderni
hanno ripristinato (Algarotti, Viaggi di Russia, p. LVII).
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Library sotto la segnatura: Add. Mss. 17482. La scrittura, in colonna fino al
foglio 57v, ossia fino alla partenza da Kronštadt, occupa poi l’intera pagina.
L’Algarotti ha segnato in margine con una matita rossa i passi che vent’anni
dopo circa decise di utilizzare per rompere quel testo in otto lettere fittizie a
Lord Hervey, vice-ciambellano d’Inghilterra e perfetto uomo di mondo, al
quale l’Algarotti al tempo del suo soggiorno inglese era stato
particolarmente legato. Ci ha reso in tal modo due segnalati favori: quello di
ammetterci nel laboratorio dello scrittore e quello di dare evidenza ai passi
rifiutati.
Questo manoscritto, segnalato ma poco utilizzato dalla Treat nel 1913 50, è
stato preso a studiare, un quarto di secolo fa, da Antonio Franceschetti, che
nel 1976 ne trasse le pagine dedicate all’Accademia delle Scienze di San
Pietroburgo51. Poiché questo studioso ha confermato anche di recente il suo
proposito di darne un’edizione completa, io – pur avendone eseguito, per
50 I.F. Treat, Un cosmopolite italien du XVIIIe siècle. Francesco Algarotti, Trevoux, 1913, pp.
82-91, 255.
51 A. Franceschetti, Francesco Algarotti e l’Accademia di Pietroburgo, in Letteratura e
scienza nella storia della letteratura italiana, Atti del IX Congresso dell’Associazione
internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Palermo-Messina-Catania, 2125 aprile 1976), a cura di V. Branca [et alii], Palermo, 1978, pp. 594-597 (il testo
algarottiano alle pp. 594-597, corrispondenti ai ff. 32v-38v del manoscritto). Non pochi e
non trascurabili gli errori di trascrizione di un testo così breve. Segnalo quelli più rilevanti.
Guida nella visita sarebbe stato «il professor Cruff». Si tratta invece di Georg Wolffgang
Kraft (Craff per Algarotti). L’accenno all’Accademia di Beziez cioè Béziers, la cittadina
natale di Maupertuis, andrebbe esplicato. In questa città il celebre fisico aveva tentato di
erigere un’accademia, che nel 1736 pubblicò gli atti (Recueil de Lettres, Mémoires et
autres pièces, pour servir à l’histoire de l’Académie des Sciences & Belles-Lettres de la
ville de Béziers, Béziers, chez Barbut). L’animatore principale di essa, M. Bouillet, nel
primo Mémoire aveva lungamente dissertato contro il sistema che faceva le macchie solari
«des Planètes qui roulent autour du Soleil, et qui en cachent quelquefois les parties»
(“Journal de Trévoux”, 1736, p. 2536). L’esperienza proposta dal Krafft (Experimentorum
physicorum brevis Descriptio, St. Petersburg, 1738) parve all’Algarotti altrettanto oziosa
quanto quella dell’accademico di Béziers: «Questa sperienza mi richiamò alla mente la
dissertazione dell’Accademia di Béziers per cui si prova che le macchie del sole non sono
altramenti [non “altrettanti”] pianeti che girino intorno a lui». Sulla questione aveva
«detto abbastanza Galileo» (f. 33r). L’altra esperienza – quella proposta da Daniel
Bernoulli [non Barulli!] – era cervellotica. Le «warste» di p. 595 sono ovviamente
“werste”. L’errore più sviante è l’accenno alla «Terra di Ferro» di cui si era appena
scoperta l’insularità (ibid.). Si tratta della “Terra di Jesso” (Yeso), l’attuale isola di
Hokkaido, una delle quattro grandi isole dell’arcipelago del Giappone. «Mr. De la Boyere»
è il fratello di Jean-Nicolas Delisle, Louis Delisle sieur de la Croyère. E fratello di JeanNicolas era pure l’autore di quella carta imperfetta della penisola Jamal, Guillaume (il
grande amico di Pietro), che Jean Nicolas gli aveva mostrato (ibid.). Tutti questi Delisle
geografi fanno esclamare in margine all’Algarotti che i Delisle [parole non decifrate dal
Franceschetti] erano «destinati a descrivere ai principi la Terra» (f. 33v). «Dondu-Ombo»
è “Donduc-Ombo” (DonduKombo), famoso capo dei Calmucchi (Algarotti, Viaggi di Russia,
p. 107 [lettera VII]); e poiché di Calmucchi si parla va detto che i «depsten» nei quali
furono rinvenuti molti arnesi calmucchi (p. 596) erano “sepolcri”. Il «cerion» che inviluppa
il feto di Ruysch è naturalmente il “corion” (ibid.). Così come il colore della divisa che oggi
indossa il manichino in cera di Pietro sedente, modellato dal Rastrelli, è «blò» non “blé” e
il globo di Olearius non è di «Gottap», ma di Gottorp.
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stendere la presente relazione, la trascrizione – mi asterrò dal rubargli la
preda52.
Primo problema. È il diario originario o una riscrittura in vista di una
pubblicazione? Il Franceschetti conclude per la prima ipotesi53; e tale è pure
la mia conclusione. Le prove per me decisive sono tre. Il fatto che, dopo
aver descritto nei termini più duri il despotismo di Federico Guglielmo I,
arrivato a Rheinsberg, nella residenza cioè del Kronprinz Federico, il diario
ammutolisca di colpo e nelle pagine residue appaia l’abbozzo dell’ode a
Federico, che l’Algarotti compose non solo, ma mise anche in musica 54.
Seconda prova e forse la più concludente: gli schizzi dal vero frammisti al
testo (ff. 17r, 20r, 22r, 24r, 25r). Una terza spia circa la data di
composizione dei Giornale è l’accenno ad Azov, certamente anteriore alla
pace di Belgrado del 18 settembre 1739: «Se [i Russi] potranno ritenere
Azov dopo questa guerra come è verisimile, potran dire di averlo ben
comperato, ma in fine avranno una piazza di somma importanza»55. I Russi
conserveranno – è vero – quella conquista, ma a patto di demolire le
fortificazioni e con l’impegno a non costruire una flotta nel Mar Nero:
conclusione davvero non prevedibile di una costosissima guerra.
Il secondo problema è quello di definire esattamente la cronologia degli
spostamenti della coppia Algarotti-Baltimore. Quella notazione – V. S. – che
tutti gli interpreti leggono «ultimo scorso» è invece una preziosa notazione.
Come è noto, la Gran Bretagna continuò a servirsi del calendario giuliano
fino al 22/31 dicembre 1752. La Russia, per parte sua, lo conservò fino alla
Rivoluzione dell’ottobre-novembre 1917. Gli altri paesi attraversati dai due
viaggiatori avevano adottato, quale prima quale poi, il gregoriano; la Polonia
nel 1586, la Germania protestante nel 1700. Tanto basti per il nostro scopo.
L’Algarotti usò il calendario giuliano – il Vecchio Stile – finché si mosse per
mare e durante l’intero soggiorno in Russia; partito da Kronštadt il 20 luglio
– dice – «in 12 giorni fecemmo il tragitto di là a Danzica ripetendo i passati
pericoli nel Golfo di Finlandia»56. Da Danzica si mossero il 15 agosto.
Avrebbero trascorso perciò apparentemente nella città anseatica tredici
giorni: tempo troppo lungo per due viaggiatori premuti dal desiderio di
visitare la Sassonia (Dresda e Lipsia) e di lì la Prussia, per imbarcarsi infine
ad Amburgo, dove intanto li avrebbe attesi l’Augusta per ricondurli in
Inghilterra. Occorre perciò convertire la data della partenza da Kronštadt
nella data corrispondente del gregoriano (il décalage è nel Settecento di
undici giorni). I due lasciarono dunque San Pietroburgo il 31 luglio,
52 A. Franceschetti, L’Algarotti in Russia dal Giornale ai Viaggi, in “Lettere italiane”, XXXV,
1983, pp. 312-332. Il progetto di pubblicazione integrale del manoscritto mi è stato
confermato in una comunicazione privata.
53 Franceschetti, L’Algarotti in Russia, cit., p. 315.
54 Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 octobre 1739: «Il [Algarotti] a composé une cantate
qu’on a mis aussitôt en musique et dont on a été très satisfait» (Voltaire’s
Correspondence, edited by Th. Bestermann, IX, Genève, 1954, p. 251, lettera 1983).
55 Algarotti, Giornale, f. 52v.
56 Algarotti, Giornale, f. 57v.
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toccarono Danzica il 12 agosto, partendone il 15 alla volta di Dresda.
Questi calcoli sono necessari per fissare bene la data del soggiorno
dell’Algarotti in Russia e quella dell’incontro col giovane Federico. Il Giornale
registra infatti, giorno dopo giorno, i movimenti della galeotta, ma arrivato a
San Pietroburgo si fa generico e generico resta fino alla fine. Ma c’è, come
dire, un traguardo: gli otto meravigliosi giorni trascorsi alla corte di Federico
a Rheinsberg57. Su questi il Giornale – come ho detto – è muto. Ma noi
possiamo determinare con grande approssimazione la data della partenza: il
26 settembre i due non sono più a Rheinsberg58. Il 1° ottobre l’Algarotti
annunzia a Voltaire il suo ritorno a Londra59.
Quale impressione avevano fatto i due visitatori su Federico? Ottima,
senza ombra di dubbio: «Je crains fort de ne revoir de longtemps dans ces
contrées d’aussi aimables personnes»60. Lord Baltimore «est un homme très
sensé, qui possède beaucoup de connaissances, et qui croit, comme vous –
scriveva Voltaire –, que les sciences ne dérogent point à la noblesse et ne
dégradent point un rang illustre»61. Quanto all’Algarotti, lo trovava delizioso:
57 Federico a Mme du Châtelet, Rheinsberg, 27 ottobre 1739: «Je vous dirai que nous avons
vu ici l’aimable Algarotti avec un certain milord Baltimore, non moins savant ni moins
agréable que lui. J’ai senti tout le prix de leur bonne compagnie pendant huit jours […]»
(Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 261, lettera 1992).
58 Federico a Ulric-Fréderic de Suhms (inviato straordinario della corte di Sassonia a San
Pietroburgo), Rheinsberg, 26 settembre 1739: «Nous avons eu ici Mylord Baltimore et le
jeune Algarotti, tous deux des hommes qui, par leur savoir, doivent se concilier l’estime et
la considération de tous ceux qui les voient. Nous avons beaucoup parlé de vous, de
philosophie, des sciences, des arts, enfin de tout ce qui doit être compris dans le goût des
honnêtes hommes» (Oeuvres de Frédéric le Grand, XVI, Berlin, 1846-1856, p. 378; cit.
da Cross, The Lord Baltimore, cit., pp. 82-83). La data della seconda lettera di Federico ad
Algarotti (Opere, XV, cit., XV, 1794, pp. 8-9) è visibilmente errata: «J’espère – gli aveva
scritto il principe de Rheinsberg, il 1° settembre 1739 – que ma première lettre [perduta]
vous sera parvenue. Je n’oublirai jamais les huit jours que vous avez passé chez moi.
Beaucoup d’étrangers vous ont suivi; mais aucun vous a valu, et aucun ne vous vaudra si
tôt». Scorso di penna di Federico o cattiva lettura? In ogni caso bisogna correggere: 1°
ottobre.
59 Algarotti a Voltaire, 1° ottobre 1739: «Me voilà à Londres après avoir été bien près du
Pôle, et avoir passé un été en grelottant; si je n’ai pas porté en grelottant le compas et la
lyre. En revenant j’ai été dans le troisième ciel; j’ai vû, oh me beato!, ce prince adorable,
disciple de Trajan, rival de Marc-Auréle. J’ai bien parlé de vous, et j’en ai bien entendu
parler». Questa lettera è datata in Palese e in Besterman «avril» (Algarotti, Opere, XVI,
cit., 1794, pp. 73-74). Ma è facile correggere la svista dei due editori. Il 28 dicembre
1739, Voltaire fa allusione proprio a questa lettera, scrivendo a Federico da Bruxelles:
«J’ai reçu une lettre d’Algarotti, datée de Londres du premier octobre: elle m’a attendu
trois mois à Bruxelles. Ce M. Algarotti est encore tout étonné de ce qu’il a vu à
Remusberg. “Ah!, quel prince est ça!” dit-il; il ne revient pas de sa surprise […]»
(Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 288, lettera 2012). Lo stesso dice Madame du
Châtelet: «M. Algarotti m’a mandé avec quelle surprise il avoit vu v.a.r.; la mienne est
qu’il ait pu vous quitter» (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 290, lettera 2014).
Ovviamente, la datazione della lettera VII dei Viaggi (Hamburg, 30 agosto 1739) va
corretta (28 settembre?).
60 Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p.
251, lettera 1983).
61 Ibid.: «Le jeune Algarotti que vous connaissez m’a plus on ne saurait davantage. Il m’a
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«Il a beaucoup de feu, de vivacité et de douceur; ce qui m’accomode on ne
saurait mieux»; e se ne era staccato con rimpianto. Lord Baltimore era, a
modo suo, un uomo charmant: «J’ai admiré le génie de cet anglais comme
un beau visage à travers un voile». E spiegava: «Il parle très mal français,
mais on aime pourtant à l’entendre parler; et l’anglais, il le prononce si vite
qu’il n’y a pas moyen de le suivre». Dalla sua visita, mylord non aveva
tratto una grande impressione della nuova Russia: «Il appelle un russien un
animal mécanique; il dit que Pétersbourg est l’oeil de la Russie, avec lequel
elle regarde les pays policés; que si on lui éborgnait cet oeil, elle ne
manquerait pas de retomber dans la barbarie dont elle n’est guère sortie»62.
Troppo presto si è concluso che questa celebre metafora non appartiene
all’Algarotti ed è stata invece coniata dall’amico inglese63. Il Giornale
costringe alla cautela. L’Algarotti aveva notato la totale mancanza di
structure d’accueil della città: «Pe’ forestieri non vi ha accomodamento
alcuno, né osterie, né valletti, né carrozze». Ne aveva perciò concluso: «Il
che manifesto segno è quanto pochi abbiano vaghezza di vedere questo
Imperio, che da così poco tempo comunica con noi e che ci riguarda, per
così dir, dalla finestra di Petersbourg»64. Nei Viaggi l’immagine ricompare, e
sempre usata con qualche esitazione: «Ma qualcosa le [lord Harvey] dirò
prima, qual poi, di questa Città, di questo gran finestrone, dirò così,
novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in Europa»65.
Comunque sia, è dall’Algarotti che tolse quell’immagine Puškin nel suo
Mednyj vsadnik [Il cavaliere di bronzo]: «Qui da natura fu per noi disposto
– è Pietro che parla – di aprire una finestra sull’Europa»66. Tanto lord
Baltimore piacque a Federico che a lui dedicò, dopo la sua partenza,
un’Épître sur la liberté de penser des Anglais: centosettantotto alessandrini
promis de revenir ici, aussitôt qu’il lui sera possible: nous avons bien parlé de vous, de
géométrie, de vers, de toutes les sciences, de badinerie, enfin de tout ce qu’on peut
parler […]. Nous nous sommes séparés avec regret». Ne parlava ancora con nostalgia a
Voltaire il 3 febbraio 1740: «Je suis bien aise qu’Algarotti ne perde point le souvenir de
Remusberg. Les personnes d’esprit n’y seront pas oubliées […]» (Voltaire’s
Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
62 Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p.
251, lettera 1983).
63 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV); p. XIX, n. 1.
64 Algarotti, Giornale, f. 47v.
65 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV).
66 Nella nota a quei due versi del Proemio (vv. 16-17) Puškin riconobbe il suo debito:
«L’Algarotti in qualche punto dice: “Pétersbourg est la fenêtre par laquelle la Russie
regarde en Europe”» (A.S. Puškin, Polnoe sobranie socinenij v desjati tomach, t. IV,
Moskva, 1963, p. 380, n. 1; Opere, a cura di E. Bazzarelli, G. Spendel, Milano, 1990, p.
313. La traduzione è di T. Landolfi (gli editori hanno però inspiegabilmente soppresso il
“cappello” e le note dell’autore). Questo “racconto pietroburghese” in tetrametri giambici
è del 1833 (W. Lednicki, Pushkin Bronze Horseman, Berkeley, California University Press,
1955). Puškin conosceva l’italiano, ma preferiva leggere i classici (perfino Dante) in
traduzioni francesi (R. Chlodowski, Puškin e l’aurea Italia, in: Puškin e la sua arte, Atti dei
Convegni Lincei (Roma, 3-4 giugno 1977), Roma, 1978, p. 151. Probabilmente, si servì
delle Lettres sur la Russie nell’edizione di Berlino voluta da Federico II (Oeuvres du comte
Algarotti, a cura di D. Michelessi, J.B. Merian, 1772).
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che esordivano inneggiando a «L’esprit libre, mylord, qui règne en
Angleterre, / qu’on abhorre à Berlin. Mais qu’à Londres on revère»67. Era un
indiretto elogio di se stesso: «Il [Baltimore] a trouvé ici des gens avec,
lesquels il pouvait parler sans contrainte, ce qui m’a fait composer l’épître
ci-jointe […]»68.
Ricapitoliamo, per comodità, i movimenti dei due turisti. Partiti da
Gravesend il 21 maggio/1 giugno, toccarono l’Olanda e di qui raggiunsero
Helsingor, all’ingresso del Sund, il 10/21 giugno. Rinunziarono a visitare
Copenhagen per non mancare allo spettacolo pietroburghese. Entrarono in
territorio russo il 17/28 giugno a Revel’ (Tallin) in Estonia; da Revel’ si
portarono a Kronštadt il 21 giugno/1 luglio e di qui, due giorni dopo, a San
Pietroburgo. Ne partirono un mese dopo, il 20 luglio/1 agosto e dopo dodici
giorni di navigazione furono a Danzica il 13 agosto. Di qui ripartirono il 15,
ormai per via di terra («non si corre in questi paesi la posta, come in
Francia e in Italia»69) verso Dresda, dove giunsero sette giorni dopo, cioè il
22. Trascorsero tra Dresda e dintorni molti giorni. Ne ripartirono il 6
settembre verso Lipsia, già tutta infervorata nei preparativi della sua terza
fiera, quella di San Michele. Da Lipsia si portarono a una data non precisata
a Potsdam, alla corte di Federico Guglielmo I. Vi si fermarono qualche
giorno, furono invitati alla tavola di quel tiranno: «È giocoso ne’ suoi
discorsi, come ebbi campo di osservare alla sua tavola, a cui parlò
moltissimo con Mylord Baltimore in modo che gl’Inglesi potrebbon dire
ch’egli ha great deal of humour»70. Da Potsdam raggiunsero l’ancora poco
popolata Berlino e a cinquanta chilometri a nord di Berlino, Rheinsberg,
dove trascorsero otto giorni (17-25 settembre?). Di qui attraversarono un
paese «tutto sabbia» fino ad Amburgo per ritrovarvi, come ho detto,
l’Augusta e far ritorno in Inghilterra71. Come si vede, trascorsero in terra
russa poco più di un mese su tre spesi nel viaggio. Non a caso, quando
l’Algarotti si mise a rievocare quelle sue lontane esperienze, nel 1760 e poi
di nuovo nel 1763, alle otto lettere ricavate dal Giornale aggiunse quattro
nuove lettere, pure fittizie, indirizzate al defunto Scipione Maffei, diede
come titolo: Viaggi di Russia. E a questo titolo fuorviante gli editori moderni
– tutti bravissimi (Trompeo, Bonora, Vincenti, Déleyan, Spaggiari) – si sono
non so perché affezionati, pur sapendo che l’Algarotti se aveva dato per
quell’edizione una buona sistemazione al testo, non aveva potuto, a causa
67 Oeuvres de Frédéric le Grand, XIV, cit., 1849, pp. 81-87. Federico a Voltaire, 10 ottobre
1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983); Federico ad Algarotti,
Rheinsberg, 29 ottobre 1739: «Je vous prie de faire mes amitié à mylord Baltimore, dont
j’estime véritablement le caractère et la façon de penser; j’espère qu’il aura reçu à
présent mon Epître sur la liberté de penser des Anglais» (Oeuvres de Frédéric le Grand,
XVII, cit., 1850, p. 6). Federico aveva inviato l’Epître a Voltaire, pregandolo di correggerla
«impitoyablement» il 10 ottobre (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p.251, lettera 1983).
Voltaire si rifiutò di toccarla.
68 Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983.
69 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 136 (lettera VIII).
70 Algarotti, Giornale, f. 69r.
71 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 148 (lettera VIII).
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della morte, rivedere l’opera stampata.
Inutile qui ripercorrere tutte le tappe dei viaggio: sono tutte ben
rievocate nei Viaggi. Entriamo piuttosto nel vivo dell’argomento. Il primo
impatto con la realtà dell’Impero avvenne a Revel’, capitale dell’Estonia, già
provincia svedese, ma da trent’anni entrata nell’orbita russa. La pace di
Nystad (1721) ne aveva assicurato a Pietro il definitivo possesso. La Svezia
mal sopportava la perdita di quel suo granaio. E già si andava preparando a
ricorrere alle armi. Tenterà in effetti l’avventura militare nel luglio del 1741.
Ma sarà una spedizione sfortunata. Non soltanto non riavrà le provincie
contese, ma con la pace di Åbo (Turku) perderà una striscia di Finlandia.
L’Algarotti dava in ogni caso perduta la sua causa. Il paese stava troppo
bene sotto il nuovo sovrano. Pietro era stato assai abile nel legare
strettamente a sé quelle provincie riluttanti, concedendo loro la più ampia
autonomia municipale («Si governano con le proprie leggi, che son quelle di
Lubeck […]»). Gli oppositori erano stati sconfitti: «Gli scrittori di Livonia –
annoterà – che non hanno altre volte troppo ben trattato i Russi, devono ora
ritrattarsi e farne il panegirico a cagione della dolcezza del Governo»72. Tutti
quei baroni non pensavano ormai che ad arricchire; e si arricchivano
appunto grazie alla politica poco gravosa del governo: «Non hanno per così
dire gravezza alcuna». Tutti i loro privilegi erano stati conservati. Cosa
inaudita! «Questo è il primo popolo che io abbia udito lodarsi e benedire il
Governo». A mantenere l’ordine pubblico provvedeva la municipalità con
una propria compagnia di soldati ed alcuni cannonieri, i quali
«frammescolati co’ Russi fanno la notte la guardia alla città». Ai tre
reggimenti russi di guarnigione la città corrispondeva «il quartiere e le
carriole», «il che monta a una piccolissima somma». Totale l’apatia politica:
«Non sanno per così dire che la Russia faccia la guerra ai Turchi e perché
non contribuiscono nulla per questa guerra e perché si conserva sugli affari
e sulle novelle un profondo secreto».
Se i baroni ingrassavano grazie ai loro commerci granari; se gli artigiani
vi godevano una buona posizione sociale («Dicono che è cosa ordinaria di
vedere un legnaiuolo e un fabbro i dì di festa con un abito gallonato e colla
spada al fianco»), il popolo e soprattutto i contadini erano «orribili a
vedersi: dira illuvies, immissaque barba». Le donne «sopra tutto quando
han passato il fior di gioventù perdono affatto i lineamenti femminili e
rassomigliano nelle fattezze come nell’abito agli uomini». L’allusione alla
servitù della gleba era ellittica: «Si dice: un tale ha cento rustici […] etc.
poiché i paesani sono affatto schiavi». Nei Viaggi la denuncia di quell’orribile
sistema si farà invece aperta e vibrante: «Quando però io le parlo, Mylord,
della felicità di questo popolo, non vorrei già io ch’Ella vi comprendesse
quella parte, tanto più numerosa delle altre, che lavora la terra…». I
contadini «sono schiavi qui, come in Polonia ed in Russia». Il padrone «gli
vende come il bestiame»73. Ogni «anima» (cioè famiglia) aveva un valore
72 Algarotti, Giornale, ff. (16v), 17v.
73 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 32 (lettera II)
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convenzionale: non si dice «un tale ha tanto di entrata in contante; ma
come in Russia: un tale ha tanti mila contadini; e si fa ragione che al
Signore della terra renda un rublo l’anno ogni testa di contadino».
Arrivato a Kronštadt, l’Algarotti si fa osservatore attento di quella
importante base navale. Le fortificazioni del castello di Kronšlot, creato a
difesa dell’isola di Kotlin, dove giaceva Kronštadt, erano importanti: «è una
delle più forti piazze che siano al mondo». Le opere erano tutte di legno. Ma
si cominciava a far di pietra il molo che s’andava costruendo. E di pietra.
tutta cavata dalle vicinanze di Narva, era un canale che pure s’andava
costruendo della lunghezza d’un miglio e mezzo, largo, tanto da lasciar
comodamente passare due delle più grosse navi da guerra e di profondità
proporzionata in capo al quale si trovano i docks per trarre le navi a secco e
toglierle dalla Neva, le cui acque dolci le facevano marcire. Era un’opera
veramente «da Romani» (ne levava la pianta). Ma era necessaria?
L’Algarotti ne dubitava: «Cui bono questo canale?». L’errore di partenza di
Pietro era stato quello di porre l’ammiragliato e l’arsenale a San
Pietroburgo: «Ma cui bono l’ammiralità a Petersbourg?». Una città tra l’altro
così soggetta al fuoco e così spesso ripiena d’illuminazioni e ben più grave,
che essendo la Neva poco profonda il trasporto delle navi da San
Pietroburgo a Kronštadt doveva farsi alla maniera d’Olanda, con l’aiuto cioè
di un paio di «cammelli», ossia di pontoni posti sotto la chiglia prima
riempiti d’acqua poi svuotati: una bella spesa. Ogni paio di cammelli costava
quarantamila rubli. Un altro grande e profondo canale per condurre i vascelli
da guerra da Pietroburgo a Peterhof senza l’aiuto di cammelli – pur esso
progetto di Pietro – si sarebbe cominciato a scavare alla fine della guerra
turca. L’Algarotti faceva proprio il giudizio degli esperti (probabilmente
l’ammiraglio Aleksander Gordon e il contrammiraglio Christopher O’Brien) e
obiettava: «Ma non sarebbe egli meglio porre a bella prima l’ammiralità a
Kronštadt o piuttosto a Revel?». A Revel’, dove l’acqua era salata «secondo
il Baltico», c’era una bella e grande baia, il mare si disgelava più presto e
non c’erano «tanti cattivi siti da passare nel golfo per menar fuori la sua
flotta». Tanto più che «il vento di sud-ovest» e di ovest «soffiando per lo più
tutta la state» rendeva difficile alla flotta il tirarsi fuori dal golfo di Finlandia:
si sarebbe anche potuto tenere «le galere in Kronštadt o dove sono
presentemente, e fabbricare le pranie, i vascelli a bombe e altri piccoli
bastimenti a Kronštadt, riservando i grandi a Revel». Soluzione quest’ultima
che aveva un altro vantaggio: «Così avrebbon bisogno di navigare alcun
poco e di tenersi in esercizio: del che hanno gran bisogno». Nei Viaggi dirà
epigrammaticamente: «Cotesta pur era la passion dominante dei Czar; aver
navi, averle grossissime, averle e fabbricarle vicino a sé, dove meno
conveniva»74. Tutte queste obiezioni si ritrovano pari pari nei Viaggi e di qui
saranno tolte e fatte proprie dal cavalier De Jaucourt nella sua voce
Petersbourg dell’Encyclopédie. Non ne tenne conto invece, come pur aveva
promesso, Voltaire nel secondo tomo della sua Histoire de l’Empire de la
74 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 48.
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Russie sous Pierre le Grand (1763)75.
Gli architetti navali erano inglesi (e scozzesi), francesi quelli militari,
italiani i civili. Una nave però l’Algarotti vide fabbricata da un russo. Inglese
era Richard Brown che aveva appena costruito l’Anna, di centoquattordici
pezzi di cannone, «la più gran machina che sia forse in mare, che
meriterebbe per teatro l’Oceano non questo fosse pieno di scogli e di
secche» che era il golfo di Finlandia. Ma «una delle più belle navi che veder
si possano» era la Pietro I e II, di cento pezzi di cannone, fabbricata sul
disegno del gran Pietro. La poppa specialmente era «superba». Da buon
allievo di Mauro Tesi, ne fissò sveltamente l’immagine. Al comando di quella
nave l’ammiraglio Gordon era entrato in Danzica nel 1734. Per la verità,
benché vittoriosa della flotta franco-svedese, quella «piteuse exhibition»
non meritava certo di figurare tra i fasti della marina russa.
Fabbricavano le navi con i pezzi già tagliati delle querce che venivano per
acqua da Astrachan’, e fabbricavano allo scoperto, «il che in un paese
soggetto alle grandissime vicende di sommo freddo e di sommo caldo come
questo non può avere che pessime conseguenze per la durata della nave».
In genere duravano dai dodici ai quattordici anni. Kronštadt era un mezzo
cimitero: delle cinquantacinque navi alla fonda in quel porto soltanto
diciotto o venti erano in stato di servire. Tutte le altre, compresa la
Caterina, la nave prediletta di Pietro, erano ridotte a pittoresche carcasse. E
quelle poche in grado di prendere il mare – quel mare insidiosissimo – mal
servivano per la crudele scarsità degli equipaggi. Dei dieci o quindici mila
che erano, i marinai si erano ridotti a soli cinquecento. E con cinquecento
marinai «non so quali grandi spedizioni potranno fare». Gli altri erano tutti
periti nei mari e nelle paludi intorno ad Azov.
Questo deperimento della marina era dovuto alla disastrosa scelta dei
tedeschi al governo, poco ben disposti verso quella che era stata la più
antica e preferita delle creazioni di Pietro: «Hanno perduto […] quasi tutta la
loro marina, voglio dire i marinaj»; avevano disarmato l’importante arsenale
di Kazan’; e quanto all’ammiragliato di San Pietroburgo, al quale Pietro
aveva assegnato trecentomila lire sterline di rendita, che non doveva per
nessuna ragione essere «convertita in altro uso», era stata invece intaccata
per alimentare la guerra russo-turca. Insomma – dirà nei Viaggi – «l’opera
degl’Inglesi; che presiedono qui alle cose di mare, è stata come distrutta
dalle imprese dei Tedeschi, che sono alla testa delle cose di terra»76. E buoni
marinai non si formano con tutta la buona volontà da un giorno all’altro. Per
allevare, in quel paese di contadini, quelle «piante esotiche» occorrevano
infinite cure77. Pietro era riuscito a compiere il miracolo. L’Algarotti, al
principio dubbioso, aveva dovuto ammetterlo: «Il problema a buon conto
75 Voltaire’s Correspondence, XLIV, cit., 1959, p. 184, lettera 8658. [La traduzione
dell’Histoire de l’Empire de la Russie sous Pierre le Grand di Voltaire è sul sito
www.larici.it. (N.d.C.)]
76 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 46 (lettera III).
77 Algarotti, Giornale, f. 55r.
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che sieno diventati essi buoni marinai» era sciolto78. A Helsingor un ufficiale
danese che era stato a bordo dì una delle loro fregate a Danzica nel 1734,
gli aveva detto «meraviglie della disciplina navale russa». «Ogni cosa – così
si era espresso – andava come per via di suste». Aveva ammesso perfino
che erano diventati «molto migliori marinaj che i Danesi»79. La loro marina
mercantile meritava di stare alla pari di quelle più famose: «il non avere un
gran commercio fin ora in parti e in mari estremamente remoti, come
gl’Inglesi e gli Ollandesi hanno, non gli ha ancora fatti pervenire alla fama
loro»80.
La loro forza principale sul mare erano rimaste le galee, che avevano
permesso a Pietro nel 1719-1721 di invadere e devastare la Svezia. La
costruzione in gran numero di quegli agili legni era stata una delle più
intelligenti iniziative dello zar, che al principio (1713) si era servito di
maestranze veneziane. Un superstite di quei fabbricatori di galee l’Algarotti
aveva avuto la sorpresa di incontrare nell’Arsenale. Il vantaggio delle galee
sulle navi grosse era che i soldati stessi ne erano i «remiganti». Ne avevano
allora tra grandi e piccole cento trenta. Armate tutte di due pezzi di
artiglieria, del cannone di corsia e di falconetti dalle sponde, potevano
trasportare un esercito di trentamila uomini. La destrezza dei Russi non
temeva confronti. Semplici soldati, con l’uso della sola accetta, sapevano
costruirne di bellissime. Tutti quei natanti ausiliari non potevano però
compensare l’indebolimento dell’armata di guerra. Benché il paese non
avesse bisogno di una gran flotta, molto giovava nelle relazioni
internazionali l’essere creduti potenti sul mare81.
Se non si poteva trasformare da un giorno all’altro i contadini in marinai,
molto più facile era trasformarli in soldati. L’uomo russo si prestava
meravigliosamente a quella metamorfosi: «la sobrietà, si contentavano di
nutrirsi con pane e sale, la pazienza della fatica e l’assuefazione alle
maggiori durezze e alle maggiori vicissitudini dal freddo al caldo, la bravura
o più tosto una certa durezza che li rende insensibili alla morte» ne
facevano le migliori truppe d’Europa82. Se la fanteria e l’artiglieria non
78 Algarotti, Giornale, f. 11r.
79 Algarotti, Giornale, f. 10v.
80 Algarotti, Giornale, f. 11r.
81 Algarotti, Giornale, f. 55r.
82 L’esercito russo si era fatto con il passare degli anni sempre più temibile in Europa:
nell’estate del 1759 le truppe del generale Soltikov avevano battuto quelle prussiane di
Federico II a Kunersdorf. Nel Giornale il contrasto tra il soldato russo, formato sia pure
duramente, e quello prussiano, fabbricato «meccanicamente», in serie, è crudo: «Si fa a
Potsdam l’esercizio colla medesima esattezza che si vedrebbe fatto nello specchio da
quelle tante immagini del soldato posto dinnanzi a lui» (f. 65v). L’immagine, ma svelenita,
è ripresa nei Viaggi (VIII, 299, 302). Nel Giornale dubitava però che quei corpi resi docili
con un dressage feroce avessero perduto del tutto con la libertà l’«amore di essa»: «se
uscissero in campagna avrebbon bisogno almeno di un doppio numero che le guardasse
[quelle truppe] per prevenire la deserzione» (ff. 65-66r). Ma è pur vero che, nel nuovo
testo, la figura del despota bellicoso (ma non guerriero) fa posto a quella del saggio
riformatore: «Riformatore fu veramente dello Stato, non altrimenti che lo sarebbe del suo
Ordine un Abate […]» (Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 144, lettera VIII). Frase – mi
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temevano confronti, meno brillante era la cavalleria per mancanza di buone
cavalcature. Ma potevano contare sul potente ausilio dei cavalieri Cosacchi e
Calmucchi. Nel paese si fabbricavano fucili a bassissimo costo e migliori di
quelli di Sassonia; la polvere da sparo non costava «si può dire nulla». Alla
Russia dunque fare la guerra costava meno che agli altri stati europei:
Buon’arme e munizioni, militari a buon mercato, picciolo stipendio pe’ suoi soldati, non
gran cura de’ magazzini e perciò poco pensiero di far sussistere le armate, scoglio
altrove delle militari imprese, gente robusta e dura e mascula militaris progenies.
Questo spiegava in parte il fatto che la Russia fosse ininterrottamente in
guerra da quarant’anni, e senza imporre gravezza alcuna: tanto erano
grandi le rendite dal suo impero83. I soldati apprendevano il loro duro
mestiere sulla linea del fuoco, senza esservi stati prima addestrati. Né tutti i
generali, come l’irlandese Peter Lacy, cercavano di risparmiarne la vita; il
tedesco Burchard Münnich in particolare si mostrava affatto «prodigo del
sangue». Nelle ultime campagne contro i Turchi aveva sacrificato centomila
vite umane:
Le perdite che han fatto per le eccessive fatiche, per le marcie forzate ne’ deserti, per
la mancanza d’acqua di cui hanno fatto senza talvolta tre giorni interi, soprattutto di
giovani soldati son grandissime84.
Per riempire i vuoti il numero delle reclute levate durante quella guerra
era «spaventoso»: trecentomila. Mancavano stabilimenti per gli invalidi
come in Francia. Soltanto per i marinai era stato adattato a ospizio
l’Orangerie già del Menšikov85. Gli ufficiali erano a migliaia tedeschi
(cinquemila) e di altre nazioni. Ma il Münnich nel 1731 aveva creato, sul
modello dei mousquetaires di Francia, un Collegio di Cadetti per giovani
nobili, che avrebbe dovuto essere «un semenzaio di ufficiali». Istituzione
tuttavia esattamente contraria allo spirito della riforma petrina dell’esercito,
che aveva disposto che tutti servissero in partenza nei gradi inferiori.
Il “fiore” di tanto esercito – «dieci mila uomini delle più belle truppe che
veder si possono» – erano i tre reggimenti della guardia: i due creati da
Pietro (il Preobraženskij e il Semenovskij) e il terzo creato da Anna,
l’Izmailovskij più l’Ingermanlandskij, quasi un quarto. L’Algarotti vide quei
soldati scelti compiere in maniera impeccabile gli esercizi militari nelle loro
eleganti uniformi di parata (gialle, nere e argentee); e se ne entusiasmò 86.
Il loro còmpito principale era proteggere la sacra persona dell’Imperatrice.
Ma il loro potere andava ben al di là della sua protezione. Come i loro
predecessori strel’cy, spenti orrendamente da Pietro, avevano un enorme
potere politico, come si era visto nel caso di Caterina I, di Pietro II, di Anna
pare – che ha conservato un po’ dell’antico fiele.
83 Algarotti, Giornale, f. 30r.
84 Algarotti, Giornale, f. 29r.
85 Algarotti, Giornale, f. 30r.
86 Algarotti, Giornale, f. 29v.
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Ivanovna: «danno e tolgono l’imperio a posta loro». Erano, in breve, i
«pilastri del despotismo», questa novità. La situazione non era diversa nel
1760.
In principio era dunque la libertà – la partecipazione del paese
all’esercizio del potere – soffocata in seguito dalla creazione di «milizie
perpetue». Schema tipicamente liberale. In Russia il potere dello zar era
stato limitato, fino all’avvento del primo dei Romanov – Michele III –, dallo
Zemskij Sobor. La creazione degli strel’cy aveva tolto a questo «senato»
ogni peso nella conduzione degli affari:
Furono instituiti [gli strel’cy] verso il principio del secolo passato a’ tempi di Michele
Federowitz per contenere il Sobor, o Senato, che livellato avea la potenza dei Czar a
quel segno di autorità che hanno presentemente i Re di Svezia87.
Alludeva alla costituzione del 1720, dettata a Ulrica Eleonora dal Riksdag,
che aveva inaugurato quello che nella storia svedese è chiamato il
Frihetstid88. Durerà fino al 1772, alla prise du pouvoir cioè di Gustavo III. In
realtà lo Zemskij Sobor era stato formalmente istituito da Ivan IV il Terribile
nel 1549, lo stesso sovrano che aveva dotato l’esercito moscovita dei primi
reggimenti permanenti: gli strel’cy ossia moschettieri. Questo istituto, tipico
dell’età moscovita, inizialmente scelto dallo zar ma divenuto nel secolo XVII
elettivo, non poteva propriamente dirsi un senato, ma piuttosto
un’assemblea simile agli États généraux in Francia e alle Cortes iberiche. Gli
zemskie sobory furono convocati spesso dal Terribile: nel 1549, nel 1566,
nel 1575 e forse nel 158089.
Si trattava di un’assemblea consultiva o di un organo deliberante? Ancora
se ne discute. È un fatto che nel 1598 uno Zemskij Sobor aveva incoronato
Boris Godunov e un altro nel 1613 aveva insediato sul trono un Romanov.
Su preghiera del giovane principe, lo aveva anzi assistito per dieci anni nel
disbrigo degli affari. L’Uloženie (la raccolta fondamentale delle leggi russe)
era stato proclamato, regnante Aleksej, nel 1649 per iniziativa e decisione
di uno Zemskij Sobor. Una cosa è certa: questa assemblea numerosa, quali
che fossero i suoi poteri e l’estensione della sua autorità, cominciò a essere
esautorata quando il potere centrale, divenuto assoluto, non tollerò più una
qualunque forma di controllo da parte del paese. La stessa sorte, e per le
stesse ragioni, era toccata assai prima ai suoi omologhi occidentali. È chiaro
a ogni modo l’ideale politico dell’Algarotti, conservato intatto fino ai suoi
ultimi giorni, nell’età cioè del despotismo “illuminato”. Lo aveva formulato
già nel 1737 nella prima edizione del Newtonianismo90: la libertà del popolo
(assemblee elettive) conciliata con la superiorità dei grandi e con l’autorità
87 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 72 (lettera V).
88 Sul dibattito attuale cfr. Storia del mondo moderno, VII, Milano, 1968, pp. 465-482, in
particolare la n. 1 a p. 465.
89 N.V. Riasanovsky, Storia della Russia dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1989,
pp. 194-197.
90 F. Algarotti, Il newtonianismo per le dame, Napoli [ma Milano], 1737, p. 264.
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del sovrano sull’esempio – è ovvio – dell’Inghilterra e quello – meno ovvio
all’epoca – della Svezia. Quest’ultima diverrà di moda dopo il 1756, dopo
cioè il fallimento del colpo di stato di Adolfo I e di Luisa Ulrica (la sorella di
Federico II)91. L’Algarotti, per parte sua, nei Viaggi raddoppierà le sue
manifestazioni di simpatia: «Incredibile […] è il numero de’ vascelli Svezzesi
che navigano presentemente; dove a’ tempi del despotismo se ne vedeano
ben di rado»92. Questo nuovo fervore di attività era effetto diretto della
libertà: «Ella [lord Hervey] sa per altro, Mylord, quanto da alcuni anni in
qua si sieno rivolti gli Svezzesi al mare, alle manifatture, ai traffici. Sono
queste le arti che veramente allignano ne’ paesi liberi, come ora è la
Svezia»93. La sua tesi di fondo.
La Russia nel 1730 aveva tentato di battere la stessa strada; ma quel
tentativo di regime costituzionale era purtroppo abortito:
Si può dire in generale che la cosa che in Russia è portata a maggior perfezione è l’arte
militare e tutto ciò che appartiene all’armata; e se i Russi non hanno ora gran generali
eglino stessi, come ne ebbero al tempo del Czar nella prima infanzia, dirò così della
nazione, ciò dee attribuirsi all’oppressione de’ Tedeschi sotto a cui gemono e alla
politica forse del governo stesso, che vuole innalzare a così importanti dignità de’
forastieri, la cui fortuna è totalmente innestata col presente stato di cose e non que’
Russi che vollero già, animati dal dolce e naturale disio di liberarsi, ridurne il governo a
quella forma di Repubblica appresso a poco che è in Isvezia, all’avvenimento alla
corona della presente Imperatrice94.
Il tema della depressione o addirittura della persecuzione dell’elemento
nazionale – il tema dell’opposizione al regime di Anna e del favorito Biron –
è un motivo costante nel Giornale: «Se un Russo ha qualche abilità è
forzato d’impegnarsi in qualche Collegio malgrado suo o ad essere scrivano
o un miserabile subalterno, perdendo in tal modo la libertà né concependo
nessuna speranza di avanzamento». A nulla serve un buon tirocinio
europeo, al contrario: «se ritorna alcuno da’ paesi forastieri, dove abbia
fatto a poter suo per attirarsi la stima, e la buona opinione del ministro che
lo ha impiegato, in luogo di crescere di posto, ritorna più tosto indietro,
quando è di ritorno a casa». C’erano «degli esempi tragici di tali Russi che
han finito la miseria loro con un laccio al collo»95.
91 [P.H. Mallet], Forme du gouvernement de Suède, Copenhagen et Genève, 1756. Ma già
trent’anni prima, nel 1726, Jacques de Campredon, da cinque anni ministro
plenipotenziario presso la corte di Russia, aveva lasciato un paese pieno di fermenti che a
lui parvero di buon augurio. Per lui la Russia stava avviandosi, alla maniera della Svezia,
verso un governo «établi sur le pied de celui d’Angleterre». Pure per essa stava per aprirsi
«l’era della libertà» (S. Rotta, “Une aussi perfide nation”: la Relation de l’état de Gênes di
Jacques de Campredon (1737), in “Quaderni franzoniani” XI, 1998, p. 620). A suscitare
tali speranze era stata la creazione in quell’anno del Supremo Consiglio Segreto, destinato
ad affiancare l’opera di governo di Caterina I: proprio di quel Consiglio che sarà
protagonista del tentativo del 1730 (Waliszewski, L’héritage, cit., pp. 24-25).
92 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 23 (lettera II).
93 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 22 (lettera II).
94 Algarotti, Giornale, f. 31r.
95 Algarotti, Giornale, ff. 37r-v.
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La Russia viveva insomma in un regime di occupazione militare da parte
di un gruppo di stranieri (tedeschi e protestanti) che cercava in modi
violenti di «mantenersi quella maggioranza e quell’autorità di cui è in
possessione, senza che ci sia il consentimento libero del Senato e dei
Grandi». Perciò quel governo, nato per acclamazione di “pretoriani”, senza
nessun legame col paese profondo, «ha da essere più militare che altro, e
imperium armis acquisitum armis retinendum […]».
In effetti l’Algarotti conobbe, e descrisse accuratamente, la Russia alla
fine del decennio più tragico di quel secolo96: nell’epoca cioè del “bironismo”
(bironovščina), del pesantissimo regime di terrore instaurato dal favorito
Biron: «Il governo è il più arbitrario e lo più spaventevole che sia forse al
mondo». Sistematica l’umiliazione della nobiltà:
Tutti quelli che sono gentiluomini debbono andare malgrado loro alla Corte e fare ciò
che a lei piace di loro; talché si ponno chiamare veri schiavi, e quelli che sono usciti dal
loro paese sentono l’infelicità loro più che gli altri, né lasciano di deplorarla, massime
quando hanno un po’ bevuto97.
Si poteva dire che la nobiltà russa «è tutta rovinata e posta fuori del caso
di esser temuta»98. Tutti coloro che avevano «fatto figura nel regno di
Pietro» avevano avuta la sorte dei «papaveri di Tarquinio»99. Non si
mostrava a San Pietroburgo «casa di gran signore che non vi si aggiunga
che il padron suo o morì in Siberia o è rilegato in una fortezza, o che non se
ne sa più novella alcuna. Heu fuges crudeles terras!»100. In breve: «I signori
sono gli schiavi della corte come i paesani lo sono dei signori»101. Sono – è
cosa degna di segnalazione – le stesse parole che userà Montesquieu nelle
Lois, quando già era cominciato il regno “nazionale” di Elisabetta e i
tedeschi erano stati estromessi dai vertici del potere; «Le peuple n’est
composé que d’esclaves attachés aux terres, et d’esclaves qu’on appelle
ecclésiastiques ou gentilshommes, parce qu’ils sont les seigneurs de ces
esclaves». Non restava nessuno «pour le tiers état, qui doit former les
ouvriers et les marchands»102. Guardava con simpatia agli sforzi compiuti
dal nuovo governo per «sortir du despotisme, qui lui est plus pesant qu’aux
peuples même». E citava alcune delle riforme più importanti: «On a cassé
les grands corps de troupes; on a diminué les peines des crimes; on a établi
des tribunaux; on a commencé à connoître les loix; on a instruit les
96 P. Kovalevsky, Atlas historique et culturel de la Russie et du monde slave, Paris, 1961, p.
104: «Le dix années de son règne [di Anna] seront les plus sombre du XVIIIe siècle».
L’imperatrice «méfiante et railleuse, s’entoure de bouffons et passe son temps en fêtes et
en mascarades […]».
97 Algarotti, Giornale, f. 49v.
98 Algarotti, Giornale, ff. 50r-v.
99 Tarquinio il Superbo non risponde al messaggero del figlio Sesto, ma «in hortum aedium
transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur
baculo decussisse» (T. Livio, Ab urbe condita libri, I, 54).
100 Algarotti, Giornale, f. 50v.
101 Algarotti, Giornale, f. 50r.
102 Montesquieu, Esprit des lois, III, Paris, 1958, p. 168 (libro XXII, capitolo 14).
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peuples». Ma non si faceva troppe illusioni sui risultati di quegli sforzi:
«Mais il y a des causes particulières, qui le ramèneront peut-être au
malheur qu’il [vouloit] fuir»103.
Punto nero nella costituzione voluta da Pietro: la mancanza di una legge
fondamentale per la successione al trono. Era stato ben lui, una volta
soppresso Alessio, ed escluso il figlio di lui dalla successione, ad abolire nel
1722 il diritto di primogenitura e a proclamare che stava in petto
dell’imperatore di nominarsi il successore, «quando anco muojano senza
eredi». Eppure – dirà ancora Montesquieu, – «l’ordre de succession» era
«une des choses qu’il importe le plus au peuple de savoir». E faceva
indubbie allusioni (sfuggite ai commentatori) a quanto era accaduto in
Russia a causa di quella sciagurata decisione di Pietro: «Une telle disposition
arrete les brigues, étouffe l’ambition; on ne captive plus l’esprit d’un prince
faible, et l’on ne fait pas parler les morts»104. Tra l’altro la Corte imponeva
un lusso rovinoso:
Altre volte i boiari erano obbligati dal Czar a far costruire un vascello; ora sono
obbligati a fare un certo numero di vestiti per anno pe’ giorni di gala alla Corte; ed
ultimamente per le feste del matrimonio i ciambellani, genere di cui non è il più
soggetto né il più schiavo al mondo, otto in tutto condannati a una perpetua catena,
ebbero ordine di fare 4 abiti ciascuno ricchi il più che si potesse mai, di avere quattro
staffieri e due lacchè ciascuno con nuove livree.
Per fortuna, quell’ostentazione forzata di ricchezza si limitava agli abiti:
«Guai alla Russia se il lusso fosse negli equipaggi, nelle carrozze e ne’ mobili
delle case come lo è nei vestiti». La bilancia dei pagamenti ne sarebbe stata
ancor più squilibrata: «Ma bisogna dire – commentava agro – che come
sono magnifici negli abiti, altrettanto sono meschini nelle carrozze e succidi
nelle loro case»105. Si poteva dire che, a parte qualche raro gentiluomo, «il
resto abita nel succidume e nella bruttura».
Se il regime, per così dire, di occupazione militare spiegava le atrocità del
governo, lo stesso creatore della nuova Russia non andava esente da
censura:
Per l’umanità ancora può dirsi non già che molte delle severe esecuzioni ch’egli fece
non fossero necessarie per castigare i ribelli che di tempo in tempo contro di lui
sorgeano e per avanzare la grand’opera della riforma ch’egli far volea (se pure la
pulitezza e la scienza s’introduce in un paese a forza di bastone e di forca); ma non
era già necessario ch’egli stesso assistesse in persona alle esecuzioni e ne facesse
molte di sua propria mano106.
Obiezione sensata, che troviamo in un fine studioso contemporaneo del
mondo russo, Alain Besançon: «In Europa, ed anzi persino in Asia, è mai
accaduto che un re abbia trasformato il suo palazzo in camera di tortura,
103 Così nelle edizioni del 1748 e 1749. In quella del 1757: “voulait”.
104 Montesquieu, Esprit des lois, I, cit., 1950, p. 121 (libro V, capitolo 14).
105 Algarotti, Giornale, f. 41r-41v.
106 Algarotti, Giornale, f. 40v.
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come fece Pietro il Grande? O che abbia accettato di adempiere
personalmente l’ufficio di boia?»107. Malgrado la sua brutalità e diciamo pure
la sua ferocia,
poteva dirsi tuttavia ch’egli avea fatto molto e che niuna nazione così prontamente
emerse dalla barbarie conte fe’ questa, il che io attribuisco in grandissima parte al
despotismo del gran Czar e alla grandezza e forza naturale della nazione benché
barbara; le quali due cose poste insieme doveano dar gran segni di mutazione se mai
veniano a mutarsi e farlo sentire al mondo, dirò così, a gran colpi108.
Tutti gli autori francesi che avevano potuto consultare – tutti, compreso il
mite abbé de Saint Pierre (Réflexions […] sur Charles XII, 1734) –
giudicavano la despoticité (è il termine usato dal Saint Pierre) uno
strumento di progresso. Così Fontenelle, che tessé nel 1725 l’elogio di
quell’illustre confrère all’Académie des Sciences109; così l’amico Voltaire nella
sua Histoire de Charles XII (1731)110. Tutto nuovo era però il riconoscimento
della «grandezza e forza naturale» della nazione che lo aveva assecondato.
Alle manifestazioni di crudeltà andavano del resto unite in quell’uomo
dall’energia incontenibile, forme patologiche di sentimentalismo: scendeva,
per esempio, dalla sua sedia «per seguire un morto che vedesse passare
per la strada a piangere col resto della processione»111.
Una delle sorprese del Giornale è il ritratto benevolo dell’anima nera del
regime: Biron, che da poco Augusto III aveva fatto duca di Curlandia: «Egli
è un uomo di assai buon senno e di buona condotta, e per la gratitudine che
mostra alla sua benefattrice e per la maniera onde si comporta fra’ Russi,
fra’ quali si contenta senza volere altro impiego di essere il favorito della lor
sovrana, pronto a giovare e tardo a nuocere, imbarazzato per altro a fare il
personaggio di sovrano, senza educazione né disinvoltura alcuna ed amante
oltre modo i «buffoni maghi», de’ quali questa corte abonda»112.
Sull’Imperatrice, per la quale abbiamo visto l’Algarotti smaniare
sfacciatamente con il Kantemir, era invece prudente rilevandone con acume
i difetti: «Ella è oltremodo divota, amante del lusso e del fasto e della
gloria, protettrice di buffoni, sprezzante di bassezza e nimica, cred’io, degli
affari, sui quali si confida col duca». Non gli sfuggì neanche il carattere
violento dei suoi svaghi: in particolare, il tiro a segno «nel che è
peritissima»113.
Assidua
frequentatrice
di
vescovi
(«si
baciano
vicendevolmente la mano») essa aveva tuttavia fatto di recente una legge
107 A. Besançon, Prefazione, a M. Raeff, La Russia degli zar, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1999,
p. XIV.
108 Algarotti, Giornale, ff. 40v-41r.
109 La traduzione di Bernard le Bovier de Fontenelle, Elogio dello zar Pietro I (1725) è sul sito
www.larici.it. (N.d.C.)
110 A. Lortholary, Les Philosophes du XVIIIe siècle et la Russie. Le mirage russe en France au
XVIIIe siècle, Paris, 1948, pp. 12-38.
111 Algarotti, Giornale, f. 57v.
112 Algarotti, Giornale, ff. 48r-v.
113 Algarotti, Giornale, f. 48v.
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intesa a diminuire il numero dei monaci in linea con le intenzioni di Pietro 114.
Sui monaci, il giudizio dell’Algarotti non è meno ostile di quello dei Locatelli,
e forse ne è un ricordo115. Quelli del convento di Sant’Aleksandr Nevskij –
«gran fabbrica senza gusto e senza simmetria» disegnata da Pietro – si
mostravano «divoti a questo santo e all’acquavite», «ben pasciuti, lucidi e
grassi». Vescovi e monaci erano ignoranti «come prima». Il vescovo che
aveva tenuto il sermone dinnanzi all’Imperatrice il giorno del matrimonio
«fu riguardato come un prodigio di erudizione perché mostrò sapere la
genealogia della casa di Wolfenbuttel»116. Ma si erano mostrati, durante le
feste, compìti uomini di mondo. Curioso era il trono collocato nel fondo della
grandissima sala del Palazzo d’Inverno, tutta dorata e dipinta, dove
l’Imperatrice dava le udienze: «parte nel gusto di un trono e parte di altare,
e perciò conveniente all’Imperatrice […] e al sommo Pontefice»117. Ne fissò
l’immagine. Lo stato doveva in ogni modo conservarsi laico, e non interferire
in materia di fede: «benché qui l’Imperatore come Capo […] della chiesa
possa a piacer suo dogmatizzare e definire, egli è però meglio che il Santo
Sinodo non gli dia questa noja»118.
«La corte, come dicemmo, è sempre la stessa trista e meschina, piena di
baciamani, di umiliazioni, di serietà e di noja e coperta di valdrappe d’oro e
d’argento». Le dame che la frequentavano erano generalmente delle belle.
Belle del resto erano tutte le russe, «molto più piccanti delle altre bellezze
del Nord». Purtroppo, «la schiavitù in cui generalmente sono in questo
paese e la mala educazione che ricevono non le lascia essere aggradevoli
come senza ciò sarebbino»119. L’emancipazione femminile, anche per
Montesquieu, avrebbe favorito l’evoluzione del sistema russo di governo
verso forme temperate: «Le despotisme du prince s’unit naturellement avec
la servitude des femmes; la liberté des femmes, avec l’esprit de la
114 Algarotti, Giornale, f. 45v.
115 Locatelli Lanzi, Lettere dalla Moscovia, cit., p. 75: I monaci erano «per lo più ubriaconi»,
vivevano «in ozio criminale abbandonandosi a ogni sorta di vizio. Nei loro conventi regna
la superstizione molto più che altrove […]. Pensano solo a vivere comodamente, senza
lavoro né affanni: si chiudono nei monasteri solo per timore di morire di fame, o di finire
nell’esercito». Tutto negativo invece il giudizio sull’esercito (p. 163) e in genere sulla
natura e le aspirazioni profonde del popolo russo: «La maggior parte di essi afferma ad
alta voce che essere obbligati al servizio militare, per terra o per mare, ha aumentato la
loro schiavitù. Con questa idea, che svela la loro natura vigliacca e indolente, essi
considerano la marina e tutte le conquiste compiute come le fonti principali dei loro mali.
La cosa che più desiderano è un cambiamento totale all’interno dello Stato, che rovini per
intero le nuove istituzioni e permetta loro di vivere nella pigrizia e nell’inazione» (p. 165).
Come si vede, non si può in modo alcuno esagerare l’influenza di questo libro pieno di
disprezzo verso i Russi sull’Algarotti, che dalla Russia era tornato entusiasta del popolo
russo («tout le bien que vous dites de ma nation»: A. Kantemir a F. Algarotti, Parigi, 6
novembre 1739; Grasshoff, cit., p. 176).
116 Algarotti, Giornale, f. 45v.
117 Algarotti, Giornale, f. 23v.
118 Algarotti, Giornale, f. 56r.
119 Algarotti, Giornale, f. 49r-v.
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monarchie»120.
Delle dame della corte, due colpirono Algarotti: Anna Leopol’dovna, la
sposa del giorno, e Elisabetta. Gran simulatrice, costei fingeva di accettare
di buona grazia l’esclusione dal trono: «La povera Principessa Elisabetta,
figlia del gran Pietro, porta la sua croce in santa pace e ne tempera
l’amarezza e il peso con molta affabilità e cortesia»121. Di Anna l’Algarotti
era invece infatuato: «La principessa Anna è bella e ha un non so che di
piccante nella fisionomia che piace ed alletta più che la bellezza stessa». Era
ambiziosa certo («Ella ha l’aria d’esser volonterosa anzi che no»), ma aveva
motivo di esserlo: «ottimamente educata e piena di grandi idee», faceva
molto sperare di sé: «se questa sarà Imperadrice, come è verisimile, sarà
l’Elisabetta [Tudor] del Nord colla sola differenza ch’ella avrà con cui far
razza ch’ella però dall’altezza sua disdegnava assai»122. Non poteva
prevedere quanto spiÉo sarebbe stato tra poco l’urto di quelle due donne.
Il despotismo impediva lo sviluppo culturale: «Quanto alle lettere io credo
ch’elleno sieno incompatibili colla natura d’un governo come il russo»123.
Non vi era un russo tra gli accademici delle scienze a tredici anni dalla
fondazione di quell’istituto; i corsi pubblici di astronomia tenuti dall’unico
francese tra tanti tedeschi che gremivano l’Accademia, Jean-Nicolas Delisle,
andavano deserti. L’Accademia era però una cittadella soprattutto di
matematici, e di alti matematici (Daniel Bernoulli, Eulero…) un luogo chiuso,
esclusivo. Per scuotere l’apatia o l’indifferenza agli alti studi occorreva una
forte stimolazione dall’alto, o semplicemente scuole per tutti124. Ma era
impensabile che quel governo così despotico, che esigeva «un’implicita
obbedienza» ne prendesse l’iniziativa: temeva che l’«ornare e coltivar lo
spirito del popolo» provocasse una meno pronta e cieca obbedienza. Eppure
l’esempio della Francia avrebbe dovuto disperdere quei timori. Lo stato
francese era anch’esso despotico e restrittivo della libertà di pensiero125. Ma,
120 Montesquieu, Esprit des lois, III, cit., 1958, pp. 16-17 (libro XIX, capitolo 15).
121 Algarotti, Giornale, ff. 48v-49r.
122 Algarotti, Giornale, f. 49r.
123 Algarotti, Giornale, f. 55r.
124 Nel 1723 in tutto l’Impero c’erano centodieci scuole elementari laiche e quarantasei istituti
ecclesiastici (Th. G. Masaryk, La Russia e l’Europa, tr. it. a cura di E. Lo Gatto, I, Bologna,
1971, p. 64, n. 2).
125 Questo giudizio risente forse della letteratura politica del Refuge (l’autore soprattutto dei
Soupirs de la France esclave, qui aspire après la liberté, Amsterdam 1689-1690: uno dei
Mémoires che formano quest’opera porta il titolo Les tristes effets de la Puissance
arbitraire et Despotique de la Cour de France). In questo caso, il canale potrebbe essere il
Desaguliers. Ma si potrebbe anche risalire ai libelli della Fronda contro l’illimitato potere di
Mazzarino, che aveva fatto della monarchia di Francia una monarchie despotique. Per
l’Algarotti, il despotismo francese era contraddistinto dalla censura delle stampe (ne aveva
fatto esperienza lui stesso da poco) e dal divieto del dibattito religioso. La «direction de la
librairie» era ancora a quest’epoca una delle funzioni essenziali del cancelliere, agli ordini
del quale lavoravano verso il 1750 ben ottantadue revisori, uno per specialità (Ph.
Sagnac, La formation de la société française moderne, II, Paris, 1946, pp. 10-12). Alla
metà del secolo, il marchese d’Argenson si domanderà: «La France est-elle une monarchie
temperée et représentative ou un gouvernement à la turque? Vivons-nous sous la loi d’un
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nonostante «una certa universal cultura», il popolo era ubbidiente, anzi era
un “monumento” di ubbidienza, di devozione alla corona126. Non sapeva
però lui stesso quanto valesse questo confronto: «non si può indi nulla
concludere»127.
Nel resoconto della visita all’Accademia, l’Algarotti dedica molto spazio a
quanto venne a sapere della memorabile esplorazione della Siberia e
dell’Estremo Oriente che la Russia andava compiendo. Nessuno però gli fece
notare quanto alta e qualificata fosse la partecipazione dei Russi a
quell’epica impresa, che proprio in quegli anni, nel decennio 1733-1743,
stava toccando il suo apice: la seconda spedizione di Bering aveva messo in
moto almeno seicento persone128. Tra l’altro, quelle gigantesche imprese – le
più costose che mai Stato avesse finanziato – erano la causa delle poco
floride condizioni dell’Accademia sul bilancio della quale gravavano. Inoltre i
dissidi interni e soprattutto i cattivi trattamenti che avevano ricevuto
avevano indotto alcuni membri alla fuga, rendendo l’istituzione in quel
momento poco brillante129. Gli esperimenti da essa promossi erano o futili o
cervellotici130. Ma possedeva almeno delle ragguardevoli raccolte: quella di
molti disegni di animali e piante della Siberia e le due – quella
131
dell’impareggiabile
imbalsamatore
Ruysch
e
quella
adunata
maître absolu, ou sommes-nous régis par un poivoir limité et controlé?» (Mémoires,
edizione Rathery, IV, anni 1753-1754). E. Le Roy Ladurie definisce invece quest’epoca
«absolutisme bien temperé» (L’Ancien Régime de Louis XIII à Louis XV (1610-1770), II,
L’absolutisme bien temperé (1715-1770), Paris, 1991). Su tutta la questione cfr. R.
Koebner, Despot and despotism: vicissitudes of a political term, in “Journal of the Warburg
and Courtauld Institutes” XIV, 1951, pp. 275-302; S. Stelling-Michaud, Le mythe du
despotisme oriental, in “Schweitzerische Beiträge zur allgemeimeinen Geschichte”, XVIIIXIX, 1961, pp. 318-346; G. C. Roscioni, Beat Ludwig von Muralt e la ricerca dell’umano,
Roma, 1961, pp. 27-52.
126 Algarotti, Giornale, f. 55v.
127 Algarotti, Giornale, f. 55 v.
128 Waliszewski, L’héritage, cit., pp. 214-215: «De 1733 à 1743 la sèconde expédition de
Behring prit des proportions colossales, mettant en mouvement jusqu’à 600 explorateurs.
Par groupes indépendants, par terre et par mer, Malguine, Skouratov, Ovtsyne,
Protchichtchov, Kharitonov, Laptiév relevèrent les côtes de la Sibérie depuis la mer
Blanche jusqu’à l’embouchure du Kolyma, pendant que Behring avec la division principale
visitait les îles Kourilles, touchait au Japon, passait en Amerique, découvrait plusiers îles
près de la presq’île d’Alaska et mourait dans une d’elle. Delisle faisait partie de
l’expedition» (morirà nel 1741 nella Kamciatka). L’Algarotti, sugli scopi della spedizione, è
precisamente informato: «Il Capitano Perrin Danese ora per la seconda volta insieme con
Mr de Croyère è andato per discoprire se questa parte della Russia ha comunicazione
alcuna colla America» (Giornale, f. 34r). In primo piano figurano, come del resto è giusto,
i direttori stranieri di quelle imprese (V.V. Barthol’d, La découverte de l’Asie. Histoire de
l’orientalisme en Europe et en Russie, Paris, Payot 1947; M. Devèze, L’Europe et le
monde à la fin du XVIIIe siècle, Paris, 1971, p. I, cap. III-IV: “Les Russes dans le
Caucase; Les Russe en Sibérie et en Alaska”). Ma non bisogna dimenticare la solida e
disciplinata collaborazione russa.
129 Boss, cit., p. 115.
130 Algarotti, Giornale, ff. 32v-33r.
131 E. Guyénot, L’évolution de la pensée scientifique. Les sciences de la vie aux XVIIe et
XVIIIe siècles. L’idée d’évolution, Paris, 1957, pp. 136-137: «Il conservait depuis plus de
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dall’instancabile cacciatore di rarità naturali che era stato l’olandese Albert
Seba – che Pietro aveva acquistato all’epoca del suo secondo viaggio
europeo (1717)132. La grande opera alla quale lavorava da dodici anni
Joseph-Nicolas Delisle era la confezione di una nuova carta dell’Impero,
migliore di quella delineata dal suo miglior fratello Guillaume,
l’ascoltatissimo amico di Pietro. I Delisle, questa grande famiglia normanna
di geografi, erano – annota l’Algarotti – «destinati a descrivere ai principi la
Terra»133. Quell’Atlante Accademico, che i più moderni biografi asseriscono
essere stato da lui lasciato inconcluso, uscirà invece nel 1745 e rimarrà
insuperato nella descrizione delle coste settentrionali della Siberia fino al
1878, allorché il Nordenskjold vi apportò qualche lieve correzione134.
L’Algarotti non rimase indifferente a quel grande lavoro di ricognizione e si
mostrò curioso dei risultati della seconda spedizione di Bering e delle tre
partite in quegli anni per meglio definire la zona tra l’Ob, lo Enisej, la
penisola di Tajmyr e la parte meridionale della Novaja Zemlja135. Ed esaminò
con diletto i materiali – libri, medaglie, manufatti – provenienti da
Calmucchi e da Mongoli. Tra l’altro egli ebbe la ventura di conoscere il
giovane giapponese Gonza, un naufrago, battezzato nel 1734 con il nome di
vingt ans “de petits cadavres momifiés, qui, dit-il, avaient plus l’apparence de vivants
andormis que de cadavres inanimés”». Aveva trasmesso il segreto della sua tecnica al
figlio «mais dans la suite il fut perdu». Algarotti non nascose la sua meraviglia: «Ma la più
bella cosa in genere di storia naturale che veder si possa è il gabinetto di Ruisch, che qui
si conserva, dove sonovi le più belle iniezioni che sieno giammai da mano anatomica, e
dove la storia della generazione è intera dalla concezione dir puossi fino al parto. Havvi
tra gli altri un feto inviluppato del corion pieno di liquore che è una meraviglia. La
freschezza delle carni etc. è mirabile come si conservi ancora. Elleno paiono di cera»
(Algarotti, Giornale, ff. 35v-36r; Franceschetti, Francesco Algarotti e l’Accademia di
Pietroburgo, cit., p. 596).
132 A. Seba, Locupletissimi Rerum Naturalium Thesauri Accurata Descriptio, 4 voll.,
Amstelodami, 1734. Il Seba (1665-1736), funzionario delle Compagnie delle Indie
Orientali, venduto che ebbe a Pietro il suo primo gabinetto di curiosità, ne adunò un altro,
descritto con belle planches, nei volumi citati. Essi attrassero l’interesse di un gruppo
sceltissimo di naturalisti francesi (Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire, Valenciennes, etc.) che, a
partire dal 1827, si misero a ristamparli. Il marsupiale esaminato dall’Algarotti proveniva
da questa raccolta (Algarotti, Giornale, f. 35r; Massie, cit., p. 690).
133 Algarotti, Giornale, f. 33v.
134 Barthol’d, cit., pp. 245-246; Russischer Atlas, British Library, Maps C.21.e.1(1); K.
Svenske, Matériaux pour l’histoire de l’établissement de l’Atlas de l’Empire russe, édité
par l’Académie des Sciences en 1745, Saint-Petersbourg, 1866 (supplemento al tomo IX
dei “Mémoires de l’Académie Impériale des Sciences”, II). Terzo figlio dello storicogeografo Claude e di Nicole-Charlotte Millet de la Croyère, trascorse in Russia ventidue
anni, dal 1725 al 1747: anni laboriosi ma non proprio felici. Tra l’altro aveva escogitato in
concorrenza con il Fahrenheit (1721) un nuovo termometro (che l’Algarotti maneggiò) nel
quale lo zero corrispondeva alla temperatura dell’acqua bollente. Algarotti vide l’opera
dell’atlante in fieri («egli ce ne mostrò di gran pezzi già fatti»: Algarotti, Giornale, f. 34 r).
S.L. Chapin afferma che la «large-scale and accurate map of Russia» era stata da lui
«projected, but unrealized» (Gillespie, Dictionary, IV, cit., 1971, sub voce, pp. 22-25). E
St. Le Tourneur gli dà addirittura del ladro: «en 1754, il vendit au Roi […] sa bibliothèque
et les inestimables collections qu’ils rapportait indûment de la Russie» (Dictionnaire de
biographie française, X, Paris, 1965, p. 842).
135 Barthol’d, cit., p. 243.
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Damian Pomorzef, l’animatore unico della “Scuola per lo studio del
giapponese” creata nel 1736 presso l’Accademia delle Scienze. Di lì a poco,
in età di appena 21 anni, il giovane mori, e con lui la scuola136. Della Cina e
della Tartaria ammirò la «grandissima carta» fatta dai gesuiti (il Novus Atlas
Sinensis, 1655 del padre M. Martini?) ed alcune carte celesti disegnate da
cinesi «nelle quali i nomi che danno alle costellazioni sono tutti tratti
dall’Impero Cinese, unico mondo per loro»137. Battuta fulminante
sull’autocentrismo della cultura cinese.
Gli effetti del despotismo erano visibili nell’assetto urbano di San
Pietroburgo. Una città come questa, che godeva di un’invidiabile situazione,
avrebbe potuto diventare «una delle più belle città del mondo». Ma era
stata edificata con tale malgarbo, con tale fretta e con tanto scadenti
materiali che era già tutta decrepita: «la poca cura che generalmente hanno
nel fabbricare; il farlo come fanno forzatamente, è cagione della maniera
meschina con cui son fabbricate le lor case»138. Il governo intimava che
venisse fatto questo o quello; e «bene o male» era obbedito. Gli ordini
impartiti da un potere così assoluto erano altrettanti fiat. Purtroppo
«l’ubbidienza non produce gran bene». Le case da poco costruite già
andavano ricostruite. Lo stesso Nuovo Palazzo d’Inverno (era il terzo), la
maggior fabbrica della città, modesta opera del giovane Bartolomeo
Rastrelli, non era ancora terminato che fra poco si sarebbe dovuto
ricostruire (previsione avverata)139. Quanto al suo stile, a un odiatore del
barocco qual era l’Algarotti, non poteva che riuscire sgradito140:
«l’architettura di questo Palazzo è mezzo italiana e mezzo francese o
piuttosto del moderno e sciocco gusto italiano, come sono la maggior parte
delle fabbriche in Petersbourg»141. Ricordò con lode la «grandissima sala di
cento ottanta piedi di lunghezza, tutta dorata e dipinta. Ella è tutta intorno
ornata di colonne d’ordine corinzio fra quali resta nel fondo il trono […]»142.
Era qui che si fece nelle feste del matrimonio la «gran cena, rilevata d’un
gran concerto di musica istrumentale e vocale». Anche la galleria era «una
bella stanza ornata tra il gusto italiano e francese, dorata tutta con grandi
lampade di cristallo e parquetée alla francese come pure la sala». In essa
136 Ibid., p. 230.
137 Algarotti, Giornale, f. 34v.
138 Algarotti, Giornale, f. 46v.
139 E. Lo Gatto, Gli artisti italiani in Russia, II, Gli architetti del secolo XVIII a Pietroburgo e
nelle tenute imperiali, Milano-Roma, 1993, p. 47. Il quarto grandioso Palazzo d’Inverno
sarà costruito sempre dal Rastrelli tra il 1754 e il 1762 (Ibid.).
140 Cfr. l’opera citata nella nota 1 di S. Kaufman. Sempre fresche le considerazioni di A.
Gabrielli, L’Algarotti e la critica d’arte in Italia nel Settecento, in “La critica d’arte”, XIII,
1938, pp. 155-169; XIV, 1939, pp. 24-31. Va notato l’entusiasmo per l’Arsenale di Berlino,
«il più bel pezzo d’architettura che senza dubbio sia nel Nord» (Algarotti, Giornale, f.69v).
Era opera di Johann Arnold Nering (1659-1695), “il Palladio del Nord”, il creatore del
“Preussisch Stil” (Allgemeine Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur
Gegenwart, a cura di U. Thieme, F. Becker, XXV, pp. 390-391).
141 Algarotti, Giornale, f. 23v.
142 Ibid.
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«si cangiarono gli anelli degli sposi dopo la grande udienza, qui si danzò e
qui un’altra sera vi fu una tavola per li quadrilli delle mascherate, la meglio
intesa e del meglio gusto che mai immaginar si possa»143. Nella gran sala vi
erano tappezzerie fatte dai Russi: «Non si può dire che il lavoro né sia
troppo perfetto né tampoco il disegno, che è dei più abominevoli». Molto
migliori le tappezzerie di seta della Cina «nelle quali è tessuta carta d’oro e
d’argento»: «il che fa un assai aggradevole effetto alla vista»144.
Bella era la Cattedrale dei Santissimi Pietro e Paolo dentro la fortezza
(«ella è più tosto per comandar la città che per difenderla»): opera del
ticinese Domenico Trezzini «si può dir molto bella per questo paese e nel cui
vestibolo vi hanno delle colonne di marmo (cosa insolita e rara qui […])»145.
Ammira questa volta senza riserve i tre giardini della città, «elegantissimi
tutti, distinti di viali coperti di berceau, di boschetti, di canali, di laghetti, di
aviari, di piscine, di fontane e di parterre». Nelle stufe e nelle varie tende
turchesche disseminate qua e là vi erano «ogni sorta di frutta e piante
rare». Nella celebre “grotta” del giardino del Palazzo d’Inverno vi era
qualche pezzo antico non spregevole. L’Algarotti aveva notato in particolare
due statue velate del virtuosistico scultore padovano vivente Antonio
Corradini – la Religione e la Fede – «molto belle per la delicatezza e
sottigliezza del lavoro». Notevole il giudizio sui meravigliosi giardini di
Peterhof, classificati di solito dagli studiosi (perché disegnati da tre francesi:
l’architetto Le Blond, il pittore Pillement, lo scultore Nicolas Pineau) come
giardini alla francese146. L’Algarotti, buon conoscitore, annota: «La casa
[Monplaisir] è picciola, belle le acque, i giardini di gusto tedesco e la vista la
più piacevole dei Nord»147. La città possedeva due teatri: uno sul fondo del
giardino del Palazzo d’Inverno «dove altre volte faceasi la commedia» (ossia
la commedia dell’arte)148 e quello grande, bello e capace due volte il teatro
143 Algarotti, Giornale, f. 24v.
144 Ibid.
145 Algarotti, Giornale, f. 44r-44v.
146 L. Réau, L’Europe française au siècle des lumières, Paris, 1971, pp. 131-132: «en bon
élève de le Nôtre, il [Le Blond] a transplanté sur les bords de la Néva et du golfe de
Finlande, au Jardin d’été (Lêtny Sad) et à Peterhof l’idéal du jardin à la française». Cfr.,
contra, D.S. Lichačëv, La poesia dei giardini, tr. it. Torino, 1996, p. 132: «nell’insieme
Peterhof non ricorda la Francia, né tanto meno Versailles […]. Si possono riconoscere
influssi tedeschi, italiani, scandinavi, ma anche questi rielaborati secondo il gusto
personale di Pietro». Ai giardini dell’età petrina sono dedicate le pp. 123-144.
147 Algarotti, Giornale, f. 51r.
148 E. Lo Gatto, Storia del teatro russo, tr. it. Firenze, 1951, p. 48: «Data dell’inizio di tale
penetrazione [italiana] è considerato di solito l’anno 1735, quando a Pietroburgo arrivò il
compositore maestro Araia, ma già da prima, nel 1730, gli italiani avevano conosciuto la
Russia, mandativi dal re polacco Augusto II in occasione dell’incoronazione di Anna. Il
gruppo di commedianti e cantanti italiani aveva alla sua testa, oltre al maestro
compositore Reinhard Kaiser, anche l’attore comico Tommaso Ristori. Le rappresentazioni
ebbero luogo a Pietroburgo negli anni fino al 1738 – fossero esse tenute dal Ristori al
principio o da altri in seguito – ebbero luogo dapprima in appartamenti privati e solo dal
1734 in una sala appositamente preparata nel Palazzo d’Inverno dall’architetto italiano
Bartolomeo Rastrelli […]. Il repertorio era quello caratteristico della “Commedia dell’arte”
e degl’intermezzi».
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dell’Opera di Parigi, del Palazzo d’inverno, dov’era ospitata dal 1735 la
grande orchestra e coro diretti dal maestro napoletano Francesco Araja,
compositore di buona scuola. Dall’autunno del 1738 però, per il congedo di
diversi artisti, l’Araja non poté più mettere in scena grandi spettacoli teatrali
(l’opera in musica annoiava l’imperatrice) e aveva limitato la sua attività alla
musica di corte: cantate, pastorali, intermezzi149. E una pastorale,
Endimione e la luna, eseguì in occasione delle feste. La musica parve
all’Algarotti «assai indifferente»150.
Una lunga sezione del Giornale è dedicata all’esame dell’economia russa
(risorse, popolazione, commercio, industrie) e della sua posizione
internazionale151. Non era stato facile raccogliere notizie su queste materie.
Il governo era gelosissimo dei suoi arcani: «non v’ha paese al mondo, in cui
il segreto intorno alle cose di stato e alle bagatelle ancora sia più
invincibilmente guardato». Ma l’Algarotti aveva i suoi bravi informatori:
l’ammiraglio Aleksander Gordon; il contrammiraglio Christopher O’Brien;
Claudius Rondeau, già console generale (1728) poi dal 1731 residente della
Gran Bretagna e il suo segretario Mister Bell; il ministro austriaco Botta; il
mercante inglese Crammer, presso il quale alloggiavano; il barone Lang…152.
Ormai sicura dentro i confini del suo immenso impero, la Russia non aveva
più da temere aggressioni da parte dei suoi vicini, in Europa e soprattutto in
149 Francesco Araia o Araja (1709-1779?) venne scritturato nel 1735 dall’avventuroso
violinista napoletano P. Mira (“Pedrillo”), incaricato dalla zarina Anna di reclutare in Italia
una compagnia lirica e coreografica per il servizio di corte. L’Araja giunse a San
Pietroburgo alla fine del 1735 e vi rimase con interruzioni fino al 1762, quando, «ricco e
celebre», si ritirò a Bologna (Dizionario Biografico degli Italiani, III, 1961, pp. 708-711;
The New Grove Dictionary of Music and Musicians, edited by S. Sadie, I, London, 1980,
pp. 539-540; Storia dell’opera, diretta da A. Basso, vol. I, t. 2, Torino, 1977, pp. 87-90).
150 Algarotti, Giornale, f. 26r.
151 Algarotti, Giornale, ff. 37v, 47v, 51v-57v.
152 Algarotti, Giornale, ff. 19r, 22v, 23v, 30r, 43r; Algarotti, Viaggi di Russia, cit., pp. 44, 58,
66 (lettere III e IV). La frettolosità della partenza non gli consentì – pare – di utilizzare
qualcuna delle opere, allora in circolazione, sulla Russia petrina: oltre al Perry (vedi supra,
n. 22) il Diarium di J. G. Korb (Viennae, 1700?), i Voyages di C. de Bruin (Amsterdam,
1718), i Mémoires di I. Nestesuranoi (Jean Rousset de Missy, La Haye, 1725-1728); i
Voyages di A. de la Mottraye (La Haye, 1728), tranne forse le Lettres del Locatelli (vedi
supra, n. 22). La Gran Bretagna, dopo la morte di Giorgio I, stava diventando in Europa a
ogni modo l’osservatorio più attento (M.S. Anderson, Britain’s Discovery of Russia 15531815, London, 1958). L’Algarotti lesse, prima o dopo il viaggio, qualcuna delle opere
uscite in quegli anni: Th. Consett, The Present State and Regulations of the Church of
Russia, 1729; J. Mottley, The History of the Life of Peter the First Emperor of Russia,
1739; J. Banks, The History of the Life and Reign of the Czar Peter the Great, 1740).
Entrato nel Sund – per fare un esempio – ricorda in una nota marginale che nel 1716 un
esercito russo-danese, appoggiato da squadre navali inglesi e olandesi al comando dello
stesso Pietro, si preparava a sbarcare nella Svezia meridionale: «Tutte queste coste,
queste baie e questi mari furono misurati e scandagliati dal Czar Pietro il grande nel
tempo del suo soggiorno a Coppenhagen quando si tramava il famoso sbarco in Schonen,
che non ebbe poi luogo. L’istesso anno il Czar comandò le flotte inglesi, ollandesi, danesi e
russe unite insieme senza peraltro nulla intraprendere. Ebbe questo vano piacere»
(Algarotti, Giornale, f. 12r; Anderson, cit., cap. 4).
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Asia153. Insensata sarebbe stata la ricerca di ulteriori espansioni territoriali,
«avendo più bisogno questo paese di restringersi per così dire che di
dilatarsi viappiù»154. Tant’è vero che nel 1735 aveva dovuto abbandonare le
conquiste fatte da Pietro nella regione dei Caspio155. Poteva dunque deporre
la spada e dedicarsi alle arti della pace156. In primo luogo, occorreva
ripopolare il paese, l’Ucraina soprattutto, stremato da quarant’anni di
guerra: «Non si può dire quanto la pace sarebbe desiderabile per questo
Impero». Sempre «che saranno in guerra, come dal principio del secolo il
sono quasi di continuo stati, non potranno giammai godere pienamente i
frutti della riforma del gran Pietro»157. A questo fine, il dimezzamento degli
effettivi dell’esercito era una necessità. Una truppa regolata di
centoventimila uomini era il massimo che un paese di così enorme
estensione potesse permettersi. Occorreva lasciare almeno dodici milioni di
«gente utile», cioè produttiva, sugli appena diciassette o diciotto milioni
153 Nulla la Russia aveva da temere dalla Cina, dopo la definizione dei confini col trattato di
Kjachta (1727): avrebbe però dovuto cercare di migliorare il suo commercio, ma senza
troppo sperare di vincere la concorrenza di quello degli altri paesi europei «per la facilità
che hanno le altre nazioni di andarci per mare e di darne a buon prezzo le curiosità e le
mercanzie» (Algarotti, Giornale, f. 51v). La carovana della Cina impiegava in effetti tempi
lunghissimi: tra andata e ritorno tre anni. Le ultime due partiranno nel 1746 e nel 1755.
Nel 1762 Caterina II le soppresse (Devèze, cit., pp. 100-110). Molto più vantaggioso e
comodo quello con la Persia; e questo avrebbero dovuto coltivare di preferenza (Algarotti,
Giornale, f. 51v). L’Impero ottomano non avrebbe potuto mai offendere la Russia: per
penetrare in Ucraina avrebbero dovuto attraversare troppi deserti. Potevano però eccitare
i Tartari del Kuban’ e della Crimea a farvi delle incursioni per infastidire o rubarne gli
abitanti (Algarotti, Giornale, f. 52r-v). Era di vitale interesse che la Russia signoreggiasse
(come si credeva che stesse per fare) il mar d’Azov e il Mar Nero. Gli attriti con il Sultano
erano però in questo caso inevitabili (Algarotti, Giornale, f. 52v). Sul fronte europeo non
si vedevano pericoli. I Polacchi «riceveran sempre mai la legge de’ Russi» (Algarotti,
Giornale, f. 53r). Quanto agli Svedesi, si sapeva che coltivavano idee di rivincita. Ma la
Russia, ormai ben insediata in tutta la Carelia (Vyborg) e forte sul mare, non aveva di che
preoccuparsi. La Finlandia (rimasta alla Svezia) oltre tutto era terra troppo ingrata per
mantenervi una grossa armata. Né preoccupava il re di Prussia: «non potrà mai da solo
intraprender nulla contro questo Imperio» (Ibid.).
154 Algarotti, Giornale, f. 52r.
155 Tipica impresa espansiva, malgrado le dichiarazioni pubbliche (Pietro andava dicendo di
non cercar terra, avendone «anche troppa») era stata la campagna del 1722-1723 che
aveva portato i Russi a Derbent, a Rešt e a Baku. Al paese aveva fatto credere di aver
trovato laggiù «immense ricchezze». Ma era una «favola vana» (Algarotti, Giornale, f.
30v). In realtà – teste mister Bell, che aveva seguito la spedizione come chirurgo – «tutto
ciò che vi ritrovarono fu disagio e penuria di ogni cosa». Ma la Russia ne aveva tratto
sostanziosi vantaggi: col trattato del 1723, la Persia aveva ceduto tutto il litorale a sud del
Caspio ed era divenuta in pratica un protettorato russo (Devèze, cit., p. 77). Ma la zarina,
per l’impossibilità di tenerle, aveva dovuto restituire alla Persia nel 1735 quelle sterili e
lontanissime province (Algarotti, Giornale, f. 52r). A rimetterci «il loro antico splendore,
se pur ne hanno avuto mai che il vano nome» erano stati quei prìncipi georgiani, che,
profittando dei successi delle armi cristiane, si erano ritagliati, a spese dei musulmani, dei
piccoli stati. Ora vivevano modestamente a San Pietroburgo: «Uno di loro in vece di stato
ha un cordon rosso» (Algarotti, Giornale, f. 30v).
156 Algarotti, Giornale, ff. 51v-57v.
157 Algarotti, Giornale, f. 54r-54v.
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(stima troppo generosa) che popolavano tutto l’Impero158. Tra le armate, era
comunque la marina ad aver bisogno di maggiore attenzione159. Il lusso –
quella folle passione delle mode francesi che da dieci anni in qua si era
impadronita degli uomini e soprattutto delle donne russi – andava represso
adottando severe leggi suntuarie160. Bisognava infine promuovere
l’agricoltura e le industrie del paese – le minerarie innanzi tutte, ma anche
quelle d’armi e di panni – e liberalizzare il commercio. Era questo un punto
essenziale. I vecchi metodi di Pietro – che si diceva avesse una volta
dichiarato di «non aver mai potuto intendere che cosa egli fosse» – e quelli
poco diversi dei suoi successori («né ora, cred’io, lo intendon meglio»)
andavano abbandonati. Finora il commercio era stato, se non proprio
perseguitato, almeno non incoraggiato a dovere. I mercanti non godevano
di nessun prestigio sociale. Quelli che avevano acquistata qualche fortuna
con i loro traffici, per evitare le avaníe e i soprusi del potere, preferivano
sotterrare i loro denari piuttosto che innalzare belle dimore. Oltretutto,
quello stato così forte metteva in circolo una moneta vile: il rublo, la «più
infame moneta che sia al mondo, moneta di rame»161.
I governanti dovevano convincersi che il commercio, soprattutto il grande
commercio, ha bisogno di libertà162. Non era sufficiente favorire solamente
le città, ma bisognava incoraggiare «il popolo, che divenente più ricco
divenga anche più comodo e felice; e soprattutto non monopolizzando il
commercio come in molte cose fa il Governo stesso163, benché in un governo
militare ed arbitrario come si è questo, un tal progetto sia ad eseguir più
difficile che il fare imparare il latino ai loro paesi»164.
Pietro non era risparmiato in questo plaidoyer in favore della libera
iniziativa: «Il czar Pietro volea far di Petersburg una città d’Olanda, come si
vede fra le altre cose a’ canali ch’egli vi ha fatto a solo fine, si può dire, di
fabbricarvi sovra li ponti»165. Ma «il vero modo era di dar la libertà al popolo,
158 Algarotti, Viaggi di Russia, cit., p. 68 (lettera IV).
159 Algarotti, Giornale, ff. 55v-56r.
160 Algarotti, Giornale, f. 42r.
161 Algarotti, Giornale, f. 37v.
162 Algarotti, Giornale, f. 55v.
163 «Quelli che pretendono essere i più informati ci dissero che le rendite dell’Impero in
denaro contante montano a due milioni di lire sterline: somma considerabile in un paese,
dove ogni cosa è a così buon mercato. Un esempio di ciò ci dava il marchese di Botta […].
Oltre una quantità grandissima di terre che appartengono all’Impero e che sono tuttavia
aumentate colle confiscazioni, il governo ha il rubarbre, il potash, una grandissima
quantità di canape meno il ferro in proprio, tutte le osterie, l’acquavite, la birra, i bagni
pubblici, le spezierie appartengono all’Impero […]. Oltre a ciò le provincie sono obbligate
di fornire alle spese loro al sovrano quanti uomini sì per le armate che per il travaglio o
altro che egli domandi, cavalli, biade, orzo, frumento etc. cosicché può dirsi omnia caesar
erat» (Algarotti, Giornale, f. 43r).
164 Algarotti, Giornale, f. 54v.
165 Importante il piano di Leblond «architetto generale di Sua Maestà lo Czar» dal 1716 al
1719: «C’est lui [Leblond] qui l’a pour ainsi dire “deshollandisée” [San Pietroburgo] en
substituant ou plutôt en superposant au système de canaux concentriques un éventail de
trois grandes “perspectives”, qui convergent vers la flèche de l’Amirauté: de la Nouvelle
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che li avrebbe costruiti quando ne fosse stato uopo». Benché egli avesse
voluto far dei suoi sudditi altrettanti liberi soggetti. Ma non erano «però
nulla in fatti». Quale maestro di libertà poteva essere stato un uomo che
andava «sempre co’ stivali e facendo delle riviste»166.
Dell’andamento della guerra anti-turca in corso i sudditi erano tenuti
all’oscuro, era una guerra lontana, «nulla più che s’ella fosse in America».
Soltanto quando ricevevano qualche buona notizia «o grande o picciola […]
è annunziata a gran colpi di cannone e celebrata con feste pubbliche, fuochi
di gioia ed illuminazioni (le più belle che si facciano al mondo […])»167. Il
regime
despotico
–
il
regime
della
disinformazione
e
della
deresponsabilizzazione – poteva assumere l’aspetto gradevole della festa,
quelle per il matrimonio erano state «veramente superbe». «Giammai tanta
profusione d’oro e d’argento». La cena nella gran sala del Palazzo d’Inverno
«era uno de’ più magnifici spettacoli che occhio umano possa giammai
vedere; e la cena nella Galleria uno dei più gentili»168. Ma la partecipazione
dei quaranta o cinquantamila abitanti sì e no della città a tutta
quell’esultanza ufficiale era stata minima: «si può dire che le loro belle
processioni e cavalcate, le loro magnifiche livree etc. mancavano di
spettatori»169. Indifferenza o rifiuto?
In conclusione: un paese, malgrado tutto quel luccichio di facciata,
asfissiante. Arrivati a Danzica «respirammo colla miglior aria la libertà di
qualunque aria migliore». Si poteva dire di loro quello che disse di sé
Costanza Czartoryski, la palatina di Mazovia (era moglie di Stanislaw
Poniatowski) poco amica dei Russi, «ch’ella rassomiglia nel suo ritorno da
Petersbourg a Danzica ad un uccello, che dopo essere stato alcun tempo nel
vuoto della macchina [pneumatica] comincia a sentir l’aria che gli
s’introduce a poco a poco»170.
Amsterdam il a fait un Nouveau Versailles» (Réau, cit., p. 131). Il piano di Leblond,
accantonato dal Menšikov, non fu tuttavia mai realizzato quale era stato concepito. Per
l’Algarotti era rimasta una città olandese.
166 Algarotti, Giornale, f. 55r.
167 Algarotti, Giornale, f. 42v.
168 Algarotti, Giornale, f. 50v.
169 Algarotti, Giornale, f. 46v.
170 Algarotti, Giornale, f. 57v.
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