UN PARTICOLARE TIPO DI RISCRITTURA: LA CLONAZIONE

Transcript

UN PARTICOLARE TIPO DI RISCRITTURA: LA CLONAZIONE
DOMENICO ALVINO
UN PARTICOLARE TIPO DI RISCRITTURA:
LA CLONAZIONE POETICA
Nell’uso ordinario, al tedesco fortleben vien fatto corrispondere il
verbo italiano ‘sopravvivere’ e, similmente, al sostantivo Fortleben,
l’italiano ‘sopravvivenza’. Se però il termine tedesco, e non l’italiano,
si è alla lunga stabilizzato come un termine internazionale in uso
negli studi classici, o è perché la sua dimensione semantica non
coincide esattamente con la rispettiva dimensione della parola
italiana, o è perché il sottolinguaggio di cui fa parte ha impresso a
quella dimensione una prospettiva diversa da quella ordinaria. E in
effetti, sembra intanto comprovabile la prima ipotesi, in quanto il
preverbo tedesco fort non si sovrappone esattamente all’italiano sopra,
stando esso per un ‘via’ o per un ‘lontano’ o per un ‘avanti’, quali si
combinano in espressioni del tipo fortsein, ‘esser via’, er geht fort von
uns, ‘va lontano da noi’, o und so fort ‘e così avanti’, cui conviene
aggiungere fort und fort, che vale ‘continuamente’. Perciò
l’espressione italiana meglio corrispondente al sostantivo tedesco
Fortleben sarebbe ‘prosecuzione indeterminata della vita di sempre’, e
similmente al verbo fortleben corrisponderebbe un ‘continuare a
vivere nel modo solito lontano per il tempo’.
Ma non è fuori di luogo neppure la seconda ipotesi, perché l’uso
letterario ha conferito a Fortleben una prospettiva semantica orientata
a ciò che gli italiani chiamano “la fortuna di” e vi assimilano rilievi
quali “Lodato (dai lettori)”, “Ha lasciato traccia”, “La poesia
francese... ne ha saputo (di Tibullo) intendere le suggestioni più
profonde”; o rilievi quali “La Francia lo conosceva”, “I poeti lo
apprezzarono secondo i meriti”, “Il Tasso lo imita”, “Le elegie
romane di Goethe sono nutrite del succo più intimo di Properzio, di
cui insegnarono e trasmisero i modi alle odi barbare carducciane e
alle elegie romane di D’Annunzio”; oppure: “Sull’opera sua (di
Virgilio) le menti umane hanno potuto erudirsi e farneticare e gioire”;
oppure: “La fortuna di Ovidio fu quasi pari a quella di Virgilio e non
166
c’è secolo in cui Ovidio non abbia trovato ammiratori e imitatori”
(Della Corte). Tutti significati, questi (‘riscuotere lodi’, ‘lasciar
traccia’, ‘suggestionare gli animi’, ‘aver rinomanza’, ‘esser modello da
imitare’, ‘meritare apprezzamenti’, ‘alimentare del proprio spirito
l’altrui spirito’, ‘essere d’insegnamento’, ‘far da stimolo alla fantasia’,
‘esser fonte di gioia o di intimo godimento’) che son diversi da quelli
del “sopravvivere” che ricorre in espressioni quali “Tizio è
sopravvissuto a se stesso”, “Quel tale è tra i sopravvissuti”, “La sua
ormai non è vita ma sopravvivenza”, “Cerco di sopravvivere come
posso” etc. Il linguaggio letterario ha dunque davvero conferito alla
parola tedesca un significato diverso da quello che essa ha già
all’interno della lingua d’origine, e diverso da quello delle parole
corrispondenti nelle altre lingue: un significato complesso, che
dunque richiede una definizione complessa, che si può tentare di
abbozzare così, con tutto il rischio di non comprendervi tutta intera la
struttura semica, per di più sempre lampeggiante di ubiquitarie
nuove ge[r]minazioni:
Il Fortleben è di persone che ebbero in vita qualità e meriti
consertati in gesti e in azioni di gran valore, o in capolavori di
pensiero o di arte che, per passare di tempo e di luoghi e per mutare
di concezioni e costumi, sono inesauribili di produzioni di sensi, e
dunque d’insegnamenti e di profondissimi appagamenti: fatti, questi,
volgenti a lode continua, o a riesame e a scavo o perfino ad accese
dispute, come di ciò in cui si radichi e trovi stimoli innovativi sempre
la vita societaria umana in generale o di una comunità particolare. E
pertanto questa vita è intesa quale una prosecuzione della vita di
persone tali, senza la soluzione di continuità dovuta alla morte, e
sempre così profondamente interpenetrata con la vita altrui, da
esserne insieme paradigma esplicativo e organica promozione.1
Ciò dal punto di vista dell’opera poetica o del pensiero, che sono i
soggetti del Fortleben, quelli la cui vita ‘prosegue’ attraverso le Età.
Ma dal lato di queste Età, si può dire che nel Fortleben esse Età
“cominciano a sentire, giungono a vivere, rivivono” come proprio il
1
Definizione di chi scrive (D. A.)
167
dato antico, pressappoco nello stesso senso in cui si dice che un
autore, nella erlebte Rede, tramite l’indiretto libero, giunge a
sperimentare come propri, stati e processi psichici, mentalità e fedi,
espressioni e costumanze dei soggetti che elegge a modello dei
personaggi che crea. Ma in questo avvicinarsi e quasi conglobarsi tra
erleben e fortleben, verrebbe a farsi plausibile una corrispondenza, non
già tra fortleben e ‘sopravvivere’, ma sì tra fortleben e un ‘rivivere’,
purché sia segnalato che il rivivere non è di un che di morto che
riprenda a vivere oltre decomposizione e dispersione a spolvero in un
vento caparbiamente distrattile: il ri non sta per ‘un’altra volta’, ma
‘per un’altra impresa’: ciò che rivive, come cellule emopoietiche a far
sangue, già da sempre vive in nascosti alvei della psiche a fornire
schemature a processi psichici o di pensiero, o in quadri culturali a
regolare strutture ideative; ma ad un tratto è rilanciato in altri alvei, a
far la sostanza che è richiesta da una cultura nuova o a svolgere altri
ruoli che l’io gli assegni, entro un mutato quadro interrelazionale
della sua personalità.
Sia concessa una riflessione breve anche su due altri termini
tedeschi in uso nel metalinguaggio letterario: Aneignung e Nachreife.
Nella ordinaria comunicazione, ad Aneignung i vocabolari fanno
corrispondere in italiano ‘appropriazione, arrogazione, acquisizione,
assimilazione’. Anche di questo termine il linguaggio letterario,
anziché assumere tutta la dimensione semantica, si ritaglia soltanto i
semi dell’appropriazione e dell’assimilazione, così che, rispetto ad
una certa opera, o pensiero, o poetica di un autore, l’Aneignung
consiste in un processo attraverso il quale lo spirito di un’epoca, pur
tenendo ben ferma la loro origine antica, se ne assimila le specifiche
sino a farne delle componenti proprie senza più nessun carattere di
estraneità2. L’Aneignung pertanto si rapporta al Fortleben come mezzo
2
Cfr. Eliot 1946:146: “Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al
suo posto con le sue definite differenze dal presente, e tuttavia in modo così vivo che
esso sia tanto presente a noi come il presente”; Perrotta 1967:26: “Davanti alla Saffo
del Pascoli (che in Poemi conviviali le attribuisce due canti), non si avverte nessuna
stonatura. Ogni momento si sente che non è Saffo, ma che nulla è neppure troppo
diverso da Saffo”.
168
a fine, e tuttavia sul piano temporale essi non si pongono come
antecedente e conseguente, ma sono componenti di un processo
unitario nel quale interagiscono paritariamente: in una certa epoca,
non può accadere che un dato antico “prosegua la sua vita”
(fortleben), senza che prima quell’epoca se lo sia assimilato e fatto
proprio (Aneignung), né può avvenire assimilazione e appropriazione
(Aneignung) senza che il dato antico, proseguendo la sua vita, sia già
in qualche modo presente alle coscienze (fortleben): continuare a
vivere, infatti, per quel dato antico, significa farsi presente alle
coscienze quale parte vitale di esse.
A rendere il dato antico disponibile, non ad una heideggeriana
‘semplice presenza’, a limite solo oggetto di contemplazione tanto più
vana quanto più sospirosa; a renderlo invece disponibile ad una
presenza viva, che osmoticamente interagisca con la vita nuova, serve
appunto quel processo denominato Nachreife, termine cui corrisponde
in italiano “maturità postuma”. Si tratta di un fenomeno, non raro
nella storia, per il quale un pensiero o una Sensucht o un’opera o uno
stile, per lungo tempo rimasto latente nello spirito o nella cultura, nel
mutare di condizioni e circostanze si rivela in tutte le sue proprie
caratteristiche e validità, o mette fuori, produce (direi, alla latina,
esprome, comunità linguistica permettendo) valenze, per l’addietro
restate inespresse, che gli consentono di organarsi quale componente
interattiva nel sistema di pensiero, o nella morale o nella sensibilità o
nell’immaginazione, di un’epoca nuova.
È utile considerare anche certi casi particolari che, sebbene paiano
difficilmente interpretabili come casi di Nachreife, pure c’è qualche
ragione in tal senso. Si pensi a certe opere molto o troppo giubilate al
loro tempo rispetto ai reali meriti, a limite modesti se non
insussistenti, e promosse di età in età in forza solo d’un conformismo
critico - per pigrizia o scarsezza di coraggio - inerziale e alieno da una
sia pur minima verifica testuale: finché non arriva uno fra tanti, un
matto, che vi si arrischi, costi quel che costi, e metta a nudo la nullità
sostanziale dell’illustre capolavoro3. O si pensi a un’opera, che pur
3
Per esempio: è auspicabile che ciò accada per il Brutus ciceroniano.
169
meritamente apprezzata e riconosciuta, col mutare dei tempi vada
soggetta ad una sorta di Überreife, o ‘ipermaturazione’, e come i frutti
che si sfanno e, non tenendo più il picciolo, cadono di ramo e
infracidiscono e si decompongono nel terriccio, così essa non ha più
tenuta, nessuna esigenza spirituale più la sostiene, e viene disattesa,
lasciata cadere, infracidire, nella discarica dell’oblio.
Da ultimo, bisogna osservare che i processi di Fortleben, Aneignung
e Nachreife di un datum possono concretarsi o tramite il rianimo dello
stesso dato che, pur se assopito o latente, in qualche modo è già attivo
nella spiritualità o nella cultura di un’epoca; oppure tramite innesto o
reinnesto o riconnessione, quando l’elemento antico, dismesso, è
rimasto non solo del tutto inerte ma addirittura inavvertito per lungo
tempo, e perciò il suo venga sentito come acquisto nuovo, o come
recupero, o come nuova connessione che ricompatti l’ordine
dell’insieme secondo una diversa morfologia. Tali innesti o
riconnessioni possono essere di due ordini topologici: l’uno che ha
luogo nell’intelletto, ed è il caso soprattutto delle opere di pensiero
filosofico o scientifico - ove la connessione è tra l’antica paideia e la
nuova cultura, onde i processi che vi concorrono sono sollecitati e
sorretti tramite strategie di carattere razionale e dimostrativo, come
quelle proprie della filologia e delle scienze sussidiarie, nonché da
quelle di una critica letteraria non solo provvista di un intuito affinato
dalla lunga esperienza esegetica, ma anche possibilmente modellata
sulle rigorose procedure proprie della scienza. Gli innesti del secondo
ordine hanno invece luogo nella sensibilità e nella fantasia, e
riguardano soprattutto le opere poetico-letterarie. Bisogna dire che
qui l’innesto si realizza più profondamente e durevolmente, perché in
questo caso l’incontro con il dato antico – specie se si tratta di
un’opera d’arte – provoca innanzitutto una risposta emozionale che,
essendo spesso di elevata intensità, determina una modificazione
psichica ad un livello tale da rendere la totalità dell’opera, – o anche
alcuni suoi caratteri o una sua sottostruttura – difficili da dimenticare.
Il processo però include, anche in questo ambito topologico, una fase
di ‘valutazione’ del dato, che se sorretta da opportune istruzioni,
offerte dallo studio filologico e dall’esegesi critica, chiarisce e rinforza
170
la motivazione della risposta emozionale, mettendola così in grado di
favorire una più adeguata ed efficace integrazione del dato all’interno
della personalità e della cultura.
Se il contributo della filologia e della critica è imprescindibile
nell’ordine di connessioni intellettive, e di non poco ausilio in quello
del sentimento e della fantasia, esso però, così da solo, nel primo caso
non garantisce un’incorporazione organica e vitale del dato, ma solo
una sua catalogazione, lucida magari, dopo di che il dato è messo a
scaffale, in bell’ordine, con tanto di cartello e note identificative, così
che stia sempre a vista o risulti facile individuarlo, ma solo quando la
nostra iJstoriva lo richieda, non trovandolo essa già inserito come
parte organica nel raziocinio che la conduce; nel secondo caso, il
contributo della filologia e della critica espleta una funzione
semplicemente ausiliaria, perché il sentimento e la fantasia ricevono il
dato dalla sensibilità, che lo ha acquisito senza analizzarlo e
delucidarlo ma, per così dire, per via semplicemente apprensiva e
introiettiva: filologia e critica sottentrano, non a determinare, ma solo
a favorire quella che è la vera e propria assimilazione di esso dato, la
sua incorporazione organica e vitale nel sentimento e nella fantasia.
Più che ad incorporare il dato, il raziocinio provvede a ‘civilizzarne’
la sensazione, trasformandola in sentimento di esso. A determinare
infatti quella che insistiamo a chiamare organica incorporazione,
specie per il Fortleben di opere artistico-letterarie, occorre
qualcos’altro: tale organica incorporazione del dato tra le strutture
psicosomatiche fondamentali – come, esemplificando, i meccanismi
omeostatici e quelli di produzione di schemi sensoriali o di risposte
organizzate come quelle del sentimento e della fantasia – deve essere
affidata ad un mezzo che operi proprio in simili strutture. Ebbene,
tale mezzo si ritrova nella creazione estetico-artistica, la quale è
estetica in quanto ha appunto come terreno nutritivo l’àisthesis, la
sensibilità, la sensazione e, solo in seconda istanza, la sua forma
‘civilizzata’ che è il sentimento, motore della fantasia; ed è artistica in
quanto, avendo come luogo fermentativo il preconscio, a limite tra
inconscio e coscienza, ivi l’io quale coscienza può intervenire ad
organizzare elementi, attingendoli dal preconscio e consertandoli in
171
vista di un fine (questi sono i semi distintivi di ars)4 cioè in complesse
unità morfologiche, tramite modelli offerti dalla fantasia e
dall’immaginazione ammaestrate dall’esperienza individuale e
collettiva5.
Questo mezzo estetico-artistico è la riscrittura6. E. Kris
(1967:passim) è dell’avviso – pienamente condivisibile - che l’artista
di per sé non ha intenzioni comunicative, non mette in opera
codificazioni consapevoli intese a trasmettere un contenuto
informativo a un certo destinatario. Non esiste un destinatario, ma
solo un fruitore che, se e quando sia attratto dall’opera in virtù di
somiglianze di destini, bisogni compensativi o meccanismi di
sublimazione, ai soli fini appunto di una fruizione in tal senso si
sostituisce all’autore e “ricrea la sua opera”, attivandone potenzialità
simboliche già da essa contenute, benché ignote all’artista e fuori da
ogni suo disegno programmatico. Ma la riscrittura postula, non il
rapporto nudo e semplice autore-fruitore, che si consuma nel privato
e non ha alcuna risonanza nel più largo ambito di una comunità
culturale; tra autore e fruitore, la riscrittura postula l’intermediazione
di un autore secondo, il quale, non “ricrea” l’opera nel senso
In effetti ars è da un radicale indoeuropeo che è *arƏ, che significa ‘articolazione’,
più che ‘articolazione della spalla’ come vorrebbero Ernout e Meillet (Dictionnaire
étimologique de la langue latine, s. v. armus), tanto è vero che ne deriva non solo il lat.
armus (“haut du bras avec l’épaule”) e le parole che stanno per ‘braccio’ nelle lingue
figlie e sorelle, ma, con buona pace dei due illustri lessicologi, anche il gr. ajrmovÇ
che vuol dire innanzitutto ‘giuntura’, e solo di conseguenza, ‘giuntura della spalla’ o
‘spalla’; ne deriva inoltre ajrmovzw (connetto, collego, accordo), da cui armonia, e
ancora l’armeno y-eriwrel, che gli stessi studiosi traducono ajuster. Del resto, nel
medesimo lessico, s.v., si rileva che ars è “opposé à natura, à scientia [che è conoscenza
di cose date, esistenti cioè in natura, non costruite o assemblate dall’uomo], il peut
également prendre une nuance péjorative «artifice, ruse»... du sens de «talent» on
passe enfin à celui de «métier, profession»”. Infine, per quel che valga, c’è la
conferma ciceroniana (R. ad Herennium, 1, 1): ars est praeceptio quae dat certam viam
rationemque faciendi aliquid.
5 Stando a Jung, la fantasia opera secondo idee a priori che provengono
dall’esperienza di innumerevoli generazioni precedenti, e che a lungo andare si sono
fissate in forma di archetipi (cfr. Jung 1973:48-49, nonché Alvino 1996: postfazione).
6 Per tutto quanto si dirà in questo saggio, occorrerà aver presente il mio Poesia e
riscrittura di poesia: un modello teorico (Alvino 1999)
4
172
comunemente inteso, che è metaforico, restando la ricreazione a
significare semplicemente le operazioni richieste dalla fruizione; ma
esso autore secondo attivando o riattivando di quell’opera le
potenzialità sommerse o sopite, e rielaborandone altre manifeste
adattandole ad esigenze personali o poste dalla spiritualità comune o
da strategie poetico-instruttive, convoglia tutto nella creazione di una
nuova opera, che a buon diritto intende porsi non come imitazione o
parafrasi o simulazione plagiaria dell’opera di partenza, ma come
opera ad ogni effetto propria e originale.
Ora appunto in questa attivazione o riattivazione di potenzialità
sommerse o sopite da parte del fruitore, ma soprattutto del riscrittore,
si realizza la Nachreife, perché essendo mossa da un bisogno di
appropriazione, essa approfondisce il processo di Aneignung e,
confluendo tramite la nuova opera nella collettività ove mette in opera
gli stessi processi psicologici e culturali, vi realizza un Fortleben
davvero vasto e radicale.
È questo tipo di Nachreife, questa postuma maturazione fermentante
nel processo riscritturale, a far sì che il tutto non si risolva in
espressione di puro e semplice classicismo, gravato di tutto il peso
dell’ismo, e dal quale aborre la stessa filologia7, in quanto è sempre
fuori di misura e di tempo, risolvendosi in «culto indiscriminato
dell’antico», «idolatria», «pedante imitazione o nobile emulazione»
(Gigante 1989:11). C’è chi insinua che un simile classicismo pretende di
tenere in vita dei frantumi che in nessun modo e senso riescono a
consertarsi o a confondersi con «la realtà culturale e la civiltà in cui
viviamo», cosicché il cultore dell’antico farebbe spaccio di «rovine che
vengono dal passato» (Ferroni 1996:27), e che sarebbe meglio
sgomberare, accatastare da una parte e cautelarsene segnalando la loro
presenza con la scritta ‘Pericolo’. In effetti, se in questo cumulo si
mettesse ciò che davvero è sfatto e inutilizzabile, distinguendolo da ciò
che può ancora servire, anche questo si risolverebbe in una sorta di
Nachreife, anzi di Überreife, della cultura antica (Ferroni 1996:28) nella
coscienza dell’uomo contemporaneo.
“La filologia classica deve oggi disincrostare i testi antichi di tutto il classicismo che
su di essi si è accumulato” (Gigante 1989:11)
7
173
Il primo esempio, che soccorre, di questo assunto della Überreife
che, così nudo e crudo, potrebbe suonare blasfemo, è quello di
Quasimodo che, in Dialogo, riscrive il mito virgiliano di Orfeo, e
mostra il mitico cantore brulicante d’insetti e «bucato dai pidocchi»,
denunciando così la sua definitiva inattualità come cantore che, nella
purezza del canto può, se non vincere, almeno addolcire il destino di
morte:
«At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum.»
Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica
d’insetti, è bucato dai pidocchi,
e tu sei morta. L’inverno, quel peso
di tempesta di ghiaccio, l’acqua, l’aria 8,
furono con te, e il tuono di eco in eco9
nelle tue notti di terra10. Ed ora so
che ti dovevo più forte consenso,
ma il nostro tempo è stato furia e sangue:
altri già affondavano nel fango,
avevano le mani, gli occhi disfatti11,
urlavano misericordia e amore.
Ma come è sempre tardi per amare;
perdonami, dunque. Ora grido anch’io
il tuo nome in quest’ora meridiana
pigra d’ali, di corde di cicale
tese dentro le scorze dei cipressi.
Più non sappiamo dov’è la tua sponda;
c’era un varco segnato dai poeti,
presso fonti che fumano da frane
sull’altipiano. Ma in quel luogo io vidi
da ragazzo arbusti di bacche viola,
cani da gregge e uccelli d’aria cupa12
Cfr. Virg. Georg. 4, 474: “hibernus imber”.
Cfr. Virg. Georg. 4, 460: “clamore implerunt montes et... et” (effetto d’eco).
10 Cfr. Virg. Georg. 4, 497: “circumdata nocte”, cui il riscrittore aggiungendo solo «di
terra» conferisce alla poesia suggestione e profondità.
11 Cfr. Virg. Georg. 4: “natantia lumina”.
12 Cfr. Virg. Georg. 4, 474: “multa milia avium se condunt”.
8
9
174
e cavalli, misteriosi animali
che vanno dietro l’uomo a testa alta.
I vivi hanno perduto per sempre
la strada dei morti e stanno in disparte.
Questo silenzio è ora più tremendo
di quello che divide la tua riva.
«Ombre venivano leggere.» E qui
l’Olona scorre tranquillo, non albero
si muove dal suo pozzo di radici.
O non eri Euridice? Non eri Euridice!
Euridice è viva. Euridice! Euridice!13
E tu sporco ancora di guerra, Orfeo,
come il tuo cavallo, senza la sferza,
alza il capo, non trema più la terra:
urla d’amore, vinci, se vuoi, il mondo.
(La vita non è sogno, in Quasimodo 1960:196) 14
L’Erebo un tempo era un locus sacer, il cui contatto era nefasto, e
perciò esso era relegato in un sotterra metafisico lontano dal regno
della vita. Ora gli orrori della guerra hanno cancellato la sacralità
della morte, hanno cioè abolito i luoghi dove ammassare i suoi segni
esorcizzandone il contatto coi vivi. Essi sono tutti nel di qua, tanto
che nel T2 quasimodiano ne sono un’ipostasi, non eventi rari nella
loro stranezza ed eccezionalità, ma i consueti eventi della natura,
come l’inverno, il peso di ghiaccio, l’aria di tempesta; o anche la furia
sanguinosa e i conseguenti squarci putrescenti che essa apre nella
carne della vita, ma solo in quanto il protrarsi dei conflitti mondiali e
il depositarsi delle loro performance nella quotidianità ordinaria,
hanno reso consueti anche questi, che una volta erano rari e
13
Cfr. Virg. Georg. 4, 525-27.
Per un’analisi più puntuale, cfr. Salina Borello 1996:389 e sgg. La condizione della
riconoscibilità dell’ipotesto (cfr. II principio di identificazione: la riscrittura come testo
realizzato, nel mio Poesia e riscrittura di poesia, cit.) è ampiamente soddisfatta, come
dimostrano i rimandi, nella nota 5 di questo saggio.
14
175
straordinari. Il distico virgiliano che apre il T2 di Quasimodo, è un It15
di appositio, a cui l’ad iniziale conferisce anche un potenziale
trasduttivo, che opera anche a distanza su espressioni dell’ipotesto
non presenti nel lacerto citato. Ne deriva ovviamente una Op di
‘trasduzione16 per contiguità’, che consiste nel trasferimento o travaso
dell’Erebo, dal kataV gh`Ç, nel pieno della vita, solo in virtù di una
contiguità tra la citazione antica e il testo nuovo, il quale ne resta
profondamente segnato e determinato. Il senso ineluttabile di
definitiva morte che tracima dal distico virgiliano sospinge le parole
del poeta moderno in una contestura di mondo malato e cupo, dove
anche il dolore sembra svigorito e vicino a svanire in quella sorta di
effetto anestetico sortito dalla dismisura stessa dei rovesci di sangue e
dalla loro quotidianità. In tale anestesia, oltre al dolore, sparisce
anche la paura della morte e, poiché l’istituzione di ogni Erebo è
ordinata appunto alla loro esorcizzazione, neanche l’Erebo serve più,
e scompare insieme alla paura e al dolore. Ecco perché niente più
locus sacer, ecco in che modo nell’operare stesso della poesia l’Erebo è
abolito. Da “Più non sappiamo” a “la tua riva”, nell’incontro e
convoglio o solo richiamo o allusio tra ipotesto e ipertesto, tra parole
antiche e nuove, la poesia compie operazioni onde nella nostra
sensibilità e quindi nel nostro sentimento, il funesto apparato della
morte dissolve a poco a poco la sua sacralità orrorosa, cosicché anche
il quadro immaginario inscenato dalla fantasia cambia e l’Erebo ci
appare tutto trasferito nel pieno della vita, nel cuore della sua luce,
senza il rischio di incupirla ed ammalarla con la sua presenza
maledetta.
15
La critica operazionale abbrevia nell’acrostico It l’intervento tecnico, quale è qui
appunto l’appositio, onde il poeta (o l’artista in genere), consapevolmente o no innesca
un’operazione della poesia, a sua volta abbreviata in Op (cfr. Alvino 1999).
16 In elettromeccanica, si chiama trasduzione la trasmissione di energia da un punto
all’altro di un sistema, talvolta con modificazione della natura dell’energia (per es.,
da meccanica in elettrica o viceversa).
176
Messe così le cose, nessun Orfeo occorre più a vincere la morte
calandosi nel suo regno buio, perché essa è mescolata nella vita, il suo
tocco non ha più nulla di maledetto, è spegnimento puro di cose, di
persone, di eventi. Nei versi seguenti, non in virtù di predicazioni
esplicite, ma sempre tramite l’alchimia everbale17 del poiei`n, quelli che
muoiono escono semplicemente dal respiro della vita ed entrano nel
regno malfermo di una memoria che oscilla perigliosamente al soffio
costante di un oblio che mette in pace le vittime e i carnefici. I padri
stessi18 sono relegati in quell’oscillante memoria, dove sono ormai
ombre tenui, simulacri vuoti di luce.
Non essendovi più un Erebo, nessuna Euridice vi può scendere.
Essa resta sepolta nel vuoto d’amore che l’ha uccisa, e di lì nessun
poeta può andare a liberarla col suo canto. Inverno e ghiaccio e aria di
tempesta gravano sulle sue notti di terra a farle definitive. In un
tempo di «furia e sangue», in cui c’è chi affonda nel fango e grida
misericordia e amore, «I vivi hanno perduto per sempre / la strada
dei morti», né i poeti vi hanno più accesso, né servono gli antichi
ausili di armonie e calocagathie. Ed è un segno importante questa
ricusa. Vi balugina una Überreife concernente un aspetto dell’antica
paideia che, almeno nella versione più vulgata di essa, è inteso come
il più proprio e caratterizzante, quello di pensare (< pensum), in ogni
dominio culturale, la validità ed il valore delle cose sul fondamento
di una sintesi armonica di elementi onde esse più o meno risultano.
Al riguardo c’è di Quasimodo una dichiarazione esplicita che dice:
E non importa l’armonia delle acque...
Io non cerco
che dissonanze, Alfeo,
qualcosa di più della perfezione.
(Dalla Grecia, in Quasimodo 1960:263)
17
È tempo di inventarsi questo neologismo, stranamente assente sia in latino che in
italiano, e senza nessun corrispondente in greco. Il senso mi pare evidente: ‘fuori di
parola’.
18 «Dimenticate... o figli... i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli
neri, il vento, coprono il loro cuore» - Uomo del mio tempo, in Giorno dopo giorno
(Quasimodo 1960:190).
177
Questa ricusa cioè sta a segnalare l’impallidimento del mito della
perfezione e dell’armonia, nel quale, non solo la media cultura, ma lo
stesso classicismo, nella sua versione deteriore avvolge l’antichità
greca. S’intende che in tal modo, sia pure nella media cultura, il
processo di Überreife si intende esteso alla grecità intera. Ma nella
poesia quasimodiana il processo è profondamente sofferto, sentito
come caduta inarrestabile e definitiva da un Eden ideale che si è
disseccato. Infatti, tutta La terra impareggiabile, che risale agli anni
1955-58, risuona come sopra una corda segreta, la viva sensazione di
precipitare in disarmonie e dissonanze, specialmente alla soglia della
vecchiaia. Al lettore via via si fa chiaro dapprima che la terra
impareggiabile è la vita, e la paura è della fine di essa, che il poeta
sente prossima appunto nello sfaldamento delle consuete armonie,
nello sgangherarsi delle consonanze abitudinarie. Ma stesso il
richiamare la vita è un richiamarne la fine imminente. Ecco una prima
dissonanza in cui il poeta si scopre caduto. Per l’innanzi, anche nei
momenti di più tristi consapevolezze, si serbava netta la distinzione
tra vita e morte, essere e nulla, ascesa e declino, mentre ora tale
distinzione si annuvola, i limiti si sgranano al passarvi sopra di
continuo, sempre più si assimilano a confini, che poi tremano in un
pallore di evanescenza ineluttabile. Ed ecco qui che vita è stesso non
vita, il ricordo della bellezza, delle gioie godute, dell’amore, diventa
dolore per la loro fine, che così è anticipata e s’impone alla fantasia.
Ma proseguendo nella lettura, a poco a poco si vede che alla vita si
sovrappone, come altra impareggiabile terra, la Grecia antica, la cui
bellezza dilaga nella sua sicilianità renitente, fino a consustanziarsi con la
vita stessa. Di modo che il poeta la vede sbiadire intorno in quello stesso
pallore di evanescenza che ha preso la vita; l’una e l’altra o l’una nell’altra
smuoiono in una barbarie subdola, inarrestabile, che lo tocca nel
profondo, e allora anche dire “Grecia” è per lui richiamare la barbarie in
cui essa trascolora. Ed ecco un’altra dissonanza. Per lui, esorcizzare la
paura è possibile solo attraverso un dialogo, anche se si tratta di un
«dialogo / nemico a picco con l’anima», una sorta di consuntivo caparbio,
una partita doppia di dare e avere, con quella sua grecità che gli muore
nel sangue. Di ciò è segno «il ripetersi continuo del forse... il bisogno di
178
provarsi a ogni momento contro le verità di ieri e verso i probabili dati di
oggi»19. Questo è necessario non tanto a lui, quanto all’uomo del suo
tempo, che è un tempo di trapasso, e bisogna conciliarsi col tempo che
incombe, il che è possibile solo saldando i conti con il vecchio, per quanto
dolorosamente.
Seppure indotta da una Überreife, è anche questa un’Aneignung, benché
di tipo particolare: l’acquisizione d’una consapevolezza, di una vista
chiara, che pur risolvendosi in una specie di disarmo, compie operazioni
anche in positivo, in cui l’eredità antica, nel momento in cui viene
disattivata, si trasforma in termine di confronto insostituibile, in quanto ad
essa si commisura ciò che invece si conserva come valore ancora
largamente condiviso. È lo stesso Quasimodo a dare un esempio di ciò in
Dialogo, dove la fine della sacralità della morte negli eccidi bellici, che
rende la morte definitiva e toglie la funzione rivitalizzante della poesia, è
giustificata dal fatto che questo tempo è diverso dall’antico, è un tempo in
cui Euridice non può morire, «gli eroi sono diventati uomini»20 e Orfeo
stesso serve alla vita e all’amore che la sostiene.
Certo, una Überreife non favorisce il Fortleben. Perché esso sia profondo
e durevole è necessaria una Aneignung, una riappropriazione dell’antico
che lo radichi nell’intimo della coscienza, prima ancora che della cultura e
della civiltà. Solo così l’antico (qualunque cosa sia e sotto qualsivoglia
forma) può usufruire di una “sopravvivenza” certa e non effimera, in
quanto viene a reinnestarsi alla radice dei conflitti e delle certezze, delle
gioie e delle malinconie dell’uomo nuovo; un’Aneignung, che si realizzi nel
pensiero creativo, i cui processi, come si accennava più sopra, ricevono
l’input da una profondissima zona dell’io21, il preconscio, dove s’incrociano
«due altri sistemi di produzione di simboli, l’inconscio e la coscienza»
(Scabini 1973:66).
19
Carlo Bo in Quasimodo 1960:162. Il corsivo è nostro. L’osservazione è
perfettamente applicabile anche a La terra impareggiabile.
20 Cfr. Epigrafe per i partigiani di Valenza, in Quasimodo 1960:279.
21 Cfr. Perrotta 1967:49. A proposito di Malte Laurids Brigge, un personaggio
femminile di Rilke, che passa il tempo a tradurre i frammenti di Saffo, l’autore dice:
“dall’intimo dell’essere erompevano verso il suo cuore di donna, chiedendo d’esser
vissute, tutte le beatitudini e tutte le disperazioni d’amore di cui avrebbero dovuto
appagarsi i secoli venturi”.
179
Un esempio di Aneignung di questo tipo è ancora una riscrittura,
questa volta di Ezra Pound, che nel suo Omaggio a Sesto Properzio
(Pound 1984), elegge la vicenda del poeta latino a correlato oggettivo
della condizione dell’artista nel clima politico del suo tempo. Come
Properzio difronte all'imbecillità infinita ed ineffabile dell'Impero
Romano, nel ‘17 anche Pound si trovava difronte all'infinita e
ineffabile imbecillità dell'Impero britannico. Mentre nei Cantos egli
finirà col cercare il calco vuoto di sé nel vorticare infinito della storia
che, trovandovi egli invece le sue madri isterilite o dissolte, appare un
inutile cumulo di frantumi; nell'Homage la storia è ancora
formicolante di madri, è ancora ciò da cui l’uomo è prodotto, talvolta
preannunciato. E Pound si ritiene appunto preannunciato
all'esistenza dal poeta latino di duemila anni prima. Ecco l’Aneignung:
nel preconscio, Properzio gli diventa una d’esse madri, una maschera
che trascende il suo viso, persona che attraversa la storia rilanciandolo
a un’altra vita, con una smorfia tragica, una specie di volto di Medusa
che gli serve insieme a raggelare il male. Ne consegue un Fortleben,
che è anche un’interessante Nachreife dell’immagine di Properzio,
fatto rivivere come segno eterno di coscienza divisa e conflittuale,
perfettamente coesa alla coscienza del mondo contemporaneo, che è
moderno appunto nella sua problematicità conflittuale ed inquieta.
Risulta abbastanza chiaramente come l’Aneignung conseguita
attraverso un procedimento creativo sia in grado di avviare un
processo tropico tale da coinnestare a quadri spirituali e culturali
nuovi una componente della realtà antica, non solo senza
travisazioni, ma approfondita nei suoi ulteriori possibili sensi e
valenze di poesia o di civiltà dallo stesso procedimento creativo del
poeta riscrittore, che in questo modo viene ad assimilarsi al lavoro
critico22. È questa prospettiva esegetica, assunta dall’esercizio
creativo, che determina ciò che chiamiamo Nachreife dell’immagine
antica, la quale viene a collocarsi in una luce di così profonda
autenticità quale mai prima le avvenne di esibire.
Cfr. Perrotta 1967:49. Sempre a proposito della Saffo pascoliana, il critico aggiunge:
“I due canti acquistano il valore di un’interpretazione poetica...”.
22
180
Ora, tra i tipi di riscritture, ve n’è uno provvisto d’un grande
potenziale creativo23, dando luogo ad Aneignung, Fortleben e Nachreife,
e perfino ad Überreife, sulla cui profondità ed efficacia non occorre
ancora soffermarsi, dopo quanto ne abbiamo detto: di ciascuna di
queste operazioni basterà volta a volta indicare il nome, lasciando che
il lettore giudichi da sé. Non conosco esempi migliori di quelli offerti
da Giovanni Barricelli, beneventano, che ha pubblicato dieci libri di
poesia propria24 e quattro di riscritture degli antichi lirici25. L’efficacia
dell’esempio barricelliano a dimostrare le potenzialità appena
specificate della creatività riscritturale, sta nel fatto che in ambedue i
casi Barricelli non fa che esprimere se stesso, sia pure sulla scorta
della poesia antica. Giacalone è del parere che sia capitato a lui ciò
che capitò al Pascoli, il quale «credeva di far rivivere la poesia
classica, ed invece si rivelava un grande decadente». Ma il vero è che
Barricelli non sembra rubricabile neppure come classicista. Abbiamo
già osservato come una riscrittura ambisca a porsi non come
imitazione dell’opera di partenza ma come opera originale e propria:
è appunto ciò che osserva Barberi Squarotti della poesia barricelliana:
che essa «va al di là d’ogni neoclassicismo, per tentare l’ambizioso
scopo della vera e propria scrittura attuale sullo spunto offerto dalla
parola, o dall’occasione, o dal tema poetico antico».
Il tipo d’operazione ipertestuale impiegato da Barricelli, non figura
nella classificazione di Genette. Bisogna, dunque, trovare un nome, e
il più adatto sembra essere clonazione, la nota pratica genetica, di
23
Un’idea del tipo di efficacia di una riscrittura simile, si può ricavare da alcuni versi
di Neue Gedichte, di Rilke, dove s’immagina che Saffo parli ad Eranna, la sua amata
scolara: “Porterò su di te l’inquietudine, / ti vibrerò, o verga ricinta di tralci. / Come
la morte ti attraverserò / e come la tomba ti consegnerò / al Tutto: a tutte queste
cose”. È ciò che il riscrittore fa con Saffo attraverso la clonazione.
24 Il notaio mostro, Benevento 1969 - Né uomo né cane, Brescia 1970 - La paglia bruciata,
Poggibonsi 1972 - Il gatto che ride, Brescia 1974 - Poesie, Roma 1975 - Quiora, Milano
1976 - Poesie, Roma 1977 - La distruzione del Duomo, S.Maria a Vico 1980 - La
migrazione, Napoli 1982 - Tuttamaro, Napoli 1986.
25 L’opera di riscrittura annovera quattro libri: Da Archiloco a Saffo, Napoli 1989 OuvdeniV KovsmwÓ, Napoli 1991 - Le voci della Pieria, Napoli 1993 - Poemi alla deriva,
Napoli 1996.
181
recente invenzione, che da un frammento d’organismo genera un
organismo intero, che ha in comune col precedente almeno i caratteri
basilari. Ora tutti sanno che degli antichi lirici rimane una
disseminazione di frammenti o ‘frantumi’26 costellati di cruces
desperationis, e la cui ulteriore conservazione, data in molti casi
«l’impossibilità di un restauro che non sia banale» (Mandruzzato
1998:5)27, sembrerebbe un tantino sconfinare nel feticismo, se non vi
fosse, a sostenerla, la speranza della scoperta risolutrice, sempre
possibile. Barricelli, da un frammento, ricrea - o clona, appunto - un
testo intero, con operazioni clonazionali diverse per modalità ed
esito.
Si veda, per es., Solone 11 D:
ajnevmwn deV qavlassa taravssetai: hjVn dev tiÇ aujthVn
mhV pinh£`, pavntwn ejstiV dikaiotavth
che equivale pressappoco a:
il mare è sconvolto da venti: qualora nessuno lo
intorbidi, è la più regolare d’ogni cosa
ma Barricelli traduce:
il mare lo sconvolgono i venti: se non l’agita
nessuno, è l’elemento più normale
e ne trae il seguente T3:
L’assalto del ciclone inizia da lontano,
esordio d’una brezza spira appena, tenta
col tuono e col corrusco nembo, così tra
il cielo ed i marosi orrendo il dissidio
tra elementi.
26 Se ne veda qualche esempio in Saffo 1987, alle pagg. 98, 102, 104, 110-124, 148-182
et ultra.
27 Cfr. anche Ferrari, in Saffo 1987:90: “lo stato del testo (parole isolate e spesso solo
briciole di parole) non permette neppure un abbozzo di traduzione”.
182
Tu non diresti la marina cheta fare sua
la sfida col ribollire d’onde che
assaltano il cielo, mare tramutato in tromba
che ingoia la nave, affoga le sue genti.
Da ciò vi trovi quello ch’è di natura
umana, male incoglie quando s’inoltra il
ghigno, inizio della beffa, prima segnando
sulla bocca il riso, sussurro di parola
a mezza voce, pronubo l’occhio di concerto
alla disfida.
(Barricelli 1996:11)
Si potrebbe dire che il distico soloniano, proprio in quanto sembra
steso in una dadità enunciativa così spoglia da esser prossima ad una
fisicità neutra28, e dunque banale, a spiegarne la sopravvivenza,
impone di supporre qualcuno che vi abbia intraveduto un mistero,
qualcosa che si celi sotto la scialba superficie. Ma a leggere quanto
resta di lui, pare proprio che la sua poesia in genere non abbia altra
consistenza. D’altro canto, Aristotele, che solo in quanto uomo di
stato lo cita ne La politica e ne La costituzione ateniese, non lo menziona
ne La poetica né lo nomina lo Pseudo Longino nel suo Del sublime.
Quasimodo stesso scelse di non includerlo fra i suoi Lirici (1944),
evidentemente perché
«si era in un momento in cui la verità della poesia sembrava tutta
compresa nella veloce intensità della lirica in un’estrema lucidità di
contatti tra oggetti lontanissimi e lontanissimi tempi della memoria»
(Anceschi in Quasimodo 1951),
e Quasimodo era tutto inteso alla pregnanza, al miracolo epifanico, di
modo che in lui, secondo il Valgimigli,
è il poetare che si riflette sul tradurre, e non già il tradurre sul poetare
(ibidem).
28
È il tipo di testo che la critica operazionale denomina T1.
183
Invece la cosiddetta poesia soloniana non è che autopropaganda in
versi e – dal punto di vista operazionale29 – è in se stessa refrattaria ad
ogni autentica operazione di poesia, o intensità lirica o miracoli
epifanici, come altri dicono. D’altro canto, il poco che resta di lui è
scampato alla furia devastatrice del tempo più per intenti
documentari che estetico-antologici30. Riconosciuti i suoi meriti di
statista e legislatore31, il debito della storia verso di lui è saldato, visto
che come poeta egli è assolutamente privo di spessore e, tranne
qualche descrizione, un’immagine efficace32 o una massima riuscita,
del rimanente33 non sappiamo più che fare. La stessa critica, incerta
tra la riverenza, che crede dovuta ad un personaggio come lui, e
l’onestà intellettuale che impone la verità, ogni volta che è costretta
ad occuparsi di lui, lo fa con imbarazzo, e si mette a parlare di
desiderio di conoscenza, disinteresse, saggezza, evidenza, onestà,
29
Anche per la critica operazionale, cfr. nota 5 di questo saggio.
L’intento documentario, per esempio, per Diodoro Siculo (I sec. a.C.) era, nella sua
Biblioqhvkh (60-30), di ridurre a sintesi unitaria di storia universale i numerosi libri
(bibliva) che erano stati scritti su ciascun paese; per Plutarco (46-120 d.C.), nelle Vite
parallele, di portare al calor bianco l’umanità dei grandi personaggi antichi, in qualche
modo rappresentativi; per Filone Ebreo (c. 40 a.C.-45 d.C.), nelle sue numerose opere
filosofico-storico-esegetiche (p. es., in De opificio mundi), di connettere fra loro su un
piano filosofico-religioso, la cultura giudaica e quella greca, e ognun vede con quale
contributo alla storia della cultura occidentale; per Ateneo (fine del II sec. d.C.), nei
Sofisti a banchetto, di ridurre a compendio enciclopedico letteratura ed antiquaria; per
Clemente Alessandrino (II-III sec. d.C.), di analizzare, in Stromata, il rapporto tra
cristianesimo e paganesimo; per Diogene Laerzio (III sec. d.C.), di offrire, nelle sue
Vite di filosofi, un quadro di tutte le scuole filosofiche antiche; solo in Giovanni Stobeo
(sec. V d.C.) l’intento che lo guida, dato il fine didattico dei suoi quattro libri di
Ecloghe, parrebbe almeno crestomatico se non antologico, qualora non si avvalesse
delle scelte operate già dagli autori dei repertori precedenti ai quali egli
spassionatamente attinge.
31 Anche da questo lato, se «squarciando gli schemi del mito» (Masaracchia) si riesce
a leggere tra le righe delle testimonianze antiche anche favorevoli a lui (per es., Arist.
Respublica Atheniensium, 9,2), non solo la sua figura reale risulta «meno unitaria e
meno grandiosa del Solone leggendario» (Masaracchia), ma si vedono emergere
particolari che gettano non poca ombra sulla stessa opera politica.
32 Si veda, alla fine del fr. 24 D: wJÇ ejn kusiVn pollai`sin ejstravfhn luvkoÇ = come un
lupo tra molti cani mi voltai.
33 Compresa l’elegia delle muse e quella, così ingegnosa, delle età dell’uomo.
30
184
mesovthÇ: tutte cose, queste, che non hanno niente a che fare con la
poesia, e neppure servono a disegnare un ipotetico realismo, in lui, e
dunque a costituire un merito artistico, perché bisogna non perdere
di vista il fatto che il realismo, posto che fosse ipotizzabile già in
assoluto34, lo sarebbe solo a condizione d’essere un prodotto d’arte,
mentre tutto ciò che offre la scrittura soloniana non è arte, e oggi si
chiama piuttosto moralismo patetico, grezzo ottimismo e stucchevole
autoesaltazione, che è tutt’uno col suo - anche ai suoi tempi - scontato
statalismo e legalitarismo35.
Dopo questo accenno ad una Überreife auspicabile a carico di
Solone, diciamo che a Barricelli, però, è venuto in mente proprio che
la spoglia semplicità del distico soloniano, dovesse avere un segreto,
un oltre, come si dice: non gli pareva possibile, come del resto a tanti
altri, che Solone!, niente meno!, si appiattisse in quella banalità, e la
montagna partorisse un topastro simile. E in effetti può darsi che
34
In realtà sarebbe ora di riconoscere che il realismo non esiste né è mai esistito.
Posto che esso consista nel trasporre sulla pagina una tranche de vie, come volevano i
naturalisti francesi, è pressoché impossibile che tale tranche possa serbarsi immutata,
senza l’arte che intervenga a piegarla ai propri fini alterandone l’originario statuto di
res oggettiva. Ciò del resto è dimostrato ampiamente dai prodotti del cosiddetto
realismo ottocentesco, e in particolare da quelli verghiani. Sarebbe ovviamente
generico obiettare che il realismo consiste nel prendere spunto dalla realtà, in quanto
ciò è vero per qualsiasi tipo d’arte che intenda essere arte, e non rifrittura d’aria già
fritta e rifritta.
35 Fu Isocrate, nell’Areopagitico (357), a costruire la prima immagine idealizzata di un
Solone autore di un ordine politico perfetto, ignorando la crisi agraria, la povertà, la
scarsezza di mezzi, la seisavcqeia, i proclami guerrafondai, e quant’altro. Da allora,
questa figura fantasiosa di Solone fu spesso evocata dagli oratori per commuovere gli
ascoltatori. D’altro canto, non sono mancati detrattori e accusatori: Clidemo (IV sec.)
lo accusò di avere favorito alcuni amici (i cosiddetti crewkopivdai in occasione della
seisavcqeia facendoli arricchire; Teopompo lo include fra I demagoghi di Atene (355/44)
nonché tra gli stessi crewkopivdai e lo accusa di malgoverno e di immoralità,
giudicando confuse e ambigue le sue leggi. Quanto al ritratto positivo che ne fa
Aristotele, esso dà l’impressione d’essere una sorta di media aritmetica tra le
contrapposte valutazioni fatte da altri su di lui. Plutarco (Vite parallele, Solone) si
limita a discutere serenamente notizie e pareri altrui (anche la diceria del rapporto
omosessuale che Solone avrebbe intrecciato con Pisistrato, cosa che gli pare
confermata dalle poesie), li confronta tra loro e li accoglie o no secondo il suo
giudizio spassionato.
185
proprio (o forse solo) in quel distico un mistero ci sia, quell’oltre che
occorre ad un testo per essere poesia. Lo si intravede (Nachreife) nella
scelta di divkaioÇ (‘regolare/giusto’), It attributivo36 di qavlassa
(‘mare’) e per di più nella forma superlativa, dikaiotavth, in luogo di
un più generico ejnnomwtavth (‘il più legale’, detto più di cose che di
persone) o eujtaktotavth (‘il più ordinato’), per altro dal punto di vista
metrico pressappoco equivalenti. Il risultato (l’Op) è che la parola
scelta richiama la virtù tutta umana della dikaiosuvnh (‘giustizia’) e
per conseguenza assimila il comportamento del mare a quello di un
uomo. E c’è poi, ancora, il pinh£`, il quale non può essere che il
congiuntivo presente di pinavw, comunemente inteso nel senso
intransitivo di ‘sono sudicio’, ma qui, dato il contesto, evidentemente
è usato in luogo di pinovw, un causativo che vale ‘rendo sudicio, fo
intorbidare’, con immediato rimando (D-I) ad ambiti semantici
concernenti gli uomini, quali ‘umore torbido’, ‘coscienza sporca’ e
simili, che sono l’esatto contrario di dikaiosuvnh. In effetti, pinh£` e
dikaiotavth sono traslatori semantici, in quanto spingono il senso verso
un altro ambito e conferiscono al frammento lo statuto di allegoria37.
Posti quali punti di snodo tra l’essere e il parere, tra la lettera e
l’ajvllo, i traslatori semantici qui traslatano il senso di nuovo a campi
semantici orbitanti intorno all’ejvqoÇ umano, di modo che il lettore,
tornando indietro a rileggere, sotto la specie del mare che s’intorbida
in quanto mosso dal vento, ci vede l’uomo che si adira o che pecca
senza averlo voluto, solo per istigazione altrui.
36
Anche per questi simboli operazionali cfr. nota 5 di questo saggio. E comunque
ecco la loro spiegazione: It = intervento tecnico; Op = operazione della poesia; Dle =
dimensione linguistico-espressiva; Dsc = dimensione semantico-concettuale; D-I =
dimensione interna, che è un senso ulteriore riflesso in una Op; Tp = testo poetico; T1
= testo referenziale che in un Tp è assunto quale Dle; T2 = testo poetico, che ha la sua
Dle in un T1; T3 = riscrittura di un T2 o insieme di T2 collegati in un disegno poematico;
T4 = riscrittura di un T3 o insieme di T3 componenti una unità superiore quale una
trilogia; etc.
37 Il procedimento allegorico, infatti, si instaura attraverso un It, che conveniamo di
chiamare appunto traslazione semantica, la quale, nella poesia del Novecento
solitamente manca dei traslatori, e ciò comporta l’oscuramento del senso che
caratterizza molta di questa poesia.
186
Ora, nel tradurre, non pare che Barricelli abbia rilevato questa
relazione tra il mare mosso dal vento e l’uomo adirato per istigazione
altrui, ma nella clonazione è tuttavia riuscito non solo ad adombrare
un oltre, un retroterra connotativo forse non lontano da quello di
Solone, ma lo ha anche superato, proiettando sull’Ateniese un’altezza
di poesia quale forse mai gli riuscì di attingere da se stesso. La furia
del mare è posta a paragone con quella, altrettanto eversiva, che può
generare un ghigno, un sorriso beffardo. Da ciò si genera una
dimensione interna (D-I )38 - ed è qui il superamento - che innalza
l’assimilazione tra furia della natura e furia umana a segno
dell’universale periclitanza dell’essere umano tra bene e male, tra
essere e parere, tanto che basta poco e... che è la struttura di un
discrimine più volte avvertito nella storia della letteratura, ma non
colto esattamente, neanche in Dante, nel V dell’Inferno, il canto di
Paolo e Francesca:
Lasso! Quali dolci penser, quanto desio
menò costoro al doloroso passo!
dove desio è da prendere nel senso non di pulsione istintiva, ma in
quello più alto e nobile che è nel suo etimo, desiderare, che, stando a
Pompeo Festo, a sideribus dici certum est. In Dante dunque il desiderio
è una condizione in cui l’uomo è sospinto da “dolci penser”, che più
sono dolci, più gli paiono infusi da potenze superne, quelle stesse
onde l’amore “move il sole e l’altre stelle”. È l’illusione di questa alta
origine a garantire della loro onestà, onde l’uomo li lascia “senza
alcun sospetto” irrompere in sé, convinto che non possano che trarlo
a bene, mentre vanno a sommuovere in lui fermenti ed energie che gli
accecano lo spirito, gli oscurano “il ben dell’intelletto” e lo
sospingono “al doloroso passo” del peccato. Ecco spiegata la facilità
orrorosa: basta il poco d’abbandono ad una dolcezza, cui per di più ci
dispone la stessa natura, per consegnarsi captivus al “gran nimico”.
Ecco il discrimine facile a passare, la linea che separa i più alti e nobili
38
Vedi a questo proposito Alvino 1999.
187
sentimenti e le più basse pulsioni39, che è poi il discrimine tra bene e
male, salvezza e perdizione.
Tornando al nostro caso, quale sentimento più alto e nobile del
dolore per la scomparsa di una persona cara? Perché non esprimerlo
liberamente? Eppure, nella situazione ricreata da Barricelli dal
“clone” soloniano, si coglie nell’aria come una minaccia sospesa
(“L’assalto del ciclone inizia da lontano / esordio d’una brezza spira
appena, tenta / col tuono e col corrusco nembo”), l’incombere d’una
catastrofe che debba di lì a poco scatenarsi da quel dolore, nell’attimo
in cui si spingesse oltre limite e degenerasse nella donna in
disperazione e in furore distruttivo (“Tu non diresti la marina cheta
fare sua / la sfida col ribollire d’onde”). Pare da un momento all’altro
possibile un’insorgenza improvvisa, un accadere ingovernabile, un
puro e bruto accĭdere, prima o in assenza d’ogni giudizio o d’umana
decisione.
Questo da Barricelli è reso con quella che la critica operazionale
definisce capacità performativa, che non è la capacità di parlare di
alcunché, ma di far essere alcunché, far accadere le cose nella mente
del lettore e, corrispettivamente, nel testo. Eccone i mezzi e i modi
impiegati in questo caso: a) il nesso appositivo (“L’assalto del ciclone
inizia... / esordio d’una brezza...”; “la marina cheta fare sua... / mare
tramutato in tromba...”; “s’inoltra il ghigno... / inizio della beffa...”;
“segnando sulla bocca il riso, / sussurro di parola...”)40; tale nesso
appositivo, che inerisce alla substantia, è proprio del puro essere-in-sé
(ciò che Heidegger chiama semplice presenza) e rimpiazza quello
predicativo, che è il passo della mente ordinatrice di realtà; b) la
giustapposizione (“quello ch’è di natura umana / male incoglie”;
“Sussurro di parola a mezza voce, /pronubo l’occhio”), propria dei
data nel loro darsi primamente alla coscienza, in luogo del nesso
39
In Dante, questo pensiero diventa chiaro nel tempo severamente meditativo del
Purgatorio, e determina quel ripensamento della dottrina stilnovista, per cui l’amore
tanto più facilmente conduce alla perdizione quanto più è inteso come un nobile
sentire: in questo caso basta un punto, e l’amore è «fuor d’orto di ragione», diventa
«appetito di fera» (Cfr. anche Rime, CVI, 143, 147).
40 In queste citazioni e nelle analoghe seguenti, la barretta segna il punto di
apposizione o, rispettivamente, di giustapposizione, anziché il confine di verso.
188
logico onde questa se li assimila in cosmo; c) un andamento stichico nel
quale, attraverso ipermetrie, caudazioni e frammentazioni eslege
della struttura endecasillaba, la norma che originariamente genera la
forma-sonetto41 si rifonde tutta in un assetto ritmico-musicale che
pare governato (Op) dalle occorrenze del puro accadere (accĭdo), nella
sua accidentalità tutto affacciato sul caos; d) un corredo lessicale che
allucina incominciamenti e fini per improvvise e violente emersioni
dal nulla (o dal caos)42 e ricadute in esso43, dove non ha luogo ancora,
o non più, il governo umano44.
Consideriamo ora il brevissimo lacerto (T2 ) di Anacreonte 95b D,
80b G:
lw`poÇ ejscivsqh
È appena il caso di dire che il Diehl, quando suppone che due o
più frammenti appartengano allo stesso componimento, li raggruppa
sotto lo stesso numero d’ordine, distinguendoli tra loro con lettere
che mirano a proporre anche un sottordine o riassetto testuale. Ora il
numero 95 comprende due frammenti, a e b, che in tale prospettiva
accennerebbero ad un insieme quale: levpein
diaV devrhn ejvkoye mevsshn
kaVd deV [kefalhVn]
lw`poÇ ejscivsqh
Intendendo il diaV... ejvkoye come una tmesi di diakovptw
(‘spezzo’), si può tradurre letteralmente così:
41 Il testo in parola infatti conta pressappoco quattordici versi, onde pare che
Barricelli abbia avuto in intento proprio la forma metrica del sonetto, e poi vi abbia
applicato un It trasformativo, la cui conseguente Op sia quella qui sopra descritta.
42 Cfr. ‘assalto’, ‘ciclone’, ‘esordio’, ‘tenta’, ‘nembo’, ‘marosi’, ‘s’inoltra’.
43 Cfr.: “che ingoia la nave, affoga le sue genti”, v. 9.
44 In ciascuno dei quattro mezzi o modi specificati (nell’ordine: nesso appositivo,
giustapposizione, andamento stichico, corredo lessicale) la critica operazionale individua
un It con la conseguente Op. Per esempio, nella prima: il nesso appositivo è l’It
(‘apposizionale’), mentre il darsi dell’essere in sé è la conseguente Op, che in questo
caso diremo ‘icasmatica’.
189
(gli) spezzò il collo a mezzo
(e) dall’alto in basso
la veste fu lacerata
che è una traduzione ingenua, e occorre subito domandarsi che modo
enunciativo abbia avuto in mente lui, il poeta. L’impiego di lw`poÇ
(mantello, pallio, vestito), in luogo di iJmavtion o fa`roÇ, e di altri
sinonimi, etimologicamente collegati ad eJvnnumi, che è il civile
vestire tramite stoffe appositamente “tessute” (fa`roÇ), non pare
casuale, ma una precisa scelta, a richiamare (Op di ajnavmnhsiÇ)
subito un più brutale levpein, che è ‘squamare’, ‘sbucciare’, ‘scorzare’.
Insomma, sembra che Anacreonte abbia voluto innescare un richiamo
ad un esteriore tegumento che, strappato con violenza, lascia allo
scoperto il volto autentico45: ma che tegumento è, presunzione,
atteggiamenti convenzionali quali maschere pirandelliane ante
litteram portate con insofferenza? E queste, cadendo, che volto
mettono a nudo, comico o doloroso? Il modo enunciativo è l’ironico,
l’umoristico o il drammatico? Barricelli sceglie il modo drammatico:
ignora completamente il frammento a e, con non lieve forzatura,
intende l’espressione passiva lw`poÇ ejscivsqh (il rivestimento fu
lacerato) come un’espressione media di un soggetto sottinteso, che
immagina essere una donna. Ne deriva la traduzione:
[ella] si lacerò la veste
dove tuttavia l’Op di ajnavmnhsiÇ, già di sopra rilevata, a ‘veste’
sovrappone l’immagine di un rivestimento naturale, come buccia,
scorza e simili, che induce l’idea di copertura e nascondimento. In
questo modo, anche la situazione cambia: in T2 s’intravede un
momento di estrema violenza (un’aggressione, uno scontro) che
determini un dispogliamento e una conseguente messa a nudo, sotto
lo sguardo di tutti, di una realtà prima tenuta nascosta; Barricelli
D’altro canto, occorrono frasi come uJpoV mastivgwn levpein, levar la pelle a colpi di
sferza’.
45
190
inocula questa situazione in un momento di grande sospensione e
pathos, quello in cui una donna innamorata riceve da un messo la
ferale notizia della morte dell’amato, notizia che determina sì
anch’essa un dispogliamento e conseguente emersione di un quid che
resterebbe altrimenti sommerso e velato alla coscienza, ma
nell’intimo dell’anima, non nel fuori, mentre la lacerazione della
veste, cui è aggiunto lo strappo dei lobi insieme agli orecchini, non ne
è che il segno esteriore. E Barricelli (ri)genera o clona il seguente T3:
Si lacerò le vesti, appresa dal nuncio
la novella, moriva il prode nel suo sangue
né parola recava ma dal fuggente sguardo
l’ultimo amplesso di carezze e baci.
Essa tacendo poiché il dolore non dischiude
il labbro e la pupilla non è l’aurora che
al nautico discopre ridente o fosco l’universo
mondo.
E solo al messaggero movendo adagio gli occhi
sottrasse un funereo sguardo a dire grazie.
Le dita come rostri, strappava dai lobi sanguinanti
i bei gioielli, avare le stille non bagnarono
la gota, sepolcro sterile di pianto.
Poi mosse incerta, a stento le membra trattenendo
a non cedere alla terra.
(Barricelli 1996:113) 46
L’esito è che un contesto antico (nunzio, prode, rostri) inserito in un
quadro naturale (aurora, nautico) leopardianamente a suggerire quasi
una connessione ancora integra tra uomo e natura, serve bene a
universalizzare un senso, rilanciandolo, per Aneignung, nel pieno di
una sensibilità novecentesca, per la quale ogni accadere è trasferito
dall’esterno all’interno (Op introiettiva): in tal modo, il morire
dell’amato avviene nel sangue dell’amata; il messaggio è affidato non
alla parola, ma allo sfuggente sguardo del messo, ed è messaggio non
tanto della morte dell’amato, quanto di un amplesso ultimo che il
46
Anche questo è un sonetto trasformato.
191
morente abbia voluto inviarle telepaticamente affidandolo all’ultimo
suo sguardo; il pianto della donna, dalla dismisura del dolore, viene
rinchiuso nella gota come in un sepolcro sterile. E non è che Barricelli
attribuisca ad Anacreonte sensi che non gli competano per nulla.
Anacreonte non è un Solone e, pur nell’ambito di una sensibilità
diversa dalla nostra, al filo dell’autoironia sa tuttavia legare moti e
pensieri abissali. Si veda, per un solo esempio, questo fr. 45 D, 25 G:
Megavlwi dhuj~tev m’!ErwÇ ejvkoyen wJvste calkeuvÇ
pelevkei, ceimerivhi d’ejvlousen ejn caravdrhi.
che possiamo rendere:
Quel ferraio di Amore alla fine mi ha mazzolato di brutto, e con una
gran mazza, a fondo immergendomi in un torrente di gelido inverno.
Qui il tono generale è lieve e umoroso, ma la strana immagine di
Eros come fabbro che martella il poeta, non con una mazza qualsiasi,
ma con una mazza bella grossa, è un It trasformatore di senso:
all’improvviso l’innamorato appare composto di un duro metallo, a
lavorare il quale, a domarlo sull’incudine, occorre gran fatica e uno
strumento d’insolita pesantezza. È chiaro che il poeta allude
scherzosamente alla sua capacità di resistenza alle lusinghe
dell’amore, resistenza che è tuttavia vinta dalle grazie ammaliatrici
dell’amata. L’uso che hanno i fabbri di temprare il ferro
immergendolo arroventato nell’acqua fredda, suggerisce poi la
potente immagine che segue: Amore, dopo averlo martellato, non lo
immerge mica in una gerla d’acqua, ma in un gran torrente: con il che
il poeta fa precipitare nel testo l’idea delle acque in piena che
travolgono e portano via ogni cosa: è la sorte del poeta che, vinto
dall’amore, ne è travolto senza potervi resistere. Inoltre, quello nel
quale il poeta è gettato, non è un qualsiasi ruvax o ceimavrjrJouÇ, cioè
un torrentello che semplicemente scorra d’inverno: il semema di
caravdrh contiene anche i semi di ‘precipizio’, ‘burrone’, ‘gola’, ‘corso
d’acqua che s’apre la via sotterra’. Anzi pare proprio che sia questo il
sema centrale, quello che importava al poeta, altrimenti avrebbe
192
scelto ceimavrjrJouÇ, che oltre al sema di corrente, ha anche quello di
inverno, o freddo, o di freddo inverno, semi che Anacreonte ha
dovuto poi aggiungere con l’It appositivo di ceimerivhi. Il che tuttavia
non è un ripiego, ma si rivela una soluzione efficace, in quanto genera
una serie di dimensioni interne (Dsr2-I) di grande suggestione: 1a D-I: il
freddo nel quale è immerso il poeta, non è più soltanto di un torrente,
ma si slarga a una stagione intera, a un mondo, tutto trasformato in
torrente gelido, definitivamente, irrevocabilmente47; 2a D-I: tutto
questo gelo in cui il poeta innamorato si sente immerso, rappresenta
quella che è secondo lui la condizione di chi ama, che è di immobilità
dovuta all’incantamento operato su di lui dall’amata, con una
conseguente sospensione della sensibilità verso tutto ciò che non
riguardi l’oggetto amoroso. E ancora non basta. Il rapporto che
s’instaura tra ceimerivhi e caravdrhi (che, s’è detto, ha il senso, su
accennato, di gola, burrone, o profondità ipogea) ai contemporanei
del poeta, per i quali questo senso non era ancora opacizzato, apriva
una 3a D-I: il lampo della profondità dell’io, dell’erebo interiore,
luogo dal quale il caos di solito fa sentire la sua presenza
minacciosa48; 4a D-I: il lampeggiare di questo erebo interiore, cavità
che ingloba e inghiotte, dispone ad ambiguità la voce ejvlousen (posto
in mezzo tra ceimerivhi e caravdrhi, come il fondo dell’abisso), in
quanto il torrente d’inverno si configura anche come suo oggetto, pur
essendo grammaticalmente il suo complemento di moto in luogo, così
che è in questo luogo interiore che si riversa d’un tratto, gelandolo,
quel freddo torrente che è l’inverno.
Tutto questo indugio sul fr. 45 D non è eccessivo né ozioso.
Barricelli non solo conosce bene questo frammento, ma lo ha altresì
tradotto e clonato49.
47
Come suggeriscono gli aoristi, per cui vedi Alvino 1999.
Si tratta di una indebita applicazione all’antico di concetti moderni, freudiani?
Intanto qui non si parla di inconscio o di Es, ma del luogo ove si annida il caos, e
questo è un concetto antico; secondariamente, bisogna riflettere sul fatto che Freud
ha scoperto una dimensione che è dell’uomo di sempre. D’altro canto, quando Freud
si serve di nomi mitologici per designare stati e turbe dell’animo, forse indica (lo
sappia o no) un modo di spiegare la nascita del mito.
49 In Barricelli 1993:100.
48
193
La traduzione:
È come un fabbro Amore:
mi stronca con un maglio
enorme, e mi dilava
in torba forra gelida.
La clonazione:
Hai tu carezzato con lo sguardo un fiume
trepido di acque e poi bagnandoti
scoprivi l’alveo nudo e sterile al sole?
Rubava ad esso l’estate torrida, rubava
l’elemento che rallegra la bella stagione.
Io, versando lacrime impotenti a colmare
il gorgo del fiume, di me sovvengo quando
percorsero le vene linfe vitali.
Fu quando amore con l’immane maglio
imperversava nelle mie regioni.
Fu quando ai ripetuti assalti egli fiaccò
le membra sì che l’ultima stilla disertò
dal fiume.
Eros fu il rabdomante che staccando dal serto
il ramoscello da me rapiva le correnti.
Come si vede, in entrambi i casi, viene fuori una cosa diversa. E
che ciò sia intenzionale lo dimostra il fatto che i versi originali non
sono inclusi nella clonazione, come Barricelli fa d’ordinario, ma solo
vagamente richiamati (vv. 9-10). Nella traduzione sono conservati
tutti gli It, le Op e le dimensioni interne originali, nella misura in cui
lo consente la lingua nuova, di modo che il Tp conservi il medesimo
esponente del testo originale (T2), conformemente al modello di base
che la critica operazionale ipotizza per la traduzione poetica50. Ma
nella clonazione, It e Op sono spazzati via. Il gelo è rimpiazzato
dall’aridità, forse suggerita dalla figura del fabbro, che si porta dietro
50
V. nota 5 di questo saggio.
194
l’immagine della fucina e del fuoco. E tuttavia Barricelli ha colto
quella che sembra una caratteristica di Anacreonte, cioè il malcelare
sotto levità di superficie l’assillo del profondo.
Così, tornando ora al fr. 95b, non stupisce il fatto che alla domanda
conseguente alla forzatura interpretativa («chi e perché si lacerò le
vesti») il Barricelli non si contenti di una risposta ovvia, come «per
dolore disperato», magari di una donna, per la notizia ferale della
morte dell’amato. Come abbiamo visto il freddo torrente dilatarsi a
una gelida torrenziale stagione, e questa poi tramite un It di
ambiguitas riversarsi dentro a gelare le profondità dell’io, così per
Barricelli questo dolore andava in qualche modo esteso e dilatato
all’interno, sottraendolo - ed ecco qui l’idea, il colpo da maestro - al
tempo ed allo spazio. Ma dentro dove. Innanzi tutto nella carne
(«moriva il prode nel suo sangue»), come un viluppo intricato le cui
forti tensioni performativamente dirompono i campi dell’espressività
costituita («Essa tacendo poiché il dolore...»: che è una eslege
secondaria indipendente), senza giungere a toccare, se non in qualche
sguardo fuggevole («né parola recava ma dal fuggente sguardo /
l’ultimo amplesso di carezze e baci»), la scena esterna, dove è lasciato
solo il vuoto spalancato tra la donna allibita e il messaggero preso
dall’imbarazzo. Così, per Nachreife, il prode muore nel suo sangue, e il
pianto non tocca la gota, che resta un «sepolcro sterile». Appunto
questo sepolcro sterile credo sia il centro iconico di questa clonazione,
in quanto, per metonimia, sepolcro sterile non è solo la gota, ma la
donna tutta: questo è l’effetto che ha su lei la notizia ricevuta. Caduto
da qualche parte nei dirupi del mondo colui che la rendeva felice
(fertile < fero) la donna si ritrova improvvisamente sterile, disseccata,
muta d’essere, un niente insomma. E il nulla è nulla, non ha più
neanche un dentro né un fuori, né sostanza né apparenza. Dunque la
stessa veste non ha più ragione d’essere. Come un tegumento
divenuto inutile, va lacerata. Ed ecco l’Aneignung e il tipo di Fortleben
che può innestare.
Una simile risposta alla domanda di sopra («chi e perché si lacerò
le vesti»), nel linguaggio genettiano si chiamerebbe a limite
transmotivazione, che consiste nel trasferire da una cosa all’altra il
195
motivo di un evento o di un’azione. Ma per sua natura la
transmotivazione richiede di partire da una motivazione nota, che in
questo caso manca. Si tratta dunque di un diverso tipo
trasposizionale, che ricorre altre volte in questo libro51 e dove,
essendosi perduta la motivazione originale, ne è inventata un’altra,
clonata sul poco che resta; è perciò un sottotipo trasposizionale, che
converremo di chiamare immotivazione. Ma ciò che più importa è che
l’immotivazione qui, in una situazione che ha verosimiglianza in un
contesto antico, fa lampeggiare squarci di filosofie novecentesche, in
questo modo inarcando un singolo Esserci («che è sempre mio») in un
essere unitario e universale (Cfr. Heidegger 1976:231-245). Ed è
innegabile che questo tipo di Aneignung, così inconsueto, sia in grado
di produrre un Fortleben davvero straordinario.
Tra gli altri modi clonazionali di Barricelli52, di particolare
interesse per la nostra ricerca è quello prosecuzionale di Mimnermo 6
D:
aijV gaVr ajvter nouvswn te kaiV ajrgalevwn meledwnevwn
eJxekontaevth moi`ra kivcoi qanavtou
oh, lontano da mali e pensieri dolorosi
sessantenne mi colga il destino di morte
Qui è espressa la consapevolezza dolorosa di ciò che la vecchiaia
per sua natura comporta: non tanto un’orda di malanni fisici che
aggrediscono la carne divenuta debole, e comunque illanguidiscono i
sensi e tolgono il godimento dei colori, di care voci e suoni, di
profumi, di sapori; quanto pensieri molesti, rimpianti, rimorsi,
nostalgie, speranze morte, che tolgono il dormire la notte, o nella
veglia bloccano un gesto, annebbiano la gioia che accompagna uno
sguardo affettuoso, un sorriso tenero, e fanno torva un’espressione
che voleva essere gentile; ed è per questa via che col passare degli
anni si esce dalla vita, si viene tratti fuori, o dolorosamente
Per es., Anacreonte 52 D, Archiloco 24 D, Senofane 8 D.
Come quello ‘apofantico’ di Focilide 4 D e 7 D; l’ ‘assemblativo’ di più frammenti di
Archiloco (p. 36); quello ‘ermeneutico’ di Anacreonte 52 D, etc.
51
52
196
consapevoli ci si apparta volontariamente dagli affetti, simpatie, liete
brigate e sodalizi dolci53. È davvero una moi`ra qanavtou, una crescente
parte di morte che il vecchio si porta dentro, un lento
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia54,
a meno che il vecchio non sia, e non sia sempre stato, un allegrotto
pacioso, da grattarsi via le pene volta a volta e tornar contento al gotto
de vin. A meno che non sia Solone, insomma, così refrattario a simili
delicatezze, da suggerire a Mimnermo (chiamandolo col nome
derisivo di Liguaistavdh55) di sostituire eJxekontaevth con
ojgdwkontaevth56. Insomma, pur di vivere a lungo, è disposto a
trascinarsi fino ad ottant’anni nei malanni della vecchiaia.
Barricelli rende il distico di Mimnermo in questo modo:
Oh! Lontano da morbi e da funeste angosce,
sessantenne mi colga il dì fatale.
La clonazione produce il seguente T3, che subito va oltre questo
sound così stancamente abitudinario, verso la ricerca di un assetto
melodico-ritmico nuovo:
Lontano da morbi e da funeste angosce,
sessantenne mi colga il dì fatale, più oltre
schernendosi nel riso, l’amore
s’allontana.
Un grazie porgo al sommo, il numero accettando
dei sessanta e una ghirlanda cingo dell’alloro
rorida e verde del colore che al limite
ingiallirà di poi.
Però non vedano gli occhi l’estrema dipartita
53
Cfr. Mimnermo, fr. 1 D e 5 D.
G.Leopardi, Canto notturno d’un pastore errante nell’Asia, vv. 65-68.
55 Liguaistavdh varrebbe ‘dal canto sonoro’, ma presumibilmente vuol dire ‘stridulo’.
56 Cfr. Fr. 22 D
54
197
di faville come navicelle già lontane, ormai
sperdute nella immensità.
Diaspora di lucciole che vanno
le ultime idee del poeta che tornano alle muse
da cui ebbero abbrivo, un magma incandescente,
il bene latente nell’universo della mente.
(Barricelli 1996:12)
Qui il modo prosecuzionale si vede molto bene proprio nel logico
aggancio (v. 2) del discorso nuovo su quello antico (Aneignung). E
diremmo che esso performa il particolare Fortleben che innesca la
riscrittura, di ristabilimento di continuità tra la cultura antica e quella
moderna o postmoderna, benché ne espliciti anche un contrasto. Si
veda intanto, stesso nella movenza ritmica di quell’aggancio («più
oltre»), un moto inconsulto, che turba il discorso nello stesso modo in
cui a volte un tic turba un gesto, un’espressione del viso57: perché, sì,
venga, al compimento dei sessanta, senza disagi e malanni, il
mutamento definitivo e irreversibile della sorte che sempre reca la
presbei`a avanzata, mutamento che è per ambedue i poeti un anticipo,
una parte di morte, quantunque l’uno esplicitamente lo dica moi`ra
qanavtou, mentre l’altro lo opacizzi letterariamente in un «dì fatale»;
ma nel riscrittore, quel moto inconsulto segnala l’emersione
involontaria di ciò in cui maggiormente consiste ‘la parte di morte’ e
che più duole in Mimnermo e in lui: la fine dell’amore (teqnaiVhn,
oJvte moi mhkevti tau`ta mevloi, / kruptadivh filovthÇ: che muoia quando
più non mi curi di ciò, / d’un amore furtivo...)58. Al tempo di Mimnermo,
nonostante il nùgolo di mali fisici, l’anziano restava pur sempre al
centro dell’universale reverenza, ma di essa il poeta non sa che farsi, e
ciò che lo addolora è di diventare «inviso ai ragazzi e disprezzato
dalle donne»59. Barricelli vive in un tempo in cui non solo ai vecchi
non è usata alcuna reverenza, ma essi vengono addirittura
Si veda anche in questo una performance, in questo caso di ciò che di sopra s’è detto
dei pensieri molesti, che «bloccano un gesto, annebbiano la gioia».
58 Mimnermo Fr. 7 GP., 1D. – Stobeo IV, 20, 16, vv. 2-3.
57
59
ejcqroVÇ meVn paisivn, ajtivmatoÇ meVn gunaixivn - ivi, v. 9.
198
emarginati. Alla perdita dell’amore, che anche per lui è già una
sventura tale da potersi dire ‘parte di morte’, si aggiunge questa
universale emarginazione. Ecco perché egli subito prende a svolgere
quella sua performance della vecchiaia deserta, con l’amore che se ne
va via nei sorrisi di scherno con i quali si è soliti irretire l’anziano che
ardisca innamorarsi; con la ghirlanda d’alloro che presto ingiallisce,
insieme a qualche lode o riconoscimento, di cui la cosiddetta buona
creanza gl’impone di mostrarsi grato, anche se egli li sa comunque
falsi, o dovuti a pietà, o legati a circostanze, e per ciò stesso effimeri.
È qui l’Aneignung, l’aggancio della modernità, in quest’ultima
solitudine a cui è relegato il vecchio ai giorni nostri, in questa
universale indifferenza, non immune da spregio a volte. A Barricelli
sembra sia questa la vera porzione di morte, la moi`ra qanavtou, più
ancora che l’orda di mali, che d’altronde la scienza oggi sa contrastare
in gran parte. È meglio allora la morte definitiva ed integrale60. Solo,
si augura che non la vedano i suoi occhi, dissolvendosi magari
l’immagine che egli se n’è fatto: di un trasmigrare di lucciole, che
sono poi le idee del poeta che tornano a sciamare verso le muse, e che
sono il suo unico, vero peculio. Ma il senso ultimo dell’operazione
riscritturale potrebbe scaturire proprio dall’accostamento a contrasto
delle due costumanze, l’antica e la moderna: il vettore della storia in
questo caso sembrerebbe volgere ad una vita che non si può dire
nemmeno autofagica, in quanto il passato è distrutto e basta, senza
nemmeno nutrire il tempo nuovo.
Un frammento unico a volte è clonato doppiamente (Saffo 59 D;
Anacreonte 23 D, 83 D e 96 D; Alcmane 14 D) quasi sempre - pare - in
prospezione crescente, cioè, potremmo dire, in una gradatio
apofantica. Intendevo darne il primo caso senza alcun commento,
perché i lettori se ne facessero un’idea propria e, senza altri inciuci, si
beassero della bellezza luminosa che circola nei versi barricelliani,
quale non circolò neppure nella poesia innamorata che ne fece Alceo.
Ma la logorrea ha avuto il sopravvento. Me ne scusino i lettori.
60 Cfr. Mimnermo, fr. 2 D, v. 10: aujtivka teqnavmenai bevltion hjV bivotoÇ: è meglio
morire subito che vivere.
199
Il frammento saffico (T2 ) è:
mnavsesqaiv tina fai`mi†kaiV eJVteron† ajmmevwn
Barricelli traduce:
Io dico che taluno avrà di me memoria
Ed ecco la prima clonazione (T3 ), che stavolta porta un titolo,
Certezza:
Io dico che taluno avrà di me memoria,
di ciò presaga a te ritorna Saffo dalle
trecce viola di cui disse Alceo, che
trasognata inebrierà gli occhi.
Con te rileggo i miei poemi cui la offesa
del tempo fece venia, virtù è del papiro
se rugiadosa io stessa sopraggiungo,
è virtù del foglio s’io risorgo dalle
ceneri sparse, la chioma raccogliendo
la polvere d’oro che disperse.
Diceva Alceo, ancora del sorriso che mai
più dolce infiorò d’un volto la purezza,
è per te arduo, lettore, accedere a tale mio
pudore?
Verginità, verginità cantavo anch’io, come
d’un bene che fu mio.
(Barricelli 1996:74)
La traduzione, con quel taluno, toglie via (detractio) l’idea di alterità
che l’ejvteron aggiunge all’indefinito tivÇ. Ma l’ejvteron resta tuttavia
nella memoria del lettore, che ne percepisce l’assenza nel contesto
nuovo. Ne deriva il senso di ‘non un altro (da me diverso)’. Dunque
si tratta di lui, del poeta riscrittore, che poi si individua in quel taluno
‘quest’uno qualsiasi che io sono’. Tutto questo, nonché il futuro iniziale
mnavsesqai (non c’è bisogno di rammentare che il senso primo di
mnavomai è avere in mente, pensare, e quindi attendere a) conferiscono al
200
frammento - che altrimenti giacerebbe in una sconfortante banalità - il
senso curioso di una profezia particolare, riguardante lui, Barricelli,
che come un altro qualsiasi riscrittore un giorno (Fortleben) avrebbe
atteso a lei, a Saffo, l’avrebbe riavuta viva in mente (Aneignung), e
magari così viva l’avrebbe immessa nell’altrui mente, con la sua
faccia vera, e un candore verginale (Nachreife), magari, difficile da
credere in chi, come Saffo, da millenni ha subito la mala fama di una
facies posticcia, quella dell’impudicizia lussuriosa.
Tutto ciò, nonché l’aggettivo presaga e la forma allocutoria e
metapoetica in cui Barricelli immagina gli si rivolga Saffo, conferisce
al primo T3 anche l’aspetto di una dichiarazione di poetica. La quale,
per induzione, s’intride del pudore stesso che inerisce alla poetessa:
non lui, per virtù propria, la renderà viva, ma sarà lei stessa a
rileggere insieme a lui le sue poesie, che per se stesse («virtù è del
papiro») hanno il potere della vita eterna. Schivo e discreto, il poeta
beneventano non s’attribuisce meriti particolari: non in forza di una
virtù poetica di lui, di Barricelli, ma per virtù propria, dunque, Saffo
tornerà alle menti, tutta fresca, ancora e sempre, degli umori della
vita («rugiadosa io stessa sopraggiungo»), nell’aspetto autentico che
colse in lei il suo contemporaneo e concittadino Alceo (fr. 63 D):
ijovplok’ajvgna mellicovmeide Savpfoi
chiomata di viole, pura, dolceridente Saffo61
e il suo nome riacquisterà intero lo splendore che in qualche modo il
tempo ha disperso («la chioma raccogliendo / la polvere d’oro che
disperse» ).
L’immagine («virtù del papiro»), venutagli in questa prima
clonazione, ha suscitato presumibilmente in Barricelli l’idea di un più
intenso e consustanziale rapporto della poesia con le cose e la natura,
l’idea di una Saffo che, passata come soffio di poesia tra le presenze
visibili e invisibili, le abbia così profondamente intrise di sé da
61 Va perduto irrimediabilmente tutto il divino lucore del riferimento alle muse che il
linguaggio sacrale vi aggiungeva.
201
consustanziarvisi, da fondersi nel loro puro essere. Ed è qui che trova
aggancio la seconda clonazione, che porta lo stesso titolo:
«Io dico che taluno avrà di me memoria» sono
visibili ancora i passi che vergavo, come sul
papiro lo stilo e quando svanirà persino
l’ombra, rinverdirà il tronco.
Le foglie saranno la mia chioma, un po’ incolore,
un po’ cangiante nelle stagioni fino alla estrema,
quando canuta renderò alla terra l’ultima
vestigia delle trecce viola.
Se le foglie saranno l’abito che indosso, i rami
le fanciulle, perenne accento del tìaso anche
nella morte.
Nello stormire torneranno i versi e a tratti
quando più puro il sole nel miraggio tramuterà
la chioma in oro.
Non usignoli tradurranno in musica il verde ma
la melodia ricomporrà il vento dalle rovine.
O viandante riporta al mondo ciò che di Saffo
molto giacque.
(Barricelli 1996:75)
Dire «virtù è del papiro se rugiadosa io stessa sopraggiungo»
evidentemente era troppo poco. Bisognava specificare i come, i dove.
E qui dice che passare in mezzo al mondo è per Saffo come vergare
con lo stilo il papiro: vivere è come fare poesia, e non il papiro la
serberà incisa, ma il mondo, consustanziata in andamenti e stati e
sensi, come consustanziata l’ebbe la vita di Saffo, la storia della sua
figura. E non i deboli usignoli l’avranno nella voce, ma la possente
forza naturale presente nel vento che, anche dopo morta lei, sempre
ne può ricomporre la musica risvegliandola dalle rovine, dalle sue
disiecta membra. Magari per opera di un riscrittore.
202
Bibliografia
Alvino
1996
Alvino
1999
Anceschi
1951
Barricelli
Barricelli
Eliot
Ferroni
1993
1996
1946
1996
Gigante
Heidegger
Jung
1989
1976
1973
Kris
1967
Mandruzzato
1998
Perrotta
Pound
Quasimodo
Quasimodo
Saffo
Salina Borello
1967
1984
1944
1960
1987
1996
Scabini
1973
D. Alvino, Dove si formano le piogge,
Cittadella
D. Alvino, “Poesia e riscrittura di poesia: un
modello teorico”, Aufidus (Roma), n. 39
L. Anceschi, “Introduzione” a Quasimodo,
Lirici Greci, Milano
G. Barricelli, Le voci della Pieria, Napoli 1993
G. Barricelli, Poemi alla deriva, Napoli 1996
T. S. Eliot, Il bosco sacro, Milano 1946
G.Ferroni, Dopo la fine, sulla condizione
postuma della letteratura, Torino
M. Gigante, Classicismo e mediazione, Roma
M. Heidegger, Essere e tempo, Milano
C.G.Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, in Id.,
Opere, Torino, vol. IV
E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte,
Torino
E. Mandruzzato, Lirici greci dell’età arcaica,
Milano 19983
G. Perrotta, Saffo e Pindaro, Messina-Firenze
E. Pound, Omaggio a Sesto Properzio, Genova
S. Quasimodo, Lirici greci, Milano
S. Quasimodo, Tutte le poesie, Milano
Saffo, Poesie, a cura di F. Ferrari, Milano
R. Salina Borello, Testo, intertesto, ipertesto,
Roma
E. Scabini, Ideazione e psicoanalisi, Milano
203