POSTPRODUCTION (riassunto) - Dipartimento di Arti e Scienze
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POSTPRODUCTION (riassunto) - Dipartimento di Arti e Scienze
POSTPRODUCTION (riassunto) Postproduction è un termine tecnico del linguaggio audiovisivo usato nel mondo della tv e in quello di cinema e video. Si riferisce all'insieme di processi che riguardano il materiale di registrazione: montaggio, inserimento d’altre fonti audiovisive, sottotitolazione, voce fuori campo, ed effetti speciali. Essendo un insieme d’attività legate all’industria dei servizi e del riciclo, la post produzione appartiene ai tempi d’oggi, della società postindustriale ed anche quella dello spettacolo, infatti al settore terziario. Il materiale manipolato non è più primario: non si tratta più di elaborare una forma sul base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale, oggetti già informati da altri oggetti. I concetti d’originalità (creare qualcosa di nulla) svaniscono lentamente nel nuovo panorama culturale segnato dalle figure di deejay, VJ, e del programmatore di computer, con il compito di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti. Piuttosto si tratta delle forme di conoscenza generate dall’apparizione della rete: in breve, come orientarsi nel caos culturale e come dedurne i nuovi modi di produzione. (Bourriaud, pp 2-3). Gli artisti della PP inventano nuovi usi per le opere che includono nella loro costruzione forme audio e visive del passato. Allo stesso modo operano un editing delle narrative storiche e ideologiche, inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi. Tutte queste pratiche artistiche, per quanto eterogenee, condividono il fatto di ricorrere a forme già prodotte dimostrando cosi la volontà di inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e significati, invece che considerarla forma autonoma o originale. Non si tratta più di fare tabula rasa, di creare a partire di una materia vergine, ma di trovare il modo di inserirsi negli innumerevoli flussi di produzione. Oggi gli artisti compongono le forme più che comporle. Invece di trasfigurare un elemento crudo (la tela bianca, l’argilla…) loro ricombinano forme già disponibili utilizzandone le informazioni. Crescendo in un universo di prodotti in vendita, di forme pre-esistenti, di segnali già emessi, di edifici già costruiti, d’itinerari già battuti dai predecessori, gli artisti non considerano più il campo artistico come un museo che contiene opere da citare o “sor-passare”. Come richiedeva 1 l’ideologia modernista del nuovo, ma come tanti magazzini riempiti di utensili da usare, stoccaggi di informazioni da manipolare per essere poi rimessi in scena. 2. Il prefisso “post” non segnala alcuna negazione e superamento, ma una zona di attività, un’attitudine. I processi in questione non consistono nella produzione d’immagini, il che li connoterebbe come manieristi, ne nel lamentarsi che tutto è già stato fatto, ma nell’inventarsi protocolli di rappresentazione per tutti i modelli, le strutture formali esistenti. Bisogna apprendere tutti i codici culturali, tutte le forme della vita quotidiana, le opere del patrimonio universale, a cercarle di farle funzionare, imparare a servirsi delle forme, cosi come ci invitano a fare gli artisti, significa innanzitutto sapere come abitarle e farle proprie. (pp. 14-15) La nostra società è strutturata da narrativi, scenari immateriali, che sono più o meno rivendicati come tali e tradotti da stili di vita, riferimenti al lavoro o ai divertimenti, istituzioni e ideologie. Gli investitori dell’economia mondiale proiettano scenari sul mercato globale. I politici elaborano i piani e discorsi del futuro. Noi viviamo all’interno di questi narrativi. La divisione del lavoro è lo scenario dominante dell’occupazione; la coppia sposata è lo scenario sessuale dominante; turismo, internet e televisione rappresentano lo scenario privilegiato del tempo libero, ecc. Più o meno, siamo tutti le vittime dello scenario dello tardo capitalismo, secondo l‘artista britannico, Liam Gillick, ma che adesso viene completamente contestato e cambiato. Secondo Rene Pollesch, lo scrittore e regista tedesco, il teatro come riflessione della società non è solo uno strumento che ci permette di criticare la società, è in sé stesso un luogo che necessita uno sguardo critico. Coloro che vogliono esprimere le loro visioni critiche in scena non dovrebbero fare alcuna eccezione per loro stessi. Abbiamo bisogno di un teatro dove poter mettere in discussione il nostro stesso modo di intendere la vita e le condizioni di lavoro piuttosto che un qualche luogo neutrale dove ci è permesso criticare tutto e tutti ad eccezione di noi stessi. Inoltre, credo che il teatro possa diventare un luogo dove non dobbiamo riprodurre alcun consenso sociale al modo in cui i ruoli tradizionali vengono assegnati ai sessi – in teatro non abbiamo bisogno di nessun modello di ruolo degli generi specifici né di alcuna opposizione binaria che troviamo nella vita di tutti i giorni. Il teatro può diventare un luogo dove il dominio eterosessuale della 2 società è messo in discussione. Penso anche che sia un’area che non dovrebbe essere analizzata da una prospettiva economica, che non dovrebbe cioè essere solo orientata al profitto.1 L’analisi di Pollesch sull’ontologia politica del teatro prende la forma di una critica sistematica della partecipazione di teatro al più ampio progetto di rappresentazione dell’Occidente. Per gli artisti, come lui, che oggi contribuiscono alla nascita di una cultura della attività, le forme che ci circondano sono la materializzazione di queste narrative, che sono nascoste in ogni prodotto culturale, ma anche nell’ambiente quotidiano. In tal modo, il cellulare, un vestito, i titoli di coda di un programma televisivo, il logo d’impresa…riproducono degli scenari comunitari impliciti che inducono certi comportamenti, promuovono valori collettivi e varie visioni del mondo. Esempio: gangnam style (“l’originale” coreano, Ai Weiwei, Anish Kapoor, Crozza) 3. La differenza tra gli artisti che producono opere a partire da oggetti esistenti e coloro che operano dal nulla è la stessa descritta da Karl Marx in L’ideologia tedesca, tra ‘strumenti della produzione naturale e ‘strumenti della produzione creati dalla civiltà’. Nel primo caso, secondo Marx, gli individui sono subordinati alla natura, e nel secondo, trattano come un ‘prodotto del lavoro’ (il capitale) una combinazione tra lavoro accumulato e strumenti di produzione. Questi elementi sono tenuti insieme solo grazie allo scambio, alla transazione interumana rappresentata da un terzo elemento, il denaro. L’arte del XX secolo si sviluppa secondo uno schema analogo: la rivoluzione industriale fece sentire i suoi effetti, seppure in ritardo. Nel 1914, quando Marcel Duchamp ha esposto uno scolabottiglie, usando come “strumento di produzione” un oggetto di serie, egli ha trasportato nella sfera dell’arte il processo capitalista di produzione (lavorare a partire dal lavoro accumulato) e ha associato il ruolo dell’artista al mondo dello scambio accostandolo improvvisamente a quello del mercante contento di spostare un prodotto da un posto all’altro. 1 P. Gruszczunski, «Ambivalence», intervista con René Pollesch, TR Warszawa, 2008, www.trwarszawa.pl/en, senza paginazione. 3 Duchamp partiva dal principio che anche il consumo era un modo di produrre. Qui si parte dall’idea che dato che il consumo crea il bisogno di una nuova produzione, diventa sia il motore, che la propria motivazione, che è la prima caratteristica di readymade: stabilire un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, consumare e produrre. (p. 17) 4. Nel L’invenzione del quotidiano, lo strutturalista Michel de Certeau, analizza i movimenti nascosti sotto la superficie della famosa coppia capitalista “produzione-consumo”, dimostrando che il consumatore è impegnato in un insieme d’operazioni assimilabili ad una veritiera “produzione silenziosa” e clandestina. Servirsi di un oggetto comporta necessariamente una sua interpretazione. Utilizzare un prodotto significa a volte tradirne il concetto. Leggere, guardare un’opera d’arte o un film significa anche sapere operare uno scarto: l’uso stesso è un atto di micro-pirateria, il grado zero della postproduzione. Utilizzando la televisione, i propri libri, i propri dischi, chi fruisce della cultura impiega una retorica di pratiche e stratagemmi che hanno a che fare con l’enunciazione, con un linguaggio muto con il quale è possibile catalogarne figure e codici. È vero, come ammettono J.L. Austin, Derida, J. Butler, eppure Certeau, che, a partire dalla lingua che ci viene imposta (per descrivere il sistema della produzione), che costruiamo le nostre frasi (atti di vita quotidiana), riappropriandoci cosi di micro-bricolage clandestini, ultima parola della catena produttiva. La produzione diventa quindi “il lessico di una pratica”, cioè la materia intermediaria a partire dalla quale si articolano nuove enunciazioni, invece di rappresentare un qualunque risultato finale. Ciò che conta davvero è ciò che facciamo con gli elementi a nostra disposizione. Dunque siamo affittuari della cultura: la società è un testo la cui legge è la produzione, una legge che i cosiddetti utenti passivi scartano dall’interno grazie alla pratiche della PP. Ogni opera d’arte, suggerisce Michel de Certeau, si può abitare come un appartamento in affitto. Ascoltando musica o leggendo un libro, produciamo nuove materie, diventiamo produttori. Ogni giorno beneficiamo dei vantaggi tecnologici per organizzare questa produzione: 4 controlli a distanza, video, computer, MP3, strumenti di selezione, di ricomposizione e montaggio…gli artisti “post produttori” sono gli operai qualificati di questa riappropriazione culturale. In effetti l’appropriazione è il primo stadio della postproduzione: non si tratta più di fabbricare un oggetto, ma di selezionare uno tra quelli esistenti, di utilizzarlo e modificarlo secondo un’intenzione specifica. Se le radici di appropriazione si trovano nella storia, la sua narrativa incomincia con il readymade che ne rappresenta la prima manifestazione concettualizzata e pensata in relazione al storia dell’arte. Quando Duchamp espone come opera della mente un oggetto fabbricato (uno scolabottiglie, un orinatoio, un badile…) egli devia la problematica del processo creativo spostando l’accento sullo sguardo dell’artista su determinati oggetti, piuttosto che su una qualunque abilità manuale. Egli afferma che l’atto dello scegliere sia già abbastanza perché si stabilisca un’operazione artistica, cosi come avviene l’atto del fabbricare, del dipingere, o dello scolpire: associare un’idea a un oggetto significa già produrre. Duchamp completa cosi la definizione di creazione: pari del personaggio di una sceneggiatura. 5. Nel corso degli anni 80, la democratizzazione dell’informatica e la comparsa del sampling, hanno contribuito all’emergenza di un passaggio culturale in quel le figure emblematiche sono il DJ e il programmatore. Il remixer è diventato più importante del musicista, il rave più eccitante di un concerto. La supremazia delle culture di appropriazione e riprogrammazione delle forme chiama in cause l’etica: le opere appartengono al mondo. L’arte contemporanea tende ad abolire il diritto di proprietà delle forme, e comunque stravolge i vecchi diritti. E’ possibile che stiamo andando verso una cultura che abbandonerà il copyright a favore di una gestione di del diritto di accesso alle opere, ad una specie di comunismo delle forme… Nel 1958, e in seguito di Situazionismo Internazionale compare un nuovo concetto, quello dello scarto artistico (détournement), che si potrebbe descrivere come l’uso politico di readymade reciproco duchampiano (il suo esempio in questo caso era “Rembrandt usato come tavola da stiro”). Questo nuovo impiego d’elementi artistici pre-esistenti in una nuova unita è uno degli utensili che contribuisce a superare l’attività artistica che si basava sull’idea di un’arte “separata” e realizzata di produttori specializzati. 5 L’Internazionale Situazionista promuoveva la diversione d’opere esistenti allo scopo di rendere la vita quotidiana “appassionante” a favore della costruzione d’esperienze vissute, la fabbricazione d’opere che conservavano la divisione tra attori e spettatori dell’esistenza. (Guy Debord, La società dello spettacolo) Per i situazionisti, la città, gli edifici e le opere devono essere considerate come elementi di decoro o strumenti festivi e ludici. I situazionisti attuano la pratica della deriva, una tecnica d’attraversamento d’ambienti urbani diversi come se si trattasse di scenografie cinematografiche. Le situazioni di costruire sono opere vissute, effimere e immateriali, un’arte della fuga del tempo che resiste ad ogni limite prefissato. Lo scopo è quello di sradicare, con strumenti presi a prestito dal lessico moderno, la mediocrità di una vita quotidiana alienata davanti alla quale l’opera d’arte serve come schermo, premio di consolazione, visto che non rappresenta nient’altro che la materializzazione di una mancanza. 6. L’arte degli anni 60, dalla pop all’arte minimale e concettuale, va da pari passi con l’apogeo della coppia formata da produzione industriale e consumo di massa. I materiali utilizzati dalla scultura minimale (alluminio anodizzato, acciaio, ferro zincato, plexiglas, neon) rimandano alla tecnologia industriale, in particolare all’architettura di fabbriche e di magazzini giganteschi, oppure come lo ha definito Liam Gillick, ‘un archeologia del capitalismo’. Da parte sua, l’iconografia della pop art rimanda all’era del consumismo, alla comparsa del supermarket e nuove forme di marketing ed esso collegate: frontalità visiva, serialità, abbondanza. Queste opere introducono nella pratica artistica l’archiviazione di dati, l’ardita delle classificazione su schede, lo stesso concetto di stoccaggio. L’arte concettuale utilizza un modello informatico. Dall’inizio degli anni 80, le opere d’arte sono create sulla base delle opere già esistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono, espongono nuovamente e utilizzano opere realizzate da altri oppure altri prodotti culturali. L’arte della postproduzione sembra rispondere al caos proliferante della cultura globale nell’età dell’informazione, che è caratterizzata dall’incremento di forme ignorate e disprezzate fino ad ora dalla loro annessione al mondo dell’arte. Inserendo nella propria opera quella di altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, 6 readymade ed opera originale. Il materiale operato non è più primario. Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale, vale a dire, oggetti già informati d’altri oggetti. I concetti d’originalità (essere all'origine di) e di creazione (creare qualcosa da nulla) svaniscono lentamente nel nuovo panorama culturale segnato dalle figure gemelle del DJ e del programmatore, entrambe con il compito di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti. Ogni opera deriva da uno che l’artista proietta sulla cultura; considerata alla sua volta come cornice narrativa che produce i nuovi possibili scenari in un movimento senza fine. Gli artisti abitano attivamente le forme culturali e sociali: dj attiva la storia della musica; facendo interagire suoni già registrati, copiando e assemblando loop. In effetti, l’appropriazione è il primo stadio della postproduzione: non si tratta più di fabbricare un oggetto, ma di selezionarne uno tra quelli esistenti, di utilizzarlo e modificarlo secondo un’intenzione specifica. Infatti, dal prodotto scelto proviene la definizione della propria arte. Come ammetteva Duchamp l’atto dello scegliere sia già abbastanza perché si stabilisca un’operazione artistica, cosi come avviene con l’atto di fabbricare, del dipingere o dello scolpire: associare un’idea a un oggetto significa già produrre. Duchamp completa cosi la definizione del termine creazione: creare significa includere l’oggetto in un contesto nuovo, considerarlo al pari del personaggio di una sceneggiatura. Dagli anni 60, il concetto di opera aperta (Eco) contrasta lo schema classico della comunicazione che presuppone un emittente e un ricettore passivo. Tuttavia, se l’opera è aperta – interattiva o partecipativa- come un happening di Allan Kaprow – dà una certa latitudine al ricevente, ma gli solo permette a reagire all’impulso iniziale fornitogli dal trasmettitore, partecipare significa completare lo schema proposto. (pp, 82) Oggi, nella vita quotidiana, l’interstizio che separa produzione e consumo si restringe ogni giorno. Possiamo produrre un’opera musicale senza comporre una sola nota, servendoci di dischi già esistenti. Più in generale il consumatore personalizza e adatta i prodotti che compra alla sua personalità o ai propri bisogni. Il consumatore “estatico” sta scomparendo a favore di un consumatore intelligente e potenzialmente sovversivo: “l’utilizzatore delle forme”. (pp. 36-37) Si parla anche di arte ed estetica 7 relazionare. (i.e. zapping, fb, cinema di Manevich, Rirkrit Tiravanija, video: “Fear Eats the Soul”) 7. Il libro Postproduction comprende le forme di conoscenza generate dall’apparizione della Rete: in breve, come orientarsi nel caos culturale e come dedurne novi modi di produzione. In effetti, è impressionante vedere come gli strumenti utilizzati più frequentemente per produrre questi modelli relazionali siano opere o strutture formali pre-esistenti, come se il mondo dei prodotti culturali e delle opere d’arte costituisse un livello autonomo che fornisce strumenti di connessione tra gli individui; come se lo stabilirsi di nuove forme sociali e una vera critica delle forme di vita contemporanee debba passare per una diversa attitudine nei confronti del patrimonio artistico, attraverso la produzione di nuove relazioni con la cultura in generale e l’opera d’arte in particolare. Vi sono delle opere emblematiche che ci permettono di delineare una tipologia della postproduzione: 1. riprogrammare le opere esistenti: ( Seven Easy Pieces by Marina Abramovic, 2005); 2. abitare stili e forme storicizzate: ( Greed by Francesco Vezzolli, 2009) adattano strutture e forme minimali, pop e concettuali alle loro problematiche personali e si spingono fino a duplicare intere sequenze e serie di opere d’arte esistenti; 3. usare le immagini: (24 hour Psycho di Douglas Gordon in 1997). 4. La società come repertorio di forme (Schlingensiff) Tutte queste pratiche artistiche, per quanto eterogenee, condividono il fatto di ricorrere alle forme già prodotte dimostrando cosi la volontà di inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e significati, invece che considerarla forma autonoma oppure originale. Non si tratta più di fare tabula rasa, di creare da una materia vergine, ma di trovare il modo di inserirsi negli innumerevoli flussi di produzione. Come dice Gilles Deleuze, le cose e i pensieri crescono o s’ingrandiscono dal centro, è li che bisogna essere, dove tutto questo succede. Quindi, la questione artistica non si pone più nei termini di un “Che fare di nuovo,” ma piuttosto di “Cosa fare con quello che ci troviamo?” in altre parole, come possiamo fare per produrre singolarità e significato a cominciare da questa massa caotica di oggetti, nomi e riferimenti che costituiscono il nostro quotidiano? 8 Oggi gli artisti programmano le forme più che comporle. Invece di trasfigurare un elemento crudo (la tela bianca, l’argilla…) ricombinano forme già disponibili utilizzandone le informazioni. Crescendo in un universo di prodotti in vendita, di forme pre-esistenti di segnali già emessi, d’edifici già costruiti, d’itinerari già battuti dai predecessori, gli artisti non considerano più il campo artistico (ma aggiungiamo pure la televisione, il cinema e la letteratura) come un museo che contiene opere da citare o “sor –passare”, come richiedeva l’ideologia modernista del nuovo, ma come tanti magazzini riempiti d’utensili da usare, stoccaggi d’informazioni da manipolare per essere poi rimesse in scena. (Wittgenstein: Non cercare il significato, cercane l’uso). 8. L’invenzione di percorsi attraverso la cultura è la configurazione del sapere che accomuna la pratica del DJ, attività del web surfer e quelle degli artisti che si dedicano alla postproduzione. Sono tre esempi semionauti che producono soprattutto percorsi originali tra i segni: Oggi opera deriva da uno scenario che l’artista proietta sulla cultura, considerata a sua volta come cornice narrativa che produce nuovi possibili scenari in un movimento senza fine. L’utente dell’internet crea il proprio sito, la propria homepage, manipolando le informazioni ottenute, inventa percorsi che potrà annotare tra i suoi bookmarks e riprodurre quando vuole. Quando attiviamo un browser alla ricerca di un nome o di un tema, una miriade d’informazioni provenienti dalle banche dati si configura sui nostri schermi. L’internauta immagina luoghi e relazioni possibili tra i siti più disparati. Anche il campionatore di suoni è soggetto a un attività incessante: ascoltare musica come lavoro in se che attenua la divisione tra pratica e ricezione produce nuove cartografie del sapere. Riciclare suoni, immagini e forme in poi da una navigazione continua tra i meandri della storia della cultura, lo stesso atto del navigare diventa cosi soggetto della pratica artistica. Non è forse l’arte, secondo le parole di Marcel Duchamp, “un gioco tra uomini di tutte le epoche”? La postproduzione è la forma contemporanea di questo gioco. Quando i musicisti utilizzano un sample, sanno già che il loro contributo potrebbe essere ripreso d’altri e servire da materiale di base 9 per una nuova composizione. Per loro è normale che il trattamento sonoro del loop preso in prestito possa a sua volta generare altre interpretazioni, e cosi via. Con la musica derivata dallo sampling, il singolo pezzo non rappresenta nient’altro che un punto saliente in una cartografia mobile. Fa parte di una catena e il suo significato dipende anche della posizione che occupa in questa catena. Allo stesso modo, nel forum di una discussione online, un messaggio acuisce valore nel momento in cui viene ripreso e commentato da altri. Cosi l’opera contemporanea non è più il punto terminale del “processo creativo” (non è un “prodotto finito” da contemplare), ma un sito di navigazione, un portale, un generatore d’attività. Si manipola a cominciare dalla produzione, navighiamo in un network di segni, inseriamo le nostre forme su linee esistenti. Le varie configurazioni di un uso artistico del mondo (raccolto sotto il nome di postproduzione) vengono unite dalla rottura delle barriere tra produzione e consumo. Con questa nuova forma di cultura, che si potrebbe definire cultura d’uso o dell’attività, l’opera d’arte funziona come terminazione temporanea di una rete d’elementi interconnessi, come narrativa che si estende fino a re-interpretare le narrative che l’hanno preceduta. Ogni mostra richiude la storia di un’altra mostra; ogni opera può servire scenari multipli ed essere inserita nei programmi diversi. Non è più un punto terminale, dunque, ma un momento in una catena infinita di contribuiti. Questa cultura dell’uso implica una profonda mutazione dello statuto dell’opera d’arte. Ormai, oltre al suo ruolo tradizionale di ricettacolo della visione dell’artista, l’opera funziona come agente attivo, risultato musicale, scenario rivelatore contesto che possiede autonomia e materialità ad ogni livello, e la sua forma può oscillare dalla semplice idea alla scultura o al quadro. L’arte contraddice la cultura “passiva“, cioè quella composta da merci e mercanti, diventando generatrice di comportamenti e riutilizzi potenziali. L’arte fa funzionare le forme all’interno delle quali si svolge la nostra esistenza quotidiana e gli oggetti culturali proposti alla nostra attenzione. Possiamo paragonare la creazione artistica odierna ad uno sport collettivo, lontano dalla mitologia classica dell’impresa solitaria? 9. Riproponiamo un’arte relazionale, una nuova estetica: “Sono i spettatori che fanno i quadri,” diceva Duchamp, ed eco d’una frase che 10 si deve mettere in relazione con l’intuizione duchampiana di un’emergenza della cultura dell’uso per la quale il senso nasce dalla collaborazione, da una negoziazione tra l’artista e colui che viene a vedere l’opera. Perché il significato di un’opera non potrebbe provenire anche dall’uso che se ne fa, e non solo da quello suggerito dall’artista? Gli artisti della PP inventano nuovi usi per le opere che includono nella loro costruzione forme audio e visive del passato. Allo stesso modo operano un montaggio delle narrative storiche e ideologiche, inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi. Letteratura: Nicolas Bourriaud, Postproduction, Come l’arte riprogramma il mondo, (postmedia.books, 2002) 11