POSTPRODUCTION (riassunto) - Dipartimento di Arti e Scienze

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POSTPRODUCTION (riassunto) - Dipartimento di Arti e Scienze
POSTPRODUCTION
(riassunto)
Postproduction è un termine tecnico del linguaggio audiovisivo usato
nel mondo della tv e in quello di cinema e video. Si riferisce all'insieme
di processi che riguardano il materiale di registrazione: montaggio,
inserimento d’altre fonti audiovisive, sottotitolazione, voce fuori campo,
ed effetti speciali. Essendo un insieme d’attività legate all’industria dei
servizi e del riciclo, la post produzione appartiene ai tempi d’oggi, della
società postindustriale ed anche quella dello spettacolo, infatti al settore
terziario.
Il materiale manipolato non è più primario: non si tratta più di elaborare
una forma sul base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che
sono già in circolazione sul mercato culturale, oggetti già informati da
altri oggetti. I concetti d’originalità (creare qualcosa di nulla) svaniscono
lentamente nel nuovo panorama culturale segnato dalle figure di deejay,
VJ, e del programmatore di computer, con il compito di selezionare
oggetti culturali e includerli in nuovi contesti. Piuttosto si tratta delle
forme di conoscenza generate dall’apparizione della rete: in breve, come
orientarsi nel caos culturale e come dedurne i nuovi modi di produzione.
(Bourriaud, pp 2-3).
Gli artisti della PP inventano nuovi usi per le opere che includono nella
loro costruzione forme audio e visive del passato. Allo stesso modo
operano un editing delle narrative storiche e ideologiche, inserendo gli
elementi che le compongono in scenari alternativi.
Tutte queste pratiche artistiche, per quanto eterogenee, condividono il
fatto di ricorrere a forme già prodotte dimostrando cosi la volontà di
inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e significati,
invece che considerarla forma autonoma o originale. Non si tratta più di
fare tabula rasa, di creare a partire di una materia vergine, ma di trovare il
modo di inserirsi negli innumerevoli flussi di produzione. Oggi gli artisti
compongono le forme più che comporle. Invece di trasfigurare un
elemento crudo (la tela bianca, l’argilla…) loro ricombinano forme già
disponibili utilizzandone le informazioni.
Crescendo in un universo di prodotti in vendita, di forme pre-esistenti, di
segnali già emessi, di edifici già costruiti, d’itinerari già battuti dai
predecessori, gli artisti non considerano più il campo artistico come un
museo che contiene opere da citare o “sor-passare”. Come richiedeva
1
l’ideologia modernista del nuovo, ma come tanti magazzini riempiti di
utensili da usare, stoccaggi di informazioni da manipolare per essere poi
rimessi in scena.
2.
Il prefisso “post” non segnala alcuna negazione e superamento, ma una
zona di attività, un’attitudine. I processi in questione non consistono nella
produzione d’immagini, il che li connoterebbe come manieristi, ne nel
lamentarsi che tutto è già stato fatto, ma nell’inventarsi protocolli di
rappresentazione per tutti i modelli, le strutture formali esistenti. Bisogna
apprendere tutti i codici culturali, tutte le forme della vita quotidiana, le
opere del patrimonio universale, a cercarle di farle funzionare, imparare a
servirsi delle forme, cosi come ci invitano a fare gli artisti, significa
innanzitutto sapere come abitarle e farle proprie. (pp. 14-15)
La nostra società è strutturata da narrativi, scenari immateriali, che
sono più o meno rivendicati come tali e tradotti da stili di vita,
riferimenti al lavoro o ai divertimenti, istituzioni e ideologie. Gli
investitori dell’economia mondiale proiettano scenari sul mercato
globale. I politici elaborano i piani e discorsi del futuro. Noi viviamo
all’interno di questi narrativi. La divisione del lavoro è lo scenario
dominante dell’occupazione; la coppia sposata è lo scenario sessuale
dominante; turismo, internet e televisione rappresentano lo scenario
privilegiato del tempo libero, ecc. Più o meno, siamo tutti le vittime dello
scenario dello tardo capitalismo, secondo l‘artista britannico, Liam
Gillick, ma che adesso viene completamente contestato e cambiato.
Secondo Rene Pollesch, lo scrittore e regista tedesco, il teatro come
riflessione della società
non è solo uno strumento che ci permette di criticare la società, è in
sé stesso un luogo che necessita uno sguardo critico. Coloro che
vogliono esprimere le loro visioni critiche in scena non dovrebbero
fare alcuna eccezione per loro stessi. Abbiamo bisogno di un teatro
dove poter mettere in discussione il nostro stesso modo di intendere
la vita e le condizioni di lavoro piuttosto che un qualche luogo
neutrale dove ci è permesso criticare tutto e tutti ad eccezione di noi
stessi. Inoltre, credo che il teatro possa diventare un luogo dove non
dobbiamo riprodurre alcun consenso sociale al modo in cui i ruoli
tradizionali vengono assegnati ai sessi – in teatro non abbiamo
bisogno di nessun modello di ruolo degli generi specifici né di
alcuna opposizione binaria che troviamo nella vita di tutti i giorni. Il
teatro può diventare un luogo dove il dominio eterosessuale della
2
società è messo in discussione. Penso anche che sia un’area che non
dovrebbe essere analizzata da una prospettiva economica, che non
dovrebbe cioè essere solo orientata al profitto.1
L’analisi di Pollesch sull’ontologia politica del teatro prende la forma di
una critica sistematica della partecipazione di teatro al più ampio progetto
di rappresentazione dell’Occidente.
Per gli artisti, come lui, che oggi contribuiscono alla nascita di una
cultura della attività, le forme che ci circondano sono la
materializzazione di queste narrative, che sono nascoste in ogni prodotto
culturale, ma anche nell’ambiente quotidiano. In tal modo, il cellulare, un
vestito, i titoli di coda di un programma televisivo, il logo
d’impresa…riproducono degli scenari comunitari impliciti che inducono
certi comportamenti, promuovono valori collettivi e varie visioni del
mondo.
Esempio: gangnam style (“l’originale” coreano, Ai Weiwei, Anish
Kapoor, Crozza)
3.
La differenza tra gli artisti che producono opere a partire da oggetti
esistenti e coloro che operano dal nulla è la stessa descritta da Karl Marx
in L’ideologia tedesca, tra ‘strumenti della produzione naturale e
‘strumenti della produzione creati dalla civiltà’. Nel primo caso, secondo
Marx, gli individui sono subordinati alla natura, e nel secondo, trattano
come un ‘prodotto del lavoro’ (il capitale) una combinazione tra lavoro
accumulato e strumenti di produzione. Questi elementi sono tenuti
insieme solo grazie allo scambio, alla transazione interumana
rappresentata da un terzo elemento, il denaro.
L’arte del XX secolo si sviluppa secondo uno schema analogo: la
rivoluzione industriale fece sentire i suoi effetti, seppure in ritardo. Nel
1914, quando Marcel Duchamp ha esposto uno scolabottiglie, usando
come “strumento di produzione” un oggetto di serie, egli ha trasportato
nella sfera dell’arte il processo capitalista di produzione (lavorare a
partire dal lavoro accumulato) e ha associato il ruolo dell’artista al mondo
dello scambio accostandolo improvvisamente a quello del mercante
contento di spostare un prodotto da un posto all’altro.
1
P. Gruszczunski, «Ambivalence», intervista con René Pollesch, TR Warszawa, 2008,
www.trwarszawa.pl/en, senza paginazione.
3
Duchamp partiva dal principio che anche il consumo era un modo di
produrre. Qui si parte dall’idea che dato che il consumo crea il bisogno
di una nuova produzione, diventa sia il motore, che la propria
motivazione, che è la prima caratteristica di readymade: stabilire
un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, consumare e produrre. (p.
17)
4.
Nel L’invenzione del quotidiano, lo strutturalista Michel de Certeau,
analizza i movimenti nascosti sotto la superficie della famosa coppia
capitalista “produzione-consumo”, dimostrando che il consumatore è
impegnato in un insieme d’operazioni assimilabili ad una veritiera
“produzione silenziosa” e clandestina. Servirsi di un oggetto comporta
necessariamente una sua interpretazione. Utilizzare un prodotto
significa a volte tradirne il concetto.
Leggere, guardare un’opera d’arte o un film significa anche sapere
operare uno scarto: l’uso stesso è un atto di micro-pirateria, il grado
zero della postproduzione. Utilizzando la televisione, i propri libri, i
propri dischi, chi fruisce della cultura impiega una retorica di
pratiche e stratagemmi che hanno a che fare con l’enunciazione, con
un linguaggio muto con il quale è possibile catalogarne figure e
codici.
È vero, come ammettono J.L. Austin, Derida, J. Butler, eppure Certeau,
che, a partire dalla lingua che ci viene imposta (per descrivere il sistema
della produzione), che costruiamo le nostre frasi (atti di vita quotidiana),
riappropriandoci cosi di micro-bricolage clandestini, ultima parola della
catena produttiva. La produzione diventa quindi “il lessico di una
pratica”, cioè la materia intermediaria a partire dalla quale si articolano
nuove enunciazioni, invece di rappresentare un qualunque risultato finale.
Ciò che conta davvero è ciò che facciamo con gli elementi a nostra
disposizione. Dunque siamo affittuari della cultura: la società è un
testo la cui legge è la produzione, una legge che i cosiddetti utenti
passivi scartano dall’interno grazie alla pratiche della PP.
Ogni opera d’arte, suggerisce Michel de Certeau, si può abitare come un
appartamento in affitto. Ascoltando musica o leggendo un libro,
produciamo nuove materie, diventiamo produttori. Ogni giorno
beneficiamo dei vantaggi tecnologici per organizzare questa produzione:
4
controlli a distanza, video, computer, MP3, strumenti di selezione, di
ricomposizione e montaggio…gli artisti “post produttori” sono gli
operai qualificati di questa riappropriazione culturale. In effetti
l’appropriazione è il primo stadio della postproduzione: non si tratta più
di fabbricare un oggetto, ma di selezionare uno tra quelli esistenti, di
utilizzarlo e modificarlo secondo un’intenzione specifica. Se le radici di
appropriazione si trovano nella storia, la sua narrativa incomincia con il
readymade che ne rappresenta la prima manifestazione concettualizzata e
pensata in relazione al storia dell’arte.
Quando Duchamp espone come opera della mente un oggetto fabbricato
(uno scolabottiglie, un orinatoio, un badile…) egli devia la problematica
del processo creativo spostando l’accento sullo sguardo dell’artista su
determinati oggetti, piuttosto che su una qualunque abilità manuale. Egli
afferma che l’atto dello scegliere sia già abbastanza perché si stabilisca
un’operazione artistica, cosi come avviene l’atto del fabbricare, del
dipingere, o dello scolpire: associare un’idea a un oggetto significa già
produrre. Duchamp completa cosi la definizione di creazione: pari del
personaggio di una sceneggiatura.
5.
Nel corso degli anni 80, la democratizzazione dell’informatica e la
comparsa del sampling, hanno contribuito all’emergenza di un passaggio
culturale in quel le figure emblematiche sono il DJ e il programmatore. Il
remixer è diventato più importante del musicista, il rave più eccitante di
un concerto. La supremazia delle culture di appropriazione e
riprogrammazione delle forme chiama in cause l’etica: le opere
appartengono al mondo. L’arte contemporanea tende ad abolire il diritto
di proprietà delle forme, e comunque stravolge i vecchi diritti. E’
possibile che stiamo andando verso una cultura che abbandonerà il
copyright a favore di una gestione di del diritto di accesso alle opere, ad
una specie di comunismo delle forme…
Nel 1958, e in seguito di Situazionismo Internazionale compare un nuovo
concetto, quello dello scarto artistico (détournement), che si potrebbe
descrivere come l’uso politico di readymade reciproco duchampiano (il
suo esempio in questo caso era “Rembrandt usato come tavola da stiro”).
Questo nuovo impiego d’elementi artistici pre-esistenti in una nuova
unita è uno degli utensili che contribuisce a superare l’attività artistica
che si basava sull’idea di un’arte “separata” e realizzata di produttori
specializzati.
5
L’Internazionale Situazionista promuoveva la diversione d’opere esistenti
allo scopo di rendere la vita quotidiana “appassionante” a favore della
costruzione d’esperienze vissute, la fabbricazione d’opere che
conservavano la divisione tra attori e spettatori dell’esistenza. (Guy
Debord, La società dello spettacolo)
Per i situazionisti, la città, gli edifici e le opere devono essere considerate
come elementi di decoro o strumenti festivi e ludici. I situazionisti
attuano la pratica della deriva, una tecnica d’attraversamento d’ambienti
urbani diversi come se si trattasse di scenografie cinematografiche. Le
situazioni di costruire sono opere vissute, effimere e immateriali, un’arte
della fuga del tempo che resiste ad ogni limite prefissato.
Lo scopo è quello di sradicare, con strumenti presi a prestito dal lessico
moderno, la mediocrità di una vita quotidiana alienata davanti alla quale
l’opera d’arte serve come schermo, premio di consolazione, visto che non
rappresenta nient’altro che la materializzazione di una mancanza.
6.
L’arte degli anni 60, dalla pop all’arte minimale e concettuale, va da pari
passi con l’apogeo della coppia formata da produzione industriale e
consumo di massa. I materiali utilizzati dalla scultura minimale
(alluminio anodizzato, acciaio, ferro zincato, plexiglas, neon) rimandano
alla tecnologia industriale, in particolare all’architettura di fabbriche e di
magazzini giganteschi, oppure come lo ha definito Liam Gillick, ‘un
archeologia del capitalismo’. Da parte sua, l’iconografia della pop art
rimanda all’era del consumismo, alla comparsa del supermarket e nuove
forme di marketing ed esso collegate: frontalità visiva, serialità,
abbondanza. Queste opere introducono nella pratica artistica
l’archiviazione di dati, l’ardita delle classificazione su schede, lo stesso
concetto di stoccaggio. L’arte concettuale utilizza un modello
informatico.
Dall’inizio degli anni 80, le opere d’arte sono create sulla base delle
opere già esistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono,
espongono nuovamente e utilizzano opere realizzate da altri oppure altri
prodotti culturali. L’arte della postproduzione sembra rispondere al caos
proliferante della cultura globale nell’età dell’informazione, che è
caratterizzata dall’incremento di forme ignorate e disprezzate fino ad ora
dalla loro annessione al mondo dell’arte. Inserendo nella propria opera
quella di altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della
tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia,
6
readymade ed opera originale. Il materiale operato non è più
primario.
Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma
di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale,
vale a dire, oggetti già informati d’altri oggetti. I concetti d’originalità
(essere all'origine di) e di creazione (creare qualcosa da nulla) svaniscono
lentamente nel nuovo panorama culturale segnato dalle figure gemelle del
DJ e del programmatore, entrambe con il compito di selezionare oggetti
culturali e includerli in nuovi contesti. Ogni opera deriva da uno che
l’artista proietta sulla cultura; considerata alla sua volta come cornice
narrativa che produce i nuovi possibili scenari in un movimento senza
fine. Gli artisti abitano attivamente le forme culturali e sociali: dj attiva la
storia della musica; facendo interagire suoni già registrati, copiando e
assemblando loop.
In effetti, l’appropriazione è il primo stadio della postproduzione:
non si tratta più di fabbricare un oggetto, ma di selezionarne uno tra
quelli esistenti, di utilizzarlo e modificarlo secondo un’intenzione
specifica.
Infatti, dal prodotto scelto proviene la definizione della propria arte.
Come ammetteva Duchamp l’atto dello scegliere sia già abbastanza
perché si stabilisca un’operazione artistica, cosi come avviene con l’atto
di fabbricare, del dipingere o dello scolpire: associare un’idea a un
oggetto significa già produrre. Duchamp completa cosi la definizione del
termine creazione: creare significa includere l’oggetto in un contesto
nuovo, considerarlo al pari del personaggio di una sceneggiatura.
Dagli anni 60, il concetto di opera aperta (Eco) contrasta lo schema
classico della comunicazione che presuppone un emittente e un ricettore
passivo. Tuttavia, se l’opera è aperta – interattiva o partecipativa- come
un happening di Allan Kaprow – dà una certa latitudine al ricevente, ma
gli solo permette a reagire all’impulso iniziale fornitogli dal trasmettitore,
partecipare significa completare lo schema proposto. (pp, 82)
Oggi, nella vita quotidiana, l’interstizio che separa produzione e consumo
si restringe ogni giorno. Possiamo produrre un’opera musicale senza
comporre una sola nota, servendoci di dischi già esistenti. Più in generale
il consumatore personalizza e adatta i prodotti che compra alla sua
personalità o ai propri bisogni. Il consumatore “estatico” sta scomparendo
a favore di un consumatore intelligente e potenzialmente sovversivo:
“l’utilizzatore delle forme”. (pp. 36-37) Si parla anche di arte ed estetica
7
relazionare. (i.e. zapping, fb, cinema di Manevich, Rirkrit Tiravanija,
video: “Fear Eats the Soul”)
7.
Il libro Postproduction comprende le forme di conoscenza generate
dall’apparizione della Rete: in breve, come orientarsi nel caos culturale
e come dedurne novi modi di produzione. In effetti, è impressionante
vedere come gli strumenti utilizzati più frequentemente per produrre
questi modelli relazionali siano opere o strutture formali pre-esistenti,
come se il mondo dei prodotti culturali e delle opere d’arte costituisse un
livello autonomo che fornisce strumenti di connessione tra gli individui;
come se lo stabilirsi di nuove forme sociali e una vera critica delle forme
di vita contemporanee debba passare per una diversa attitudine nei
confronti del patrimonio artistico, attraverso la produzione di nuove
relazioni con la cultura in generale e l’opera d’arte in particolare.
Vi sono delle opere emblematiche che ci permettono di delineare una
tipologia della postproduzione:
1. riprogrammare le opere esistenti: ( Seven Easy Pieces by Marina
Abramovic, 2005);
2. abitare stili e forme storicizzate: ( Greed by Francesco Vezzolli,
2009) adattano strutture e forme minimali, pop e concettuali alle
loro problematiche personali e si spingono fino a duplicare intere
sequenze e serie di opere d’arte esistenti;
3. usare le immagini: (24 hour Psycho di Douglas Gordon in 1997).
4. La società come repertorio di forme (Schlingensiff)
Tutte queste pratiche artistiche, per quanto eterogenee, condividono il
fatto di ricorrere alle forme già prodotte dimostrando cosi la volontà di
inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e significati,
invece che considerarla forma autonoma oppure originale. Non si
tratta più di fare tabula rasa, di creare da una materia vergine, ma di
trovare il modo di inserirsi negli innumerevoli flussi di produzione.
Come dice Gilles Deleuze, le cose e i pensieri crescono o
s’ingrandiscono dal centro, è li che bisogna essere, dove tutto questo
succede. Quindi, la questione artistica non si pone più nei termini di
un “Che fare di nuovo,” ma piuttosto di “Cosa fare con quello che ci
troviamo?” in altre parole, come possiamo fare per produrre
singolarità e significato a cominciare da questa massa caotica di
oggetti, nomi e riferimenti che costituiscono il nostro quotidiano?
8
Oggi gli artisti programmano le forme più che comporle. Invece di
trasfigurare un elemento crudo (la tela bianca, l’argilla…)
ricombinano forme già disponibili utilizzandone le informazioni.
Crescendo in un universo di prodotti in vendita, di forme pre-esistenti
di segnali già emessi, d’edifici già costruiti, d’itinerari già battuti dai
predecessori, gli artisti non considerano più il campo artistico (ma
aggiungiamo pure la televisione, il cinema e la letteratura) come un
museo che contiene opere da citare o “sor –passare”, come richiedeva
l’ideologia modernista del nuovo, ma come tanti magazzini riempiti
d’utensili da usare, stoccaggi d’informazioni da manipolare per essere
poi rimesse in scena. (Wittgenstein: Non cercare il significato,
cercane l’uso).
8.
L’invenzione di percorsi attraverso la cultura è la configurazione del
sapere che accomuna la pratica del DJ, attività del web surfer e quelle
degli artisti che si dedicano alla postproduzione. Sono tre esempi
semionauti che producono soprattutto percorsi originali tra i
segni: Oggi opera deriva da uno scenario che l’artista proietta sulla
cultura, considerata a sua volta come cornice narrativa che produce
nuovi possibili scenari in un movimento senza fine.
L’utente dell’internet crea il proprio sito, la propria homepage,
manipolando le informazioni ottenute, inventa percorsi che potrà
annotare tra i suoi bookmarks e riprodurre quando vuole. Quando
attiviamo un browser alla ricerca di un nome o di un tema, una
miriade d’informazioni provenienti dalle banche dati si configura sui
nostri schermi.
L’internauta immagina luoghi e relazioni possibili tra i siti più
disparati. Anche il campionatore di suoni è soggetto a un attività
incessante: ascoltare musica come lavoro in se che attenua la divisione
tra pratica e ricezione produce nuove cartografie del sapere. Riciclare
suoni, immagini e forme in poi da una navigazione continua tra i
meandri della storia della cultura, lo stesso atto del navigare diventa
cosi soggetto della pratica artistica. Non è forse l’arte, secondo le
parole di Marcel Duchamp, “un gioco tra uomini di tutte le epoche”?
La postproduzione è la forma contemporanea di questo gioco.
Quando i musicisti utilizzano un sample, sanno già che il loro
contributo potrebbe essere ripreso d’altri e servire da materiale di base
9
per una nuova composizione. Per loro è normale che il trattamento
sonoro del loop preso in prestito possa a sua volta generare altre
interpretazioni, e cosi via. Con la musica derivata dallo sampling, il
singolo pezzo non rappresenta nient’altro che un punto saliente in una
cartografia mobile. Fa parte di una catena e il suo significato dipende
anche della posizione che occupa in questa catena.
Allo stesso modo, nel forum di una discussione online, un messaggio
acuisce valore nel momento in cui viene ripreso e commentato da altri.
Cosi l’opera contemporanea non è più il punto terminale del “processo
creativo” (non è un “prodotto finito” da contemplare), ma un sito di
navigazione, un portale, un generatore d’attività. Si manipola a
cominciare dalla produzione, navighiamo in un network di segni,
inseriamo le nostre forme su linee esistenti.
Le varie configurazioni di un uso artistico del mondo (raccolto sotto il
nome di postproduzione) vengono unite dalla rottura delle barriere tra
produzione e consumo. Con questa nuova forma di cultura, che si
potrebbe definire cultura d’uso o dell’attività, l’opera d’arte
funziona come terminazione temporanea di una rete d’elementi
interconnessi, come narrativa che si estende fino a re-interpretare le
narrative che l’hanno preceduta. Ogni mostra richiude la storia di
un’altra mostra; ogni opera può servire scenari multipli ed essere
inserita nei programmi diversi. Non è più un punto terminale, dunque,
ma un momento in una catena infinita di contribuiti.
Questa cultura dell’uso implica una profonda mutazione dello statuto
dell’opera d’arte. Ormai, oltre al suo ruolo tradizionale di ricettacolo
della visione dell’artista, l’opera funziona come agente attivo, risultato
musicale, scenario rivelatore contesto che possiede autonomia e
materialità ad ogni livello, e la sua forma può oscillare dalla semplice
idea alla scultura o al quadro. L’arte contraddice la cultura
“passiva“, cioè quella composta da merci e mercanti, diventando
generatrice di comportamenti e riutilizzi potenziali. L’arte fa
funzionare le forme all’interno delle quali si svolge la nostra
esistenza quotidiana e gli oggetti culturali proposti alla nostra
attenzione. Possiamo paragonare la creazione artistica odierna ad uno
sport collettivo, lontano dalla mitologia classica dell’impresa solitaria?
9.
Riproponiamo un’arte relazionale, una nuova estetica: “Sono i
spettatori che fanno i quadri,” diceva Duchamp, ed eco d’una frase che
10
si deve mettere in relazione con l’intuizione duchampiana di
un’emergenza della cultura dell’uso per la quale il senso nasce dalla
collaborazione, da una negoziazione tra l’artista e colui che viene a
vedere l’opera. Perché il significato di un’opera non potrebbe
provenire anche dall’uso che se ne fa, e non solo da quello suggerito
dall’artista?
Gli artisti della PP inventano nuovi usi per le opere che includono
nella loro costruzione forme audio e visive del passato. Allo stesso
modo operano un montaggio delle narrative storiche e ideologiche,
inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi.
Letteratura:
Nicolas Bourriaud, Postproduction, Come l’arte riprogramma il
mondo, (postmedia.books, 2002)
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