Prime Pagine

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Prime Pagine
Carlo Verri
La guerra di Bruno Trentin
Bruno Trentin si è spento il 23
agosto 2007; da quella data si è
andato manifestando, nel dibattito
pubblico e nei luoghi della produzione culturale del Paese, un certo interesse per la figura dell’ex-leader della
Cgil. Per esempio, la Fondazione Di
Vittorio ha dato vita ad un “gruppo di
lavoro Bruno Trentin” con il compito
di studiare il personaggio e la sua
opera, oltre che di predisporre gli
strumenti atti a consentire la ricerca
altrui. Sono già usciti – presso Ediesse nel 2008 – due volumi frutto di
tale operazione: Bruno Trentin. Dalla
guerra partigiana alla Cgil (atti di un
convegno) e Lavoro e libertà, dello
stesso Bruno Trentin.
Rientra in un simile contesto di
iniziative, volte a stimolare la conoscenza di un protagonista della
nostra storia repubblicana, la pubblicazione del suo diario di guerra
(Bruno Trentin, Diario di guerra (settembre-novembre 1943), Donzelli,
Roma, 2008), con introduzione di
Iginio Ariemma – il quale, tra l’altro,
è il coordinatore del gruppo di lavoro – e postfazione di Claudio Pavone.
Si tratta di un piccolo testo risalente alla fine del ‘43, che l’autore non
ancora diciassettenne – appena
giunto in Italia – redige in francese,
Mediterranea
n.
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praticamente la sua lingua madre. Il
giovane è nato il 9 dicembre 1926
nel sud-ovest della Francia, dove
sino a quel momento è sempre vissuto, pur essendo figlio di genitori
italiani, perché il padre – Silvio
Trentin – è un fuoruscito antifascista, militante di Gl e del Partito
d’Azione. Questi ha un ruolo di
primo piano nelle attività di sostegno alla Repubblica spagnola e, poi,
dal 1941 nella Resistenza francese
(tra i fondatori del movimento “Liberer et Federer”); il 4 settembre 1943
torna in Veneto dopo 17 anni d’esilio con la moglie e i due figli maschi
(la sorella di Giorgio e Bruno, Franca, rimane a Tolosa).
Il diario si apre il 22 settembre
1943, con il racconto di quanto era
successo dal momento della diffusione della notizia dell’armistizio l’8 settembre: all’iniziale gioia della popolazione si sostituisce ben presto la preoccupazione e la paura per l’occupazione nazista. Bruno accompagna il
padre nei vari incontri con le autorità militari e civili nel tentativo di
organizzare la resistenza armata, ma
di fronte al loro rifiuto l’unica cosa
da farsi – per il momento – è nascondersi in campagna e iniziare a organizzare la lotta. All’inizio è un perio-
Ricerche storiche
Anno V - Dicembre 2008
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do di semi-clandestinità, di preparazione, di presa di contatti tra vari
gruppi e persone, di spostamenti tra
Treviso, Venezia e Padova, come
pure di attesa, grazie alla quale l’autore trova il tempo di dedicarsi alla
stesura di queste pagine. In esse vi
sono solo pochissimi accenni all’attività che, di lì a poche settimane, porterà Silvio Trentin a essere uno dei
capi del Cln veneto, assieme a Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti.
Invece, per ovvie ragioni di riservatezza, l’autore si concentra nell’esporre giorno per giorno le notizie
sulla guerra apprese dai differenti
giornali italiani, da Radio Londra e
da varie agenzie; le riporta in una
forma ordinata e assai meditata con
sottolineature in nero, rosso e blu.
Accompagnate da cartine e ritagli di
stampa incollati alle pagine, le informazioni sono suddivise per sezioni
corrispondenti ai vari teatri delle
operazioni belliche: Italia, Russia,
Corsica, attività aerea e navale, «sui
fronti di Resistenza», questa a sua
volta composta di paragrafi dedicati
alla Jugoslavia, all’Italia, alla Danimarca, alla Polonia, alla Francia,
alla Grecia, ecc. Pregio della pubblicazione è il rispetto, compatibilmente con le esigenze della traduzione,
delle modalità grafiche con cui nel
manoscritto i materiali sono stati
organizzati e posti su carta, attraverso – per esempio – la riproduzione
fotografica degli inserti; il tutto,
secondo la nota redazionale, per
«restituire al lettore […] la suggestione della pagina del diario».
Per quanto riguarda l’andamento
del testo, dopo il 13 ottobre, le notizie non vengono più riportate quotidianamente, ma con una cadenza
molto più dilatata dai tre ai sei giorni; la motivazione è fornita dallo
stesso estensore, il quale scrive di
aver intrapreso l’azione di «liberazione del mio paese» (p. 139), di conseguenza gli manca il tempo da dedicare al diario. È il segno che Silvio (e
con lui Bruno) è passato alla completa clandestinità e ha iniziato la
vera e propria guerra partigiana.
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Il libro termina il 15 novembre;
dopo quattro giorni – il 19 – padre e
figlio vengono arrestati a Padova dai
fascisti, probabilmente a causa di
una spiata; in carcere il primo ha
un grave attacco al cuore e così, sorvegliato e piantonato perché noto
oppositore, viene trasferito all’ospedale di Treviso, mentre il secondo
viene rilasciato poco prima non
essendovi nulla a suo carico. Silvio
muore il 12 marzo 1944, Bruno
(affidato a Leo Valiani) si impegna
sempre di più nella Resistenza
prima in Veneto e poi a Milano.
Molti sono gli aspetti di notevole
interesse di Diario di guerra da sottolineare, come molteplici sono gli
spunti per la riflessione da esso
offerti sia nell’introduzione, sia nella
postfazione. Qui preme soprattutto
soffermarsi sul tema che percorre
tutto lo scritto e lo informa di sé,
dandogli spessore: la componente
etica palesemente operante nella
scelta resistenziale del giovane in
questione, come del resto di tanti
soggetti che l’hanno compiuta. Essa
è evidente laddove si individua il
fine della battaglia appena iniziata
nell’emancipazione del popolo, sulle
cui capacità l’autore si esprime
sempre – dopo le primissime pagine
– con estremo ottimismo (pp. 25,
148), perché ora la gente respira
aria di libertà, sente innato in sé
«l’amore della libertà e della Repubblica, della vera Repubblica» (p. 67).
Viene intrapresa la «lotta socialista,
comunista e federalista» (p. 66),
«affinché l’Italia abbia il suo posto di
Nazione Libera», «emancipata» e
«vergine» (p. 153). In un simile contesto, ovviamente, è onnipresente
l’obiettivo della rivoluzione sociale,
evento auspicato e invocato, nel
quale si confondono impastandosi
tra di loro l’ideale di libertà, il comunismo e il patriottismo (pp. 107,
111, 133, 173, 211-212). Anche in
Bruno, quindi, la spinta morale,
assai diffusa nella generazione resistenziale, porta all’elaborazione di
una opzione di cambiamento radicale: rifare il paese da capo (pp.
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172-173). A questa si lega un conseguente giudizio di condanna senz’appello nei confronti di coloro che
in passato hanno tradito: singole
persone e classi sociali (il re e la borghesia, pp. 64-67, 182-183); ideologie (la socialdemocrazia, pp. 34-35).
In una tale generale impostazione di lotta per la libertà trova ampio
spazio, senza soluzione di continuità, un apprezzamento estremamente positivo di Stalin, della III Internazionale, dell’Unione sovietica e
dell’Armata rossa; spesso messi in
netta contrapposizione ai governi di
Inghilterra e Stati Uniti (pp. 10, 16,
89, 101, 170-171, 179, 206). Tutto
ciò, a prima vista fortemente contraddittorio, deve esser però contestualizzato. Innanzitutto, la guerra
contro il fascismo stava per essere
vinta anche grazie al concorso dell’esercito russo sul fronte orientale
e, questo, a Bruno ovviamente non
sfugge; è così possibile che il prestigio militare guadagnato da Mosca
sul campo sortisca i suoi effetti.
Inoltre – forse l’elemento di maggior
peso da considerare – l’adolescente
figlio dell’esponente di sinistra del
Pd’A subisce qui, potentemente, la
sua influenza sul piano politicoideologico. Sul finire del 2007 è
uscito presso Lacaita un saggio inedito di Silvio, probabilmente l’ultimo, del 1944: Le determinanti dialettiche e gli sbocchi ideologici ed istituzionali della rivoluzione antifascista [europea], uno scritto che forse
avrebbe meritato una più curata
edizione. In esso si ritrova identico il
nodo problematico ora delineato per
Diario di guerra. Infatti, il comunismo liberale di Trentin padre (collettivismo e stato federale modellato
sulle esigenze della società) convive
nel breve testo con i meriti da lui
riconosciuti all’Unione sovietica e al
partito bolscevico; una realtà non
inclusa nel concetto di totalitarismo, come pure implicitamente
avviene nel libro di Bruno (p. 113).
Sin dai primi anni Trenta l’aderente
a Gl pensa per l’Italia a una rivoluzione socialista differente da quella
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sovietica, di cui riconosce i limiti
dovuti alla sistematica soppressione
delle libertà; egli invece, al tempo
stesso, individua nel regime staliniano il necessario alleato per vincere la resistenza del capitalismo
internazionale all’instaurazione di
un collettivismo integrale nella penisola. Da quel momento, nell’opinione dell’esule, una simile ipotesi
rimarrà sempre in campo (non però
nel biennio del patto nazi-sovietico).
Anche sulla scorta della lettura del
Diario, si asserisce come alla fine del
1943 Bruno reputi valido il medesimo schema dei rapporti di forza.
Appare dunque comprensibile che
nel momento in cui i due –Silvio e di
conserva Bruno – sentono finalmente assai vicino il traguardo della
rivoluzione, perché il fascismo sta
per cadere, siano anche portati ad
esaltare il ruolo positivo svolto dall’Urss, secondo il loro parere – in
quei frangenti – l’unico possibile
amico a livello internazionale di
un’Italia rinnovata nella direzione
voluta. Di certo, nel caso del ragazzo dall’indole ribelle e non ancora
diciassettenne, ciò si verifica con
una dose di maggior ingenuità.
Da questo punto di vista, alla
luce degli eventi successivi, il libro
del futuro sindacalista testimonia
tra l’altro a quali insormontabili
ostacoli dovessero andare incontro i
vari progetti alternativi al fascismo,
al capitalismo e allo stalinismo, elaborati tra le due guerre mondiali
dall’antifascismo democratico di
sinistra; difficoltà tali da determinarne inesorabilmente di lì a poco il
fallimento. Infine, riflettendo sul
tipo di fonte rappresentata dal libro,
la diaristica sembra illustrare adeguatamente come il passaggio dall’antifascismo durante il regime a
quello in età repubblicana, si sia
spesso configurato nei termini di un
ricambio generazionale interno a
singole storie familiari: in questo
caso da padre a figlio, come per
esempio per Giovanni e Giorgio
Amendola.
Carlo Verri
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Antonella Scandone
L’emigrazione italiana in Tunisia (1881-1939)
Lo stretto braccio di mare che,
insieme, divide e unisce le sponde
meridionali dell’Europa e i paesi del
Maghreb, da sempre è stato attraversato da una moltitudine in cerca
di condizioni di vita migliori. Sorprende non pochi, però, apprendere
che c’è stata un’epoca nella quale,
ad affrontare gli appena centoquaranta chilometri che separano la
Sicilia dalla Tunisia, erano gli italiani, spesso in fuga da malattie e
miseria. Non fu solo, dunque, la
“Merica” ad accogliere, alla fine dell’Ottocento, le moltitudini dolenti,
ma anche l’Egitto, il Marocco, l’Algeria e, soprattutto, la Tunisia. Da un
censimento degli italiani all’estero
effettuato nel 1924, risulta che in
Tunisia risiedevano ben 91 mila italiani e che altri 94 mila vivevano tra
l’Egitto, il Marocco e l’Algeria; e si
trattava, per lo più, di un’immigrazione proletaria, risalente a un’epoca anteriore all’occupazione francese del maggio 1881. E questa pagina spesso dimenticata della storia
italiana è stata oggetto di un accurato studio di Daniela Melfa, docente di Storia ed istituzioni dell’Africa
presso l’Università di Catania, i cui
risultati hanno portato alla pubblicazione di “Migrando a sud”. Coloni
italiani in Tunisia 1881-1939 (Aracne, Roma, 2008, pp. 258).
Gli immigrati che, a partire dal
1870 individuarono la Tunisia come
la loro terra promessa, provenivano
in gran parte dal Sud dell’Italia. Dei
circa 80 mila italiani censiti all’inizio
del Novecento, oltre il 70 per cento
era siciliano, tanto che, nei documenti ufficiali dell’epoca, si parla
spesso dei siciliani, facendo riferimento, più in generali, agli italiani.
Le condizioni climatiche molto
simili a quelle del paese d’origine e
l’assenza, almeno fino alla fine del-
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l’Ottocento, di formalità burocratiche per entrare in Tunisia, spinsero molti a sceglierla come meta per
la creazione di un nuovo possibile
futuro. Tra gli stessi siciliani, poi,
la Tunisia divenne la nuova patria
per interi nuclei familiari composti,
per lo più, da persone provenienti
dalle province di Palermo e Trapani, nonché dall’isola di Pantelleria.
I panteschi erano così numerosi da
essere riportati spesso, nelle tabelle statistiche e in alcuni documenti
ufficiali dell’epoca, come un gruppo
separato.
Dei siciliani vengono unanimemente riconosciute la resistenza al
lavoro e la praticità d’idee. La maggior parte di loro trovò lavoro nei
cantieri per la realizzazione di strade, ferrovie, porti, caserme e fortificazioni. Molti furono gli addetti
all’agricoltura ma è soprattutto nel
settore viti-vinicolo che gli italiani si
distinsero divenendo produttori di
vino in terra musulmana. Da lì presero il via intere genie di viticoltori,
che stravolsero, nel bene e nel male,
le tecniche di coltivazione delle viti e
della produzione vinicola. Furono i
siciliani a introdurre alla fine dell’Ottocento, l’uva moscato, detta
anche zibibbo o moscato d’Alessandria. Le disposizioni governative
provarono a vietare l’introduzione di
questi vitigni, ma l’ingegno dei panteschi fu più tenace dei controlli
doganali francesi e i vitigni si trasformarono in clandestini. Giuseppe Gabriele racconta che «alcuni
viticoltori costruirono una grande
gabbia fatta con sarmenti di vigna
di moscato, intrecciati tra loro, ed
all’interno di questa misero delle
galline. Quindi affidarono il tutto ad
una vecchia contadina che veniva
per la prima volta in Tunisia, semianalfabeta, che non parlava l’italiano
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e ancor meno il francese, ma solo il
pantesco stretto. Arrivò su una
barca a remi con la sua famiglia.
Quando queste persone sbarcarono
a Kelibia, i doganieri francesi videro
quei poveri contadini, con le loro
misere masserizie e la gabbia con le
galline e li lasciarono transitare,
senza alcun problema. Non potevano mai immaginare che in quella
gabbia c’erano gli innesti del Moscato d’Alessandria d’Egitto, l’oro di
Pantelleria. E così in dieci anni il
Frontignan sparì dalla Kelibia».
Ma tra la varietà di viti coltivate
nei vigneti italiani in Tunisia c’erano
anche altri legnaggi importati dalla
Sicilia come il caterratto, l’inzolia e
il perticone. Gli italiani, dunque, più
che colonizzatori furono coloni e in
qualche modo lasciarono delle tracce indelebili in quei posti.
Ma a giungere in terra tunisina
clandestinamente non furono solo i
vitigni: numerosi esuli politici d’orientamento anarchico, repubblicano,
socialista e comunista, vi si rifugiarono. Tra questi l’anarchico Nicolò Con-
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verti che, condannato in Italia a ventidue mesi di prigione, giunse a Tunisi nel 1887; e negli Trenta del secolo
successivo, arrivarono in Tunisia
anche militanti antifascisti come
Giorgio Amendola e Velio Spano, dirigenti del partito comunista. Ma la
terra maghrebina offrì, inconsapevolmente, rifugio anche ai renitenti alla
leva obbligatoria imposta dopo l’unità
d’Italia. E non mancarono pure quanti tentarono, approdando clandestinamente in Tunisia, di fuggire alla
mafia siciliana.
«Uno degli aspetti che mi ha colpito ed interessato di più durante le
mie ricerche – spiega Daniela Melfa
– è che la presenza italiana nei territori del protettorato francese,
emerge in modo più che positivo,
quasi come se il tempo trascorso
avesse messo un velo a coprire tensioni che pure ci furono. Ma del
resto, noi italiani sembriamo aver
completamente rimosso dal nostro
patrimonio culturale l’esperienza
coloniale».
Antonella Scandone
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