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L’Italia e le sfide mediterranee alla sicurezza: instabilità politica, terrorismo e migrazioni irregolari 45 June 2015 Authors: Daniele Scalea Chiara Ginesti Valeria Ruggiu Language: Italian Keywords: Stabilization of MENA Terrorism and jihadism Migratory flows Islamic State Libya ISSN: 2281-8553 © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie ABSTRACT The aim of this report is to analyze security challenges to Italy coming from the Mediterranean. Three main issues have been identified as the most urgent and important. First of all, political and institutional stabilization of the region, one example for all is Libya. A country so close to our shores that is struggling for a new definition of the state among jihadist formations, tribes and sects. MENA countries have been shaken by a political earthquake that has reshaped the region and created a new uneasily readable geopolitical paradigm. Secondly, fighting against terrorism and jihadism in its various forms. Al-Qaeda and Da’ish are complex phenomena whose weight goes beyond its local power but has repercussion on regional level (Syrian crisis), and international level (foreign fighters and jihadist propaganda). Hard choices need to be taken to deal with the Islamic State on a military level, financial and ideological level both inside Arab countries and in the West. Thirdly, possible solutions to the rising migratory flow towards our peninsula. Italy is a transit country but has the duty of examining and processing applications for asylum seekers. Immigration could bore positive contributions to Italy but long term solutions need to be found and implemented in Europe and on a regional level tackling the structural causes of mass migration, namely political instability, human insecurity, and poverty. DANIELE SCALEA Director-general, IsAG, Rome. [email protected] CHIARA GINESTI Researcher, IsAG, Rome. [email protected] VALERIA RUGGIU Director of the “North Africa and Near East” Programme, IsAG, Rome. [email protected] Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 2 SOMMARIO ESECUTIVO Questo Report dell’IsAG intende prendere in considerazione le sfide alla sicurezza dell’Italia provenienti dal Mediterraneo, focalizzandosi su tre punti individuati come di maggiore urgenza e rilievo: la stabilizzazione politico-istituzionale dei Paesi regionali (in particolare della vicina Libia); il contrasto al terrorismo e alle insorgenze jihadiste; la risposta ai crescenti flussi migratori che investono la nostra penisola. 1. La statualità in Nordafrica e nel Vicino Oriente affronta una fase critica che agevola l'ascesa di attori politici, vecchi e nuovi, di specie diversa: formazioni jihadiste, tribù, sette. Mancano altresì le forme più moderne di una forte società civile, complice la lunga esperienza autoritaria che le ha represse. In Libia si è assistito all’esplodere di contraddizioni ideologiche, etniche e tribali al venir meno del forte potere statale unificante. In particolare le tribù stanno assumendo nel Paese un ruolo preponderante perché, in quanto strutture gerarchiche tradizionali e radicate, riescono a fare le veci delle classiche funzioni statuali. Sebbene il sistema tribale possa perciò tramutarsi nelle fondamenta su cui costruire il nuovo Stato libico, è prioritario pervenire a un accordo negoziale tra le due grandi fazioni che si contendono oggi il potere nazionale nel Paese. La stabilizzazione istituzionale in Libia e negli altri Paesi della regione può essere agevolata sostenendone le strutture della società civile, in grado di mediare e ricomporre pacificamente le contraddizioni interne, nonché l'economia, poiché il disagio sociale favorisce la propaganda jihadista. Nel frattempo, per contrastare l’azione dei trafficanti che approfittano del vuoto libico, cooperare coi Paesi confinanti nella vigilanza dei suoi confini – impedendo dunque non l'uscita dalla Libia quanto l’ingresso nel Paese dei traffici illegali – può essere risolutivo. 2. Al-Qaida ha risentito della lotta serrata che è stata condotta contro di essa negli ultimi due decenni. Oggi è un’organizzazione ancora www.istituto-geopolitica.eu più lasca, che mantiene principalmente un’autorità ideologica e morale, ma limitati poteri effettivi, su branche territoriali tra loro indipendenti. Da’ish, invece, è riuscito a trarre il massimo vantaggio dalle tensioni interne a Siria e Iraq per creare un vero e proprio Stato, ancorché non riconosciuto internazionalmente. Il massiccio afflusso di volontari stranieri, in tutte le fazioni, sta trasformando il conflitto siriano da guerra civile di un Paese a guerra di religione musulmana in un Paese. Le prospettive che una delle parti riesca a prevalere sulle altre e riunificare il Paese sono scarse. D’altro canto, un eventuale intervento militare esterno rischia di complicare ulteriormente la situazione. Se molti combattenti stranieri affluiscono in Siria molti ne escono, e lo stesso discorso vale, seppur su scala minore, per Yemen e Libia. I foreign fighters che rientrano nei Paesi musulmani d’origine possono alimentare in essi l’instabilità e l’insurrezionalismo. Sono statisticamente minori i rischi di terrorismo internazionale in Occidente derivanti dal ritorno dei volontari jihadisti, ma non ignorabili dal punto di vista umano. Per questo è centrale contrastare le reti di appoggio al jihadismo che si trovano nel nostro Paese ma senza emarginare e così radicalizzare le comunità musulmane, bensì facendo emergere in esse le voci più moderate. La sconfitta dello Stato Islamico non potrà prescindere da quella militare. Serve un intervento più incisivo dell’Occidente e potrebbe rendersi necessario sostenere anche fazioni sgradite, ma che costituiscono una minaccia inferiore rispetto a Da’ish. I canali di approvvigionamento – di uomini, mezzi e danaro – dello Stato Islamico vanno contrastati con maggiore decisione, coinvolgendo di più la Turchia, il Qatar e il Kuwait, tra gli altri Paesi, e incrementando il controllo su canali finanziari non formali. Per una stabilizzazione di più lungo periodo, una volta neutralizzato Da’ish, sarà fondamentale favorire un ambiente non oppressivo verso la comunità sunnita in Siria e in Iraq, per non fornire il retroterra a nuovi www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 3 fenomeni analoghi. È inoltre necessario contrastare la propaganda religiosa estremista, con particolare riguardo a quella di matrice wahhabita su cui da decenni investe ingenti risorse l’Arabia Saudita, Paese partner dell’Occidente. 3. Negli ultimi anni gli arrivi via mare di migranti in Italia, quasi sempre diretti verso il Nord Europa, si sono moltiplicati. L’Italia è Paese di transito ma anche ospite temporaneo, poiché in virtù dei Regolamenti di Dublino deputata a esaminare ed eventualmente accogliere le domande di asilo. Se l'immigrazione può costituire un positivo apporto di talenti e forza lavoro all’Italia, quella irregolare reca benefici alla criminalità organizzata e priva lo Stato della funzione sovrana di determinare qualità e quantità dell’afflusso. La recente esperienza spagnola dimostra la necessità di coniugare la sorveglianza dei confini con l’attiva collaborazione dei precedenti Paesi di transito. Per affrontare il problema sul più lungo periodo è però necessario occuparsi delle cause strutturali delle migrazioni di massa – che sono comunque una caratteristica della globalizzazione e non totalmente eliminabili – vale a dire l'instabilità politica, l’insicurezza umana e la povertà economica nei Paesi d’emigrazione. www.istituto-geopolitica.eu DINAMICHE REGIONALI E SICUREZZA MEDITERRANEA: L’IMPORTANZA DELLE INTERAZIONI 1. Punto della situazione 1.1 Il nuovo ordine regionale Le cosiddette Primavere arabe hanno avuto delle implicazioni geopolitiche che ancora stentano a trovare una loro stabilizzazione e definizione. I cambiamenti non hanno riguardato solo dinamiche interne ma si sono riflesse nei rapporti di potere regionali e internazionali a più ampio spettro determinando un cambiamento nella percezione della sicurezza. Il quadro che si presenta davanti agli occhi del mondo è profondamente cambiato e tuttora in fieri. Analisti e studiosi di tutto il mondo stentano a trovarne una definizione, ancorati a vecchi paradigmi statici e rassicuranti. Il Vicino Oriente a cui assistiamo oggi è qualcosa di nuovo e instabile, dove il potere degli Stati è ancora forte ma lo sono al contempo attori non statali vecchi e nuovi così come la società civile che trova nuove vie di attivismo e mobilitazione. Ma il Vicino Oriente non è solo questo al giorno d’oggi. Vuoti di potere, caos istituzionale, violenza, povertà e mancanza di prospettive per il domani. Proprio per questo si assiste al ritorno a vecchie dinamiche che rinascono dalle ceneri degli anni dell’oppressione durante i regimi autoritari e si pongono come ancore di salvezza, quando lo Stato non c’è e non si hanno certezze. Il ritorno alla religione nelle sue forme più estremiste e alla protezione delle tribù come forma di organizzazione che si sostituisce allo Stato e garantisce il controllo del territorio. Tutto questo humus fornisce al contempo adepti per gruppi terroristici, organizzazioni criminali di varia natura e in particolare trafficanti di droga ed esseri umani. Questa regione così travagliata e oppressa, immobilizzata per anni dall’autoritarismo e inquadrata all’interno di confini imposti ha dato asilo a uno dei più tristemente famosi attori non statali dei nostri tempi, al-Qaeda in tutte le sue vecchie e nuove declinazioni, e l’ancora più noto attore che si www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 4 auto-proclama Stato Islamico. L’ordine emerso non vede una singola potenza dominante, come non lo era neanche in passato, ma coalizioni mobili composte da Stati che perseguono obiettivi diversi sul piano formale e attraverso meccanismi trasversali. Incoerenza sul piano domestico e internazionale, con Paesi come la Tunisia e inizialmente l’Egitto che, avviato un processo di democratizzazione, stringono alleanze con Paesi autoritari come quelli del Golfo. Un complesso sistema di equilibri e ossimori, con il Consiglio di Cooperazione del Golfo che, per esempio, promette supporto a Tunisia ed Egitto per il loro cammino democratico, in un’ottica di controllo e bilanciamento. Le divisioni settarie sembrano dominare la scena sia nei singoli conflitti sia a livello di relazioni geo-strategiche macro-regionali. Primo fra tutti il conflitto siriano, trasformatosi in una guerra civile rapita da bandiere settarie ed equilibri geopolitici che vanno dal regionale al globale. Siria in primo piano ma poi il Libano, che ancora combatte con i fantasmi della guerra civile che è sempre dietro l’angolo. Arabia Saudita e Qatar che contrastano Hizb Allah per indebolire Assad e creare una crepa nell’asse sciita che arriva fino all’Iran. Un conflitto che di interno ha solo la localizzazione, andato comunque ormai oltre i vecchi canoni dei confini statuali perché rapito dalla narrativa del sedicente Stato Islamico. Sulla stessa linea i Paesi del Golfo invitano Marocco e Giordania ad entrare nel GCC e rafforzare in questo modo un’alleanza geostrategica sunnita delle monarchie della regione. In tutto questo la Turchia, impegnata nell’accoglienza dei profughi e nella difficile gestione della sua politica domestica, cerca una nuova posizione nel quadro dello squilibrio regionale. La divisione fra sunniti e sciiti è stata spesso costruita ed esasperata dai regimi come strumento di auto-legittimazione e sopravvivenza e colorata per rispondere a interessi particolari. Dal 2011 ad oggi c’è stato un cambiamento dell’orientamento di molti Paesi nei confronti dei Paesi occidentali ed è maggiore il peso della popolazione nelle scelte di politica estera, prima esclusivo appannaggio del potere statale, se non teniamo conto della questione israelo-palestinese sempre capace di catalizzare il sentimento popolare arabo e indirizzare le scelte di politica estera. La realtà post-2011 vede l’interesse degli Stati mediorientali maggiormente rivolto verso un loro riposizionamento regionale alla luce dei cambiamenti in atto, piuttosto che una corsa all’allineamento con le potenze internazionali. In questa ottica è importante individuare quali siano le dinamiche prevalenti e prendere atto del fatto che esse non sono né statiche né omogenee. Ognuna di esse assume connotazioni diverse a seconda dei Paesi che attraversa. Per questo motivo è importante dividere l’area mediorientale in sotto-regioni nelle quali sarà possibile valutare il peso relativo di quella dinamica rispetto all’equilibrio sul campo. Si è parlato di divisioni settarie. Questa linea interpretativa assume caratteri e importanza diversa a seconda che si parli di rapporti geopolitici fra Paesi del Golfo e Iran, o che si parli di conflitto in Siria. O ancora di Libano o all’estremo opposto di Yemen. Tutte dinamiche in cui è indubbia la preponderanza del fattore settario ma nelle quali esso prende forme diverse perché intrecciato con altre dinamiche a livello locale e internazionale. Paesi come la Siria e lo Yemen vedono in discussione il concetto stesso di identità nazionale1. Le divisioni settarie d’altronde non sono una novità ma una realtà storica che ha sempre influito sugli equilibri regionali ed è stata utilizzata per demonizzare o riportare all’ordine le fazioni fuori controllo. I leader arabi che hanno mantenuto il potere dopo le rivolte giocano sul loro ruolo di stabilizzatori della regione e al contempo strumentalizzano 1 Richard YOUNGS, Living with the Middle East’s oldnew security paradigm, “FRIDE Policy Brief”, n. 152, March 2013. www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 5 le tensioni settarie. Arabia Saudita e Bahrein ne sono un esempio. L’enfasi eccessiva sulle affiliazioni etniche, confessionali e tribali come fattore caratterizzante la regione può minare le basi stesse dello Stato-nazione. Le lente transizioni seguite nei Paesi nei quali le rivolte sembravano aver successo hanno portato ad un ritorno alle tradizioni, una ricerca di vecchi equilibri tribali e confessionali che fornissero punti di riferimento. Solo in Paesi come la Tunisia le strutture politiche sono riuscite a organizzarsi e raccogliere consensi attraverso partiti politici, religiosi o meno. Anni di autoritarismo hanno lasciato la società civile impreparata e disorganizzata, senza strutture partitiche forti e in grado di lavorare attraverso dialogo e concertazione con le parti. Ogni caso però ha le sua specificità. 1.2 Il caso Libia: fra caos istituzionale e ordine tribale Tolto il coperchio dello Stato autoritario, la società ha mostrato le sue sfaccettature, differenze e contraddizioni. In particolare le minoranze etniche e religiose risultano la problematica più ardua da affrontare nei processi di ricostruzione istituzionale e dialogo politico nazionale. La protezione delle minoranze con bilanciamento dei poteri a livello statale non sempre è un processo semplice. Quando lo Stato o quello che ne rimane non riesce a controllare il territorio ed è la vita stessa delle persone a non trovare protezione, è difficile discutere. Quando poi ci si mette in mezzo la competizione delle risorse è difficile che le fazioni posino le armi. La Libia è un triste esempio di queste dinamiche. Pur essendo abbastanza omogenea dal punto di vista confessionale, le divisioni tribali, regionali e ideologiche giocano un ruolo preponderante. A causa della sua storia di decentralizzazione e delle strutture sociali, la coesione nazionale è più problematica che in altri Paesi. Divisioni ideologiche fra gruppi islamisti e gruppi secolari, o affiliazioni etniche (arabi e berberi) o divisioni intratribali, richiedono una interpretazione di ampio spettro. Ripercorrendo velocemente la storia libica dall’ultimo periodo ottomano a oggi è possibile individuare delle dinamiche interpretative attuali oggi più che mai. Dopo la definitiva caduta dell’impero ottomano i libici furono esclusi dai processi di controllo e amministrazione territoriale. Questo portò a un ritorno alle identità tribali, viste come alternativa al potere coloniale. Un ritorno quindi all’identità politica tribale costruita intorno ai legami di sangue come ultima risorsa in un momento di crisi2. La Libia ha una storia complessa e nel suo passato sono esistite realtà amministrative così come forme di società civile organizzata. Il periodo monarchico in particolare, nell’immaginario nazionale è stato il momento in cui la Libia è stata più vicina alla creazione di uno Stato unitario, con un controllo territoriale effettivo almeno su tutto il Sahara orientale. Durante la Prima Guerra Mondiale il tentativo da parte dell’élite libica di creare dei governi locali può essere interpretato come un embrione di sentimento nazionale sviluppatosi a livello locale. Il sistema tribale in Libia non è caratterizzato da rigidità nelle alleanze e nelle divisioni ma è al contrario una realtà molto flessibile. Alcuni libici conferiscono un valore importante alla loro realtà tribale, altri relegano il tribalismo a un relitto del passato, altri ancora non sanno neanche a che tribù appartengono. Le istituzioni che hanno un forte significato aggregativo per i libici sono la città, la tribù e la famiglia3. Ci sono circa 300 tribù in Libia ma molte non si identificano in un gruppo omogeneo che vive insieme in un determinato territorio ma sono semplicemente reti di persone che spesso non conosco neanche chi sono i loro capi tribali. Questo spiega anche perché molti libici non considerino l’identità tribale e l’identità nazionale in contrasto. Decisiva nella permanenza delle lealtà tribali è 2 3 Lisa ANDERSON, The state and social transformation in Tunisia and Libya, Princeton University Press, 1987, pp. 131-188. www.istituto-geopolitica.eu Sherine EL-TARABOULSI, Revisting the narrative of “statelessness”: reflections on non-state actors and state-building in pre-qaddafi Libya (1911-1969), “ISPI Analysis”, No. 236, March 2014. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 6 stata la natura discontinua del processo di state-formation e la trasformazione della Libia in una rentier economy è stata tutt’altro che in disaccordo con le dinamiche tribali che anzi sono state sfruttate e distorte con derivazioni clientelari. Grandi e piccole milizie con agende diverse e doppia lealtà si contendono il controllo del territorio. In un Paese così vasto e prevalentemente desertico assume fondamentale importanza il rapporto fra centri e periferie e le rivalità regionali storiche. L’annosa animosità fra Cirenaica e Tripolitania ne è solo l’esempio più indicativo. Lotte di potere emergono fra i rappresentanti delle famiglie, tribù e città più importanti sulla scena politica. Le linee di mobilitazione emerse durante la guerra civile suggeriscono rivalità a livello sub-regionale e nazionale, piuttosto che vere e proprie spinte indipendentistiche delle tre regioni principali, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Quello che è fondamentale mettere in evidenza, e che deve rappresentare un punto di forza della Libia, è la sua indipendenza economica, motore di rinascita e stabilizzazione da una parte ma motivo di attrito e lotta per le risorse dall’altra. Il pieno accesso alle sue risorse finanziarie per la ricostruzione e la ripresa della produzione petrolifera a pieno regime sono fondamentali per il recupero della stabilità finanziaria del Paese4. Allo stesso tempo, il ruolo delle tribù nell’allocare risorse socio-economiche, benefici e sicurezza in assenza di effettive istituzioni statali rinforza il ruolo del tribalismo in tutte le regioni. Quindi più a lungo lo Stato sarà debole o inefficace più le tribù ne assumeranno il ruolo. Quello che è stato definito il dilemma tribale è il problema della inclusione o esclusione delle tribù nella realtà politica odierna. Secondo alcuni esse sarebbero un ostacolo a una Libia unita e democratica perché non garantirebbero eguaglianza di trattamento per tutti i libici e impedirebbero lo sviluppo sociale e favorirebbero le divisioni territoriali. Abdul alHakim Al-Fatouri, un accademico libico, afferma che «non considerare le richieste delle tribù in questo periodo di transizione potrebbe portare ad una balcanizzazione della Libia». Le tribù svolgono un ruolo importante nella vita quotidiana di molti libici5. La Libia, pur nel suo vuoto istituzionale attuale, non è una tabula rasa su cui disegnare liberamente una nuova entità statale. Il sostrato socio-culturale, tribale e religioso costituisce la base da cui partire, non un ostacolo per il futuro. La Libia oggi è contesa da due fazioni principali. Un governo eletto nel 2014 e riconosciuto internazionalmente con sede a Tobruk, e la coalizione di gruppi armati di ispirazione islamica chiamati Fajr Libya a ovest, con sede a Tripoli. Nel centro del Paese si dipanano le fazioni più disparate da Ansar Al-Sharia a Da’ish. La Libia è la più grande riserva di petrolio di tutta l’Africa e il quarto deposito di gas naturale del continente. Prima del 2011 la sua economia attirava migranti da molti Paesi subsahariani che, con lo scoppio della guerra, si sono ritrovati a dover scegliere fra l’emigrazione verso nord o l’entrare a far parte delle fazioni combattenti o alimentare le fila dei traffici illeciti. Il vuoto di sicurezza nel Paese è stato riempito dai trafficanti. Paesi come Tunisia ed Egitto, alle prese con un difficile ritorno alla normalità, risentono pesantemente del caos libico. La minaccia dell’espansione dei gruppi legati al cosiddetto estremismo islamico preoccupa Al-Sisi che vorrebbe dar vita ad una coalizione araba per intervenire in Libia sul modello dello Yemen. Nel contempo sostiene il governo di Tobruk e in particolar modo le tribù libiche che definisce la base portante della stabilità e sicurezza del Paese. Martedì 2 giugno 2015 i negoziati in Marocco, sotto l’egida della missione delle Nazioni Unite guidata dall’inviato speciale Bernardino Leon, hanno raggiunto un compromesso di accordo su circa l’80% delle 4 5 Wolfram LACHER, Families, Tribes and Cities in the Libyan revolution, “Middle East Policy”, Vol. 18, No. 4 (Winter 2011), pp. 140-154. www.istituto-geopolitica.eu Mohammed AL-KATIRI, State-building challenges in a Post-Revolution Libya, SSI Monographs, United States, October 2012. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 7 questioni in gioco. Le due amministrazioni che si contendono il potere si sono incontrate nuovamente lunedì 8 giugno 2015 per arrivare alla definizione del restante 20% e raggiungere le basi per la formazione di un governo di unità nazionale. L’inviato speciale Leon ha messo in luce la sua preoccupazione in merito alla situazione del Paese evidenziando che il dialogo non è più un’opzione ma l’unica via percorribile per evitare la catastrofe. L’implementazione dell’accordo poi sarà un’altra scommessa impegnativa dato che fin adesso le parti sono state riluttanti ad accettare un cessate il fuoco, precondizione necessaria per un ritorno alla normalità. 2. Scenari e raccomandazioni La sicurezza dell’area mediterranea è quindi irrimediabilmente legata alle dinamiche interne che si sviluppano nei Paesi costieri come la Libia ma che spesso sono solo la punta dell’iceberg di crisi e tensioni lontane. Lo stesso Stato Islamico gode di questo vacuum e con una sorta di diffusione passiva espande il suo franchising del terrore soddisfando interessi locali lasciati proliferare dall’assenza di controllo statale. Quali sono quindi le variabili su cui intervenire per cercare di normalizzare la regione e ritrovare un equilibrio di sicurezza condiviso da entrambe le sponde del Mediterraneo? La rule of law, la sovranità territoriale è un passaggio imprescindibile per qualsiasi processo di ricostituzione statale che abbia possibilità di ridare stabilità al Paese. Investire sulla società civile che così tanto ha dato alle rivolte arabe e così poco ha avuto indietro. Le speranze disattese dei giovani tunisini, libici, egiziani sono il primo gradino che porta verso la disperazione e la mancanza di prospettive. Il non aver niente da perdere alimenta le braccia dell’ISIS e riempie le stive dei barconi che attraversano le martoriate rotte del Mediterraneo Centrale verso l’Europa. L’economia. Le rivolte sono esplose per motivi socio-economici in primis, politici poi. La mancanza di opportunità, la mancanza di lavoro, la richiesta di dignità. E senza dignità non c’è scelta. E se un gruppo arriva e www.istituto-geopolitica.eu distribuisce caramelle, internet, pane e assistenza sanitaria, offre scuole per i bambini, la scelta non è poi così difficile. Offrono assistenza sociale con quel qualcosa in più che affascina i giovani oppressi, e allora le denominazioni non servono più. E così qualsiasi gruppo che voglia avere più peso e avere i mezzi per prendere il controllo del territorio e garantirsi l’acquiescenza della popolazione può affiliarsi allo Stato Islamico, sposarne la causa e riceverne il sostegno. Economico. Come fermare le partenze dei migranti verso l’Europa? Impossibile e anacronistico. Le migrazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno. La rotta del Mediterraneo Centrale è la rotta di migrazione marittima che purtroppo vanta il maggior numero di tragedie in tutto il mondo. Le autorità libiche ammettono di fermare raramente i trafficanti e quindi di lasciarli praticamente agire indisturbati. La Libia è uno Stato sull’orlo del collasso, se Stato si può ancora definire. Raggiungere un accordo fra le due amministrazioni che si contendono il potere è quindi un obiettivo primario. Ma ci vorrà tempo per tornare alla normalità anche se l’accordo raggiunto lunedì 8 giugno trovasse la via del successo e venisse implementato. La Libia ha 4.000 km di frontiere terrestri da controllare e le condivide con sei Paesi diversi. Un controllo delle frontiere terrestri maggiore è richiesto da parte di Paesi come la Tunisia, l’Algeria e l’Egitto, ma anche il Niger e il Chad. Lo stesso Egitto a fine maggio ha ospitato una conferenza dei maggiori capi tribù libici per chiedere il loro appoggio nella lotta al terrorismo e nel controllo della frontiera orientale. La complessità del fenomeno migratorio è aggravata dall’interdipendenza delle crisi regionali in atto. Nel 2014 il 60% dei migranti che hanno raggiunto le coste europee era siriano. Con l’80% delle partenze individuate in Libia e Tunisia. Per affrontare il problema bisogna evidenziare il fatto che la Libia è in realtà solo un Paese di transito per le rotte migratorie e quindi bisogna agire anche sulle condizioni nei Paesi d’origine del fenomeno www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 8 così come cercare di individuare le rotte. Africa Occidentale, Sub-sahariana, Corno d’Africa e Medio Oriente sono indubbiamente aree immense da tenere sotto controllo, ma un maggior coordinamento a livello regionale per il controllo dei confini fra gli Stati di queste aree potrebbe costituite un primo passo nella lotta contro i trafficanti di esseri umani e di droga. Non è da sottovalutare inoltre il fenomeno degli IDP (Internally Displaced Person), che non hanno lasciato i confini del proprio Paese ma non hanno più una casa perché costretti a scappare per la guerra o le persecuzioni. Tutte sfaccettature drammatiche di una complessa situazione di crisi generalizzata. Crisi che ormai non ha più nulla di temporaneo ma che ha assunto i caratteri dell’ordinarietà. L’Unione Europea è preoccupata per la sicurezza dei suoi confini. Collaborare con Paesi come la Giordania, la Turchia e il Libano che hanno assorbito in questi anni 3 milioni di rifugiati siriani è una delle possibili strategie per gestire il flusso migratorio non nel Paese d’origine ma almeno nel primo Paese di transito. Cooperare con i Paesi che hanno intrapreso la via del cambiamento. Sviluppo e sicurezza sono due concetti che si nutrono l’uno dell’altro. In questo l’Italia e i Paesi della sponda sud dell’Europa possono fare da ponte e diventare un nuovo baricentro dell’Europa. In Europa ma ancorati al Mediterraneo. Una periferia che diventa un nuovo centro. Il Mediterraneo non è una regione geopolitica uniforme ma eterogenea nella sua vicinanza, dove né i conflitti né le interazioni hanno delle dinamiche comuni dominanti. Helsinki nel 19756 ha sancito l’indissolubile legame fra la sicurezza in Europa e la sicurezza nell’area mediterranea. Ma quale Europa e quale Mediterraneo? Spesso queste che consideriamo aree geopolitiche omogenee dimostrano tratti di discontinuità e possono essere lette con più chiarezza suddividendole in micro-regioni. È così che un’Europa mediterranea si confronta con un’Africa mediterranea. L’Africa mediterranea è legata alle dinamiche dell’area del Vicino Oriente così come della vasta area desertica che la lega, come una porosa barriera di sabbia, ai Paesi dell’Africa sub-sahariana. Fondamentale risulta quindi la comprensione delle dinamiche locali che, superate le accuse di relativismo, comprenda la realtà nelle sue innumerevoli sfaccettature frutto del percorso storico, sociale, politico e religioso del Paese con cui ci si rapporta. Soluzioni di lungo periodo possono scaturire solo da decisioni ragionate e consapevoli. Ascoltare le voci del Mediterraneo: è questa la sfida per il prossimo futuro, un Mediterraneo che non finirà di essere il braudeliano luogo di incontro e di scambio ma che, purtroppo, al giorno d’oggi è increspato dalla velocità delle crisi che lo circondano e spaventa per la vicinanza delle sue sponde. 6 Un concetto di sicurezza che andava oltre la classica accezione politico-militare ma che si estendeva anche al campo economico e a quello più ampio della protezione dei diritti umani, delle libertà fondamentali e del rule of law. La CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), è stata caratterizzata da una dimensione mediterranea fin dai suoi albori. Nel documento finale di Helsinki si proclamava infatti il principio per cui la sicurezza europea e la sicurezza mediterranea dovessero essere considerate indivisibili. www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 9 1.1 La minaccia jihadista: definizione e origine Dall’11 settembre 2001 (attentati terroristici a New York e Washington) e forse già dal 12 ottobre 2000 (attacco alla USS Cole ormeggiata a Aden), l’estremismo e il terrorismo di matrice religiosa islamica sono tra le maggiori preoccupazioni per la sicurezza mondiale, in particolare in Occidente. Il problema, in realtà, si era già posto altrove: in Russia (guerra afghana negli anni ‘80 e rivolta cecena negli anni ‘90), in Cina (separatismo uiguro fin dagli anni ‘60), in Jugoslavia (guerra di Bosnia e rivolta in Kosovo, anni ‘90), oltre ovviamente che nei Paesi a maggioranza musulmana. Per poter affrontare debitamente il fenomeno, è necessaria una sua definizione, sebbene ciò introduca temi di grande estensione che non si potranno affrontare qui in maniera esauriente. Innanzi tutto è bene affermare che, in senso letterale e non denigratorio, l’Islam è integralista, ossia è una religione da cui è ineliminabile una dimensione politica7. Ciò non è peculiare dell’Islam ma l’accomuna a numerose religioni tradizionali: non di meno, spiega l’abbondanza e il successo di discorsi comunitari interni all’Islam. Col termine fondamentalismo intendiamo invece le teorie miranti a rimanere ancorati ai princìpi originari. La storia del fondamentalismo musulmano è strettamente intrecciata con la storia politica della regione e, in particolare, con la sua dialettica con l’Occidente cristiano. È stato osservato dagli storici come, dall’inizio della globalizzazione almeno (XVI secolo), le evoluzioni delle diverse civiltà seguano percorsi in parte analoghi8. Così, se nel ‘500 in Europa si sviluppa un movimento purista e letteralista in seno al Cristianesimo (la Riforma), che rifiuta la tradizione (cioè che è stato trasmesso per linee istituzionali o iniziatiche) a vantaggio della fonte (la rivelazione divina), l’Islam trova un corrispondente nel ‘700. Formatisi nei medesimi anni alla Mecca, Sha Waliullah Dehlawi in India e Muhammad ibn ‘Abd alWahhab in Arabia propongono una visione purista dell’Islam, che rigetta l’innovazione ed esalta la religiosità primitiva dell’Islam. Nasce in questo clima il movimento “salafita”, che prende il nome dai Salaf al-salih, gli “antenati ben guidati”, prime tre generazioni di musulmani, presi a modello dai contemporanei. A esso contribuiscono numerose personalità, le cui linee guida in questo primo periodo sono: a) coniugare gli strumenti della modernità con l’Islam puro delle origini; b) riunire i musulmani in un’unica comunità in grado di emanciparsi dal colonialismo cristiano. Prodotto di questo anelito salafita, nel 1928 ha visto la luce in Egitto la Società dei Fratelli Musulmani, ben presto capace di espandersi in molti Paesi facendo leva sull’azione sociale che ha accompagnato la propaganda. Il suo programma, riassumibile nel motto “L’Islam è la soluzione”, prevede la re-islamizzazione della società musulmana a partire dal basso, fino a far coincidere credente e cittadino. Divenuta movimento di massa transnazionale, la Società è ormai assai variegata al suo interno, pur rappresentando in generale l’ala “democratica” dell’Islam Politico (ossia, secondo la definizione di scuola, quell’insieme di correnti politiche religiosamente ispirate nel mondo musulmano). Anche l’ala “insurrezionalista”, o “jihadista” com’è spesso descritta, origina però almeno in parte dai Fratelli Musulmani. Influenzati dalle numerose persecuzioni subite dal governo, alcuni ideologi della Società si sono radicalizzati. È il caso di Sayyid Qutb, giustiziato nel 1966 su ordine di Nasser e, pur ripudiato dalla più moderata dirigenza dei Fratelli Musulmani, di grande impatto nei 7 8 DA'ISH, AL-QAIDA E GLI ALTRI: COME AFFRONTARE LA MINACCIA ESTREMISTA 1. Punto della situazione Massimo CAMPANINI, Islam e politica, Mulino, Bologna, 2003. www.istituto-geopolitica.eu Cristopher A. BAYLY, La nascita del mondo moderno. 1780-1914, Einaudi, Torino, 2004. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 10 decenni successivi sul pensiero politico del mondo islamico. Secondo Qutb si è ricaduti nello stato di jahiliyya, di oscurità prerivelazione divina, e l’Islam necessita di essere restaurato tramite il jihad contro i governanti, apostati (kafir), dei Paesi nominalmente musulmani, nonché contro l’imperialismo occidentale. Il jihad nel senso di “guerra santa” è dunque interpretato come dovere individuale (fard ayn) di ogni musulmano a prescindere da un’autorità politica che lo proclami, ma anzi contro quella medesima autorità. Le idee di Qutb influenzano tutti i successivi movimenti cosiddetti “jihadisti” o anche “takfiristi” (da takfir, la scomunica utilizzata contro gli avversari politici considerati non musulmani), a partire da Tanzim al-Jihad, responsabile dell’uccisione del presidente egiziano Sadat e il cui membro più famoso, Ayman al-Zawahiri, è attualmente la guida di al-Qaida. 1.2 Al-Qaida È oggi opinione comune che l’azione militare in Afghanistan e Pakistan abbia fortemente indebolito il nucleo centrale di alQaida, che già all’origine aveva una struttura lasca, fino a renderla un’etichetta sotto cui si riuniscono vari gruppi che sono quasi totalmente indipendenti tra loro9. Rispetto all’inizio del secolo, si nota un ridimensionamento della capacità di al-Qaida di condurre attentati spettacolari in Occidente ma un potenziamento delle sue branche nella regione islamica. In realtà, in quest’ultimo caso si tratta spesso non della costituzione ex novo di armate quanto dell’affiliazione, sull’onda della popolarità acquisita dopo l’11 settembre 2001, di gruppi pre-esistenti. Dietro AQIM (al-Qaida nel Maghreb Islamico) si cela il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, costola dell’algerino GIA; in Somalia al-Qaida è rappresentata dal pre9 US Department of State, Country Reports on Terrorism 2013, April 2014, p. 6. 10 Daniel BYMAN, Buddies or burdens? Understanding the Al Qaida relationship with its affiliate organizations, “Security Studies”, Vol. 23, No. 3 (2014), pp. 431-470. 11 US Department of State, Country Reports on www.istituto-geopolitica.eu esistente movimento al-Shabaab. Fanno eccezione AQAP (al-Qaida nella Penisola Arabica), ossia ciò che rimane dell’organizzazione in Yemen e Arabia Saudita, e Jabhat an-Nusra, erede della guerriglia in Iraq e oggi operativo in Siria. La difficoltà di gestire e coordinare realtà tanto eterogenee è risultata in un indebolimento netto di al-Qaida presa nel suo complesso10. Al-Qaida nella Penisola Arabica si distingue per il tentativo di perseverare nella prassi degli attentati terroristici in Occidente o contro obiettivi occidentali nella regione. Il Dipartimento di Stato USA la ritiene perciò la principale minaccia della “famiglia” qaidista11, e AQAP ha rivendicato, in maniera credibile visto il soggiorno in Yemen di uno degli attentatori, la recente strage di Parigi contro la redazione di “Charlie Hebdo”. Si stima in circa un migliaio il numero dei suoi militanti12. Tale cifra dovrebbe potersi applicare anche agli operativi di AQIM13. Sicuramente più cospicua, nell’ordine delle svariate migliaia, è la forza combattente di al-Shabaab in Somalia, dove il gruppo controlla vaste porzioni di territorio rurale nel Giuba, nel Bai, nel Bacol e nel Scebeli, ossia nelle regioni circostanti Mogadiscio14. Anche Jabhat an-Nusra aveva una forza combattente e un controllo territoriale cospicui in Siria, che ha però perso in ampia misura a causa della scissione e lotta con Da’ish. 1.3 Da’ish Questo gruppo nasce in seno a al-Qaida e nel quadro della guerriglia condotta in Iraq contro la coalizione a guida USA e la componente sciita indigena. Probabilmente segnato da quest’esperienza di dura lotta interconfessionale, Da’ish opta per una sanguinosa campagna di “pulizia confessionale” contro gli sciiti, considerati apostati e complici dell’imperialismo occidentale15. Sfruttando le Terrorism 2013, p. 8. 12 Ivi, p. 304. 13 Ivi, p. 306. 14 Ivi, p. 312. 15 Cole BUNZEL, From Paper State to Caliphate: the ideology of the Islamic State, “Analysis Paper”, www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 11 sue capacità belliche e il rancore nutrito dalla comunità sunnita siro-irachena verso quella sciita e alawita, Da’ish è riuscita negli ultimi mesi ad acquisire un ampio controllo territoriale. La rottura con al-Qaida si fonda su un rapporto difficile già ai tempi di Bin Laden e al-Zarqawi, ma si consuma sui metodi di lotta del futuro Da’ish con le sue brutalità contro gli sciiti e contro i sunniti considerati “collaborazionisti”. Sullo sfondo si nasconde una divisione dottrinale intorno a un concetto ampiamente dibattuto tra i jihadisti: ossia se privilegiare il “nemico lontano” (l’imperialismo occidentale) o il “nemico vicino” (i governanti dei Paesi musulmani)16. pronti a gettare nel caos qualsiasi Paese musulmano. Non va inoltre trascurato il fatto che, se i combattenti stranieri che fanno ritorno in Occidente per dedicarsi al terrorismo sono pochi, anche quei pochi possono comunque fare numerose vittime e danni19: ciò che è trascurabile statisticamente, non lo è più se si parla di vite umane. La Francia, coi suoi oltre 900 combattenti in Siria e Iraq, è la più esposta a rischi: uno degli attentatori di Parigi era stato in Yemen e un francese veterano della Siria è responsabile della strage al Museo Ebraico di Bruxelles. Per fortuna l’Italia ha meno di 100 combattenti stranieri, perciò più facilmente controllabili e neutralizzabili. 2. Scenari 2.1 Terrorismo Un grave pericolo è posto dai combattenti stranieri che lasciano il campo di battaglia siroiracheno e fanno rientro nel Paese d’origine. Grazie alla loro esperienza bellica e alla rete di contatti acquisita, sono in grado di alimentare terrorismo o persino guerriglia in tali Paesi, mentre minore appare il rischio in relazione al terrorismo internazionale17. Abbiamo diversi esempi delle capacità destabilizzanti di questi combattenti 18 stranieri . Terminato il conflitto in Afghanistan, molti foreign fighters andarono a combattere la guerra civile in Bosnia. Veterani del conflitto iracheno hanno invece alimentato la ribellione in Siria e Libia. Se è consolatorio che solo una minoranza si dedichi ad attività puramente terroristiche, è altrettanto se non meno preoccupante la circolazione di migliaia di combattenti, ormai veterani di tanti conflitti e organizzati in una rete ben rodata e affiatata, Brookings Project on US Relations with the Islamic World, No. 19, March 2015. 16 Daniel BYMAN, Jennifer R. WILLIAMS, ISIS vs. Al Qaida: jihadism's global civil war, “The National Interest”, 24 February 2015. 17 Daniel BYMAN, The homecomings: what happens when Arab foreign fighters in Iraq and Syria return?, “Studies in Conflict and Terrorism”, 1 May 2015. 18 Jeanine de ROY VAN ZUIJDEWIJN, Edwin BAKKER, Returning Western foreign fighters: the case of Afghanistan, Bosnia and Somalia, “ICCT www.istituto-geopolitica.eu 2.2 Yemen AQAP potrebbe uscire rafforzata dall’attuale situazione in Yemen: l’avanzata degli Houthi ha privato gli USA del loro punto di riferimento nel Paese, ossia la struttura di potere facente capo al Presidente Hadi, cui si appoggiavano per le operazioni contro AQAP20. D’altro canto, gli Houthi non possono impiegare il loro potenziale contro AQAP poiché alle prese con una campagna di bombardamenti condotta da una coalizione araba a guida saudita. 2.3 Siria In Siria, la guerra civile sembra direzionarsi verso uno stallo duraturo ma sempre guerreggiato21. Le divisioni tra i ribelli non sono mai state tanto laceranti e ormai è guerra aperta tra di loro; la fazione oggi più forte, Da’ish, si è inoltre attirata addosso una coalizione internazionale. I governativi, dal canto loro, oltre alla distruzione del Paese e Background Note”, June 2014. 19 Daniel BYMAN, Jeremy SHAPIRO, Homeward bound? Don’t hype the threat of returning jihadists, “Foreign Affairs”, Nov./Dec., 2014. 20 Daniel BYMAN, Jennifer R. WILLIAMS, Will al Qaeda be the great winner of Yemen’s collapse?, “Foreign Policy”, 9 April 2015. 21 Aron LUND, What if no one is winning the war in Syria?, Carnegie Endowment for International Peace, 28 May 2015. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 12 all’ostilità di molti vicini sono ulteriormente menomati dal calo del prezzo del petrolio, che sottrae disponibilità finanziarie a loro ma soprattutto all’Iran e alla Russia che ne sono i maggiori sostenitori esteri22. Le FF.AA. siriane, salvo alcuni reparti d’élite dotati di armi pesanti e rafforzati con l’aiuto di consiglieri iraniani, sono state fortemente indebolite dalle massicce diserzioni di coscritti sunniti e oggi una parte rilevante dello sforzo bellico è condotto da milizie irregolari, fortemente motivate ma meno addestrate23. Visto l’afflusso di volontari sciiti dal Libano e dall’Iraq, oltre ai consiglieri iraniani, la guerra civile in Siria sta sempre più internazionalizzandosi: sul campo opposto, quello dei ribelli, la presenza di combattenti stranieri è ancor più rilevante. Da guerra civile siriana il conflitto si sta tramutando in una guerra civile musulmana, di cui la Siria è solo lo sfortunato campo di battaglia. Il rischio è di andare anche oltre, e in peggio, allo scenario della somalizzazione, facendo della Siria un vortice di instabilità capace di catturare tutta la regione. L’inerzia potrebbe essere mutata da un eventuale intervento militare in prima persona delle potenze sunnite che finora hanno solo appoggiato la rivolta. Si è parlato in tal senso di un accordo nascente tra Turchia, Qatar e Arabia Saudita24. Visto lo stato di prostrazione del governo siriano, un intervento di tal fatta incontrerebbe in teoria un successo militare, ma non mancano le incognite. Innanzi tutto, un attacco sunnita alla Siria susciterebbe una reazione dell’Iran e di fazioni libanesi e irachene che potrebbe portare financo a una guerra regionale, per quanto tale scenario sia improbabile (più plausibile l’appoggio a una guerriglia indigena). In secondo luogo, Turchia, Qatar e Arabia Saudita possono far fronte comune contro Assad ma, una volta sconfitto lui, gli interessi tornerebbero divergenti. Divergenze che si sommerebbero a un’oggettiva difficoltà di ricostruire la Siria, sicché altamente probabile è che il Paese perdurerebbe in uno stato di guerra civile forse ancor più frazionata di quella attuale, similmente cioè a quanto avviene in Libia. In ogni caso quest’intervento non appare oggi troppo probabile: a) l’esperienza di coalizione sunnita in Yemen non è stata pienamente convincente25; b) difficilmente i tre Paesi si muoverebbero senza la benedizione degli USA, e Washington non pare propensa a concedere il placet a un’azione tanto rischiosa. 22 25 Aron LUND, 2014 roundup and 2015 predictions, “Syria Comment”, 25 December 2014. 23 Balint SZLANKO, Assad’s Achilles’ heel: the manpower problem, Carnegie Endowment for International Peace, 21 February 2014. 24 Aron LUND, Are Saudi Arabia and Turkey about to intervene in Syria?, Carnegie Endowment for International Peace, 24 April 2015. www.istituto-geopolitica.eu 3. Raccomandazioni 3.1 Lotta al terrorismo Si è già detto come il pericolo terroristico derivante dal ritorno di combattenti stranieri in Occidente sia basso, ma non assente e dunque non trascurabile viste le sue potenzialità letali. I governi occidentali, incluso quello italiano, hanno validi strumenti per ridurre il pericolo26: a) smantellare le reti di reclutamento e appoggio al jihad presenti sul nostro territorio grazie all’attività di polizia e intelligence; b) favorire i notabili della comunità musulmana autoctona che si oppongono alle tesi jihadiste o radicali in genere, dando loro visibilità mediatica e strumenti per rinforzare l’autorità sui correligionari; c) lasciare spazi di espressione pacifica alla comunità musulmana autoctona ed evitarne l’emarginazione, che provoca radicalizzazione. Una particolare opera di sensibilizzazione e pressione va compiuta nei confronti della Turchia, canale di ingresso per gran parte dei volontari che si uniscono ai jihadisti in Siria. Frederic WEHREY, Into the maelstrom: the Saudi-led misadventure in Yemen, Carnegie Endowment for International Peace, 26 March 2015. 26 Daniel BYMAN, Jeremy SHAPIRO, Be afraid. Be a little afraid: the threat of terrorism from Western foreign fighters in Syria and Iraq, “Foreign Policy Paper Series”, Brookings Institute, No. 33, January 2015. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 13 3.2 Lotta contro il jihadismo La lotta contro Da’ish e in generale il più ampio movimento jihadista si può considerare in almeno tre diversi periodi. - Breve periodo: è necessario vincere sul campo lo Stato Islamico, sia tagliandone le fonti di approvvigionamento, sia sconfiggendolo sul piano militare. Finanziamenti privati provenienti dalla Penisola Arabica sono riconosciuti come un’importante fonte di finanziamento dei gruppi jihadisti27. Il Comitato Anti-Terrorismo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU considera perciò prioritario sviluppare la lotta al finanziamento al terrorismo nella regione, seppur v’è il rischio che la legislazione ad hoc sia utilizzata per reprimere il dissenso28. In particolare, Qatar e Kuwait devono essere stimolati a rendere operativo il proprio sistema AML/CTF (anti-riciclaggio e antifinanziamento del terrorismo) mentre andrebbero rafforzati l’informazione e il controllo sui sistemi finanziari informali come organizzazioni benefiche e operatori hawala29. La Turchia ha invece finora offerto un valido retroterra logistico allo Stato Islamico, che può contare nel Paese su numerosi simpatizzanti e ha beneficiato dell’ostilità del governo locale verso quello siriano. Essendo la Turchia membro della NATO, gli alleati dovrebbero pretendere una maggiore lotta contro i canali di approvvigionamento di Da’ish. Ciò si può ottenere: a) rassicurando Ankara in merito a un appoggio solo limitato alle milizie curde; b) assumendosi l’impegno a rimanere coinvolti in Siria anche dopo la sconfitta del Califfato; c) offrendo appoggio pratico per il controllo del lungo e poroso confine siro-turco. È imprescindibile bloccare le rotte che, transitando per la Turchia, Da’ish utilizza per ricevere uomini, armi e denaro e per contrabbandare petrolio e beni archeologici. Militarmente, è necessario prendere coscienza dell’imprescindibilità di coloro che sul terreno stanno combattendo Da’ish, dal momento che i Paesi occidentali non sono disposti a farlo in prima persona (l’Italia in particolare, pur aderendo alla coalizione, non si spinge oltre il supporto logistico in Iraq). Il problema è l’identità di questi soggetti: il governo e le forze armate irachene, il governo e i peshmerga del Kurdistan iracheno, il governo e le forze armate siriane, le milizie sciite irachene, il PKK curdo, varie milizie siriane pro o anti-governative, il libanese Hizb Allah. L’elenco dei nemici di Da’ish include soggetti ufficialmente catalogati come terroristi, quali il PKK o Jabhat an-Nusra, che difficilmente si vorranno favorire, oltre a potentati vicini all’Iran e che tirano dunque in gioco più elevati equilibri di politica internazionale. Da’ish sta traendo ampio vantaggio da queste divisioni tra i suoi nemici. Avendo compreso come i bombardamenti aerei della coalizione internazionale ne frustrino molte opzioni offensive, in Siria ha abbandonato l’attacco contro i territori in mano alle milizie curde per concentrarsi invece sul fronte del governo siriano e degli altri ribelli jihadisti, a sostegno dei quali la coalizione non interviene30. Anche in Yemen la lotta contro AQAP affronta dilemmi non meno laceranti per taluni attori. Gli Houthi sono oggi la forza che più efficacemente potrebbe combattere al-Qaida nel Paese, ma sostenerli vorrebbe dire scontentare l’Arabia Saudita e i Paesi sunniti con essa allineati. Un’alleanza almeno tattica con l’Iran e i suoi affiliati si rende evidentemente necessaria per arginare il fenomeno jihadista nella regione. Tehran è sicuramente ben disposta verso questa soluzione, poiché è l’attore più minacciato dall’estremismo sunnita e perché 27 Intaccare la resilienza finanziaria dell’organizzazione terroristica più ricca del mondo, Master in Geopolitica e Sicurezza Globale – Università Sapienza, A.A. 2013/2014. 30 Omar LAMRANI, How Islamic State victories shape the Syrian civil war, Stratfor, 2 June 2015. US Department of State, Country Reports on Terrorism 2013, p. 6. 28 Counter-Terrorism Committee, Global survey of the implementation of Security Council Resolution 1373 (2001) by member states, 1 September 2011, pp. 43-46. 29 Valentina GULLO, La rete dei finanziamenti di ISIS. www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 14 non auspica altro che un coinvolgimento da partner paritario con l’Occidente dopo la dura stagione delle sanzioni31. I malumori dei Paesi sunniti si possono superare inaugurando una politica di bilanciamento e pacificazione nella regione e facendo leva sulla loro dipendenza militare (soprattutto dei Paesi della Penisola Arabica) dall’Occidente. Una semplice cooperazione “informale” con l’Iran, come già è accaduto in Afghanistan e in Iraq, avrebbe effetti più limitati, anche perché in assenza di un chiarimento spingerebbe Paesi come l’Arabia Saudita a sostenere gli avversari jihadisti di Tehran, e perché l’Iran resterebbe diffidente verso chi continua a sanzionarlo e appoggia movimenti o campagne anti-iraniani in Yemen e Siria. È però evidente che una politica di tale portata possa essere condotta solo con l’accordo degli USA, che anzi devono farsene capofila. - Medio periodo: se un fenomeno come Da’ish ha potuto attecchire ed espandersi così massicciamente in Siria e Iraq, è perché ha trovato terreno fertile nel malcontento della comunità sunnita. Se si vuole stabilizzare la situazione in maniera durevole, non ci si può limitare a sconfiggere Da’ish ma è necessario eliminare tale malcontento per evitare che dia spazio ad altri fenomeni analoghi32. L’Italia con gli alleati dovrà dunque farsi promotrice di una risistemazione di Iraq e Siria che tuteli tutti i soggetti comunitari, a partire dagli sciiti e alawiti oggi maggiori protagonisti della lotta contro Da’ish (senza dimenticare curdi, cristiani e altri), ma senza escludere i sunniti per non perpetuarne il virulento revanscismo. La precaria situazione dei regimi in vigore in Siria e Iraq fornisce molteplici strumenti di pressione su di essi per favorire una soluzione di riconciliazione nazionale e rispetto di tutte le comunità. - Lungo periodo: se si vuole evitare che Da’ish o al-Qaida, una volta sconfitte militarmente, rinascano in nuove forme, è necessario risolvere i fattori fondamentali che sono all’origine del jihadismo sunnita. I principali, oltre al sottosviluppo economico della regione, sono: a) propaganda estremista; b) carenza di forme espressive e partecipative nelle società interessate. Affrontandoli singolarmente: a) sebbene il salafismo sia un fenomeno ormai plurisecolare, la variante wahhabita – più radicale – e la glossa qutbista – la spinta al jihadismo armato – si sono diffuse con forza dagli anni ‘70. Se nel caso del jihadismo individuale ciò è dovuto a naturali sviluppi del pensiero salafita, il successo del wahhabismo fuori dall’Arabia Saudita deve invece tutto allo choc petrolifero. È stato il brusco innalzamento del prezzo del petrolio che ha munito Ryad di abbondanti petrodollari con cui finanziare un’ampia opera di propaganda a livello globale, che include moschee, scuole coraniche, opere caritatevoli, libri e così via. L’Arabia Saudita ha utilizzato la propaganda religiosa wahhabita anche come una forma di soft power primariamente in chiave antiiraniana, esaltando dunque l’ostilità contro gli sciiti. È difficoltoso arginare il propagarsi del jihadismo finché un Paese molto facoltoso opera per diffonderne il sostrato ideologico. Finora l’Occidente ha agito con eccesso di cautela indotto dal potenziale finanziario dei Saud, dal timore di destabilizzare il maggior centro d’approvvigionamento energetico e dall’ostilità verso l’Iran. I rapporti con Tehran stanno però procedendo verso un’auspicabile normalizzazione. Continuare a tollerare la diffusione del jihadismo diminuisce la sicurezza, non l’aumenta, come si è potuto constatare a più riprese nell’ultimo quindicennio. Infine, l’Occidente non deve certo trattare da subordinato col partner saudita. Se si riconosce il problema insito nella propaganda wahhabita condotta da Ryad, l’Occidente ha tutto il diritto e tutti gli strumenti per contrastarla. b) l’impossibilità di esprimersi con mezzi pacifici e di partecipare alla gestione della cosa 31 32 Dina ESFANDIARY, Ariane TABATABAI, Iran's Isis policy, “International Affairs”, Vol. 91, No. 1 (2015), pp. 1-15. www.istituto-geopolitica.eu Charles LISTER, Profiling the Islamic State, “Brookings Doha Center Analysis Paper”, 1 December 2014. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 15 pubblica sono ben noti fattori di radicalizzazione politica e passaggio alla lotta armata. Pur senza eccedere in approcci ideologici che suscitino reazioni di chiusura nei regimi attualmente vigenti, l’Italia e i Paesi alleati dovrebbero coinvolgerli in un percorso di apertura e almeno parziale pluralismo. La messa al bando dei Fratelli Musulmani e la loro dura repressione in Egitto, ad esempio, costituirà molto probabilmente una rilevante fonte di nuovi adepti per il jihadismo armato33. Non bisogna incorrere nell’errore di voler combattere “troppo”: forme di pensiero a noi sgradite, anche estremiste, vanno distinte dal terrorismo vero e proprio, pena il distrarsi da quella che è la vera minaccia34. IL FENOMENO MIGRATORIO DI MASSA: TRARNE IL MASSIMO DEI BENEFICI AL MINIMO DEI COSTI 33 35 Daniel BYMAN, Tamara COFMAN WHITES, Now that the Muslim Brotherhood is declared a terrorist group, it just might become one, “Washington Post”, 10 January 2014. 34 Anthony RICHARDS, From terrorism to “radicalization” to “extremism”: counterterrorism imperative or loss of focus?, Chatham House www.istituto-geopolitica.eu 1. Punto della situazione 1.1 Le migrazioni a livello mondiale Se quasi la metà di tutti i migranti internazionali si dirige dal “Sud” al “Nord” del mondo e più di un terzo si muove all’interno del “Sud”, un’ulteriore forma di percorso è costituita dai contingenti di popolazione “in transito” che spesso si fermano in luoghi intermedi di migrazione anche per lunghi periodi. I Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, fra cui l’Italia, sono mete preferite di questi movimenti di permanenza irregolare con flussi che arrivano dal Maghreb, dall’Africa subsahariana e dall’Asia e che si dirigono verso l’Europa settentrionale35. Secondo le stime ONU, i migranti nel mondo sono circa 232 milioni (una persona su 33) e in continua crescita (erano 175 milioni del 2000 e 154 milioni del 1990). Per il 75% dei casi l’età della migrazione è quella del lavoro (20-64). Le donne contano quasi per la metà. L’Europa e l’Asia sono le destinazioni preferite rispettivamente con 72 e 71 milioni di persone ospitate. Nel 2013 metà della popolazione emigrata risiedeva in soli dieci Paesi: USA (45,8 milioni), Federazione Russa (11 milioni), Germania (9,8 milioni), Arabia Saudita (9,1 milioni), Emirati Arabi (7,8 milioni), Gran Bretagna (7,8 milioni), Francia (7,4 milioni), Canada (7,3 milioni), Australia (6,5 milioni) e Spagna (6,5 milioni)36. Unione Europea, America Settentrionale e Oceania sono le aree dove si concentra la maggiore incidenza della presenza immigrata sul totale della popolazione e dove essa, tra il 1990 e il 2013, ha avuto i più alti tassi di crescita37. Alfonso GIORDANO, Movimenti di Popolazione. Una Piccola Introduzione, LUISS University Press, Roma, 2015, pp. 18-19. 36 I dati completi e tutte le statistiche sono riportate in: http://esa.un.org/unmigration/wallchart2013.htm. 37 Antonio RICCI, Dossier Statistico Immigrazione 2014. Dalle discriminazioni ai diritti, Centro studi e Ricerche Idos, p. 19. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 16 Sebbene solo il 10-15% sul totale mondiale sia la stima percentuale della migrazione non autorizzata38, è questo uno tra i problemi più importanti da affrontare nell’agenda della comunità internazionale e, nel nostro caso, europea. Sebbene ci sia accordo sul fatto che la questione debba essere affrontata, una vera cooperazione è ostacolata dalla contrapposizione di più prospettive: la sovranità nazionale, la sicurezza nazionale e la sicurezza umana. Dalla prospettiva di uno Stato, la migrazione illegale viola il diritto sovrano di determinare il numero, il tipo di immigrati e le condizioni per un non-cittadino di vivere nel suo territorio. La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 prevede un diritto a emigrare e a ritornare nel proprio Paese39 ma non c’è un corrispettivo diritto all’immigrazione. La migrazione non autorizzata è un problema pieno di tensioni di fondo e contraddizioni. I tre differenziali (sviluppo, demografia e democrazia) tra i mondi sviluppati e quelli in via di sviluppo non si ridurranno in un futuro prossimo e pertanto la migrazione internazionale continuerà ad aumentare negli anni a venire. Le pressioni migratorie e le agevolazioni a emigrare fornite dalle reti e dalla facilità dei trasporti e comunicazione, spingeranno ulteriormente la migrazione, che si scontrerà con politiche sempre più selettive e restrittive nei Paesi di destinazione. Pertanto, i migranti sono spinti verso intermediari e verso canali che portano alla migrazione non autorizzata, inclusa la tratta delle persone. Altre categorie di cui tener conto sono rifugiati40 e richiedenti asilo41. Il numero di coloro che nel mondo ricadono sotto la protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati è andato sempre più crescendo nel corso degli anni a causa della forte instabilità politica e sociale: i rifugiati e richiedenti asilo hanno raggiunto quota 51,2 milioni, circa 6 milioni in più rispetto al 201242. La guerra in Siria prosegue ormai da oltre tre anni ed è da sola causa principale di tali dimensioni numeriche. 38 seguito a tali avvenimenti, non può, o per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi. (EMN Italy, Glossario EMN migrazione ed Asilo, Idos, Roma, 2011). 41 Qualsiasi cittadino di un Paese terzo o apolide che abbia presentato una domanda di asilo (richiesta di protezione internazionale presso uno Stato membro in base alla Convenzione di Ginevra), in merito alla quale non sia stata ancora presa una decisione. (Ibidem). 42 UNHCR, Global Trends 2013. Dati dell’OIM, World Migration Report 2010. Art. 13, 2. 40 In base alla Convenzione di Ginevra, chi, a causa di un giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dalla Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo stato di domicilio abituale in 39 www.istituto-geopolitica.eu 1.2 Flussi migratori verso l’Europa Secondo i dati più recenti sugli sviluppi demografici, la popolazione europea continua a crescere. La causa principale di tale crescita è stata la migrazione, che ha compensato la variazione naturale negativa delle nascite: da continente di emigranti e coloni quale è stata per lungo tempo, l’Europa Occidentale è divenuta terra di continua immigrazione dai quattro angoli del globo. Vivono oggi sul suo territorio circa 30 milioni di immigrati provenienti da oltre duecento differenti Paesi, che costituiscono tra il 5 e l’8% della popolazione. Se agli immigrati con cittadinanza straniera si aggiungono gli immigrati che hanno nel frattempo acquisito la cittadinanza di uno dei Paesi europei, si arriva a circa 50 milioni, ovvero il 10% della popolazione dell’Europa allargata a 28 Paesi, e più del 15% della “vecchia” Europa a 15, dove questa grande massa di immigrati di più o meno recente arrivo è in gran parte collocata. I due terzi della popolazione immigrata sono costituiti da cittadini non comunitari. Il 22% proviene dall’Africa, per i due terzi dei quali dai Paesi delle regioni settentrionali di questo continente. Il 16% dall’Asia, metà dei quali Paesi dell’Estremo Oriente, Cina in testa, e l’altra metà dal sub-continente indiano. Il 15% dalle Americhe: si tratta in grandissima parte di latino-americani. Il restante 45-47% è www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 17 di immigrati provenienti da Paesi europei, incluse Turchia, Russia e Ucraina. Una maggiore incidenza si riscontra in quegli Stati che hanno avuto una storia coloniale di lungo corso e che hanno portato nel tempo a flussi migratori di tipo economico o ricongiungimenti familiari. In questi Paesi di vecchia immigrazione la presenza degli immigrati è pressocchè stabile e continua, mentre nei Paesi di nuova immigrazione (come quelli mediterranei) è andata aumentando. Secondo Giordano, è possibile suddividere le principali nazioni europee in tre grandi gruppi sulla base del momento storico in cui sono diventate mete di flussi migratori. Il primo gruppo è quello dei Paesi di antica immigrazione (Francia, Gran Bretagna e Germania). Il secondo è figlio del boom economico degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento (Svizzera, Belgio, Olanda, Austria e Paesi scandinavi). Il terzo gruppo nasce infine nel momento in cui le nazioni appartenenti ai primi due decisero di chiudere le frontiere a causa dello choc petrolifero e del conseguente calo della domanda di manodopera. Da un momento all’altro Italia, Spagna, Grecia e Portogallo si sono ritrovate ad accogliere un ingente flusso migratorio e si parla per questi Paesi di un modello mediterraneo di immigrazione43. Negli ultimi anni, col ripetuto scoppio di conflitti ai confini del territorio europeo, gli ingressi si sono diversificati ed è aumentato il numero di coloro che richiedono protezione. Nel 2013 le domande d’asilo presentate in Europa sono aumentate del 32% ed il principale Paese d’origine dei richiedenti asilo nell’Unione Europea era la Siria. L’UNHCR stima pari ad oltre 1,335 milioni i rifugiati e richiedenti asilo nell’UE-28. Questa crescita è dovuta in gran parte al numero di persone che hanno richiesto asilo in Italia ed in Turchia. Un aumento significativo è dovuto, come già ricordato in precedenza, alla Siria; Iraq, Afghanistan, Eritrea e Serbia la seguono quanto a numero di richieste per Paesi di origine. Relativamente agli arrivi via mare nei Paesi del Sud Europa, circa 219.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo nel 2013, un numero tre volte più alto del picco del 2011 quando le rivolte arabe erano in pieno svolgimento. L’Italia, con 170.100 migranti arrivati nel 2014 e circa 46.500 nei primi cinque mesi del 2015, sta conoscendo il numero più alto di arrivi via mare; segue la Grecia con 42.000 e molto più lontana la Spagna con Ceuta e Melilla (1.000 persone circa)44. L’area centrale del Mediterraneo è stata la principale rotta di accesso all’Europa45: con oltre 40.000 arrivi registrati nel 2013 e oltre 170.000 nel 2014, ha rappresentato il 38% di tutti i rilevamenti da parte dell’agenzia UE. I migranti di nazionalità siriana ed egiziana sono coloro che partono dall’Egitto, mentre i migranti provenienti dal Corno d’Africa e dall’Africa Occidentale salpano dalla Libia. A fronte di questo, è più facile comprendere come, nell’ambito delle proprie competenze specifiche, l’Europa abbia cercato di rimettere il controllo verso una cooperazione con gli Stati limitrofi o comunque quelli da cui provengono o maggiormente transitano i flussi. Questa modalità, sebbene sia in parte idonea a contenerli, deve comunque fare i conti con il principio generale del non refoulement per i soggetti più deboli o a rischio. 43 46 IDOS, Dossier Statistico Immigrazione 2014, Roma, p. 45. 47 Secondo Frontex (Annual Risk Analysis 2014, p. 62) la maggioranza di coloro che entrano in EU illegalmente tramite l’Italia sono diretti in Svizzera, Germania e A. GIORDANO, Movimenti di popolazione, cit., pp. 80-81. 44 Cfr. UNHCR, http://www.unhcr.it/risorse/statistiche/infografiche#_ga =1.35000417.131841402.1416411492 45 FRONTEX, Annual Risk Analysis 2015, p. 16. www.istituto-geopolitica.eu 1.3 Flussi migratori verso l’Italia L’Italia si è trasformata anche da terra di emigrazione a terra di immigrazione: è del 1974 l’inversione del bilancio migratorio a favore degli arrivi46. Per la sua posizione geografica, è area di destinazione o di passaggio obbligato per raggiungere gli altri Paesi europei47. Il numero di migranti sbarcati sulle coste italiane ha raggiunto quota 170.000 www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 18 nel 2014, più del quadruplo del 2013 e il triplo rispetto al 201148. Allo stesso tempo, nel primo semestre 2014 l’Italia è il Paese UE con il più forte aumento di richiedenti asilo rispetto allo stesso periodo del 2013, mentre la media UE si attesta intorno al +19,6%. Nei primi quattro mesi del 2015, nonostante le condizioni meteorologiche avverse, in tutto 26.500 rifugiati e migranti hanno tentato il viaggio attraverso il Mediterraneo: un numero che è all’incirca pari allo stesso periodo dello scorso anno. Malgrado questi aumenti, in realtà, in termini assoluti non si è registrato sin qui alcun esodo di massa dalle coste nordafricane verso l’Italia. Tuttavia, il flusso recente di migrazioni irregolari via mare dal Nordafrica verso l’Italia è da considerare particolarmente alto se rapportato alle dinamiche dei flussi registrati negli anni passati o, in termini comparati, rispetto a quanto registrato in questo stesso periodo dagli altri Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo. Le principali nazionalità censite per le persone sbarcate in Italia sono state principalmente Siria, Eritrea, Gambia, Nigeria, Pakistan, Somalia e Sudan, mentre sono relativamente pochi i profughi di nazionalità libica. Dalla Tunisia un decremento degli sbarchi è stato registrato a partire da ottobre 2011, dopo lo svolgimento delle elezioni. La compresenza di questi elementi ha portato l’Italia a divenire anche terra di asilo. Secondo le statistiche Eurostat49, l’Italia nel 2013 ha avuto 27.930 richieste d’asilo, in aumento del 60,9% rispetto allo stesso periodo del 2012. Nel 2014, l’Italia ha assistito ad una crescita ulteriore: 65.700 richieste di asilo, 140% in più rispetto al totale del 201350. 1.4 Competenza europea in materia di immigrazione ed asilo Gli articoli 77-80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea determinano le competenze dell’Unione Svezia così come coloro che transitano per la Grecia e la Spagna. 48 http://unhcr.it/risorse/statistiche/sea-arrivals-to-italy e FRONTEX, ARA 2015. www.istituto-geopolitica.eu Europea in materia di immigrazione e asilo. In particolare all’art. 77, 1, b e 77, 2, b/d l’Unione Europea sviluppa una politica volta a garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne e, all’art. 78, 1 una politica comune in materia di asilo, protezione sussidiaria e temporanea volta a offrire uno status appropriato a qualunque cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il principio di non respingimento (non refoulement). Si aggiunge all’art. 79, 1, 2, 3 la competenza che affida all’Unione la prevenzione ed il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale, prevedendo l’adozione di misure nel settore della immigrazione clandestina e soggiorno irregolare, compresi l’allontanamento ed il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare. Inoltre, è necessario menzionare la norma secondo cui l’Unione può concludere con i Paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei Paesi di origine e di provenienza, di cittadini di Paesi terzi che non soddisfano le condizioni per l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri. Con il Processo di Barcellona vi è l’avvio di una cooperazione permanente e di un dialogo multilaterale con gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. Nella dichiarazione ufficiale, i firmatari intesero individuare nell’immigrazione uno dei settori di reciproca collaborazione impegnandosi da un lato ad adottare misure di riduzione della pressione migratoria e a porre in essere accordi di riammissione. A seguito dei continui sbarchi e dei tragici eventi che si sono consumati nello stretto di Sicilia tra la fine del 2014 ed i primi mesi del 2015, la Commissione Europea ha inteso adottare l’Agenda Europea sulle Migrazioni, che si inserisce nel contesto più ampio dell’Agenda Europea sulla sicurezza. La novità di questa agenda risiede nella volontà di non lavorare più a compartimenti stagni ma 49 http://www.cironlus.org/images/pdf/rapporto%20eurostat%2013.PDF. 50 http://www.unhcr.it/risorse/statistiche/asylum-claimsin-italy#_ga=1.262118861.131841402.1416411492. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 19 integrare la migrazione in tutti i settori d’intervento, sia di politica interna sia di politica estera. Si tratta di una prospettiva di medio-lungo termine secondo quattro pilastri: riduzione degli incentivi alla migrazione irregolare, salvataggio di vite umane e frontiere esterne sicure, forte politica comune di asilo, una nuova politica di migrazione legale da leggersi in chiave integrazione51. L’UE regola le procedure concernenti le domande di asilo attraverso l’assai discusso Regolamento di Dublino e sue successive modifiche, insieme al Regolamento Eurodac, proponendosi sostanzialmente due obiettivi: ridurre la circostanza dei continui rinvii per i richiedenti asilo a causa delle declinazioni di responsabilità da parte dei governi interessati ed evitare che vengano presentate più richieste d’asilo in Stati differenti. I mezzi attraverso i quali la Convenzione di Dublino persegue tali obiettivi sono: l’individuazione di un solo Stato responsabile dell’esame della domanda d’asilo; l’obbligo di esame della domanda da parte dello Stato competente; lo scambio reciproco di informazioni. In Dublino II si afferma il principio che lo Stato membro di primo approdo è competente per l’esame di una domanda di asilo. L’adozione del Regolamento Dublino III lascerebbe spazio a consistenti miglioramenti, come il diritto ad un colloquio personale, ma mantiene invariati i principi alla base del sistema. La sua efficacia è discutibile: solo un numero limitato di richieste si traduce in trasferimenti effettivi, e il fatto che alcuni Paesi membri scambino frequentemente tra loro quote equivalenti di richiedenti asilo ne conferma la natura incongrua. Senza contare che mancano informazioni sui costi economici del sistema, mentre si impone una analisi completa costi-benefici per verificarne la sostenibilità. 1.5 Frontex Istituita nel 2004 e operativa dall’ottobre 2005, Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, è divenuta nel corso degli anni uno degli strumenti chiave su cui si fonda la politica europea di “gestione integrata” delle frontiere esterne. Il suo budget autonomo è cresciuto vertiginosamente nel corso degli anni e ha svolto e continua a svolgere un ruolo di primo piano nel controllo delle frontiere europee meridionali realizzando molteplici operazioni congiunte che hanno coinvolto anche l’Italia. La promozione, il coordinamento e lo sviluppo delle azioni congiunte presso le frontiere terrestri, marittime, aeroportuali e di rimpatrio sono proprio le attività principali dell’agenzia. L’ampliamento dei poteri di Frontex è stato assunto come priorità già nel Programma di Stoccolma e ribadito prepotentemente in questi giorni nell’Agenda Europea sulle Migrazioni. Le pressioni dei governi nazionali per il potenziamento dell’impegno operativo di Frontex non sono del resto disinteressate: moltiplicare le azioni autonome dell’agenzia e quelle congiunte significa anche avere un maggior sostegno comunitario nelle attività di controllo dei mari e delle frontiere e nell’esecuzione dei rimpatri che interessano i singoli Stati membri. Molteplici sono state le operazioni coordinate da Frontex a cui ha partecipato anche l’Italia. Una in particolare è interessante ai fini della presente trattazione e va perciò ricordata. IL 2006 è l’anno degli sbarchi record verso la Spagna, che raggiunse il numero di 39.180 migranti. A questa emergenza la Spagna, di concerto con Frontex, ha risposto con l’operazione congiunta “Hera”, ossia un pattugliamento aeronavale dalle Canarie che dal 2006 ha portato ad una consistente diminuzione degli sbarchi provenienti da 51 rivista.org/28532/eunavfor-med-nellagenda-europeasulla-migrazione-una-nuova-mare-nostrum/. Chiara GINESTI, EUNAVFOR MED nell’Agenda Europea sulla Migrazione:una nuova Mare Nostrum?, “Geopolitica Online”, http://www.geopolitica- www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 20 Mauritania, Marocco e Senegal. Tale diminuzione è derivata anche dalla sottoscrizione di accordi bilaterali di polizia e di riammissione conclusi tra la Spagna e questi Paesi, in base ai quali sono stati effettuati pattugliamenti congiunti nelle acque territoriali di tali Stati per impedire la partenza delle imbarcazioni. 1.6 Da “Mare Nostrum” a “Triton” a “Mare Sicuro” A seguito di un eccezionale afflusso di migranti nello Stretto di Sicilia e dell’episodio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita in mare 366 persone, il 18 ottobre 2013 è stata lanciata l’operazione “Mare Nostrum” (OMN). In realtà la presenza della Marina Militare italiana nel Canale di Sicilia si attesta in maniera costante e continuativa già dal 1959 con l’attività di Vigilanza Pesca. Con l’aumentare dei numeri, si trasforma progressivamente dal 2004 in attività di controllo flussi migratori nell’operazione nazionale “Constant Vigilance”; si trattava di una operazione di presenza e sorveglianza, vigilanza sulle attività di pesca e controllo dei flussi migratori condotta per molti anni principalmente dalle Unità del Comando Forze da Pattugliamento per la Sorveglianza e la Difesa Costiera. “Mare Nostrum” andò a sostenere il peso del pattugliamento di un’area pari a tre volte quella della Sicilia, circa 61.000 km quadrati. Per rifarci sinteticamente ai parametri di Frontex, il dispositivo ha controllato tutte e tre le rotte migratorie: Central, Eastern e Western Mediterranean Route. Oggi, alla chiusura dell’operazione, il bilancio della MMI relativo agli assetti partecipanti è stato di cinque unità navali, assetti aerei organici e dislocati a terra e circa novecento militari impiegati ogni giorno. A fronte di un numero così alto di migranti e di risorse messe a disposizione, sono tali anche i numeri relativi ai risultati dal punto di vista umanitario: 735 eventi SAR, 156.362 migranti assistiti (circa 413 al giorno), 99% migranti intercettati prima del loro arrivo in Italia. Così come da quello strettamente più “operativo”: 366 trafficanti arrestati, 9 navi www.istituto-geopolitica.eu madre sospette abbordate, 8 navi madre catturate. La funzione militare dell’operazione ha garantito, quindi, il costante pattugliamento dello Stretto di Sicilia e di buona parte del Mediterraneo Centrale. Dal 1 novembre 2014 la Joint Operation EPN – Triton ha sostituito l’Operazione Mare Nostrum che torna nei limiti della Constant Vigilance. Se l’Operazione Mare Nostrum era ascribile nel complesso delle attività di sicurezza marittima che quotidianamente sono svolte dalla Marina Militare, anche e soprattutto lontano dalle acque nazionali, Triton è un controllo delle frontiere marittime. La differenza tra le due missioni, infatti, risiede proprio nel modus operandi delle unità navali coinvolte. Mentre durante l’operazione della Marina Militare italiana le stesse pattugliavano una larghissima area del Mediterraneo, con l’obiettivo di garantire il controllo delle SLOC (Sea Line Of Communications), in quella europea lo scopo è di intervenire solo nel caso in cui le imbarcazioni, cariche di migranti, si dirigano verso le coste italiane o maltesi, entrando in quella fascia di mare divenuta il confine meridionale dell’Europa. Un cambiamento di rotta però si è ritenuto necessario a causa dell’incremento del numero di sbarchi e della forte pressione esercitata dal timore della minaccia terroristica per il periodo marzo-aprile 2015. Contestualmente, a suiguito dell’attentato terroristico di Tunisi, il Ministro della Difesa Pinotti ha annunciato un potenziamento del dispositivo aeronavale dispiegato nel Mediterraneo a protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali attraverso l’Operazione “Mare Sicuro”, ossia una missione operativa a innalzamento del livello della sicurezza e vigilanza delle infrastrutture critiche nazionali e della sicurezza in mare. A livello europeo, la necessità impellente di dover operare in ambito di attività SAR ha spinto la Commissione a riconsiderare fortemente l’impiego di Triton e il budget disponibile triplicandolo e portandolo a 9 milioni di euro mensili, che di fatto è stato l’impegno economico sostenuto dal governo italiano con la Mare Nostrum. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 21 2. Raccomandazioni In un mondo globalizzato in cui gli squilibri tra “Nord” e “Sud” sono sempre più acuti, il fenomeno della migrazione di massa è ormai un dato strutturale e permanente. Le misure restrittive vanno collocate nell’ambito di politiche più ampie e lungimiranti. L’Unione Europea è un soggetto incisivo sulla scena globale e deve giocare un ruolo fondamentale che il Trattato di Lisbona le riconosce a pieno titolo. Per tale ragione è indispensabile e logico che assuma sempre maggiori responsabilità in modo da dare concretezza al Global approch to migration, senza trascurare alcun aspetto dei trend migratori. Come definito nel programma di Stoccolma, l’Europa, all’insegna della responsabilità, della solidarietà e del partenariato in materia di immigrazione ed asilo, promuove i cinque impegni fondamentali assunti nel “Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo” e nell’Agenda Europea sulla Migrazione: organizzare la migrazione autorizzata tenendo conto delle priorità, delle esigenze e delle capacità di accoglienza stabilite da ciascuno Stato membro e favorire l’integrazione; combattere l’immigrazione non autorizzata, in particolare assicurando il ritorno, nel Paese di origine o in un Paese di transito, degli stranieri in posizione irregolare; rafforzare l’efficacia dei controlli alle frontiere; costruire l’Europa dell’asilo; creare un partenariato globale con i Paesi di origine e di transito che favorisca le sinergie tra migrazione e sviluppo. Oltre allo scoppio delle rivolte in Nordafrica e alla crisi economica che il vecchio continente si trova ancora ad affrontare, un altro fattore di complessità è dato dalla configurazione geografica e geopolitica della nostra penisola italiana, particolarmente esposta ai flussi migratori: sia dai Balcani sia dal Maghreb e, per questi territori, raggiunta da coloro che, dal Corno d’Africa, risalgono il deserto. Il Mar Mediterraneo, come sempre è stato nei secoli, funge da fondamentale strumento di comunicazione e oggi continua a farlo tra i Paesi di partenza e l’Italia. Sia che si www.istituto-geopolitica.eu tratti di migranti economici oppure di soggetti che fuggono da guerre e persecuzioni e che le convenzioni internazionali impongono di proteggere. Per fronteggiare il fenomeno, l’Europa ed i Paesi maggiormente impattati, in particolare quelli della sponda Sud, si sono dotati di strumenti internazionali nell’ambito di una politica europea di vicinato (ENP) e l’Italia è il Paese che ha concluso il maggior numero di accordi di riammissione. La questione africana in generale deve essere affrontata, poichè guarda all’Europa come alla terra del riscatto. Per questo si ritiene opportuno avere una visione strategica sulla centralità del Mediterraneo ma con un occhio attento a ciò che si verifica nel resto del mondo, poichè ciò che accade lontano, in un mondo globalizzato, presto o tardi produce i suoi effetti anche su di noi. Allo stesso modo, se non affrontata con incisive politiche di sostegno economico da parte dell’Unione Europea, assieme a tutta la comunità internazionale, la questione africana rischia di esplodere in non gestibili dinamiche migratorie e non solo, con particolare attenzione alla Libia il cui vuoto di potere e la mancanza di un referente certo produce un effetto a imbuto per ciò che la circonda. Sarebbe auspicabile che l’UE rafforzasse i meccanismi di solidarietà finanziaria, in aggiunta ai fondi già esistenti, così come quelli umanitari, nell’ottica di una concretezza operativa poichè, se forse per l’Europa i flussi migratori sono di per sé un bene, non lo sono certamente nell’irregolarità. Ai flussi irregolari si associano, soprattutto in tempi di crisi, altri due fenomeni negativi: l’inserimento nel mercato del lavoro nero e la criminalità. L’irregolarità ne oscura gli effetti positivi: si pregiudica il contributo degli immigrati alla crescita economica del Paese di accoglienza, mentre di converso viene consentito alle organizzazioni criminali di realizzare proventi enormi e di coinvolgere nelle attività illecite gli stessi immigrati, così come sta accadendo in Libia e continuerà ad accadere. Se, come è stato da più parti osservato, nel breve termine è necessario agire rapidamente www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 22 mettendo in sicurezza i confini, a medio termine sarà più opportuno mirare a rimuovere i vantaggi del traffico di esseri umani e a lungo termine occorrerà agire nei confronti del bisogno stesso di migrare, guardando a forme di integrazione sostenibile come a una possibile soluzione. Per ridurre le sacche di irregolarità è stato auspicato un maggior collegamento tra i flussi migratori e gli effettivi bisogni del mercato del lavoro, evitando, come è accaduto nel passato, che l’inserimento formale avvenga attraverso le sanatorie. L’immigrazione irregolare comporta anche il rischio della delinquenza, e spesso i due termini vengono considerati sinonimi anche se in realtà il pericolo è che, alla lunga, la mancata fruizione di un soggiorno regolare e le speranze disattese, possano favorire la predisposizione alla devianza per ragioni di necessità. Rebus sic stantibus, il massimo contrasto va focalizzato nei confronti delle organizzazioni che esercitano criminosamente queste attività attraverso ramificazioni a carattere internazionale. www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org