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L’Italia e le sfide mediterranee alla sicurezza:
instabilità politica, terrorismo e migrazioni irregolari
45
June 2015
Authors:
Daniele Scalea
Chiara Ginesti
Valeria Ruggiu
Language:
Italian
Keywords:
Stabilization of MENA
Terrorism and jihadism
Migratory flows
Islamic State
Libya
ISSN: 2281-8553
© Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
ABSTRACT
The aim of this report is to analyze security challenges to Italy
coming from the Mediterranean. Three main issues have been
identified as the most urgent and important.
First of all, political and institutional stabilization of the region, one
example for all is Libya. A country so close to our shores that is
struggling for a new definition of the state among jihadist formations,
tribes and sects. MENA countries have been shaken by a political
earthquake that has reshaped the region and created a new uneasily
readable geopolitical paradigm.
Secondly, fighting against terrorism and jihadism in its various
forms. Al-Qaeda and Da’ish are complex phenomena whose weight
goes beyond its local power but has repercussion on regional level
(Syrian crisis), and international level (foreign fighters and jihadist
propaganda). Hard choices need to be taken to deal with the Islamic
State on a military level, financial and ideological level both inside
Arab countries and in the West.
Thirdly, possible solutions to the rising migratory flow towards our
peninsula. Italy is a transit country but has the duty of examining and
processing applications for asylum seekers. Immigration could bore
positive contributions to Italy but long term solutions need to be
found and implemented in Europe and on a regional level tackling
the structural causes of mass migration, namely political instability,
human insecurity, and poverty.
DANIELE SCALEA
Director-general, IsAG, Rome.
[email protected]
CHIARA GINESTI
Researcher, IsAG, Rome.
[email protected]
VALERIA RUGGIU
Director of the “North Africa and Near East” Programme, IsAG, Rome.
[email protected]
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2
SOMMARIO ESECUTIVO
Questo Report dell’IsAG intende prendere
in considerazione le sfide alla sicurezza
dell’Italia provenienti dal Mediterraneo,
focalizzandosi su tre punti individuati come di
maggiore urgenza e rilievo: la stabilizzazione
politico-istituzionale dei Paesi regionali (in
particolare della vicina Libia); il contrasto al
terrorismo e alle insorgenze jihadiste; la
risposta ai crescenti flussi migratori che
investono la nostra penisola.
1. La statualità in Nordafrica e nel Vicino
Oriente affronta una fase critica che agevola
l'ascesa di attori politici, vecchi e nuovi, di
specie diversa: formazioni jihadiste, tribù,
sette. Mancano altresì le forme più moderne di
una forte società civile, complice la lunga
esperienza autoritaria che le ha represse.
In Libia si è assistito all’esplodere di
contraddizioni ideologiche, etniche e tribali al
venir meno del forte potere statale unificante.
In particolare le tribù stanno assumendo nel
Paese un ruolo preponderante perché, in
quanto strutture gerarchiche tradizionali e
radicate, riescono a fare le veci delle classiche
funzioni statuali. Sebbene il sistema tribale
possa perciò tramutarsi nelle fondamenta su
cui costruire il nuovo Stato libico, è prioritario
pervenire a un accordo negoziale tra le due
grandi fazioni che si contendono oggi il potere
nazionale nel Paese.
La stabilizzazione istituzionale in Libia e
negli altri Paesi della regione può essere
agevolata sostenendone le strutture della
società civile, in grado di mediare e ricomporre
pacificamente le contraddizioni interne,
nonché l'economia, poiché il disagio sociale
favorisce la propaganda jihadista. Nel
frattempo, per contrastare l’azione dei
trafficanti che approfittano del vuoto libico,
cooperare coi Paesi confinanti nella vigilanza
dei suoi confini – impedendo dunque non
l'uscita dalla Libia quanto l’ingresso nel Paese
dei traffici illegali – può essere risolutivo.
2. Al-Qaida ha risentito della lotta serrata
che è stata condotta contro di essa negli ultimi
due decenni. Oggi è un’organizzazione ancora
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più lasca, che mantiene principalmente
un’autorità ideologica e morale, ma limitati
poteri effettivi, su branche territoriali tra loro
indipendenti. Da’ish, invece, è riuscito a trarre
il massimo vantaggio dalle tensioni interne a
Siria e Iraq per creare un vero e proprio Stato,
ancorché non riconosciuto internazionalmente.
Il massiccio afflusso di volontari stranieri, in
tutte le fazioni, sta trasformando il conflitto
siriano da guerra civile di un Paese a guerra di
religione musulmana in un Paese. Le
prospettive che una delle parti riesca a
prevalere sulle altre e riunificare il Paese sono
scarse. D’altro canto, un eventuale intervento
militare esterno rischia di complicare
ulteriormente la situazione.
Se molti combattenti stranieri affluiscono in
Siria molti ne escono, e lo stesso discorso vale,
seppur su scala minore, per Yemen e Libia. I
foreign fighters che rientrano nei Paesi
musulmani d’origine possono alimentare in
essi l’instabilità e l’insurrezionalismo. Sono
statisticamente minori i rischi di terrorismo
internazionale in Occidente derivanti dal
ritorno dei volontari jihadisti, ma non
ignorabili dal punto di vista umano. Per questo
è centrale contrastare le reti di appoggio al
jihadismo che si trovano nel nostro Paese ma
senza emarginare e così radicalizzare le
comunità musulmane, bensì facendo emergere
in esse le voci più moderate.
La sconfitta dello Stato Islamico non potrà
prescindere da quella militare. Serve un
intervento più incisivo dell’Occidente e
potrebbe rendersi necessario sostenere anche
fazioni sgradite, ma che costituiscono una
minaccia inferiore rispetto a Da’ish. I canali di
approvvigionamento – di uomini, mezzi e
danaro – dello Stato Islamico vanno contrastati
con maggiore decisione, coinvolgendo di più la
Turchia, il Qatar e il Kuwait, tra gli altri Paesi,
e incrementando il controllo su canali
finanziari non formali.
Per una stabilizzazione di più lungo
periodo, una volta neutralizzato Da’ish, sarà
fondamentale favorire un ambiente non
oppressivo verso la comunità sunnita in Siria e
in Iraq, per non fornire il retroterra a nuovi
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fenomeni analoghi. È inoltre necessario
contrastare la propaganda religiosa estremista,
con particolare riguardo a quella di matrice
wahhabita su cui da decenni investe ingenti
risorse l’Arabia Saudita, Paese partner
dell’Occidente.
3. Negli ultimi anni gli arrivi via mare di
migranti in Italia, quasi sempre diretti verso il
Nord Europa, si sono moltiplicati. L’Italia è
Paese di transito ma anche ospite temporaneo,
poiché in virtù dei Regolamenti di Dublino
deputata a esaminare ed eventualmente
accogliere le domande di asilo. Se
l'immigrazione può costituire un positivo
apporto di talenti e forza lavoro all’Italia,
quella irregolare reca benefici alla criminalità
organizzata e priva lo Stato della funzione
sovrana di determinare qualità e quantità
dell’afflusso. La recente esperienza spagnola
dimostra la necessità di coniugare la
sorveglianza dei confini con l’attiva
collaborazione dei precedenti Paesi di transito.
Per affrontare il problema sul più lungo
periodo è però necessario occuparsi delle cause
strutturali delle migrazioni di massa – che sono
comunque
una
caratteristica
della
globalizzazione e non totalmente eliminabili –
vale a dire l'instabilità politica, l’insicurezza
umana e la povertà economica nei Paesi
d’emigrazione.
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DINAMICHE REGIONALI E SICUREZZA
MEDITERRANEA:
L’IMPORTANZA
DELLE
INTERAZIONI
1. Punto della situazione
1.1 Il nuovo ordine regionale
Le cosiddette Primavere arabe hanno avuto
delle implicazioni geopolitiche che ancora
stentano a trovare una loro stabilizzazione e
definizione. I cambiamenti non hanno
riguardato solo dinamiche interne ma si sono
riflesse nei rapporti di potere regionali e
internazionali
a
più
ampio
spettro
determinando
un
cambiamento
nella
percezione della sicurezza. Il quadro che si
presenta davanti agli occhi del mondo è
profondamente cambiato e tuttora in fieri.
Analisti e studiosi di tutto il mondo stentano a
trovarne una definizione, ancorati a vecchi
paradigmi statici e rassicuranti. Il Vicino
Oriente a cui assistiamo oggi è qualcosa di
nuovo e instabile, dove il potere degli Stati è
ancora forte ma lo sono al contempo attori non
statali vecchi e nuovi così come la società
civile che trova nuove vie di attivismo e
mobilitazione. Ma il Vicino Oriente non è solo
questo al giorno d’oggi. Vuoti di potere, caos
istituzionale, violenza, povertà e mancanza di
prospettive per il domani. Proprio per questo si
assiste al ritorno a vecchie dinamiche che
rinascono
dalle
ceneri
degli
anni
dell’oppressione durante i regimi autoritari e si
pongono come ancore di salvezza, quando lo
Stato non c’è e non si hanno certezze. Il ritorno
alla religione nelle sue forme più estremiste e
alla protezione delle tribù come forma di
organizzazione che si sostituisce allo Stato e
garantisce il controllo del territorio. Tutto
questo humus fornisce al contempo adepti per
gruppi terroristici, organizzazioni criminali di
varia natura e in particolare trafficanti di droga
ed esseri umani. Questa regione così
travagliata e oppressa, immobilizzata per anni
dall’autoritarismo e inquadrata all’interno di
confini imposti ha dato asilo a uno dei più
tristemente famosi attori non statali dei nostri
tempi, al-Qaeda in tutte le sue vecchie e nuove
declinazioni, e l’ancora più noto attore che si
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auto-proclama Stato Islamico.
L’ordine emerso non vede una singola
potenza dominante, come non lo era neanche
in passato, ma coalizioni mobili composte da
Stati che perseguono obiettivi diversi sul piano
formale e attraverso meccanismi trasversali.
Incoerenza
sul
piano
domestico
e
internazionale, con Paesi come la Tunisia e
inizialmente l’Egitto che, avviato un processo
di democratizzazione, stringono alleanze con
Paesi autoritari come quelli del Golfo. Un
complesso sistema di equilibri e ossimori, con
il Consiglio di Cooperazione del Golfo che, per
esempio, promette supporto a Tunisia ed Egitto
per il loro cammino democratico, in un’ottica
di controllo e bilanciamento.
Le divisioni settarie sembrano dominare la
scena sia nei singoli conflitti sia a livello di
relazioni geo-strategiche macro-regionali.
Primo fra tutti il conflitto siriano, trasformatosi
in una guerra civile rapita da bandiere settarie
ed equilibri geopolitici che vanno dal regionale
al globale. Siria in primo piano ma poi il
Libano, che ancora combatte con i fantasmi
della guerra civile che è sempre dietro
l’angolo. Arabia Saudita e Qatar che
contrastano Hizb Allah per indebolire Assad e
creare una crepa nell’asse sciita che arriva fino
all’Iran. Un conflitto che di interno ha solo la
localizzazione, andato comunque ormai oltre i
vecchi canoni dei confini statuali perché rapito
dalla narrativa del sedicente Stato Islamico.
Sulla stessa linea i Paesi del Golfo invitano
Marocco e Giordania ad entrare nel GCC e
rafforzare in questo modo un’alleanza geostrategica sunnita delle monarchie della
regione. In tutto questo la Turchia, impegnata
nell’accoglienza dei profughi e nella difficile
gestione della sua politica domestica, cerca una
nuova posizione nel quadro dello squilibrio
regionale. La divisione fra sunniti e sciiti è
stata spesso costruita ed esasperata dai regimi
come strumento di auto-legittimazione e
sopravvivenza e colorata per rispondere a
interessi particolari.
Dal 2011 ad oggi c’è stato un cambiamento
dell’orientamento di molti Paesi nei confronti
dei Paesi occidentali ed è maggiore il peso
della popolazione nelle scelte di politica estera,
prima esclusivo appannaggio del potere
statale, se non teniamo conto della questione
israelo-palestinese
sempre
capace
di
catalizzare il sentimento popolare arabo e
indirizzare le scelte di politica estera. La realtà
post-2011 vede l’interesse degli Stati
mediorientali maggiormente rivolto verso un
loro riposizionamento regionale alla luce dei
cambiamenti in atto, piuttosto che una corsa
all’allineamento con le potenze internazionali.
In questa ottica è importante individuare quali
siano le dinamiche prevalenti e prendere atto
del fatto che esse non sono né statiche né
omogenee. Ognuna di esse assume
connotazioni diverse a seconda dei Paesi che
attraversa. Per questo motivo è importante
dividere l’area mediorientale in sotto-regioni
nelle quali sarà possibile valutare il peso
relativo di quella dinamica rispetto
all’equilibrio sul campo.
Si è parlato di divisioni settarie. Questa
linea interpretativa assume caratteri e
importanza diversa a seconda che si parli di
rapporti geopolitici fra Paesi del Golfo e Iran,
o che si parli di conflitto in Siria. O ancora di
Libano o all’estremo opposto di Yemen. Tutte
dinamiche in cui è indubbia la preponderanza
del fattore settario ma nelle quali esso prende
forme diverse perché intrecciato con altre
dinamiche a livello locale e internazionale.
Paesi come la Siria e lo Yemen vedono in
discussione il concetto stesso di identità
nazionale1.
Le divisioni settarie d’altronde non sono
una novità ma una realtà storica che ha sempre
influito sugli equilibri regionali ed è stata
utilizzata per demonizzare o riportare
all’ordine le fazioni fuori controllo. I leader
arabi che hanno mantenuto il potere dopo le
rivolte giocano sul loro ruolo di stabilizzatori
della regione e al contempo strumentalizzano
1
Richard YOUNGS, Living with the Middle East’s oldnew security paradigm, “FRIDE Policy Brief”, n. 152,
March 2013.
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5
le tensioni settarie. Arabia Saudita e Bahrein ne
sono un esempio. L’enfasi eccessiva sulle
affiliazioni etniche, confessionali e tribali
come fattore caratterizzante la regione può
minare le basi stesse dello Stato-nazione. Le
lente transizioni seguite nei Paesi nei quali le
rivolte sembravano aver successo hanno
portato ad un ritorno alle tradizioni, una ricerca
di vecchi equilibri tribali e confessionali che
fornissero punti di riferimento. Solo in Paesi
come la Tunisia le strutture politiche sono
riuscite a organizzarsi e raccogliere consensi
attraverso partiti politici, religiosi o meno.
Anni di autoritarismo hanno lasciato la società
civile impreparata e disorganizzata, senza
strutture partitiche forti e in grado di lavorare
attraverso dialogo e concertazione con le parti.
Ogni caso però ha le sua specificità.
1.2 Il caso Libia: fra caos istituzionale e
ordine tribale
Tolto il coperchio dello Stato autoritario, la
società ha mostrato le sue sfaccettature,
differenze e contraddizioni. In particolare le
minoranze etniche e religiose risultano la
problematica più ardua da affrontare nei
processi di ricostruzione istituzionale e dialogo
politico nazionale. La protezione delle
minoranze con bilanciamento dei poteri a
livello statale non sempre è un processo
semplice. Quando lo Stato o quello che ne
rimane non riesce a controllare il territorio ed
è la vita stessa delle persone a non trovare
protezione, è difficile discutere. Quando poi ci
si mette in mezzo la competizione delle risorse
è difficile che le fazioni posino le armi. La
Libia è un triste esempio di queste dinamiche.
Pur essendo abbastanza omogenea dal punto di
vista confessionale, le divisioni tribali,
regionali e ideologiche giocano un ruolo
preponderante. A causa della sua storia di
decentralizzazione e delle strutture sociali, la
coesione nazionale è più problematica che in
altri Paesi. Divisioni ideologiche fra gruppi
islamisti e gruppi secolari, o affiliazioni
etniche (arabi e berberi) o divisioni intratribali, richiedono una interpretazione di ampio
spettro.
Ripercorrendo velocemente la storia libica
dall’ultimo periodo ottomano a oggi è
possibile individuare delle dinamiche
interpretative attuali oggi più che mai. Dopo la
definitiva caduta dell’impero ottomano i libici
furono esclusi dai processi di controllo e
amministrazione territoriale. Questo portò a un
ritorno alle identità tribali, viste come
alternativa al potere coloniale. Un ritorno
quindi all’identità politica tribale costruita
intorno ai legami di sangue come ultima risorsa
in un momento di crisi2. La Libia ha una storia
complessa e nel suo passato sono esistite realtà
amministrative così come forme di società
civile organizzata. Il periodo monarchico in
particolare, nell’immaginario nazionale è stato
il momento in cui la Libia è stata più vicina alla
creazione di uno Stato unitario, con un
controllo territoriale effettivo almeno su tutto
il Sahara orientale. Durante la Prima Guerra
Mondiale il tentativo da parte dell’élite libica
di creare dei governi locali può essere
interpretato come un embrione di sentimento
nazionale sviluppatosi a livello locale.
Il sistema tribale in Libia non è
caratterizzato da rigidità nelle alleanze e nelle
divisioni ma è al contrario una realtà molto
flessibile. Alcuni libici conferiscono un valore
importante alla loro realtà tribale, altri relegano
il tribalismo a un relitto del passato, altri
ancora non sanno neanche a che tribù
appartengono. Le istituzioni che hanno un forte
significato aggregativo per i libici sono la città,
la tribù e la famiglia3. Ci sono circa 300 tribù
in Libia ma molte non si identificano in un
gruppo omogeneo che vive insieme in un
determinato territorio ma sono semplicemente
reti di persone che spesso non conosco neanche
chi sono i loro capi tribali. Questo spiega anche
perché molti libici non considerino l’identità
tribale e l’identità nazionale in contrasto.
Decisiva nella permanenza delle lealtà tribali è
2
3
Lisa ANDERSON, The state and social transformation
in Tunisia and Libya, Princeton University Press, 1987,
pp. 131-188.
www.istituto-geopolitica.eu
Sherine EL-TARABOULSI, Revisting the narrative of
“statelessness”: reflections on non-state actors and
state-building in pre-qaddafi Libya (1911-1969), “ISPI
Analysis”, No. 236, March 2014.
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stata la natura discontinua del processo di
state-formation e la trasformazione della Libia
in una rentier economy è stata tutt’altro che in
disaccordo con le dinamiche tribali che anzi
sono state sfruttate e distorte con derivazioni
clientelari.
Grandi e piccole milizie con agende diverse
e doppia lealtà si contendono il controllo del
territorio. In un Paese così vasto e
prevalentemente
desertico
assume
fondamentale importanza il rapporto fra centri
e periferie e le rivalità regionali storiche.
L’annosa animosità fra Cirenaica e Tripolitania
ne è solo l’esempio più indicativo. Lotte di
potere emergono fra i rappresentanti delle
famiglie, tribù e città più importanti sulla scena
politica. Le linee di mobilitazione emerse
durante la guerra civile suggeriscono rivalità a
livello sub-regionale e nazionale, piuttosto che
vere e proprie spinte indipendentistiche delle
tre regioni principali, Tripolitania, Cirenaica e
Fezzan. Quello che è fondamentale mettere in
evidenza, e che deve rappresentare un punto di
forza della Libia, è la sua indipendenza
economica,
motore
di
rinascita
e
stabilizzazione da una parte ma motivo di
attrito e lotta per le risorse dall’altra. Il pieno
accesso alle sue risorse finanziarie per la
ricostruzione e la ripresa della produzione
petrolifera a pieno regime sono fondamentali
per il recupero della stabilità finanziaria del
Paese4. Allo stesso tempo, il ruolo delle tribù
nell’allocare
risorse
socio-economiche,
benefici e sicurezza in assenza di effettive
istituzioni statali rinforza il ruolo del
tribalismo in tutte le regioni. Quindi più a
lungo lo Stato sarà debole o inefficace più le
tribù ne assumeranno il ruolo. Quello che è
stato definito il dilemma tribale è il problema
della inclusione o esclusione delle tribù nella
realtà politica odierna. Secondo alcuni esse
sarebbero un ostacolo a una Libia unita e
democratica perché non garantirebbero
eguaglianza di trattamento per tutti i libici e
impedirebbero lo sviluppo sociale e
favorirebbero le divisioni territoriali. Abdul alHakim Al-Fatouri, un accademico libico,
afferma che «non considerare le richieste delle
tribù in questo periodo di transizione potrebbe
portare ad una balcanizzazione della Libia».
Le tribù svolgono un ruolo importante nella
vita quotidiana di molti libici5. La Libia, pur
nel suo vuoto istituzionale attuale, non è una
tabula rasa su cui disegnare liberamente una
nuova entità statale. Il sostrato socio-culturale,
tribale e religioso costituisce la base da cui
partire, non un ostacolo per il futuro.
La Libia oggi è contesa da due fazioni
principali. Un governo eletto nel 2014 e
riconosciuto internazionalmente con sede a
Tobruk, e la coalizione di gruppi armati di
ispirazione islamica chiamati Fajr Libya a
ovest, con sede a Tripoli. Nel centro del Paese
si dipanano le fazioni più disparate da Ansar
Al-Sharia a Da’ish.
La Libia è la più grande riserva di petrolio
di tutta l’Africa e il quarto deposito di gas
naturale del continente. Prima del 2011 la sua
economia attirava migranti da molti Paesi subsahariani che, con lo scoppio della guerra, si
sono ritrovati a dover scegliere fra
l’emigrazione verso nord o l’entrare a far parte
delle fazioni combattenti o alimentare le fila
dei traffici illeciti. Il vuoto di sicurezza nel
Paese è stato riempito dai trafficanti. Paesi
come Tunisia ed Egitto, alle prese con un
difficile ritorno alla normalità, risentono
pesantemente del caos libico. La minaccia
dell’espansione dei gruppi legati al cosiddetto
estremismo islamico preoccupa Al-Sisi che
vorrebbe dar vita ad una coalizione araba per
intervenire in Libia sul modello dello Yemen.
Nel contempo sostiene il governo di Tobruk e
in particolar modo le tribù libiche che definisce
la base portante della stabilità e sicurezza del
Paese. Martedì 2 giugno 2015 i negoziati in
Marocco, sotto l’egida della missione delle
Nazioni Unite guidata dall’inviato speciale
Bernardino Leon, hanno raggiunto un
compromesso di accordo su circa l’80% delle
4
5
Wolfram LACHER, Families, Tribes and Cities in the
Libyan revolution, “Middle East Policy”, Vol. 18, No. 4
(Winter 2011), pp. 140-154.
www.istituto-geopolitica.eu
Mohammed AL-KATIRI, State-building challenges in
a Post-Revolution Libya, SSI Monographs, United
States, October 2012.
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7
questioni in gioco. Le due amministrazioni che
si contendono il potere si sono incontrate
nuovamente lunedì 8 giugno 2015 per arrivare
alla definizione del restante 20% e raggiungere
le basi per la formazione di un governo di unità
nazionale. L’inviato speciale Leon ha messo in
luce la sua preoccupazione in merito alla
situazione del Paese evidenziando che il
dialogo non è più un’opzione ma l’unica via
percorribile per evitare la catastrofe.
L’implementazione dell’accordo poi sarà
un’altra scommessa impegnativa dato che fin
adesso le parti sono state riluttanti ad accettare
un cessate il fuoco, precondizione necessaria
per un ritorno alla normalità.
2. Scenari e raccomandazioni
La sicurezza dell’area mediterranea è
quindi irrimediabilmente legata alle dinamiche
interne che si sviluppano nei Paesi costieri
come la Libia ma che spesso sono solo la punta
dell’iceberg di crisi e tensioni lontane. Lo
stesso Stato Islamico gode di questo vacuum e
con una sorta di diffusione passiva espande il
suo franchising del terrore soddisfando
interessi locali lasciati proliferare dall’assenza
di controllo statale. Quali sono quindi le
variabili su cui intervenire per cercare di
normalizzare la regione e ritrovare un
equilibrio di sicurezza condiviso da entrambe
le sponde del Mediterraneo? La rule of law, la
sovranità territoriale è un passaggio
imprescindibile per qualsiasi processo di
ricostituzione statale che abbia possibilità di
ridare stabilità al Paese. Investire sulla società
civile che così tanto ha dato alle rivolte arabe e
così poco ha avuto indietro. Le speranze
disattese dei giovani tunisini, libici, egiziani
sono il primo gradino che porta verso la
disperazione e la mancanza di prospettive. Il
non aver niente da perdere alimenta le braccia
dell’ISIS e riempie le stive dei barconi che
attraversano le martoriate rotte del
Mediterraneo Centrale verso l’Europa.
L’economia. Le rivolte sono esplose per motivi
socio-economici in primis, politici poi. La
mancanza di opportunità, la mancanza di
lavoro, la richiesta di dignità. E senza dignità
non c’è scelta. E se un gruppo arriva e
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distribuisce caramelle, internet, pane e
assistenza sanitaria, offre scuole per i bambini,
la scelta non è poi così difficile. Offrono
assistenza sociale con quel qualcosa in più che
affascina i giovani oppressi, e allora le
denominazioni non servono più. E così
qualsiasi gruppo che voglia avere più peso e
avere i mezzi per prendere il controllo del
territorio e garantirsi l’acquiescenza della
popolazione può affiliarsi allo Stato Islamico,
sposarne la causa e riceverne il sostegno.
Economico.
Come fermare le partenze dei migranti
verso l’Europa? Impossibile e anacronistico.
Le migrazioni sono sempre esistite e sempre
esisteranno. La rotta del Mediterraneo Centrale
è la rotta di migrazione marittima che
purtroppo vanta il maggior numero di tragedie
in tutto il mondo. Le autorità libiche
ammettono di fermare raramente i trafficanti e
quindi di lasciarli praticamente agire
indisturbati. La Libia è uno Stato sull’orlo del
collasso, se Stato si può ancora definire.
Raggiungere un accordo fra le due
amministrazioni che si contendono il potere è
quindi un obiettivo primario. Ma ci vorrà
tempo per tornare alla normalità anche se
l’accordo raggiunto lunedì 8 giugno trovasse la
via del successo e venisse implementato. La
Libia ha 4.000 km di frontiere terrestri da
controllare e le condivide con sei Paesi diversi.
Un controllo delle frontiere terrestri maggiore
è richiesto da parte di Paesi come la Tunisia,
l’Algeria e l’Egitto, ma anche il Niger e il
Chad. Lo stesso Egitto a fine maggio ha
ospitato una conferenza dei maggiori capi tribù
libici per chiedere il loro appoggio nella lotta
al terrorismo e nel controllo della frontiera
orientale.
La complessità del fenomeno migratorio è
aggravata dall’interdipendenza delle crisi
regionali in atto. Nel 2014 il 60% dei migranti
che hanno raggiunto le coste europee era
siriano. Con l’80% delle partenze individuate
in Libia e Tunisia. Per affrontare il problema
bisogna evidenziare il fatto che la Libia è in
realtà solo un Paese di transito per le rotte
migratorie e quindi bisogna agire anche sulle
condizioni nei Paesi d’origine del fenomeno
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così come cercare di individuare le rotte.
Africa Occidentale, Sub-sahariana, Corno
d’Africa e Medio Oriente sono indubbiamente
aree immense da tenere sotto controllo, ma un
maggior coordinamento a livello regionale per
il controllo dei confini fra gli Stati di queste
aree potrebbe costituite un primo passo nella
lotta contro i trafficanti di esseri umani e di
droga. Non è da sottovalutare inoltre il
fenomeno degli IDP (Internally Displaced
Person), che non hanno lasciato i confini del
proprio Paese ma non hanno più una casa
perché costretti a scappare per la guerra o le
persecuzioni. Tutte sfaccettature drammatiche
di una complessa situazione di crisi
generalizzata. Crisi che ormai non ha più nulla
di temporaneo ma che ha assunto i caratteri
dell’ordinarietà.
L’Unione
Europea
è
preoccupata per la sicurezza dei suoi confini.
Collaborare con Paesi come la Giordania, la
Turchia e il Libano che hanno assorbito in
questi anni 3 milioni di rifugiati siriani è una
delle possibili strategie per gestire il flusso
migratorio non nel Paese d’origine ma almeno
nel primo Paese di transito. Cooperare con i
Paesi che hanno intrapreso la via del
cambiamento. Sviluppo e sicurezza sono due
concetti che si nutrono l’uno dell’altro. In
questo l’Italia e i Paesi della sponda sud
dell’Europa possono fare da ponte e diventare
un nuovo baricentro dell’Europa. In Europa ma
ancorati al Mediterraneo. Una periferia che
diventa un nuovo centro.
Il Mediterraneo non è una regione
geopolitica uniforme ma eterogenea nella sua
vicinanza, dove né i conflitti né le interazioni
hanno delle dinamiche comuni dominanti.
Helsinki nel 19756 ha sancito l’indissolubile
legame fra la sicurezza in Europa e la sicurezza
nell’area mediterranea. Ma quale Europa e
quale Mediterraneo? Spesso queste che
consideriamo aree geopolitiche omogenee
dimostrano tratti di discontinuità e possono
essere lette con più chiarezza suddividendole
in micro-regioni. È così che un’Europa
mediterranea si confronta con un’Africa
mediterranea. L’Africa mediterranea è legata
alle dinamiche dell’area del Vicino Oriente
così come della vasta area desertica che la lega,
come una porosa barriera di sabbia, ai Paesi
dell’Africa sub-sahariana.
Fondamentale
risulta
quindi
la
comprensione delle dinamiche locali che,
superate le accuse di relativismo, comprenda la
realtà nelle sue innumerevoli sfaccettature
frutto del percorso storico, sociale, politico e
religioso del Paese con cui ci si rapporta.
Soluzioni di lungo periodo possono scaturire
solo da decisioni ragionate e consapevoli.
Ascoltare le voci del Mediterraneo: è questa la
sfida per il prossimo futuro, un Mediterraneo
che non finirà di essere il braudeliano luogo di
incontro e di scambio ma che, purtroppo, al
giorno d’oggi è increspato dalla velocità delle
crisi che lo circondano e spaventa per la
vicinanza delle sue sponde.
6
Un concetto di sicurezza che andava oltre la classica
accezione politico-militare ma che si estendeva anche al
campo economico e a quello più ampio della protezione
dei diritti umani, delle libertà fondamentali e del rule of
law.
La CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa), è stata caratterizzata da una
dimensione mediterranea fin dai suoi albori. Nel
documento finale di Helsinki si proclamava infatti il
principio per cui la sicurezza europea e la sicurezza
mediterranea dovessero essere considerate indivisibili.
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9
1.1 La minaccia jihadista: definizione e
origine
Dall’11 settembre 2001 (attentati terroristici
a New York e Washington) e forse già dal 12
ottobre 2000 (attacco alla USS Cole
ormeggiata a Aden), l’estremismo e il
terrorismo di matrice religiosa islamica sono
tra le maggiori preoccupazioni per la sicurezza
mondiale, in particolare in Occidente. Il
problema, in realtà, si era già posto altrove: in
Russia (guerra afghana negli anni ‘80 e rivolta
cecena negli anni ‘90), in Cina (separatismo
uiguro fin dagli anni ‘60), in Jugoslavia (guerra
di Bosnia e rivolta in Kosovo, anni ‘90), oltre
ovviamente che nei Paesi a maggioranza
musulmana.
Per poter affrontare debitamente il
fenomeno, è necessaria una sua definizione,
sebbene ciò introduca temi di grande
estensione che non si potranno affrontare qui
in maniera esauriente.
Innanzi tutto è bene affermare che, in senso
letterale e non denigratorio, l’Islam è
integralista, ossia è una religione da cui è
ineliminabile una dimensione politica7. Ciò
non è peculiare dell’Islam ma l’accomuna a
numerose religioni tradizionali: non di meno,
spiega l’abbondanza e il successo di discorsi
comunitari interni all’Islam. Col termine
fondamentalismo intendiamo invece le teorie
miranti a rimanere ancorati ai princìpi
originari. La storia del fondamentalismo
musulmano è strettamente intrecciata con la
storia politica della regione e, in particolare,
con la sua dialettica con l’Occidente cristiano.
È stato osservato dagli storici come,
dall’inizio della globalizzazione almeno (XVI
secolo), le evoluzioni delle diverse civiltà
seguano percorsi in parte analoghi8. Così, se
nel ‘500 in Europa si sviluppa un movimento
purista e letteralista in seno al Cristianesimo (la
Riforma), che rifiuta la tradizione (cioè che è
stato trasmesso per linee istituzionali o
iniziatiche) a vantaggio della fonte (la
rivelazione divina), l’Islam trova un
corrispondente nel ‘700. Formatisi nei
medesimi anni alla Mecca, Sha Waliullah
Dehlawi in India e Muhammad ibn ‘Abd alWahhab in Arabia propongono una visione
purista dell’Islam, che rigetta l’innovazione ed
esalta la religiosità primitiva dell’Islam. Nasce
in questo clima il movimento “salafita”, che
prende il nome dai Salaf al-salih, gli “antenati
ben guidati”, prime tre generazioni di
musulmani,
presi
a
modello
dai
contemporanei. A esso contribuiscono
numerose personalità, le cui linee guida in
questo primo periodo sono: a) coniugare gli
strumenti della modernità con l’Islam puro
delle origini; b) riunire i musulmani in
un’unica comunità in grado di emanciparsi dal
colonialismo cristiano.
Prodotto di questo anelito salafita, nel 1928
ha visto la luce in Egitto la Società dei Fratelli
Musulmani, ben presto capace di espandersi in
molti Paesi facendo leva sull’azione sociale
che ha accompagnato la propaganda. Il suo
programma, riassumibile nel motto “L’Islam è
la soluzione”, prevede la re-islamizzazione
della società musulmana a partire dal basso,
fino a far coincidere credente e cittadino.
Divenuta
movimento
di
massa
transnazionale, la Società è ormai assai
variegata al suo interno, pur rappresentando in
generale l’ala “democratica” dell’Islam
Politico (ossia, secondo la definizione di
scuola, quell’insieme di correnti politiche
religiosamente
ispirate
nel
mondo
musulmano). Anche l’ala “insurrezionalista”, o
“jihadista” com’è spesso descritta, origina però
almeno in parte dai Fratelli Musulmani.
Influenzati dalle numerose persecuzioni subite
dal governo, alcuni ideologi della Società si
sono radicalizzati. È il caso di Sayyid Qutb,
giustiziato nel 1966 su ordine di Nasser e, pur
ripudiato dalla più moderata dirigenza dei
Fratelli Musulmani, di grande impatto nei
7
8
DA'ISH,
AL-QAIDA E GLI ALTRI: COME
AFFRONTARE LA MINACCIA ESTREMISTA
1. Punto della situazione
Massimo CAMPANINI, Islam e politica, Mulino,
Bologna, 2003.
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Cristopher A. BAYLY, La nascita del mondo moderno.
1780-1914, Einaudi, Torino, 2004.
www.geopolitica-rivista.org
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10
decenni successivi sul pensiero politico del
mondo islamico. Secondo Qutb si è ricaduti
nello stato di jahiliyya, di oscurità prerivelazione divina, e l’Islam necessita di essere
restaurato tramite il jihad contro i governanti,
apostati (kafir), dei Paesi nominalmente
musulmani, nonché contro l’imperialismo
occidentale. Il jihad nel senso di “guerra santa”
è dunque interpretato come dovere individuale
(fard ayn) di ogni musulmano a prescindere da
un’autorità politica che lo proclami, ma anzi
contro quella medesima autorità.
Le idee di Qutb influenzano tutti i
successivi movimenti cosiddetti “jihadisti” o
anche “takfiristi” (da takfir, la scomunica
utilizzata contro gli avversari politici
considerati non musulmani), a partire da
Tanzim al-Jihad, responsabile dell’uccisione
del presidente egiziano Sadat e il cui membro
più famoso, Ayman al-Zawahiri, è attualmente
la guida di al-Qaida.
1.2 Al-Qaida
È oggi opinione comune che l’azione
militare in Afghanistan e Pakistan abbia
fortemente indebolito il nucleo centrale di alQaida, che già all’origine aveva una struttura
lasca, fino a renderla un’etichetta sotto cui si
riuniscono vari gruppi che sono quasi
totalmente indipendenti tra loro9. Rispetto
all’inizio
del
secolo,
si
nota
un
ridimensionamento della capacità di al-Qaida
di condurre attentati spettacolari in Occidente
ma un potenziamento delle sue branche nella
regione islamica. In realtà, in quest’ultimo
caso si tratta spesso non della costituzione ex
novo di armate quanto dell’affiliazione,
sull’onda della popolarità acquisita dopo l’11
settembre 2001, di gruppi pre-esistenti. Dietro
AQIM (al-Qaida nel Maghreb Islamico) si
cela il Gruppo Salafita per la Predicazione e il
Combattimento, costola dell’algerino GIA; in
Somalia al-Qaida è rappresentata dal pre9
US Department of State, Country Reports on Terrorism
2013, April 2014, p. 6.
10
Daniel BYMAN, Buddies or burdens? Understanding
the Al Qaida relationship with its affiliate organizations,
“Security Studies”, Vol. 23, No. 3 (2014), pp. 431-470.
11
US Department of State, Country Reports on
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esistente movimento al-Shabaab. Fanno
eccezione AQAP (al-Qaida nella Penisola
Arabica),
ossia
ciò
che
rimane
dell’organizzazione in Yemen e Arabia
Saudita, e Jabhat an-Nusra, erede della
guerriglia in Iraq e oggi operativo in Siria. La
difficoltà di gestire e coordinare realtà tanto
eterogenee è risultata in un indebolimento
netto di al-Qaida presa nel suo complesso10.
Al-Qaida nella Penisola Arabica si
distingue per il tentativo di perseverare nella
prassi degli attentati terroristici in Occidente o
contro obiettivi occidentali nella regione. Il
Dipartimento di Stato USA la ritiene perciò la
principale minaccia della “famiglia” qaidista11,
e AQAP ha rivendicato, in maniera credibile
visto il soggiorno in Yemen di uno degli
attentatori, la recente strage di Parigi contro la
redazione di “Charlie Hebdo”. Si stima in circa
un migliaio il numero dei suoi militanti12. Tale
cifra dovrebbe potersi applicare anche agli
operativi di AQIM13. Sicuramente più
cospicua, nell’ordine delle svariate migliaia, è
la forza combattente di al-Shabaab in Somalia,
dove il gruppo controlla vaste porzioni di
territorio rurale nel Giuba, nel Bai, nel Bacol e
nel Scebeli, ossia nelle regioni circostanti
Mogadiscio14. Anche Jabhat an-Nusra aveva
una forza combattente e un controllo
territoriale cospicui in Siria, che ha però perso
in ampia misura a causa della scissione e lotta
con Da’ish.
1.3 Da’ish
Questo gruppo nasce in seno a al-Qaida e
nel quadro della guerriglia condotta in Iraq
contro la coalizione a guida USA e la
componente sciita indigena. Probabilmente
segnato da quest’esperienza di dura lotta interconfessionale, Da’ish opta per una sanguinosa
campagna di “pulizia confessionale” contro gli
sciiti, considerati apostati e complici
dell’imperialismo occidentale15. Sfruttando le
Terrorism 2013, p. 8.
12
Ivi, p. 304.
13
Ivi, p. 306.
14
Ivi, p. 312.
15
Cole BUNZEL, From Paper State to Caliphate: the
ideology of the Islamic State, “Analysis Paper”,
www.geopolitica-rivista.org
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11
sue capacità belliche e il rancore nutrito dalla
comunità sunnita siro-irachena verso quella
sciita e alawita, Da’ish è riuscita negli ultimi
mesi ad acquisire un ampio controllo
territoriale. La rottura con al-Qaida si fonda su
un rapporto difficile già ai tempi di Bin Laden
e al-Zarqawi, ma si consuma sui metodi di lotta
del futuro Da’ish con le sue brutalità contro gli
sciiti e contro i sunniti considerati
“collaborazionisti”. Sullo sfondo si nasconde
una divisione dottrinale intorno a un concetto
ampiamente dibattuto tra i jihadisti: ossia se
privilegiare
il
“nemico
lontano”
(l’imperialismo occidentale) o il “nemico
vicino” (i governanti dei Paesi musulmani)16.
pronti a gettare nel caos qualsiasi Paese
musulmano.
Non va inoltre trascurato il fatto che, se i
combattenti stranieri che fanno ritorno in
Occidente per dedicarsi al terrorismo sono
pochi, anche quei pochi possono comunque
fare numerose vittime e danni19: ciò che è
trascurabile statisticamente, non lo è più se si
parla di vite umane. La Francia, coi suoi oltre
900 combattenti in Siria e Iraq, è la più esposta
a rischi: uno degli attentatori di Parigi era stato
in Yemen e un francese veterano della Siria è
responsabile della strage al Museo Ebraico di
Bruxelles. Per fortuna l’Italia ha meno di 100
combattenti stranieri, perciò più facilmente
controllabili e neutralizzabili.
2. Scenari
2.1 Terrorismo
Un grave pericolo è posto dai combattenti
stranieri che lasciano il campo di battaglia siroiracheno e fanno rientro nel Paese d’origine.
Grazie alla loro esperienza bellica e alla rete di
contatti acquisita, sono in grado di alimentare
terrorismo o persino guerriglia in tali Paesi,
mentre minore appare il rischio in relazione al
terrorismo internazionale17.
Abbiamo diversi esempi delle capacità
destabilizzanti
di
questi
combattenti
18
stranieri . Terminato il conflitto in
Afghanistan, molti foreign fighters andarono a
combattere la guerra civile in Bosnia. Veterani
del conflitto iracheno hanno invece alimentato
la ribellione in Siria e Libia. Se è consolatorio
che solo una minoranza si dedichi ad attività
puramente terroristiche, è altrettanto se non
meno preoccupante la circolazione di migliaia
di combattenti, ormai veterani di tanti conflitti
e organizzati in una rete ben rodata e affiatata,
Brookings Project on US Relations with the Islamic
World, No. 19, March 2015.
16
Daniel BYMAN, Jennifer R. WILLIAMS, ISIS vs. Al
Qaida: jihadism's global civil war, “The National
Interest”, 24 February 2015.
17
Daniel BYMAN, The homecomings: what happens
when Arab foreign fighters in Iraq and Syria return?,
“Studies in Conflict and Terrorism”, 1 May 2015.
18
Jeanine de ROY VAN ZUIJDEWIJN, Edwin
BAKKER, Returning Western foreign fighters: the case
of Afghanistan, Bosnia and Somalia, “ICCT
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2.2 Yemen
AQAP
potrebbe
uscire
rafforzata
dall’attuale situazione in Yemen: l’avanzata
degli Houthi ha privato gli USA del loro punto
di riferimento nel Paese, ossia la struttura di
potere facente capo al Presidente Hadi, cui si
appoggiavano per le operazioni contro
AQAP20. D’altro canto, gli Houthi non
possono impiegare il loro potenziale contro
AQAP poiché alle prese con una campagna di
bombardamenti condotta da una coalizione
araba a guida saudita.
2.3 Siria
In Siria, la guerra civile sembra direzionarsi
verso uno stallo duraturo ma sempre
guerreggiato21. Le divisioni tra i ribelli non
sono mai state tanto laceranti e ormai è guerra
aperta tra di loro; la fazione oggi più forte,
Da’ish, si è inoltre attirata addosso una
coalizione internazionale. I governativi, dal
canto loro, oltre alla distruzione del Paese e
Background Note”, June 2014.
19
Daniel BYMAN, Jeremy SHAPIRO, Homeward
bound? Don’t hype the threat of returning jihadists,
“Foreign Affairs”, Nov./Dec., 2014.
20
Daniel BYMAN, Jennifer R. WILLIAMS, Will al
Qaeda be the great winner of Yemen’s collapse?,
“Foreign Policy”, 9 April 2015.
21
Aron LUND, What if no one is winning the war in
Syria?, Carnegie Endowment for International Peace, 28
May 2015.
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12
all’ostilità di molti vicini sono ulteriormente
menomati dal calo del prezzo del petrolio, che
sottrae disponibilità finanziarie a loro ma
soprattutto all’Iran e alla Russia che ne sono i
maggiori sostenitori esteri22. Le FF.AA.
siriane, salvo alcuni reparti d’élite dotati di
armi pesanti e rafforzati con l’aiuto di
consiglieri iraniani, sono state fortemente
indebolite dalle massicce diserzioni di coscritti
sunniti e oggi una parte rilevante dello sforzo
bellico è condotto da milizie irregolari,
fortemente motivate ma meno addestrate23.
Visto l’afflusso di volontari sciiti dal Libano e
dall’Iraq, oltre ai consiglieri iraniani, la guerra
civile
in
Siria
sta
sempre
più
internazionalizzandosi: sul campo opposto,
quello dei ribelli, la presenza di combattenti
stranieri è ancor più rilevante. Da guerra civile
siriana il conflitto si sta tramutando in una
guerra civile musulmana, di cui la Siria è solo
lo sfortunato campo di battaglia. Il rischio è di
andare anche oltre, e in peggio, allo scenario
della somalizzazione, facendo della Siria un
vortice di instabilità capace di catturare tutta la
regione.
L’inerzia potrebbe essere mutata da un
eventuale intervento militare in prima persona
delle potenze sunnite che finora hanno solo
appoggiato la rivolta. Si è parlato in tal senso
di un accordo nascente tra Turchia, Qatar e
Arabia Saudita24. Visto lo stato di prostrazione
del governo siriano, un intervento di tal fatta
incontrerebbe in teoria un successo militare,
ma non mancano le incognite. Innanzi tutto, un
attacco sunnita alla Siria susciterebbe una
reazione dell’Iran e di fazioni libanesi e
irachene che potrebbe portare financo a una
guerra regionale, per quanto tale scenario sia
improbabile (più plausibile l’appoggio a una
guerriglia indigena). In secondo luogo,
Turchia, Qatar e Arabia Saudita possono far
fronte comune contro Assad ma, una volta
sconfitto lui, gli interessi tornerebbero
divergenti. Divergenze che si sommerebbero a
un’oggettiva difficoltà di ricostruire la Siria,
sicché altamente probabile è che il Paese
perdurerebbe in uno stato di guerra civile forse
ancor più frazionata di quella attuale,
similmente cioè a quanto avviene in Libia. In
ogni caso quest’intervento non appare oggi
troppo probabile: a) l’esperienza di coalizione
sunnita in Yemen non è stata pienamente
convincente25; b) difficilmente i tre Paesi si
muoverebbero senza la benedizione degli
USA, e Washington non pare propensa a
concedere il placet a un’azione tanto rischiosa.
22
25
Aron LUND, 2014 roundup and 2015 predictions,
“Syria Comment”, 25 December 2014.
23
Balint SZLANKO, Assad’s Achilles’ heel: the
manpower problem, Carnegie Endowment for
International Peace, 21 February 2014.
24
Aron LUND, Are Saudi Arabia and Turkey about to
intervene in Syria?, Carnegie Endowment for
International Peace, 24 April 2015.
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3. Raccomandazioni
3.1 Lotta al terrorismo
Si è già detto come il pericolo terroristico
derivante dal ritorno di combattenti stranieri in
Occidente sia basso, ma non assente e dunque
non trascurabile viste le sue potenzialità letali.
I governi occidentali, incluso quello italiano,
hanno validi strumenti per ridurre il pericolo26:
a) smantellare le reti di reclutamento e
appoggio al jihad presenti sul nostro territorio
grazie all’attività di polizia e intelligence; b)
favorire i notabili della comunità musulmana
autoctona che si oppongono alle tesi jihadiste
o radicali in genere, dando loro visibilità
mediatica e strumenti per rinforzare l’autorità
sui correligionari; c) lasciare spazi di
espressione pacifica alla comunità musulmana
autoctona ed evitarne l’emarginazione, che
provoca radicalizzazione. Una particolare
opera di sensibilizzazione e pressione va
compiuta nei confronti della Turchia, canale di
ingresso per gran parte dei volontari che si
uniscono ai jihadisti in Siria.
Frederic WEHREY, Into the maelstrom: the Saudi-led
misadventure in Yemen, Carnegie Endowment for
International Peace, 26 March 2015.
26
Daniel BYMAN, Jeremy SHAPIRO, Be afraid. Be a
little afraid: the threat of terrorism from Western foreign
fighters in Syria and Iraq, “Foreign Policy Paper
Series”, Brookings Institute, No. 33, January 2015.
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13
3.2 Lotta contro il jihadismo
La lotta contro Da’ish e in generale il più
ampio movimento jihadista si può considerare
in almeno tre diversi periodi.
- Breve periodo: è necessario vincere sul
campo lo Stato Islamico, sia tagliandone le
fonti
di
approvvigionamento,
sia
sconfiggendolo sul piano militare.
Finanziamenti privati provenienti dalla
Penisola Arabica sono riconosciuti come
un’importante fonte di finanziamento dei
gruppi jihadisti27. Il Comitato Anti-Terrorismo
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU considera
perciò prioritario sviluppare la lotta al
finanziamento al terrorismo nella regione,
seppur v’è il rischio che la legislazione ad hoc
sia utilizzata per reprimere il dissenso28. In
particolare, Qatar e Kuwait devono essere
stimolati a rendere operativo il proprio sistema
AML/CTF
(anti-riciclaggio
e
antifinanziamento del terrorismo) mentre
andrebbero rafforzati l’informazione e il
controllo sui sistemi finanziari informali come
organizzazioni benefiche e operatori hawala29.
La Turchia ha invece finora offerto un
valido retroterra logistico allo Stato Islamico,
che può contare nel Paese su numerosi
simpatizzanti e ha beneficiato dell’ostilità del
governo locale verso quello siriano. Essendo la
Turchia membro della NATO, gli alleati
dovrebbero pretendere una maggiore lotta
contro i canali di approvvigionamento di
Da’ish. Ciò si può ottenere: a) rassicurando
Ankara in merito a un appoggio solo limitato
alle milizie curde; b) assumendosi l’impegno a
rimanere coinvolti in Siria anche dopo la
sconfitta del Califfato; c) offrendo appoggio
pratico per il controllo del lungo e poroso
confine siro-turco. È imprescindibile bloccare
le rotte che, transitando per la Turchia, Da’ish
utilizza per ricevere uomini, armi e denaro e
per contrabbandare petrolio e beni
archeologici.
Militarmente, è necessario prendere
coscienza dell’imprescindibilità di coloro che
sul terreno stanno combattendo Da’ish, dal
momento che i Paesi occidentali non sono
disposti a farlo in prima persona (l’Italia in
particolare, pur aderendo alla coalizione, non
si spinge oltre il supporto logistico in Iraq). Il
problema è l’identità di questi soggetti: il
governo e le forze armate irachene, il governo
e i peshmerga del Kurdistan iracheno, il
governo e le forze armate siriane, le milizie
sciite irachene, il PKK curdo, varie milizie
siriane pro o anti-governative, il libanese Hizb
Allah. L’elenco dei nemici di Da’ish include
soggetti ufficialmente catalogati come
terroristi, quali il PKK o Jabhat an-Nusra, che
difficilmente si vorranno favorire, oltre a
potentati vicini all’Iran e che tirano dunque in
gioco più elevati equilibri di politica
internazionale.
Da’ish sta traendo ampio vantaggio da
queste divisioni tra i suoi nemici. Avendo
compreso come i bombardamenti aerei della
coalizione internazionale ne frustrino molte
opzioni offensive, in Siria ha abbandonato
l’attacco contro i territori in mano alle milizie
curde per concentrarsi invece sul fronte del
governo siriano e degli altri ribelli jihadisti, a
sostegno dei quali la coalizione non
interviene30.
Anche in Yemen la lotta contro AQAP
affronta dilemmi non meno laceranti per taluni
attori. Gli Houthi sono oggi la forza che più
efficacemente potrebbe combattere al-Qaida
nel Paese, ma sostenerli vorrebbe dire
scontentare l’Arabia Saudita e i Paesi sunniti
con essa allineati.
Un’alleanza almeno tattica con l’Iran e i
suoi affiliati si rende evidentemente necessaria
per arginare il fenomeno jihadista nella
regione. Tehran è sicuramente ben disposta
verso questa soluzione, poiché è l’attore più
minacciato dall’estremismo sunnita e perché
27
Intaccare la resilienza finanziaria dell’organizzazione
terroristica più ricca del mondo, Master in Geopolitica
e Sicurezza Globale – Università Sapienza, A.A.
2013/2014.
30
Omar LAMRANI, How Islamic State victories shape
the Syrian civil war, Stratfor, 2 June 2015.
US Department of State, Country Reports on
Terrorism 2013, p. 6.
28
Counter-Terrorism Committee, Global survey of the
implementation of Security Council Resolution 1373
(2001) by member states, 1 September 2011, pp. 43-46.
29
Valentina GULLO, La rete dei finanziamenti di ISIS.
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14
non auspica altro che un coinvolgimento da
partner paritario con l’Occidente dopo la dura
stagione delle sanzioni31. I malumori dei Paesi
sunniti si possono superare inaugurando una
politica di bilanciamento e pacificazione nella
regione e facendo leva sulla loro dipendenza
militare (soprattutto dei Paesi della Penisola
Arabica) dall’Occidente. Una semplice
cooperazione “informale” con l’Iran, come già
è accaduto in Afghanistan e in Iraq, avrebbe
effetti più limitati, anche perché in assenza di
un chiarimento spingerebbe Paesi come
l’Arabia Saudita a sostenere gli avversari
jihadisti di Tehran, e perché l’Iran resterebbe
diffidente verso chi continua a sanzionarlo e
appoggia movimenti o campagne anti-iraniani
in Yemen e Siria. È però evidente che una
politica di tale portata possa essere condotta
solo con l’accordo degli USA, che anzi devono
farsene capofila.
- Medio periodo: se un fenomeno come
Da’ish ha potuto attecchire ed espandersi così
massicciamente in Siria e Iraq, è perché ha
trovato terreno fertile nel malcontento della
comunità sunnita. Se si vuole stabilizzare la
situazione in maniera durevole, non ci si può
limitare a sconfiggere Da’ish ma è necessario
eliminare tale malcontento per evitare che dia
spazio ad altri fenomeni analoghi32. L’Italia
con gli alleati dovrà dunque farsi promotrice di
una risistemazione di Iraq e Siria che tuteli tutti
i soggetti comunitari, a partire dagli sciiti e
alawiti oggi maggiori protagonisti della lotta
contro Da’ish (senza dimenticare curdi,
cristiani e altri), ma senza escludere i sunniti
per non perpetuarne il virulento revanscismo.
La precaria situazione dei regimi in vigore in
Siria e Iraq fornisce molteplici strumenti di
pressione su di essi per favorire una soluzione
di riconciliazione nazionale e rispetto di tutte
le comunità.
- Lungo periodo: se si vuole evitare che
Da’ish o al-Qaida, una volta sconfitte
militarmente, rinascano in nuove forme, è
necessario risolvere i fattori fondamentali che
sono all’origine del jihadismo sunnita. I
principali, oltre al sottosviluppo economico
della regione, sono: a) propaganda estremista;
b) carenza di forme espressive e partecipative
nelle società interessate. Affrontandoli
singolarmente:
a) sebbene il salafismo sia un fenomeno
ormai plurisecolare, la variante wahhabita –
più radicale – e la glossa qutbista – la spinta al
jihadismo armato – si sono diffuse con forza
dagli anni ‘70. Se nel caso del jihadismo
individuale ciò è dovuto a naturali sviluppi del
pensiero salafita, il successo del wahhabismo
fuori dall’Arabia Saudita deve invece tutto allo
choc petrolifero. È stato il brusco innalzamento
del prezzo del petrolio che ha munito Ryad di
abbondanti petrodollari con cui finanziare
un’ampia opera di propaganda a livello
globale, che include moschee, scuole
coraniche, opere caritatevoli, libri e così via.
L’Arabia Saudita ha utilizzato la propaganda
religiosa wahhabita anche come una forma di
soft power primariamente in chiave antiiraniana, esaltando dunque l’ostilità contro gli
sciiti. È difficoltoso arginare il propagarsi del
jihadismo finché un Paese molto facoltoso
opera per diffonderne il sostrato ideologico.
Finora l’Occidente ha agito con eccesso di
cautela indotto dal potenziale finanziario dei
Saud, dal timore di destabilizzare il maggior
centro d’approvvigionamento energetico e
dall’ostilità verso l’Iran. I rapporti con Tehran
stanno però procedendo verso un’auspicabile
normalizzazione. Continuare a tollerare la
diffusione del jihadismo diminuisce la
sicurezza, non l’aumenta, come si è potuto
constatare a più riprese nell’ultimo
quindicennio. Infine, l’Occidente non deve
certo trattare da subordinato col partner
saudita. Se si riconosce il problema insito nella
propaganda wahhabita condotta da Ryad,
l’Occidente ha tutto il diritto e tutti gli
strumenti per contrastarla.
b) l’impossibilità di esprimersi con mezzi
pacifici e di partecipare alla gestione della cosa
31
32
Dina ESFANDIARY, Ariane TABATABAI, Iran's Isis
policy, “International Affairs”, Vol. 91, No. 1 (2015), pp.
1-15.
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Charles LISTER, Profiling the Islamic State,
“Brookings Doha Center Analysis Paper”, 1 December
2014.
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15
pubblica sono ben noti fattori di
radicalizzazione politica e passaggio alla lotta
armata. Pur senza eccedere in approcci
ideologici che suscitino reazioni di chiusura
nei regimi attualmente vigenti, l’Italia e i Paesi
alleati dovrebbero coinvolgerli in un percorso
di apertura e almeno parziale pluralismo. La
messa al bando dei Fratelli Musulmani e la loro
dura repressione in Egitto, ad esempio,
costituirà molto probabilmente una rilevante
fonte di nuovi adepti per il jihadismo armato33.
Non bisogna incorrere nell’errore di voler
combattere “troppo”: forme di pensiero a noi
sgradite, anche estremiste, vanno distinte dal
terrorismo vero e proprio, pena il distrarsi da
quella che è la vera minaccia34.
IL FENOMENO MIGRATORIO DI MASSA:
TRARNE IL MASSIMO DEI BENEFICI AL MINIMO
DEI COSTI
33
35
Daniel BYMAN, Tamara COFMAN WHITES, Now
that the Muslim Brotherhood is declared a terrorist
group, it just might become one, “Washington Post”, 10
January 2014.
34
Anthony RICHARDS, From terrorism to
“radicalization” to “extremism”: counterterrorism
imperative or loss of focus?, Chatham House
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1. Punto della situazione
1.1 Le migrazioni a livello mondiale
Se quasi la metà di tutti i migranti
internazionali si dirige dal “Sud” al “Nord” del
mondo e più di un terzo si muove all’interno
del “Sud”, un’ulteriore forma di percorso è
costituita dai contingenti di popolazione “in
transito” che spesso si fermano in luoghi
intermedi di migrazione anche per lunghi
periodi. I Paesi europei che si affacciano sul
Mediterraneo, fra cui l’Italia, sono mete
preferite di questi movimenti di permanenza
irregolare con flussi che arrivano dal Maghreb,
dall’Africa subsahariana e dall’Asia e che si
dirigono verso l’Europa settentrionale35.
Secondo le stime ONU, i migranti nel
mondo sono circa 232 milioni (una persona su
33) e in continua crescita (erano 175 milioni
del 2000 e 154 milioni del 1990). Per il 75%
dei casi l’età della migrazione è quella del
lavoro (20-64). Le donne contano quasi per la
metà. L’Europa e l’Asia sono le destinazioni
preferite rispettivamente con 72 e 71 milioni di
persone ospitate. Nel 2013 metà della
popolazione emigrata risiedeva in soli dieci
Paesi: USA (45,8 milioni), Federazione Russa
(11 milioni), Germania (9,8 milioni), Arabia
Saudita (9,1 milioni), Emirati Arabi (7,8
milioni), Gran Bretagna (7,8 milioni), Francia
(7,4 milioni), Canada (7,3 milioni), Australia
(6,5 milioni) e Spagna (6,5 milioni)36. Unione
Europea, America Settentrionale e Oceania
sono le aree dove si concentra la maggiore
incidenza della presenza immigrata sul totale
della popolazione e dove essa, tra il 1990 e il
2013, ha avuto i più alti tassi di crescita37.
Alfonso GIORDANO, Movimenti di Popolazione.
Una Piccola Introduzione, LUISS University Press,
Roma, 2015, pp. 18-19.
36
I dati completi e tutte le statistiche sono riportate in:
http://esa.un.org/unmigration/wallchart2013.htm.
37
Antonio RICCI, Dossier Statistico Immigrazione
2014. Dalle discriminazioni ai diritti, Centro studi e
Ricerche Idos, p. 19.
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16
Sebbene solo il 10-15% sul totale mondiale
sia la stima percentuale della migrazione non
autorizzata38, è questo uno tra i problemi più
importanti da affrontare nell’agenda della
comunità internazionale e, nel nostro caso,
europea. Sebbene ci sia accordo sul fatto che la
questione debba essere affrontata, una vera
cooperazione
è
ostacolata
dalla
contrapposizione di più prospettive: la
sovranità nazionale, la sicurezza nazionale e la
sicurezza umana. Dalla prospettiva di uno
Stato, la migrazione illegale viola il diritto
sovrano di determinare il numero, il tipo di
immigrati e le condizioni per un non-cittadino
di vivere nel suo territorio. La Dichiarazione
universale dei diritti umani del 1948 prevede
un diritto a emigrare e a ritornare nel proprio
Paese39 ma non c’è un corrispettivo diritto
all’immigrazione.
La migrazione non autorizzata è un
problema pieno di tensioni di fondo e
contraddizioni. I tre differenziali (sviluppo,
demografia e democrazia) tra i mondi
sviluppati e quelli in via di sviluppo non si
ridurranno in un futuro prossimo e pertanto la
migrazione internazionale continuerà ad
aumentare negli anni a venire. Le pressioni
migratorie e le agevolazioni a emigrare fornite
dalle reti e dalla facilità dei trasporti e
comunicazione, spingeranno ulteriormente la
migrazione, che si scontrerà con politiche
sempre più selettive e restrittive nei Paesi di
destinazione. Pertanto, i migranti sono spinti
verso intermediari e verso canali che portano
alla migrazione non autorizzata, inclusa la
tratta delle persone.
Altre categorie di cui tener conto sono
rifugiati40 e richiedenti asilo41.
Il numero di coloro che nel mondo ricadono
sotto la protezione dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati è andato
sempre più crescendo nel corso degli anni a
causa della forte instabilità politica e sociale: i
rifugiati e richiedenti asilo hanno raggiunto
quota 51,2 milioni, circa 6 milioni in più
rispetto al 201242. La guerra in Siria prosegue
ormai da oltre tre anni ed è da sola causa
principale di tali dimensioni numeriche.
38
seguito a tali avvenimenti, non può, o per il timore sopra
indicato, non vuole ritornarvi. (EMN Italy, Glossario
EMN migrazione ed Asilo, Idos, Roma, 2011).
41
Qualsiasi cittadino di un Paese terzo o apolide che
abbia presentato una domanda di asilo (richiesta di
protezione internazionale presso uno Stato membro in
base alla Convenzione di Ginevra), in merito alla quale
non sia stata ancora presa una decisione. (Ibidem).
42
UNHCR, Global Trends 2013.
Dati dell’OIM, World Migration Report 2010.
Art. 13, 2.
40
In base alla Convenzione di Ginevra, chi, a causa di
un giustificato timore di essere perseguitato per la sua
razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o
appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova
fuori dalla Stato di cui possiede la cittadinanza e non può
o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di
detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e
trovandosi fuori del suo stato di domicilio abituale in
39
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1.2 Flussi migratori verso l’Europa
Secondo i dati più recenti sugli sviluppi
demografici, la popolazione europea continua
a crescere. La causa principale di tale crescita
è stata la migrazione, che ha compensato la
variazione naturale negativa delle nascite: da
continente di emigranti e coloni quale è stata
per lungo tempo, l’Europa Occidentale è
divenuta terra di continua immigrazione dai
quattro angoli del globo. Vivono oggi sul suo
territorio circa 30 milioni di immigrati
provenienti da oltre duecento differenti Paesi,
che costituiscono tra il 5 e l’8% della
popolazione. Se agli immigrati con
cittadinanza straniera si aggiungono gli
immigrati che hanno nel frattempo acquisito la
cittadinanza di uno dei Paesi europei, si arriva
a circa 50 milioni, ovvero il 10% della
popolazione dell’Europa allargata a 28 Paesi, e
più del 15% della “vecchia” Europa a 15, dove
questa grande massa di immigrati di più o
meno recente arrivo è in gran parte collocata.
I due terzi della popolazione immigrata
sono costituiti da cittadini non comunitari. Il
22% proviene dall’Africa, per i due terzi dei
quali dai Paesi delle regioni settentrionali di
questo continente. Il 16% dall’Asia, metà dei
quali Paesi dell’Estremo Oriente, Cina in testa,
e l’altra metà dal sub-continente indiano. Il
15% dalle Americhe: si tratta in grandissima
parte di latino-americani. Il restante 45-47% è
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17
di immigrati provenienti da Paesi europei,
incluse Turchia, Russia e Ucraina.
Una maggiore incidenza si riscontra in
quegli Stati che hanno avuto una storia
coloniale di lungo corso e che hanno portato
nel tempo a flussi migratori di tipo economico
o ricongiungimenti familiari. In questi Paesi di
vecchia immigrazione la presenza degli
immigrati è pressocchè stabile e continua,
mentre nei Paesi di nuova immigrazione (come
quelli mediterranei) è andata aumentando.
Secondo Giordano, è possibile suddividere
le principali nazioni europee in tre grandi
gruppi sulla base del momento storico in cui
sono diventate mete di flussi migratori. Il
primo gruppo è quello dei Paesi di antica
immigrazione (Francia, Gran Bretagna e
Germania). Il secondo è figlio del boom
economico degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento
(Svizzera, Belgio, Olanda, Austria e Paesi
scandinavi). Il terzo gruppo nasce infine nel
momento in cui le nazioni appartenenti ai primi
due decisero di chiudere le frontiere a causa
dello choc petrolifero e del conseguente calo
della domanda di manodopera. Da un
momento all’altro Italia, Spagna, Grecia e
Portogallo si sono ritrovate ad accogliere un
ingente flusso migratorio e si parla per questi
Paesi di un modello mediterraneo di
immigrazione43.
Negli ultimi anni, col ripetuto scoppio di
conflitti ai confini del territorio europeo, gli
ingressi si sono diversificati ed è aumentato il
numero di coloro che richiedono protezione.
Nel 2013 le domande d’asilo presentate in
Europa sono aumentate del 32% ed il
principale Paese d’origine dei richiedenti asilo
nell’Unione Europea era la Siria. L’UNHCR
stima pari ad oltre 1,335 milioni i rifugiati e
richiedenti asilo nell’UE-28. Questa crescita è
dovuta in gran parte al numero di persone che
hanno richiesto asilo in Italia ed in Turchia. Un
aumento significativo è dovuto, come già
ricordato in precedenza, alla Siria; Iraq,
Afghanistan, Eritrea e Serbia la seguono
quanto a numero di richieste per Paesi di
origine. Relativamente agli arrivi via mare nei
Paesi del Sud Europa, circa 219.000 persone
hanno attraversato il Mediterraneo nel 2013,
un numero tre volte più alto del picco del 2011
quando le rivolte arabe erano in pieno
svolgimento. L’Italia, con 170.100 migranti
arrivati nel 2014 e circa 46.500 nei primi
cinque mesi del 2015, sta conoscendo il
numero più alto di arrivi via mare; segue la
Grecia con 42.000 e molto più lontana la
Spagna con Ceuta e Melilla (1.000 persone
circa)44. L’area centrale del Mediterraneo è
stata la principale rotta di accesso all’Europa45:
con oltre 40.000 arrivi registrati nel 2013 e
oltre 170.000 nel 2014, ha rappresentato il 38%
di tutti i rilevamenti da parte dell’agenzia UE.
I migranti di nazionalità siriana ed egiziana
sono coloro che partono dall’Egitto, mentre i
migranti provenienti dal Corno d’Africa e
dall’Africa Occidentale salpano dalla Libia. A
fronte di questo, è più facile comprendere
come, nell’ambito delle proprie competenze
specifiche, l’Europa abbia cercato di rimettere
il controllo verso una cooperazione con gli
Stati limitrofi o comunque quelli da cui
provengono o maggiormente transitano i
flussi. Questa modalità, sebbene sia in parte
idonea a contenerli, deve comunque fare i conti
con il principio generale del non refoulement
per i soggetti più deboli o a rischio.
43
46
IDOS, Dossier Statistico Immigrazione 2014, Roma,
p. 45.
47
Secondo Frontex (Annual Risk Analysis 2014, p. 62)
la maggioranza di coloro che entrano in EU illegalmente
tramite l’Italia sono diretti in Svizzera, Germania e
A. GIORDANO, Movimenti di popolazione, cit., pp.
80-81.
44
Cfr.
UNHCR,
http://www.unhcr.it/risorse/statistiche/infografiche#_ga
=1.35000417.131841402.1416411492
45
FRONTEX, Annual Risk Analysis 2015, p. 16.
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1.3 Flussi migratori verso l’Italia
L’Italia si è trasformata anche da terra di
emigrazione a terra di immigrazione: è del
1974 l’inversione del bilancio migratorio a
favore degli arrivi46. Per la sua posizione
geografica, è area di destinazione o di
passaggio obbligato per raggiungere gli altri
Paesi europei47. Il numero di migranti sbarcati
sulle coste italiane ha raggiunto quota 170.000
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18
nel 2014, più del quadruplo del 2013 e il triplo
rispetto al 201148. Allo stesso tempo, nel primo
semestre 2014 l’Italia è il Paese UE con il più
forte aumento di richiedenti asilo rispetto allo
stesso periodo del 2013, mentre la media UE si
attesta intorno al +19,6%. Nei primi quattro
mesi del 2015, nonostante le condizioni
meteorologiche avverse, in tutto 26.500
rifugiati e migranti hanno tentato il viaggio
attraverso il Mediterraneo: un numero che è
all’incirca pari allo stesso periodo dello scorso
anno.
Malgrado questi aumenti, in realtà, in
termini assoluti non si è registrato sin qui alcun
esodo di massa dalle coste nordafricane verso
l’Italia. Tuttavia, il flusso recente di migrazioni
irregolari via mare dal Nordafrica verso l’Italia
è da considerare particolarmente alto se
rapportato alle dinamiche dei flussi registrati
negli anni passati o, in termini comparati,
rispetto a quanto registrato in questo stesso
periodo dagli altri Paesi europei che si
affacciano sul Mediterraneo. Le principali
nazionalità censite per le persone sbarcate in
Italia sono state principalmente Siria, Eritrea,
Gambia, Nigeria, Pakistan, Somalia e Sudan,
mentre sono relativamente pochi i profughi di
nazionalità libica. Dalla Tunisia un decremento
degli sbarchi è stato registrato a partire da
ottobre 2011, dopo lo svolgimento delle
elezioni.
La compresenza di questi elementi ha
portato l’Italia a divenire anche terra di asilo.
Secondo le statistiche Eurostat49, l’Italia nel
2013 ha avuto 27.930 richieste d’asilo, in
aumento del 60,9% rispetto allo stesso periodo
del 2012. Nel 2014, l’Italia ha assistito ad una
crescita ulteriore: 65.700 richieste di asilo,
140% in più rispetto al totale del 201350.
1.4 Competenza europea in materia di
immigrazione ed asilo
Gli articoli 77-80 del Trattato sul
funzionamento
dell’Unione
Europea
determinano le competenze dell’Unione
Svezia così come coloro che transitano per la Grecia e la
Spagna.
48
http://unhcr.it/risorse/statistiche/sea-arrivals-to-italy e
FRONTEX, ARA 2015.
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Europea in materia di immigrazione e asilo.
In particolare all’art. 77, 1, b e 77, 2, b/d
l’Unione Europea sviluppa una politica volta a
garantire il controllo delle persone e la
sorveglianza efficace dell’attraversamento
delle frontiere esterne e, all’art. 78, 1 una
politica comune in materia di asilo, protezione
sussidiaria e temporanea volta a offrire uno
status appropriato a qualunque cittadino di un
Paese terzo che necessita di protezione
internazionale e a garantire il principio di non
respingimento (non refoulement).
Si aggiunge all’art. 79, 1, 2, 3 la competenza
che affida all’Unione la prevenzione ed il
contrasto
rafforzato
dell’immigrazione
illegale, prevedendo l’adozione di misure nel
settore della immigrazione clandestina e
soggiorno
irregolare,
compresi
l’allontanamento ed il rimpatrio delle persone
in soggiorno irregolare. Inoltre, è necessario
menzionare la norma secondo cui l’Unione
può concludere con i Paesi terzi accordi ai fini
della riammissione, nei Paesi di origine e di
provenienza, di cittadini di Paesi terzi che non
soddisfano le condizioni per l’ingresso, la
presenza o il soggiorno nel territorio di uno
degli Stati membri. Con il Processo di
Barcellona vi è l’avvio di una cooperazione
permanente e di un dialogo multilaterale con
gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo.
Nella dichiarazione ufficiale, i firmatari
intesero individuare nell’immigrazione uno dei
settori
di
reciproca
collaborazione
impegnandosi da un lato ad adottare misure di
riduzione della pressione migratoria e a porre
in essere accordi di riammissione.
A seguito dei continui sbarchi e dei tragici
eventi che si sono consumati nello stretto di
Sicilia tra la fine del 2014 ed i primi mesi del
2015, la Commissione Europea ha inteso
adottare l’Agenda Europea sulle Migrazioni,
che si inserisce nel contesto più ampio
dell’Agenda Europea sulla sicurezza. La
novità di questa agenda risiede nella volontà di
non lavorare più a compartimenti stagni ma
49
http://www.cironlus.org/images/pdf/rapporto%20eurostat%2013.PDF.
50
http://www.unhcr.it/risorse/statistiche/asylum-claimsin-italy#_ga=1.262118861.131841402.1416411492.
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19
integrare la migrazione in tutti i settori
d’intervento, sia di politica interna sia di
politica estera. Si tratta di una prospettiva di
medio-lungo termine secondo quattro pilastri:
riduzione degli incentivi alla migrazione
irregolare, salvataggio di vite umane e
frontiere esterne sicure, forte politica comune
di asilo, una nuova politica di migrazione
legale da leggersi in chiave integrazione51.
L’UE regola le procedure concernenti le
domande di asilo attraverso l’assai discusso
Regolamento di Dublino e sue successive
modifiche, insieme al Regolamento Eurodac,
proponendosi sostanzialmente due obiettivi:
ridurre la circostanza dei continui rinvii per i
richiedenti asilo a causa delle declinazioni di
responsabilità da parte dei governi interessati
ed evitare che vengano presentate più richieste
d’asilo in Stati differenti. I mezzi attraverso i
quali la Convenzione di Dublino persegue tali
obiettivi sono: l’individuazione di un solo
Stato responsabile dell’esame della domanda
d’asilo; l’obbligo di esame della domanda da
parte dello Stato competente; lo scambio
reciproco di informazioni. In Dublino II si
afferma il principio che lo Stato membro di
primo approdo è competente per l’esame di
una domanda di asilo.
L’adozione del Regolamento Dublino III
lascerebbe spazio a consistenti miglioramenti,
come il diritto ad un colloquio personale, ma
mantiene invariati i principi alla base del
sistema. La sua efficacia è discutibile: solo un
numero limitato di richieste si traduce in
trasferimenti effettivi, e il fatto che alcuni Paesi
membri scambino frequentemente tra loro
quote equivalenti di richiedenti asilo ne
conferma la natura incongrua. Senza contare
che mancano informazioni sui costi economici
del sistema, mentre si impone una analisi
completa costi-benefici per verificarne la
sostenibilità.
1.5 Frontex
Istituita nel 2004 e operativa dall’ottobre
2005, Frontex, l'agenzia europea per la
gestione della cooperazione operativa alle
frontiere esterne degli Stati membri
dell’Unione Europea, è divenuta nel corso
degli anni uno degli strumenti chiave su cui si
fonda la politica europea di “gestione
integrata” delle frontiere esterne. Il suo budget
autonomo è cresciuto vertiginosamente nel
corso degli anni e ha svolto e continua a
svolgere un ruolo di primo piano nel controllo
delle frontiere europee meridionali realizzando
molteplici operazioni congiunte che hanno
coinvolto anche l’Italia. La promozione, il
coordinamento e lo sviluppo delle azioni
congiunte presso le frontiere terrestri,
marittime, aeroportuali e di rimpatrio sono
proprio le attività principali dell’agenzia.
L’ampliamento dei poteri di Frontex è stato
assunto come priorità già nel Programma di
Stoccolma e ribadito prepotentemente in questi
giorni nell’Agenda Europea sulle Migrazioni.
Le pressioni dei governi nazionali per il
potenziamento dell’impegno operativo di
Frontex non sono del resto disinteressate:
moltiplicare le azioni autonome dell’agenzia e
quelle congiunte significa anche avere un
maggior sostegno comunitario nelle attività di
controllo dei mari e delle frontiere e
nell’esecuzione dei rimpatri che interessano i
singoli Stati membri.
Molteplici sono state le operazioni
coordinate da Frontex a cui ha partecipato
anche l’Italia. Una in particolare è interessante
ai fini della presente trattazione e va perciò
ricordata.
IL 2006 è l’anno degli sbarchi record verso
la Spagna, che raggiunse il numero di 39.180
migranti. A questa emergenza la Spagna, di
concerto con Frontex, ha risposto con
l’operazione congiunta “Hera”, ossia un
pattugliamento aeronavale dalle Canarie che
dal 2006 ha portato ad una consistente
diminuzione degli sbarchi provenienti da
51
rivista.org/28532/eunavfor-med-nellagenda-europeasulla-migrazione-una-nuova-mare-nostrum/.
Chiara GINESTI, EUNAVFOR MED nell’Agenda
Europea sulla Migrazione:una nuova Mare Nostrum?,
“Geopolitica
Online”,
http://www.geopolitica-
www.istituto-geopolitica.eu
www.geopolitica-rivista.org
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20
Mauritania, Marocco e Senegal. Tale
diminuzione è derivata anche dalla
sottoscrizione di accordi bilaterali di polizia e
di riammissione conclusi tra la Spagna e questi
Paesi, in base ai quali sono stati effettuati
pattugliamenti
congiunti
nelle
acque
territoriali di tali Stati per impedire la partenza
delle imbarcazioni.
1.6 Da “Mare Nostrum” a “Triton” a “Mare
Sicuro”
A seguito di un eccezionale afflusso di
migranti nello Stretto di Sicilia e dell’episodio
di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in cui
persero la vita in mare 366 persone, il 18
ottobre 2013 è stata lanciata l’operazione
“Mare Nostrum” (OMN). In realtà la presenza
della Marina Militare italiana nel Canale di
Sicilia si attesta in maniera costante e
continuativa già dal 1959 con l’attività di
Vigilanza Pesca. Con l’aumentare dei numeri,
si trasforma progressivamente dal 2004 in
attività di controllo flussi migratori
nell’operazione
nazionale
“Constant
Vigilance”; si trattava di una operazione di
presenza e sorveglianza, vigilanza sulle attività
di pesca e controllo dei flussi migratori
condotta per molti anni principalmente dalle
Unità del Comando Forze da Pattugliamento
per la Sorveglianza e la Difesa Costiera.
“Mare Nostrum” andò a sostenere il peso
del pattugliamento di un’area pari a tre volte
quella della Sicilia, circa 61.000 km quadrati.
Per rifarci sinteticamente ai parametri di
Frontex, il dispositivo ha controllato tutte e tre
le rotte migratorie: Central, Eastern e Western
Mediterranean Route. Oggi, alla chiusura
dell’operazione, il bilancio della MMI relativo
agli assetti partecipanti è stato di cinque unità
navali, assetti aerei organici e dislocati a terra
e circa novecento militari impiegati ogni
giorno. A fronte di un numero così alto di
migranti e di risorse messe a disposizione,
sono tali anche i numeri relativi ai risultati dal
punto di vista umanitario: 735 eventi SAR,
156.362 migranti assistiti (circa 413 al giorno),
99% migranti intercettati prima del loro arrivo
in Italia. Così come da quello strettamente più
“operativo”: 366 trafficanti arrestati, 9 navi
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madre sospette abbordate, 8 navi madre
catturate. La funzione militare dell’operazione
ha garantito, quindi, il costante pattugliamento
dello Stretto di Sicilia e di buona parte del
Mediterraneo Centrale.
Dal 1 novembre 2014 la Joint Operation
EPN – Triton ha sostituito l’Operazione Mare
Nostrum che torna nei limiti della Constant
Vigilance. Se l’Operazione Mare Nostrum era
ascribile nel complesso delle attività di
sicurezza marittima che quotidianamente sono
svolte dalla Marina Militare, anche e
soprattutto lontano dalle acque nazionali,
Triton è un controllo delle frontiere marittime.
La differenza tra le due missioni, infatti, risiede
proprio nel modus operandi delle unità navali
coinvolte. Mentre durante l’operazione della
Marina Militare italiana le stesse pattugliavano
una larghissima area del Mediterraneo, con
l’obiettivo di garantire il controllo delle SLOC
(Sea Line Of Communications), in quella
europea lo scopo è di intervenire solo nel caso
in cui le imbarcazioni, cariche di migranti, si
dirigano verso le coste italiane o maltesi,
entrando in quella fascia di mare divenuta il
confine meridionale dell’Europa.
Un cambiamento di rotta però si è ritenuto
necessario a causa dell’incremento del numero
di sbarchi e della forte pressione esercitata dal
timore della minaccia terroristica per il periodo
marzo-aprile 2015. Contestualmente, a
suiguito dell’attentato terroristico di Tunisi, il
Ministro della Difesa Pinotti ha annunciato un
potenziamento del dispositivo aeronavale
dispiegato nel Mediterraneo a protezione delle
linee di comunicazione, dei natanti
commerciali e delle piattaforme off-shore
nazionali attraverso l’Operazione “Mare
Sicuro”, ossia una missione operativa a
innalzamento del livello della sicurezza e
vigilanza delle infrastrutture critiche nazionali
e della sicurezza in mare. A livello europeo, la
necessità impellente di dover operare in ambito
di attività SAR ha spinto la Commissione a
riconsiderare fortemente l’impiego di Triton e
il budget disponibile triplicandolo e portandolo
a 9 milioni di euro mensili, che di fatto è stato
l’impegno economico sostenuto dal governo
italiano con la Mare Nostrum.
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21
2. Raccomandazioni
In un mondo globalizzato in cui gli squilibri
tra “Nord” e “Sud” sono sempre più acuti, il
fenomeno della migrazione di massa è ormai
un dato strutturale e permanente. Le misure
restrittive vanno collocate nell’ambito di
politiche più ampie e lungimiranti.
L’Unione Europea è un soggetto incisivo
sulla scena globale e deve giocare un ruolo
fondamentale che il Trattato di Lisbona le
riconosce a pieno titolo. Per tale ragione è
indispensabile e logico che assuma sempre
maggiori responsabilità in modo da dare
concretezza al Global approch to migration,
senza trascurare alcun aspetto dei trend
migratori.
Come definito nel programma di
Stoccolma, l’Europa, all’insegna della
responsabilità, della solidarietà e del
partenariato in materia di immigrazione ed
asilo,
promuove
i
cinque
impegni
fondamentali assunti nel “Patto europeo
sull’immigrazione e l’asilo” e nell’Agenda
Europea sulla Migrazione: organizzare la
migrazione autorizzata tenendo conto delle
priorità, delle esigenze e delle capacità di
accoglienza stabilite da ciascuno Stato
membro e favorire l’integrazione; combattere
l’immigrazione non autorizzata, in particolare
assicurando il ritorno, nel Paese di origine o in
un Paese di transito, degli stranieri in posizione
irregolare; rafforzare l’efficacia dei controlli
alle frontiere; costruire l’Europa dell’asilo;
creare un partenariato globale con i Paesi di
origine e di transito che favorisca le sinergie tra
migrazione e sviluppo.
Oltre allo scoppio delle rivolte in
Nordafrica e alla crisi economica che il
vecchio continente si trova ancora ad
affrontare, un altro fattore di complessità è dato
dalla configurazione geografica e geopolitica
della nostra penisola italiana, particolarmente
esposta ai flussi migratori: sia dai Balcani sia
dal Maghreb e, per questi territori, raggiunta da
coloro che, dal Corno d’Africa, risalgono il
deserto. Il Mar Mediterraneo, come sempre è
stato nei secoli, funge da fondamentale
strumento di comunicazione e oggi continua a
farlo tra i Paesi di partenza e l’Italia. Sia che si
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tratti di migranti economici oppure di soggetti
che fuggono da guerre e persecuzioni e che le
convenzioni internazionali impongono di
proteggere.
Per fronteggiare il fenomeno, l’Europa ed i
Paesi maggiormente impattati, in particolare
quelli della sponda Sud, si sono dotati di
strumenti internazionali nell’ambito di una
politica europea di vicinato (ENP) e l’Italia è il
Paese che ha concluso il maggior numero di
accordi di riammissione.
La questione africana in generale deve
essere affrontata, poichè guarda all’Europa
come alla terra del riscatto. Per questo si ritiene
opportuno avere una visione strategica sulla
centralità del Mediterraneo ma con un occhio
attento a ciò che si verifica nel resto del mondo,
poichè ciò che accade lontano, in un mondo
globalizzato, presto o tardi produce i suoi
effetti anche su di noi. Allo stesso modo, se non
affrontata con incisive politiche di sostegno
economico da parte dell’Unione Europea,
assieme a tutta la comunità internazionale, la
questione africana rischia di esplodere in non
gestibili dinamiche migratorie e non solo, con
particolare attenzione alla Libia il cui vuoto di
potere e la mancanza di un referente certo
produce un effetto a imbuto per ciò che la
circonda.
Sarebbe auspicabile che l’UE rafforzasse i
meccanismi di solidarietà finanziaria, in
aggiunta ai fondi già esistenti, così come quelli
umanitari, nell’ottica di una concretezza
operativa poichè, se forse per l’Europa i flussi
migratori sono di per sé un bene, non lo sono
certamente nell’irregolarità. Ai flussi irregolari
si associano, soprattutto in tempi di crisi, altri
due fenomeni negativi: l’inserimento nel
mercato del lavoro nero e la criminalità.
L’irregolarità ne oscura gli effetti positivi: si
pregiudica il contributo degli immigrati alla
crescita economica del Paese di accoglienza,
mentre di converso viene consentito alle
organizzazioni criminali di realizzare proventi
enormi e di coinvolgere nelle attività illecite gli
stessi immigrati, così come sta accadendo in
Libia e continuerà ad accadere.
Se, come è stato da più parti osservato, nel
breve termine è necessario agire rapidamente
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mettendo in sicurezza i confini, a medio
termine sarà più opportuno mirare a rimuovere
i vantaggi del traffico di esseri umani e a lungo
termine occorrerà agire nei confronti del
bisogno stesso di migrare, guardando a forme
di integrazione sostenibile come a una
possibile soluzione.
Per ridurre le sacche di irregolarità è stato
auspicato un maggior collegamento tra i flussi
migratori e gli effettivi bisogni del mercato del
lavoro, evitando, come è accaduto nel passato,
che l’inserimento formale avvenga attraverso
le sanatorie. L’immigrazione irregolare
comporta anche il rischio della delinquenza, e
spesso i due termini vengono considerati
sinonimi anche se in realtà il pericolo è che,
alla lunga, la mancata fruizione di un
soggiorno regolare e le speranze disattese,
possano favorire la predisposizione alla
devianza per ragioni di necessità. Rebus sic
stantibus, il massimo contrasto va focalizzato
nei confronti delle organizzazioni che
esercitano criminosamente queste attività
attraverso
ramificazioni
a
carattere
internazionale.
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