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di Francesco Niccolini, Alessandro Garzella e Andrea Chesi con Serena Barone, Fabrizio Cassanelli, Ivano Liberati, Francesca Mainetti e Marco Selmi scene e costumi di Virginio Liberti messa in scena di Alessandro Garzella con l’amichevole partecipazione in voce di Alessandro Benvenuti e Alberto Severi luci Giuliano De Martini, fonico Matteo Ciardi, realizzazione scene Luigi Di Giorno video Giuseppe La Rosa e Sara Filippelli Fuori piove. O forse diluvia. Di più: forse un uragano. In una sorta di emittente radiofonica, in onda anche su internet e in tivù, si sopravvive a un presunto day after della nostra civiltà, trasmettendo un programma di interviste, notizie, pubblicità. Ma si può credere al presentatore di un reality show che brancola tra gli spazi di una sala di registrazione surreale con quattro evanescenti compagni d’avventura?. C’è ancora qualcuno che sintonizza l’ascolto sulle invenzioni delle ultime reclame? Si sopravvive all’epoca post globale oppure saremo ormai clonati nell’occhio/orecchio d’un auditel colossale, anch’esso sconcertato dal conteggio delle imbecillità? Reclusi in un sotto vuoto esistenziale il conduttore del programma, due veline esoteriche e un paradossale cantante, reduce da battaglie ignote. Poi, come in ogni show, l’ospite d’eccezione: un redivivo balordo, che ricorda gli omini di Magritte o le estraneità di un alieno e che ingarbuglia ricordi, storie paranormali, illogicità. Come se, tra tante guerre, le pagine di mille libri si fossero mischiate e riaccorpate da sole, disordinando tempi, spazi, e possibilità. Fino a intricare talmente la matassa da perdere l’uscita. Scovando però un pertugio, forse soltanto immaginario, per traslocare nell’era che verrà. Nelle mani di un pazzo è un’opera sulla solitudine e sulle tante dimensioni del reale. In un dipinto di Magritte piovono uomini in bombetta. Ma non si può dire se si tratti di ascensione o di caduta. In quella immagine ogni ricerca di realismo è vana. In noi scatta un allarme, nel guardare. Un’improvvisa confusione di giudizio, l’insicurezza sul significato: scendono, stanno volando o sostano nell’aria? L’arte, talvolta, toglie le cose dal reale per coglierne un’espressività più intensa e sconosciuta. Forse è questo vincolo che la lega alla follia, strana condizione che sollecita, in noi stessi, la presenza di altre vite, l’esistenza di relazioni sotterranee con altre realtà. Un poeta cinese espresse un dubbio: “ieri ho sognato di essere una farfalla e ora non so più se sono un uomo che ha sognato di essere una farfalla o una farfalla che sta sognando di essere un uomo”. Della follia è questo ribaltamento che ci interessa: spostare l’attenzione dal malato al sano, dal reale all’immaginario, trovando la pazzia che è in tutti noi. Cos’è la realtà? E’ irreale ciò che succede in sogno e vero soltanto quanto, da svegli, concretamente accade? Il sogno rompe la linearità del tempo e dello spazio, esattamente come nei pazzi o nei racconti delle gesta di eroi. Il linguaggio simbolico, anche attraverso i fatti più semplici e quotidiani, proietta le emergenze interiori, il magma delle associazioni. C’è una sintassi da comprendere per capire i miti, le fiabe e i sogni. Ciò vale anche per le storie di follia, come quelle a cui si allude in questa particolare opera teatrale che segue una grammatica appresa attraverso la frequentazione del disturbo mentale. Fromm scrisse che il linguaggio dei sogni è l’unica lingua straniera che, necessariamente, ciascuno dovrebbe capire. La stessa cosa, forse, vale per le espressioni di follia, una lingua che spesso è in contatto con la più grande fonte di saggezza: il mito. Le stranezze dei matti, che ai nostri occhi restano incomprese, sono come lettere non aperte. Le loro ambiguità suscitano in noi qualcosa che va oltre ogni sensatezza cognitiva. Scavano le superfici delle forme, oltrepassando l’apparenza e la ragione. Fino a farci talvolta sentire che il diritto alla pazzia è anche un bisogno nostro e universale. Alessandro Garzella