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Note a sentenza
L’inammissibilità dei ricorsi per cassazione improntati
allo stile del “copia e incolla”: la definitiva bocciatura
del c.d. ricorso “sandwich”.
Valentina Guzzanti
Avvocato del Foro di Roma e Dottore di Ricerca in Diritto Pubblico
L
a sentenza n. 7332 dell’11 maggio 2012, pronunciata
dalla sezione V civile, torna ad affrontare un argomento
ampiamente dibattuto in materia processuale e che rileva
nella redazione dei ricorsi per cassazione, cioè la corretta applicazione dei principi e delle regole che il codice stabilisce per
fugare il rischio dell’inammissibilità dell’atto introduttivo del
giudizio di legittimità.
Nella decisione in commento, la Corte suprema si sofferma su
un profilo delicato e controverso che è quello della rilevanza,
oltre che del contenuto del ricorso, della c.d. “parte in fatto”,
sancendone la decisività e l’indispensabilità, come, del resto, il
codice prevede.
I giudici di legittimità, nella decisione in esame, hanno imputato
al ricorrente l’onere di operare un’adeguata sintesi della vicenda,
escludendo espressamente che la mera attività di “farcitura” del
ricorso tramite l’integrale inserimento dei precedenti atti processuali (cfr. Cass. n. 15180/2010, che ha coniato il termine “ricorso sandwich”), ovvero la mera attività di “copia e incolla” dei
precedenti atti e documenti, possano essere sufficienti a integrare il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c..
La disposizione da ultimo menzionata, rubricata, per l’appunto,
“Contenuto del ricorso”, al primo comma, n. 3, prevede infatti
quale requisito indispensabile ai fini dell’ammissibilità del
ricorso “l’esposizione sommaria dei fatti della causa”.
Dal contenuto di tale norma, che deve essere letta nella sua interezza, è possibile configurare in capo al ricorrente un preciso
onere di effettuare una “sintesi del fatto” (sia sostanziale sia processuale), che deve essere valutato in funzione e in correlazione
con il predicato dell’autosufficienza del ricorso, posto che,
come è noto, i giudici di legittimità debbono poter ritrarre unicamente dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio tutte le
necessarie “informazioni” per delimitare l’oggetto del contendere e dunque provvedere alla composizione del caso di specie.
La compiuta (anche se sintetica) descrizione del fatto implica
pertanto la necessità di individuare l’origine della controversia,
l’elencazione completa di tutte le difese e le eccezioni svolte
dalle parti nei precedenti gradi di merito, nonché le statuizioni
rese nelle sentenze dei primi due gradi di giudizio.
Il requisito in commento è infatti funzionale alla piena comprensione della vicenda sottesa alla controversia e in conse-
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guenza, anche alla valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata, onde evitare di delegare alla Corte un’attività –
i.e. la lettura integrale degli atti di causa per selezionare ciò che
effettivamente rileva ai fini della decisione – che non le spetta.
Il descritto onere, nel caso in cui la sentenza di appello venga
censurata sul piano della motivazione – come omessa motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. – per carenza dell’esame
delle risultanze probatorie oppure per una errata valutazione
delle stesse, riguarda anche “gli atti e i documenti” (allegati
necessariamente sin dal primo grado di giudizio) su cui si fonda
il ricorso. In quest’ultimo caso, la testuale riproduzione nel
ricorso di tali atti e documenti è richiesta, ma pur sempre attraverso un ineludibile compito di sintesi e di selezione, che non
costringa la suprema Corte a leggerli nella loro interezza (a
meno che ciò non sia assolutamente necessario) e a stabilire se
e in quale parti essi rilevino per poter comprendere, valutare e
decidere sul caso concreto.
I giudici di legittimità con la sentenza in commento, hanno
“sanzionato” il ricorrente con l’inammissibilità dell’atto introduttivo, ritenendo che la tecnica espositiva dei fatti di causa
adotta nel caso de quo, realizzata mediante la pedissequa (e integrale) riproduzione – per la precisione definita “attività di copia
e incolla” – degli atti processuali e dei documenti allegati, non
soddisfi sul piano sostanziale (od oggettivo, se si preferisce) e
sul piano funzionale il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n.
3 c.p.c..
La censura mossa dalla Corte Suprema al ricorso in questione,
infatti, si basa essenzialmente sulla mancata “elaborazione”
delle informazioni necessarie ai fini della corretta e compiuta
rappresentazione dei fatti di causa e sull’assoluta carenza della
c.d. “attività di sintesi” di tali fatti e dei relativi documenti rilevanti nel caso concreto, compito del professionista in procura e
non del giudice.
La pronuncia in commento si colloca nell’ambito di un indirizzo
giurisprudenziale in crescita, che è orientato all’inammissibilità
dei ricorsi per cassazione deficitari di un’adeguata (ma sintetica)
rappresentazione dei fatti di causa. Detta impostazione, che sviluppa e in qualche misura inasprisce la linea di “pensiero” definita dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5698/2012 – sulla falsariga delle “direttive” recate nella sentenza n. 15180/2010 della
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Note a sentenza
sezione V civile che ha coniato per la prima volta il termine di
ricorso “sandwich” – è stata ripresa con una motivazione ancora
più approfondita nella sentenza n. 6909/2012 della III sezione
civile, e ancora nell’ordinanza n. 1968/2012 della sezione V civile. Sul medesimo argomento una pronuncia importante è quella
delle Sezioni Unite civili n. 16628 del 17 luglio 2009 nella quale
i giudici hanno ritenuto che “la prescrizione contenuta nell’art.
366, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità,
l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi
osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa
della vicenda processuale, né accenni all’oggetto della pretesa,
limitandosi ad allegare, mediante “spillatura”, l’intero ricorso di
primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia
del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione,
preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pre-
LA SENTENZA
Cass., Sez. V civ., 11 maggio 2012, n. 7332 Dott. D’ALONZO Michele Presidente - Dott.
VIRGILIO Biagio - rel. Consigliere
Nel ricorso per cassazione, una tecnica espositiva dei fatti di causa realizzata mediante la
pedissequa riproduzione di atti processuali e
documenti non soddisfa il requisito di cui
all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che prescrive “l’esposizione sommaria dei fatti della
causa” a pena di inammissibilità.
Costituisce, invece, onere del ricorrente
operare una sintesi del fatto sostanziale e
tesa della sentenza impugnata in immediato coordinamento con
i motivi di censura”.
La sentenza brevemente commentata, e anche le altre decisioni
richiamate, dopo un lungo periodo di maggiore “permissivismo” o “indulgenza”, se si preferisce, sono la dimostrazione
della volontà dei giudici di tornare alla rigida applicazione delle
norme e delle regole processuali che governano il giudizio di
legittimità, che a oggi è sempre più (a mio parere giustamente)
insidioso, e che è sottoposto a un duro esame in ordine all’esistenza dei requisiti, per l’appunto, processuali che per un lungo
periodo sono stati trascurati.
Una battuta per chiudere l’argomento: attenzione al predicato
dell’autosufficienza, attenzione alla specificità dei motivi di
ricorso, attenzione alla descrizione dei fatti di causa, attenzione
alla corretta individuazione dei motivi di doglianza, e attenzione anche alle virgole del ricorso per cassazione, l’atto processuale più complesso che popola il nostro sistema.
processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure
mosse alla sentenza impugnata, onde evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti
assemblati finalizzata alla selezione di ciò
che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è
di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore.
Del resto – hanno sottolineato le Sezioni unite
– il rilievo che la sintesi va assumendo nell’ordinamento è attestato anche dall’articolo 3, n.
2, del codice del processo amministrativo
(Decreto Legislativo n. 104 del 2010), il quale
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prescrive alle parti di redigere gli atti “in
maniera chiara e sintetica”.
Ciò vale anche per quanto riguarda gli atti e i
documenti, nel caso in cui si assuma che la
sentenza impugnata è censurabile perché
non ne ha tenuto conto o li ha male interpretati: in questo caso, la testuale riproduzione
nel ricorso di tali atti e documenti è bensì
richiesta, ma pur sempre attraverso un ineludibile compito di sintesi e di selezione che
non costringa questa Corte a leggerli nella
loro interezza (a meno che ciò non sia assolutamente necessario) e a stabilire se ed in
quale parti essi rilevino per poter comprendere, valutare e decidere.
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