Tesi - Asilo in Europa

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Tesi - Asilo in Europa
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BERGAMO
Dipartimento di Giurisprudenza
Master di II livello in Diritto delle Migrazioni
L'evoluzione del non-refoulement nel
tempo.
Controlli extra-territoriali e accesso alla
protezione.
Relatore: Chiar.mo Prof. Mauro Mazza
Tesi di Master di: Federica Molossi
Matricola n°: 1027128
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
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INTRODUZIONE
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CAPITOLO 1
IL PRINCIPIO DI NON-REFOULEMENT NEL SISTEMA DI PROTEZIONE
INTERNAZIONALE
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1 - La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, tra diritto d'asilo e
obbligo di non-refoulement
6
2 - L'applicazione ratione personae
7
3 - Una garanzia di protezione non assoluta
8
4 - L'applicazione ratione materiae
9
5 - Il concetto di Paese terzo sicuro
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6 - Lo “shopping” della giurisdizione
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7 - Non-refoulement e diritto del mare
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8 - “Afflusso massiccio”
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9 - Non-refoulement: un principio di diritto consuetudinario
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10 - L'ampliarsi delle garanzie del non-refoulement
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CAPITOLO 2
L'EVOLUZIONE
DELL'OBBLIGO
DI
NON-REFOULEMENT
NELLA
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO 24
1- Nozioni generali sulle modalità di funzionamento della Corte EDU
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2- Il principio di non-refoulement alla luce della giurisprudenza della Corte EDU
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2.1- La protezione di riflesso a garanzia dell'art. 3
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2.2- Altre garanzie di protezione in materia di espulsioni ed estradizioni: gli artt. 2-6-8-9-13
della CEDU
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2.3- Il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia
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3- Rapporti ambigui: il diritto d'asilo europeo e le garanzie di non-refoulement espresse
nella CEDU
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CAPITOLO 3
L'ESTERNALIZZAZIONE DEI CONTROLLI DI FRONTIERA E IL RISPETTO
DELL'OBBLIGO DI NON-REFOULEMENT. IL CASO ITALIANO
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1- La sicurezza di uno Stato vs la tutela del non-refoulement
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1.1- Necessità di sicurezza: le misure anti-terroristiche a livello internazionale
2
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1.2- La politica europea in materia di protezione delle frontiere esterne e le garanzie previste
per il non-refoulement
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1.3- Le varie forme di esternalizzazione dei controlli delle frontiere
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1.4- Gli sviluppi del diritto comunitario dopo la pronuncia sul caso Hirsi
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2- Il Mare di Mezzo: l'antefatto del caso Hirsi
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3- Cattive prassi senza fine: i rinvii dai porti adriatici
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4- Le ultime vicende nel Mar Mediterraneo
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5- Il diritto ad avere diritti
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CONCLUSIONE
83
BIBLIOGRAFIA
85
3
Introduzione
Il presente lavoro ha come oggetto l'obbligo di non-refoulement.
Viene spontaneo chiedersi, cosa resta ancora da dire su una tematica simile che, dalla
metà del Novecento, è al centro di ogni dibattito sui diritti umani, in particolare di quelli
concernenti i flussi migratori verso il Nord del mondo.
A livello di teoria del diritto resta ben poco da dire, proprio perché la tradizione ha
voluto da tempo fare di questo obbligo un principio inderogabile di diritto
consuetudinario. Sul versante dell'attuazione pratica del diritto resta, a mio avviso,
molto su cui poter riflettere. Ricordiamo infatti, che qualsiasi diritto è “storicamente
relativo”1: ciò che è fondamentale in un'epoca, per una civiltà, non lo sarà per altre, o per
la stessa comunità in un altro momento storico. I diritti dunque evolvono con l'evolvere
della storia. Da qui deriva il titolo del presente lavoro, volto a mettere in luce come una
norma si incarna e si modella a seconda delle circostanze temporali e spaziali. L'obbligo
di non-refoulement infatti, è nato a seguito della seconda guerra mondiale per far fronte
ai profughi che provenivano soprattutto dell'Est-Europa; nel corso dei decenni ha
superato la portata iniziale, circoscritta alla Convenzione di Ginevra relativa allo status
dei rifugiati del 1951, ed è diventato uno strumento di garanzia dei diritti umani molto
più trasversale, tramite il riconoscimento accordatogli in altri trattati internazionali e
regionali. L'ampliamento del suo contenuto iniziale dipende dalla natura stessa della
legge, che esige il compromesso con la realtà sociale nella quale si attua, rispondendo
alle diverse esigenze di varie epoche storiche e contesti geografico-culturali.
Parallelamente all'evoluzione di questo diritto sono progredite anche le strategie volte ad
arginarlo. Il divieto di non-refoulement infatti, chiama in causa il difficile compromesso
tra tutela dei diritti umani ed esigenze dello Stato-nazione. Quest'ultimo per sua
costituzione si prefigura come un'entità omogenea, dove i cittadini condividono la stessa
matrice biologica e culturale. Intesa in tali termini ottocenteschi l'idea di Stato-nazione è
ovviamente superata e non regge il confronto con i flussi migratori che sempre più
interessano le regioni dell'Europa, dove tale concetto nacque. Da un lato quindi, ci sono
le persone che migrano alla ricerca di un luogo sicuro in cui trovare rifugio, dall'altro
gli Stati che malvolentieri derogano a principi sovranazionali la scelta di chi ammettere
sul proprio territorio. In un periodo storico come quello attuale dove è notevolmente
aumentato il movimento di persone bisognose di protezione, gli Stati si sentono
minacciati e rispondo a questo timore inasprendo le politiche d'accesso al proprio suolo
1 Si ricordi in proposito BOBBIO N., L'età dei diritti, Einaudi Contemporanea, Torino, 1990.
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nazionale.
Questi saranno i due fili conduttori dell'intero lavoro: le garanzie del non-refoulement e
le strategie volte a circumnavigare tali tutele.
Si procederà analizzando come il divieto di non-refoulement viene assicurato a livello di
diritto internazionale. Si prenderanno in considerazione, già nel primo capitolo, le
criticità che l'applicazione di tale principio comporta in tempi odierni, dove le rotte dei
migranti utilizzano sempre più la via marittima, che la terrestre.
Si proseguirà accennando all'ampliamento delle garanzie del non-refoulement in altre
convenzioni internazionali e regionali, per approdare nel secondo capitolo, all'analisi
delle strumento che maggiormente sembra aver assolto questo compito: la Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La Corte europea
dei diritti dell'uomo, meccanismo di garanzia della Convenzione, è la lampante
dimostrazione della capacità del diritto di incarnasi nelle varie epoche storiche: le
pronunce della Corte infatti, se consolidate da una folta giurisprudenza, diventano
vincolanti per tutte le vicende che verrano proposte in seguito. Ai fini del presente
lavoro, nel secondo capitolo verranno analizzate le pronunce della Corte in merito al
principio di non-refoulement, per mostrare come quest'istituzione sia riuscita ad
ampliarne la portata, pur se circoscritta a livello europeo.
Infine nell'ultimo capitolo, verrà preso in considerazione il secondo filo conduttore del
presente lavoro, ovvero le strategie di elusione da parte degli Stati dell'obbligo di nonrefoulement, meccanismi che si concretizzano principalmente nella pratica di
esternalizzazione dei controlli delle frontiere. Infine verrà dedicato un focus alla
situazione italiana, in quanto esempio emblematico in Europa di queste pratiche.
Verranno analizzate le politiche dell'ultimo decennio in materia di controlli dei flussi
migratori e la violazione sistematica del non-refoulement che ha causato all'Italia una
severa condanna da parte della Corte EDU.
Si concluderà con una riflessione sulle ultime vicende che hanno coinvolto l'isola di
Lampedusa e sulle proposte da parte di organizzazioni della società civile e di tutela dei
diritti umani, volte ad evitare che il bisogno di protezione di molte persone che
attraversano il Mediterraneo si concluda in un viaggio della morte.
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Il principio del non-refoulement nel sistema di protezione internazionale
Il presente capitolo intende analizzare il non-refoulement in quanto principio
fondamentale, garante della protezione internazionale che consente ad un rifugiato di
non essere rinviato nel Paese in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria
sociale, o per opinioni politiche. Vedremo come l'obbligo di non-refoulement acquisisce
una portata più ampia di quella che lo lega al diritto d'asilo, assicurando maggiori tutele
a chi necessita di protezione. L'analisi inizierà prendendo in considerazione come il
divieto di respingimento viene garantito nel diritto internazionale e proseguirà, nel
capitolo successivo, concentrandosi sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo2, che, grazie alle sue sentenze, ha sancito l'obbligo di non-refoulement
ampliandone la portata iniziale, circoscritta alla Convenzione di Ginevra relativa allo
status dei rifugiati del 1951.
1 - La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, tra diritto d'asilo
e obbligo di non-refoulement
La Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati3 nasce in un
contesto storico ben preciso, quello immediatamente successivo alla seconda guerra
mondiale, dove le istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite e l'Organizzazione
internazionale per i rifugiati, espressero l'esigenza di garantire protezione a rifugiati e
sfollati che avessero valide motivazioni per non essere rinviati nel proprio Paese di
origine (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 203). Il primo passo verso la costruzione di
tale protezione fu rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (14
dicembre 1948) che all'art. 14(1) afferma il diritto di “cercare” e “beneficiare” dell'asilo
per chi è soggetto a persecuzione. Il diritto d'asilo si riferisce dunque alla persona che è
in cerca di protezione e ad esso dovrebbe quindi corrispondere il dovere da parte dello
Stato di rifugio di attuare e rispettare tale diritto. Nella pratica però, la Convenzione
assicura la protezione ai rifugiati, non attraverso l'obbligo di fornire asilo, ma attraverso
l'obbligo di non-refoulement4. Da tale principio deriva soltanto il divieto imposto allo
2 Da ora in poi “Corte EDU”.
3 Da ora in poi “Convenzione”.
4 Art. 33(1): “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo – un
rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della
sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni
politiche.”.
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Stato di respingere un individuo verso un Paese nel quale la sua vita e le sue libertà
potrebbero essere violate e nulla viene invece asserito per vincolare lo Stato in modo che
assicuri al soggetto in questione un regime stabile e duraturo di protezione ed
accoglienza.
2 - L'applicazione ratione personae
All'art. 33 della Convenzione viene chiaramente espresso che l'obbligo di nonrefoulement deve essere applicato al “rifugiato”, così come definito all'art. 1(A,2) della
stessa, ovvero colui che, trovandosi fuori dal Paese di cui è cittadino, per avvenimenti
antecedenti al 1° gennaio del 1951, teme di essere perseguitato per motivi di razza,
religione, cittadinanza, appartenenza ad un gruppo sociale e per opinioni politiche e non
intende chiedere protezione al suo Paese d'origine o di residenza abituale (caso degli
apolidi). All'art. 1(B,1) viene specificato che per “avvenimenti anteriori al 1° gennaio
1951” è da intendersi tutti quegli eventi verificatisi prima della suddetta data, in Europa,
o altrove. Il Protocollo addizionale di New York del 1967, aggiuntivo alla Convenzione,
abolirà questa limitazione temporale, adattando il testo alle esigenze di nuovi momenti
storici.
Per quanto riguarda la condizione di rifugiato non è necessario che sia formalmente
riconosciuta dallo Stato d'accoglienza, posizione che più volte è stata ribadita dal
Comitato Esecutivo dell'UNHCR (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 233). Da ciò segue
che anche verso un richiedente asilo si ha l'obbligo di non-refoulement. Per consolidare
questa interpretazione si fa riferimento all'art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati, del 23 maggio 1969 che sottolinea la necessità di interpretare le convenzioni
“in buona fede” e tenendo conto del loro “contesto” (allegati, preambolo) e soprattutto
degli obiettivi che si prefiggono, così da non deviarne o manipolarne il senso. Vanno
inoltre tenuti in considerazione tutti gli altri documenti e strumenti firmati dalle parti
contraenti e relative al trattato, così da poter cogliere la definizione dei termini più
vicina a quella che era l'intenzione iniziale delle parti firmatarie. Prestando fede a tali
linee guida, per la Convenzione che si sta analizzando si può affermare che: respingere
chi non è formalmente riconosciuto come rifugiato priverebbe di senso l'obbligo del
non-refoulement, perché si rischierebbe di rinviare una persona nel Paese in cui la sua
vita e libertà potrebbero essere in pericolo.
Altro elemento a conferma di questa interpretazione dell'applicazione del divieto di
refoulement si trova nella definizione di rifugiato, nei termini di “chiunque nel
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giustificato timore di essere perseguitato” non vuole rientrare nel suo Paese: l'articolo in
questione non parla di chi ha avuto formalmente riconosciuto lo status, ma di
“chiunque” manifesti timore di persecuzione.
Un'ulteriore conferma di questa interpretazione può essere trovata all'art. 31(1) dalla
Convenzione che impone agli Stati di non usare misure penali nei confronti dei rifugiati
che entrano o soggiornano irregolarmente sul proprio territorio, a condizione che essi si
presentino “senza indugio” alle autorità del Paese d'accoglienza, esponendo “ragioni
ritenute valide” per giustificare tale condotta. L'unica interpretazione ragionevole di
questo articolo è che i rifugiati a cui qui si fa riferimento sono quelli, così come definiti
dell'art.1, ne segue dunque, che tale definizione presuppone la possibilità che sia
considerato rifugiato anche colui che non è formalmente riconosciuto come tale (Feller,
Türk, Nicholson 2003, p. 117). Come afferma infatti l'UNHCR nelle Linee guida sulle
procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiato (Ginevra 1992):
“Une personne ne devient pas réfugié parce qu'elle est reconnue comme telle, mais elle
est reconnue comme telle parce qu'elle est réfugié”. I caratteri espressi dall'art. 1 della
Convenzione che definiscono chi è rifugiato sono intrinsechi alla persona e precedono
inevitabilmente il riconoscimento dello status (Chetail 2001b, p. 10).
3 - Una garanzia di protezione non assoluta
Il principio di non-refoulement non è una garanzia assoluta di protezione, ma viene
bilanciato con alcuni valori che esprimono l'interesse dello Stato di rifugio. Prima di
tutto si noti l'art. 33(2) che afferma che il respingimento di un rifugiato potrà aver luogo
se questi è ritenuto una minaccia per la sicurezza dello Stato, o una minaccia per la
comunità, elemento quest'ultimo che dovrà essere comprovato da una condanna passata,
definitiva per un crimine particolarmente grave. In secondo luogo troviamo le cosiddette
clausole di esclusione, all'art 1(F), che aboliscono il divieto di non-refoulement per tre
categorie di stranieri ben precise: per chi abbia commesso un crimine di guerra, o contro
la pace, o contro l'umanità; per chi abbia commesso un crimine grave fuori dallo Stato di
rifugio e prima di esservi entrato; ed infine, per chi abbia commesso atti contrari ai
principi ed agli scopi delle Nazioni Unite.
I due articoli appena presi in esame esprimono eccezioni al principio di non-refoulement
di carattere diverso. Combinando l'art. 1(F) che tratta di crimini commessi fuori dal
Paese di rifugio e l'art. 33(2) che invece chiama in causa la sicurezza nazionale di tale
Paese e una condanna che equivale ad una minaccia per la comunità, sarebbe logico
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ritenere che le eccezioni al divieto di non-respingimento stabilite all'art. 33(2) siano
applicabili solo a chi è formalmente riconosciuto come rifugiato; al contrario, le clausole
di esclusione all'art. 1(F) andrebbero applicate a tutti i richiedenti asilo. Nella pratica
spesso è accaduto che gli Stati non tenessero conto di questa differenza, finendo così per
applicare indistintamente l'art. 33(2), sia ai titolari di protezione internazionale, che ai
richiedenti asilo (Chetail 2001b, p. 14).
Preso atto che la Convenzione ritiene legittimo bilanciare l'obbligo di non-refoulement
con il valore della sicurezza nazionale, bisogna interrogarsi sulla definizione di
quest'ultimo concetto. A differenza del non-refoulement, il concetto di sicurezza rientra
sotto la sfera della sovranità statale, non è quindi definibile a livello di diritto
internazionale. Consapevoli di questa debolezza e, al contrario, dell'importanza
fondamentale del principio di non-refoulement, in quanto condizione preliminare del
godimento di un diritto umano (quello d'asilo), il bilanciamento di valori deve essere
fatto seguendo delle accortezze ben precise. Prima di tutto lo Stato deve dimostrare che
vi siano “fondate ragioni” per ritenere che il rifugiato sia un pericolo per la sua sicurezza
nazionale. Nel compiere tale valutazione lo Stato dovrà tenere conto di diversi elementi
che concorrono alla prova: la natura dell'offesa imputata al rifugiato, il background che
l'ha preceduta e il comportamento individuale del soggetto in questione (Goodwin-Gill,
McAdam 2007, p. 239). Inoltre, a rafforzare la garanzia dell'apparato internazionale dei
diritti umani rispetto all'interesse dello Stato, vi è un'ulteriore richiesta che viene imposta
a quest'ultimo: dato che termini quali “pericolo” e “sicurezza” sono tutt'altro che autoevidenti ed auto-applicabili, il rifugiato deve essere messo nella condizione di poter
dimostrare il perché, nella sua vicenda specifica, questi concetti non risultino applicabili
(Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 239).
4 - L'applicazione ratione materiae
Il termine “refouler” è da sempre al centro di un acceso dibattito. Fin dai lavori
preparatori alla Convenzione numerose e contrastanti erano le interpretazioni in merito.
In modo particolare molto si discusse sulla diversa accezione che il termine inglese
aveva rispetto a quello francese. Infatti “return” presuppone che il soggetto per non
essere allontanato debba trovarsi sul territorio dello Stato. Al contrario “refouler”, tra
l'altro accompagnato nell'art. 33 dalla dicitura “in nessun modo”, conferisce all'obbligo
di non-respingimento una valenza extra-territoriale. Intenzionalmente, proprio perché le
varie delegazioni non riuscivano ad accordarsi, si predilesse una formulazione del
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principio che potesse dare adito a differenti interpretazioni (Chetail 2001b, p. 17).
Nonostante ciò, a livello di diritto internazionale, è ormai consolidata l'accezione più
amplia del termine “refouler”, non a caso lo troviamo inserito tra parentesi accanto a
“return” nella versione inglese della Convenzione, ad indicare il medesimo significato
che deve essere attribuito ad entrambi. Come chiarisce perentoriamente l'UNHCR:
“La traduzione di “refouler” comprende parole come ‘respingere’, ‘repellere’, ‘portare
indietro’. È difficile concepire che queste parole siano limitate ai rifugiati che sono già
entrati nel territorio di uno Stato contraente. Il significato comune dei termini “rinviare” e
“respingere” (“refouler”) non sostiene alcuna interpretazione che avrebbe il risultato di
restringere il suo ambito di applicazione all’interno del territorio dello Stato interessato, né
vi è alcuna indicazione che tali termini fossero intesi dagli autori della Convenzione del
1951 per essere limitati in questa maniera”5.
Dunque, l'obbligo di non-refoulement va applicato alla frontiera e, in secondo luogo,
vincola anche i casi di estradizione. Prima di tutto perché l'incipit dell'art. 33 “Nessuno
Stato contraente espellerà o respingerà - in nessun modo -” sta già ad indicare che il
concetto di respingimento debba essere inteso senza alcuna limitazione. Infatti, non vi è
alcun elemento nell'art. 33(1), né nell'art. 33(2), che possa lasciare intendere che
l'estradizione faccia eccezione rispetto a questa formulazione (“in nessun modo”) così
ampia (Feller, Türk, Nicholson 2003, p. 112).
In secondo luogo, nel riaffermare il carattere fondamentale del principio di nonrefoulement, la Conclusione n° 17 (XXXI) del 1980 del Comitato Esecutivo
dell'UNHCR, ha esplicitamente dichiarato che i rifugiati devono essere tutelati in
materia di estradizioni (Ibid.). Allo stesso modo l'obbligo in questione deve essere
applicato anche nei confronti delle situazioni di frontiera, proprio per gli stessi motivi di
onnicomprensività del termine refoulement appena descritti e per numerose Conclusioni
e Rapporti di organi internazionali in merito 6.
Infine, meritano una riflessione le espulsioni dei rifugiati, così come stabilite dall'art. 32
della Convenzione. I motivi per cui un rifugiato può incorrere in tale misura sono la
sicurezza nazionale e l'ordine pubblico, termini per i quali resta valido il ragionamento
fatto nel paragrafo precedente. Invece i lavori preparatori alla Convenzione ci
forniscono interessanti indizi riguardo al senso generale da attribuire all'espulsione.
5 Paragrafo 27 del Parere Consultivo sull'applicazione extraterritoriale degli obblighi del nonrefoulement, Ginevra 2007.
6 Si veda Feller, Türk, Nicholson 2003, pp. 114-5.
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Quest'ultima viene considerata una misura grave, proprio perché si è consapevoli che il
rifugiato ha fondato timore di ritornare nel suo Paese di origine e da usare
eccezionalmente, non a caso tutto l'articolo è costruito in forma negativa (Chetail 2001b,
p. 47). A dimostrazione dell'eccezionalità di questa disposizione vi sono delle garanzie
procedurali forti, espresse nel paragrafo 2 dello stesso articolo: la decisione
dell'espulsione deve essere presa in conformità con la procedura prevista dalla legge, il
rifugiato potrà presentare prove che lo discolpino, avrà diritto a presentare ricorso ed
avrà diritto di essere rappresentato. Infine all'art. 32(3) si specifica che gli Stati
contraenti che intendono espellere un rifugiato gli concederanno “un periodo di tempo
ragionevole per permettergli di tentare di farsi ammettere regolarmente in un altro
Paese”.
Si continuerà ora l'analisi del principio di non-refoulement affrontando delle questioni
che chiamano in causa la sua adattabilità al nuovo contesto storico. La Convenzione,
infatti, nata per rispondere alla condizione di rifugiati creati dalla seconda guerra
mondiale ed essenzialmente provenienti dall'Est-Europa, deve oggi far fronte a nuove
esigenze, legate alla mutazione delle modalità di migrazione e all'irrigidimento delle
politiche di controllo delle frontiere dei Paesi di accoglienza.
5 - Il concetto di Paese terzo sicuro
Come
evidenziato
all'inizio,
all'obbligo
di
non-refoulement
non
corrisponde
necessariamente un diritto d'asilo. Di fatti, attenendosi alla Convenzione, lo Stato è
vincolato solo sul non respingere il soggetto verso un Paese nel quale possa essere
perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato
gruppo sociale, o per opinioni politiche. Diretta conseguenza di un'interpretazione così
letterale del testo è la nascita del termine “Paese terzo sicuro” che permette di rinviare
un richiedente asilo, che non è arrivato direttamente dal suo Paese, in uno degli Stati
dove ha transitato. La giustificazione di questo nuovo concetto è stata trovata all'art.
31(1), in particolare nell'espressione “i rifugiati che giungono direttamente da un
territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate”. L'articolo in questione
però, fa riferimento ad un oggetto ben preciso, le sanzioni penali da non applicare ai
rifugiati che entrano e soggiornano illegalmente, giungendo direttamente da un Paese in
cui sono in pericolo, e secondo Chetail quest'ultima dicitura deve riferirsi solo a questo
articolo, evitando di travisare il senso dell'intera Convenzione (Chetail 2001b, p. 26). I
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sostenitori del concetto di Paese terzo sicuro però, trovano la giustificazione a tale
pratica all'interno della Convenzione stessa: torna in gioco la dicitura “in nessun modo”
propria dell'art. 33(1) che di fatto permette di considerare il non-refoulement sia in
termini diretti, che indiretti (Chetail 2001b, p. 30).
Ciò non significa che il concetto di Paese terzo sicuro sia pacificamente accettato, al
contrario, proprio a causa della sua arbitrarietà, anima molte discussioni in materia di
diritti umani. Ovviamente per essere sicuro un Paese deve rispettare il principio di nonrefoulement, altrimenti si verrebbe a creare il fenomeno cosiddetto dei “rifugiati in
orbita”: respinto da uno Stato all'altro, il rifugiato rischierebbe di non poter mai avere
accesso alla procedura d'asilo. La ratifica della Convenzione non è però sufficiente a
dimostrare che un Paese terzo rispetti tale obbligo, bisognerà dunque assicurarsi che la
garanzia sia effettiva.
In merito l'Unione Europea ha legiferato più volte. Da ricordare la Convenzione Dublino
del 1990, nata con l'obiettivo di stabilire lo Stato competente per l'esame della domanda
di asilo presentata in uno dei territori della Comunità Europea. L'art. 3(5) accorda la
possibilità ad uno Stato membro di “inviare un richiedente asilo in uno Stato terzo, nel
rispetto delle disposizioni della convenzione di Ginevra, modificata dal protocollo di
New York”. L'attuale direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, fornisce una
definizione più rigorosa del termine che, comunque, ruota intorno alla garanzia del nonrefoulement. È da considerarsi Paese terzo sicuro quel Paese dove:
“a) non sussistono minacce alla sua [del rifugiato] vita ed alla sua libertà per ragioni di
razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo
sociale;
b) non sussiste il rischio di danno grave definito dalla direttiva 2011/95/UE;
c) è rispettato il principio di "non refoulement" conformemente alla convenzione di
Ginevra;
d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né
trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale;
e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come
rifugiato, ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra. ”7.
7 Art. 38 della direttiva 2013/32/UE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri
ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Questa direttiva ha sostituito la
precedente, 2005/85/CE, aggiungendo alla definizione di Paese terzo sicuro il punto b. Ricordiamo che
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Il concetto resta comunque di equivoca definizione: risulta infatti dalla direttiva in
questione che la designazione di un Paese terzo come sicuro “non può stabilire una
garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese”, perché, per accordarsi su tale
definizione, l'unico strumento per determinarla è quello di tenere in considerazione la
situazione civile giuridica e politica generale del Paese in questione8. Una precisazione
del genere, implica che nella definizione di tale concetto, verranno tralasciate quelle
circostanze individuali che rendono un luogo pericoloso per una specifica persona e che
inevitabilmente non possono essere sottoposte a generalizzazioni. Ricordiamo tra l'altro,
che la definizione di rifugiato presuppone un agente di persecuzione individuale, dunque
la creazione di una lista di Paesi sicuri sulla sola base delle caratteristiche di tali Stati
non è sufficiente a tutelare la persona che necessita di protezione.
6 - Lo “shopping” della giurisdizione9
Per giurisdizione si intende i limiti della competenza legale e dell'autorità di uno Stato.
Tale concetto è stato sempre legato a quello di frontiera, dunque indica anche
l'affermazione della sovranità di uno Stato in rapporto ad un altro. Nel contesto dei diritti
umani però, la questione si pone in diverso modo: la giurisdizione è necessaria, non per
delimitare il potere di un Paese rispetto ad un altro, ma per determinare la responsabilità
riguardo la violazione di obblighi internazionali.
Per capire quali atti possono essere attribuiti ad uno Stato secondo il diritto
internazionale, utile è il Projet d'articles sur la responsabilité de l'État pour fait
internationalement illicite et commentaires y relatif, redatto dalla Commissione di
Diritto Internazionale nel 2001. Il comportamento di tutti gli organi10 di uno Stato rientra
sotto la responsabilità di quest'ultimo, così come vi rientra il comportamento di organi
messi a disposizione da un secondo Stato che agiscono però nell'esercizio dei poteri
pubblici del primo (art. 6 del Projet). Inoltre un Paese risponde degli atti compiuti da
persone che agiscono sotto le sue istruzioni o il suo diretto controllo (art. 8 del Projet);
il rischio di subire un danno grave nel Paese di origine garantisce la possibilità di ottenere la
protezione sussidiaria.
8 Direttiva 2013/32/UE, considerando 42.
9 Termine usato da Thomas Gammeltoft-Hansen nel suo libro Access to asylum per indicare una della
cause della “commercializzazione della sovranità”: gli Stati, in particolar modo quelli europei, tendono
nell'ultimo decennio ad appaltare a terzi, privati, i controlli sull'immigrazione, rendendo sempre più
difficile individuare chi ha responsabilità nel momento in cui vengono eseguiti tali controlli.
10 Per organo di uno Stato si intende entità o persone che hanno riconosciuto tale statuto dal diritto
interno (art.4 del Projet).
13
risponde del comportamento di persone che esercitano poteri pubblici in assenza o
carenza di autorità ufficiali (art. 9 del Projet); ed infine uno Stato, a livello di diritto
internazionale, è ritenuto responsabile di tutte quelle condotte che adotta o riconosce
come proprie (art. 11 del Projet).
Alla luce di queste linee guida possiamo affermare che il divieto di non-refoulement
espresso dalla Convenzione, deve essere rispettato da qualsiasi organo statale e da
qualsiasi altra entità o persona che agisca sotto la giuda di uno degli Stati contraenti, o
che, in un vuoto di potere, eserciti le funzioni pubbliche al loro posto (Feller, Türk,
Nicholson 2003, p. 109).
Nel quadro storico attuale però, queste indicazioni risultano ugualmente parziali e
sempre più si riflette sul concetto di giurisdizione extraterritoriale: non è infatti
sufficiente stabilire quali condotte possono essere attribuite alla responsabilità di uno
Stato, è necessario, preliminarmente, individuare fin dove arriva la giurisdizione dello
stesso. Nel 2007, l'UNHCR ha redatto un Parere Consultivo (dunque tutt'altro che
vincolante) sull'applicazione extraterritoriale degli obblighi del non-refoulement:
“Nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di
una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio
nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo
sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità
di quello Stato.”11.
Per argomentare tale ipotesi l'UNHCR riporta le dichiarazioni del Comitato Diritti
Umani, della Corte Internazionale di Giustizia, del Comitato contro la Tortura e della
Corte EDU12 e conclude affermando che ogni Stato è vincolato al non-refoulement in
ogni dove eserciti la sua giurisdizione, concetto che va inteso non in termini geografici,
ma in termini di controllo e autorità sulla persona.
Preso atto che il Parere non è vincolante, comunque, anche se lo fosse, nell' “era delle
migrazioni”13, esso non sarebbe sufficiente per una chiara determinazione della
giurisdizione. Ad oggi, risulta sempre più difficile stabilire se è uno Stato o no ad
esercitare un effettivo controllo sulla persona. Thomas Gammeltoft-Hansen compie una
magistrale analisi dei fenomeni quali l'esternalizzazione dei controlli dell'immigrazione
11 Paragrafo 35 del Parere Consultivo.
12 Rispettivamente paragrafi da 36 a 39 del Parere Consultivo.
13 In riferimento all'omonimo libro di Castles F. e Miller M. J. che analizza le nuove modalità in cui si
attuano le migrazioni internazionali.
14
e loro privatizzazione, dimostrando come essi rendano sempre più arduo questo
compito. Decolonizzare e/o appaltare a terzi il compito di eseguire i controlli ha
comportato un vero e proprio “shopping della competenze e della giurisdizione” di cui
gli Stati sempre più approfittano per circumnavigare gli obblighi relativi ai diritti
umani14. Le rotte migratorie si fanno sempre più complicate ed altrettanto lo diventano i
controlli. Questa combinazione crea situazioni in cui non è così automatico stabilire la
responsabilità di uno Stato in rapporto ai suoi obblighi internazionali. Situazioni critiche,
ad esempio, possono essere quelle di un Paese che sta operando un controllo su una zona
che è sotto la giurisdizione di un altro, o in zone internazionali, o che sta compiendo
un'operazione di soccorso e ricerca in mare. Frequenti sono anche gli accordi
“shiprider”, dove è consentito agli ufficiali di uno Stato di salire a bordo di navi di un
altro per operare controlli sull'immigrazione. In episodi del genere, come vedremo in
seguito nel presente lavoro, individuare chi ha il controllo effettivo sulla persona risulta
oltremodo complicato.
A ciò si aggiunge la questione della privatizzazione dei controlli. L'esempio più
eclatante è la muraglia che separa oramai da tempo gli Stati Uniti dal Messico, il cui
controllo è sempre più affidato a corpi di polizia, non ingaggiati dallo Stato, ma autoformatisi che si dubita rispettino le normative vigenti in materia di diritti umani.
Rilevanti in merito sono anche le “carrier sanctions”, ovvero le ammende che vengono
inflitte alle società di trasporto private che consentono il viaggio a stranieri irregolari.
Tale pratica rischia di legittimare l'attivazione da parte delle compagnie di trasporto di
controlli privati sui passeggeri, a prescindere dal rispetto di qualsiasi diritto
fondamentale.
7 - Non-refoulement e diritto del mare
Nel proseguire l'analisi del principio di non-refoulement alla luce del quadro storico
contemporaneo, è necessario riservare parte della riflessione al diritto del mare, dato che
i rifugiati sempre più utilizzano la via marittima, piuttosto che quella terrestre per
raggiungere i Paesi d'asilo.
Sulla base dell'art. 2 della Convenzione della Nazioni Unite sul diritto del mare
(CNUDM)15, uno Stato ha giurisdizione sulle sue acque interne e nel suo mare
territoriale, ovvero, come definito all'art. 5, su quella fascia adiacente di mare, al di là
14 In proposito si veda GAMMELTOFT-HANSEN T., Access to asylum, Cambridge Studies in
International and Comparative Law, Cambrigde University Press, Cambridge, 2011.
15 Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmata a Montego Bay, il 10 dicembre 1982.
15
delle sue acque interne16. Il mare territoriale non è di completa sovranità dello Stato,
quest'ultima è infatti limitata dal diritto internazionale, nel caso specifico dal diritto di
passaggio inoffensivo che lo Stato deve riconoscere alle navi battenti bandiera di altri
Stati17 (Trevisanut 2011, p. 245). Allo stesso tempo però, in base all'art. 21(1,h) della
CNUDM, lo Stato può imporre delle limitazioni al passaggio inoffensivo di altre navi,
emanando leggi e regolamenti, nel rispetto della convenzione e del diritto internazionale,
relative alla prevenzione delle violazioni delle leggi
nazionali in materia
d'immigrazione. Non solo, l'esercizio della sovranità statale va oltre: in base all'art 25(3)
del CNUDM lo Stato può decidere di sospendere il passaggio di altre navi, senza
operare discriminazioni, quando ritenga che “tale sospensione è indispensabile per la
protezione della propria sicurezza”. Ciò è legittimato dall'art. 19(2,g), dove viene
specificato che il passaggio di navi straniere è “pregiudizievole per la pace, il buon
ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave” in questione è
impegnata nel carico o scarico di persone in violazione alle leggi sull'immigrazione,
vigenti nello Stato costiero. Come fa ben notare Seline Tevisanut, ciò significa che, nella
condizione appena descritta, lo Stato applica la sua legislazione in materia
d'immigrazione, al di là della sua frontiera terrestre, o meglio, la sua frontiera si sposta
nella porzione di mare in cui lo Stato sta intervenendo. Questo ovviamente, non lo
esonera dal rispettare anche gli obblighi sanciti dal diritto internazionale, dunque il nonrefoulement (Trevisanut 2011, p. 246).
Altra pratica in merito alla quale interrogarsi, che sempre più caratterizza
l'atteggiamento in mare di Paesi d'immigrazione, è la “redirection”, ovvero l'obbligare
una nave a deviare la sua rotta. Infatti, da un lato uno Stato ha il diritto di costringere ad
allontanarsi e rientrare in acque internazionali, una nave che è nelle sue acque territoriali
e sta violando le leggi relative all'immigrazione. Dall'altro lato però, le acque territoriali
corrispondo al suolo dello Stato, dunque allontanare una nave, senza aver prima
esaminato la condizione individuale di coloro che vi sono a bordo, potrebbe costituire,
nel caso si trattasse di persone bisognose di protezione, una violazione del principio di
non-refoulement (Trevisanut 2011, p. 251). Infatti, essendo il diritto d'asilo un diritto
individuale, esige un esame caso per caso, per vagliare quali rischi incorrerebbe una
16 Art. 4 CNUDM: “Salvo diversa disposizione della presente convenzione, la linea di base normale dalla
quale si misura la larghezza del mare territoriale è la linea di bassa marea lungo la costa, come indicata
sulle carte nautiche a grande scala ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero”.
Art. 5 CNUDM: “Il limite esterno del mare territoriale è la linea ciascun punto della quale si trova a
una distanza dal punto più prossimo della linea di base, uguale alla larghezza del mare territoriale.”.
17 In base all'art. 24 della CNUDM.
16
persona se respinta verso un altro Paese. Ciò significa che l'azione collettiva di
deviazione della rotta di una nave che potrebbe contenere richiedenti asilo, rappresenta
una violazione di fatto del non-refoulement (Trevisanut 2011, p. 252).
Altri dubbi sorgono in merito alle cosiddette operazioni di soccorso in mare che creano
non pochi problemi in materia di giurisdizione. L'art. 98 del CNUDM prevede che ogni
Stato debba esigere che il comandante di una nave che batte sua bandiera presti
soccorso, senza mettere a repentaglio i suoi passeggeri, a naufraghi, o persone presenti
su imbarcazioni, che si possano trovare in una situazione di pericolo. A ciò si aggiunge
la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare, del 27 aprile 1979, il
cui obiettivo è il coordinamento delle azioni di salvataggio, in modo che siano eseguite
il più sicuramente possibile. La presente convenzione prevede che i naufraghi debbano
essere condotti in un porto sicuro, ovvero un luogo in cui le operazioni di recupero
possano considerarsi ultimate, dove la vita dei soccorsi è al sicuro, dove le loro necessità
primarie possano essere soddisfatte e dove possa essere organizzato il loro trasporto
verso la destinazione vicina o finale18 (Vassallo Paleologo 2010, p. 41). Preso atto di ciò,
“Lo Stato costiero e lo Stato intervenente devono pertanto rispettare il principio di non
respingimento dei richiedenti asilo e rifugiati nell'adempimento del loro obbligo di
salvaguardia della vita in mare; principio che non si applica solamente in considerazione
dell'autorizzazione di accesso nel mare territoriale o nel porto, ma anche nella scelta del
luogo in cui le operazioni di soccorso possono essere considerate terminate.”
(Trevisanut
2011, p. 263).
La Convenzione non specifica il suo campo di applicazione19, dunque bisogna affidarsi
alla giurisprudenza in merito. Come vedremo più dettagliatamente nei prossimi capitoli,
la giurisprudenza ha oramai consolidato l'idea che il principio di non-refoulement trovi
applicazione anche in alto mare e che, sia nelle situazioni di presa a bordo dei passeggeri
da parte della nave che compie l'operazione, sia nel caso in cui la suddetta nave forzi la
rotta di un'altra, lo Stato agente ha giurisdizione, dunque è vincolato dagli obblighi
internazionali.
18 In base alla definizione della Risoluzione MSC.167 (78) Guidelines in the treatment of persons
rescued at sea, del Comitato per la sicurezza marittima (MSC) del 20 maggio 2004.
19 In alcuni articoli risulta evidente il criterio territoriale di applicazione (art.4), in altri invece
l'applicazione si basa sulla giurisdizione (artt. 3-7-33) non contenendo riferimento al territorio degli
Stati contraenti.
17
8 - “Afflusso massiccio”
Continuando a riflettere sulle nuove questioni poste alla Convenzione in questo
momento storico, non si può non affrontare il tema degli afflussi di massa di profughi e
migranti che sempre più caratterizzano le modalità migratorie della nostra epoca. Nella
Convenzione non troviamo riferimento a situazioni del genere, al contrario il nonrefoulement si applica ad un rifugiato che dimostri di essere perseguitato in termini
prettamente individuali. Comunque, niente nell'art. 33 della Convenzione suggerisce la
sua inapplicabilità alle situazioni di arrivi in massa. Nella pratica però, spesso gli Stati
hanno molte remore ad accogliere un gran numero di rifugiati, adducendo come
giustificazione, il fatto che tale situazione potrebbe essere pericolosa per la sicurezza
nazionale (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 236).
Dato che la Convenzione non aiuta a chiarire la condotta che lo Stato deve avere in
rapporto a tale fenomeno, è necessario far riferimento a normative regionali. In
proposito fondamentale è la Direttiva 2001/55/CE che definisce la protezione
temporanea come una procedura “eccezionale”, volta ad assicurare protezione
“immediata e temporanea” ad un gruppo consistente di persone che arrivano
contemporaneamente sul territorio. Questo genere di tutela viene considerata una sorta
di paracadute da utilizzare nel caso in cui il sistema nazionale d'asilo non possa garantire
una protezione adeguata a questo “afflusso massiccio di sfollati”, senza mettere a rischio
il suo corretto funzionamento20.
La protezione temporanea è uno strumento da sempre utilizzato: negli anni 70 nei
confronti dei rifugiati causati dalla crisi del Vietnam, in seguito, evento a noi più vicino,
è stata impiegata per gestire il grande esodo proveniente dall'ex-Jugoslavia negli anni
90. Allo stesso modo, nel continente africano la protezione temporanea è una pratica da
sempre in vigore, che prevede modalità diverse da quelle europee e spesso si risolve
nell'attivazione di campi profughi supervisionati e gestititi da organi internazionali. La
protezione temporanea non deve essere considerata come una minaccia per la
Convenzione che non va rinegoziata in vista di questa nuova tipologia di accoglienza, al
contrario è piuttosto “a pragmatic response intended to clarify the application of the
principle of non-refoulement in certain circumstances” (Goodwin-Gill, McAdam 2007,
p. 241), un adattamento delle condizioni di protezione alle nuove esigenze storiche.
Idoneo nei casi di afflussi massicci sarebbe l'uso del reinsediamento che, come vedremo
nell'ultimo capitolo, è una pratica poco amata dagli Stati odierni, perché presuppone
20 Art. 2(a) della suddetta direttiva.
18
l'attuazione pratica del principio di solidarietà internazionale e di equa condivisione
degli oneri.
Ricordiamo però, che il non-refoulement non coincide con il diritto di asilo, non impone
agli Stati nulla in materia di divisione delle responsabilità, o garanzie d'asilo in termini
di soluzioni durevoli di accoglienza. Questo non toglie che, essendo il non-refoulement
un principio fondamentale di diritto internazionale, la sua evoluzione nel tempo deve
necessariamente tenere conto di nuove problematicità, con l'obiettivo di “promoting
admission and protection, and simultaneously emphasizing the responsibility of nations
at large to find the solutions” (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 244). Nasce dunque
l'esigenza di leggere il non-refoulement non solo alla luce delle singole responsabilità
dello Stato e di chi agisce per suo conto, ma alla luce di una governance globale che
fatica ancora molto ad affermarsi nel campo delle politiche migratorie.
9 – Non-refoulement: un principio di diritto consuetudinario
Per far sì che una norma entri nel diritto internazionale consuetudinario gli Stati la
devono praticare, in quanto percepita come obbligatoria. L'importante è che la pratica sia
accettata come legge, non che sia universale o che abbia una particolare durata. Inoltre,
ciò che contribuisce a rendere una norma consuetudinaria è anche la letteratura di
riferimento che convalida tale ipotesi (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 346).
Nel Parere Consultivo dell'UNHCR già citato, esplicitamente si afferma che il nonrefoulement deve essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario,
dunque è vincolante anche per gli Stati non aderenti alla Convenzione e al Protocollo di
New York del 1967. L'UNHCR inoltre nota che:
“gli Stati hanno abbondantemente indicato di accettare il principio di non-refoulement
come vincolante, come dimostrato - inter alia – in numerose istanze nelle quali gli Stati
hanno risposto alle rappresentanze dell’UNHCR fornendo spiegazioni o giustificazioni di
casi di effettivi o presunti refoulement, in tal modo confermando implicitamente
l’accettazione del principio.”21.
A conferma di ciò si aggiunga che nella pratica gli Stati non hanno mai mosso obiezioni
nei confronti di tale obbligo, elemento che ancor più conferma, secondo l'UNHCR, il
21 Paragrafo 15 del Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non
refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo
del 1967, 2007.
19
suo essere parte del diritto cogente.
Per quanto riguarda invece il dovere di vincolare anche gli Stati non parte della
Convenzione, è avanzata l'ipotesi che quest'ultimi devono sentirsi vincolati, non solo dal
diritto consuetudinario, ma anche in quanto membri dell'ONU, carica che impone loro di
collaborare in materia d'asilo. Essendo tra l'altro la Convenzione, mezzo attraverso cui
l'ONU tutela i rifugiati, lo Stato non contraente non potrà mettere in atto una condotta
contraria alla stessa, altrimenti si opporrebbe ad uno degli scopi dell'ONU (Salerno
2011, p. 19).
Infine, per quel che concerne lo Stato parte della Convenzione, va ricordato che in essa
l'obbligo di non fare, di non-refouler, è strettamente legato all'obbligo di fare, ovvero al
riconoscimento dello status di rifugiato. Dunque, il Paese firmatario dovrà sempre agire
conformemente a questo obiettivo, anche, e soprattutto, nei momenti in cui sarà in grado
di esercitare la sua influenza su uno Stato non parte (Salerno 2011, p. 27) 22.
10 – L'ampliarsi delle garanzie del non-refoulement
Il non-refoulement non è affermato solo nella Convenzione di Ginevra del 1951,
troviamo altri strumenti volti a garantirlo. È espresso indirettamente all'art. 3 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo (1950)23; all'art. 6 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici (1966)24. Direttamente lo troviamo dichiarato all'art. II(3) della
Convenzione OUA (1969) che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in
Africa25; all'art. 22(8) della Convenzione americana sui diritti umani (1969)26; al capitolo
III(5) della Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati (1984) che proclama addirittura il
non-refoulement come norma di diritto cogente27; all'art. 1(3) della Convenzione contro
22 Sentenza della Corte EDU Ilaşcu c. Moldavia e Federazione Russa, del 8 luglio 2004, dove la
Moldavia venne condannata, perché non aveva fatto il possibile affinché la regione secessionista della
Transnistria rispettasse la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
23 “Nessuno può essere sottoposto a tortura né pene o trattamenti inumani e degradanti.”, da ora in poi
“CEDU”.
24 “Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni, o trattamenti crudeli, disumani o
degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un
esperimento medico o scientifico.”, da ora in poi “PIDCP”.
25 “Nessuno può essere sottoposto da parte di uno Stato membro a misure quali il rifiuto di ammissione
alla frontiera, il respingimento o l'espulsione che lo obbligherebbero a ritornare o a restare in un
territorio dove la sua vita, integrità fisica o libertà sarebbero minacciate per i motivi enumerati nell'art.
1, paragrafi 1 e 2.”.
26 “In nessun caso uno straniero può essere espulso o respinto verso un paese, si tratti o meno del suo
paese d'origine, se in quel paese rischia di essere violato il suo diritto alla vita o la sua libertà personale
per motivi di razza, religione, condizione sociale o opinioni politiche.”.
27 “Riaffermare l'importanza e il significato del principio del non-respingimento (compreso il divieto di
respingimento alla frontiera) come pietra angolare della protezione internazionale dei rifugiati. Questo
principio imperativo nei confronti dei rifugiati deve essere riconosciuto e rispettato, allo stato attuale
del diritto internazionale, come un principio di jus cogens”.
20
la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984) 28.
Tutti questi strumenti, internazionali e regionali, hanno di fatto creato quella che viene
definita “protezione complementare”, ovvero “State's protection obligations arising from
international legal instruments and custom that complement - or supplement – the 1951
Refugee Convention” (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 285). Nella pratica la
protezione complementare è stata sempre messa in atto attraverso le decisioni dei singoli
Stati a livello nazionale, ma anche l'evoluzione del ruolo dell'UNHCR mette in risalto
questo fenomeno. Infatti, l'UNHCR nasce con l'obiettivo di vegliare sull'applicazione
delle convenzioni internazionali che assicurano la protezione dei rifugiati 29, l'art. 35 della
Convenzione sottolinea l'importanza della collaborazione degli Stati contraenti con
l'Alto Commissariato e l'impegno di fornire ad esso, quando richieste, le informazioni
sulle leggi e procedure nazionali in merito all'asilo. L'ampliamento degli strumenti di
protezione ha comportato anche un'ampliamento del mandato dell'UNHCR che non si
occupa solo dei rifugiati, così come definiti dalla Convenzione, ma sempre più di IDP,
ovvero sfollati interni, che migrano spesso per le stesse cause dei richiedenti asilo, ma
non varcano i confini nazionali; e la discussione è ancora aperta sulla responsabilità
dell'Alto commissariato di farsi portavoce dei “rifugiati ambientali”.
Tra i vari strumenti di tutela sopracitati, fondamentale per lo sviluppo del diritto
internazionale dei rifugiati è stata la Convenzione OUA che ha ampliato la definizione di
rifugiato rispetto a quella fornita dalla Convenzione di Ginevra (Goodwin-Gill,
McAdam 2007, p. 292). Tale ampliamento è stato permesso proprio dal carattere
regionale della Convenzione OUA che risponde alle esigenze di uno specifico contesto
temporale e geografico: gli esodi di massa provocati dalle guerre di decolonizzazione in
Africa (Mubiala 2001, p. 223). Per far fronte a questa situazione, la definizione di
rifugiato fornita dalla Convenzione di Ginevra non era sufficiente e così all'art. I(2) della
Convenzione OUA, si afferma che il termine in questione deve essere applicato anche a
coloro che “a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio straniero o gravi
turbamenti dell'ordine pubblico in tutto o in una parte del Paese di origine o di
cittadinanza” sono costretti a lasciare tale Paese per cercare rifugio in un altro luogo.
In seguito tale definizione è entrata a far parte del diritto internazionale in materia di
rifugiati, tanto che lo stesso Comitato Esecutivo dell'UNHCR30 ha chiarito che non vi è
28 “Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano
serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura.”, da ora in poi
“CAT”.
29 Preambolo della Convenzione, paragrafo VI.
30 Conclusione n° 22 del 1981, Protection of Asylum- Seekers in Situations of Large-Scale Influx.
21
nulla all'interno della Convenzione di Ginevra che le impedisca di essere applicata a
persone che fuggono da situazioni di guerra o di generale violenza (Goodwin-Gill,
McAdam 2007, p. 292). Allo stesso modo, nel capitolo III(3) della Dichiarazione di
Cartagena sui rifugiati, viene riproposta questa ampia definizione, includendo tra le
cause di fuga dal proprio Paese il timore per la propria vita, sicurezza e libertà,
determinato da una generalizzata condizione di violenza, da un'aggressione esterna, ma
anche da conflitti interni, e l'elenco viene lasciato aperto aggiungendo “e da altre
circostanze che abbiano gravemente turbato l'ordine pubblico”.
Per quanto concerne invece gli altri trattati sui diritti umani sopracitati, bisogna prima di
tutto comprendere che possibilità effettive ha un soggetto di essere ammesso ad una
riparazione di un diritto violato riconosciuto in uno di questi strumenti. Ad esempio,
all'art. 22 della CAT è specificato che ogni Stato deve dichiarare di riconoscere il
Comitato rispettivo, per far sì che quest'ultimo prenda in esame una violazione della
Convenzione suddetta, rivendicata da un soggetto che è sotto la giurisdizione di tale
Stato31. Inoltre, valida sia per la CAT, la CEDU che per il PIDCP è la regola che debbano
prima essere esauriti tutti i rimedi interni, per i primi due trattati è inoltre necessario che
la vicenda del ricorrente non sia già stata esaminata sotto una procedura internazionale,
invece nel caso del PIDCP il ricorso viene giudicato inammissibile solo se risulta in
sospeso davanti ad un altro organo internazionale32 (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p.
298).
Se questi elementi possono essere percepiti come uno “svantaggio” rispetto alla
protezione offerta nella Convenzione di Ginevra, va sottolineato che i tre trattati appena
citati hanno un notevole punto di forza rispetto ad essa: affermano in modo inderogabile
il principio di non-refoulement.
Nella CAT viene espresso il carattere assoluto di tale obbligo, senza eccezioni o clausole
di esclusione rispetto ad esso. Vi sono comunque delle limitazioni, date dal carattere
specifico di tale convenzione. Prima di tutto il non-refoulement è proibito solo nei
confronti del rischio di tortura, non di altri trattamenti o punizioni inumani, in secondo
luogo l'agente della tortura deve essere statale, infine all'art. 1 viene chiaramente
31 Lo stesso affermano l'art. 41 del PIDCP e l'art. 35 della CEDU.
32 Per quanto riguarda la necessità preliminare dei rimedi interni gli artt. di riferimento sono: art. 35 (1)
della CEDU, art. 41 (1, c) del PIDCP, art. 22 (5, b) della CAT. Per quel che concerne l'inammissibilità
se la richiesta è stata precedentemente presa in esame dinnanzi ad un'altra istanza internazionale: art.
35 (2, b) della CEDU, art. 25 (5, a) della CAT. Per quanto concerne l'inammissibilità se l'istanza è
ancora in sospeso dinnanzi ad un organo internazionale: art. 5 (2, a) del Protocollo Opzionale del
PIDCP.
22
esplicitato che il concetto di tortura “non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti
unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate” (Gill, McAdam
2007, pp. 302-3).
Per quel che concerne invece il PIDCP, l'art.7 rappresenta una disposizione inderogabile,
e pur se non è esplicitamente affermato l'obbligo di non-refoulement, il Comitato Diritti
Umani ha interpretato questo articolo considerando implicito il divieto di respingere una
persona verso un luogo in cui ci sia il rischio reale di violazione del presente articolo
(Gill, McAdam 2007, p. 306).
Infine troviamo la CEDU che sarà oggetto d'analisi del prossimo capitolo; in tale sede
basti ricordare che anche il principio di non-refoulement espresso dall'art. 3 della stessa è
assoluto e ha una valenza nettamente più ampia rispetto a quello espresso dalla
Convenzione di Ginevra in quanto
“opera in relazione a qualsiasi tipologia di rischio per l'incolumità psico-fisica
dell'individuo nel Paese di destinazione [mentre] il divieto di refoulement sancito dall'art.
33 della Convenzione di Ginevra può essere invocato solamente in favore di una persona
che soddisfi i requisiti generali di eleggibilità previsti dall'art. 1 della Convenzione stessa ”
(Saccucci 2011, p. 177).
23
L'evoluzione dell'obbligo di non-refoulement nella giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell'uomo
In questo secondo capitolo analizzeremo come le garanzie relative al principio di nonrefoulement, si sono ampliate nel sistema regionale del diritto comunitario. Verranno
commentate alcune sentenze esemplari della Corte EDU, che si è espressa sul
respingimento di cittadini stranieri dal territorio dell'UE e che rappresentano un'ulteriore
evoluzione di tale principio ed un suo adeguamento a momenti storici diversi.
1- Nozioni generali sulle modalità di funzionamento della Corte EDU
La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali fu
redatta dal Consiglio d'Europa, firmata a Roma il 4 novembre del 1950 dai dodici Stati
che allora ne facevano parte ed entrò in vigore il 3 settembre del 1953. Ispirandosi alla
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma volendo affermarsi come uno
strumento effettivo di tutela collettiva dei diritti fondamentali, la CEDU fu dotata di un
meccanismo di verifica: la Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo.
Inizialmente quest'ultima non era sola, ma lavorava congiuntamente con la
Commissione europea dei diritti umani, istituita nel 1954, composta da un cittadino
rappresentate di ogni Stato membro. Scopo della Commissione era giudicare la
ricevibilità del ricorso, che non veniva accettato solo nel caso di manifesta infondatezza
(Viterbo 2010, p. 88). Con l'approvazione del Protocollo addizionale n° 11, nel 1998, la
suddetta Commissione fu eliminata e, sia il lavoro di filtro, che di giudizio del ricorso, è
ora nelle mani della Corte EDU.
Si possono appellare alla Corte di Strasburgo persone fisiche, organizzazioni nongovernative le cui azioni non siano imputabili ad uno Stato e gruppi di privati che
vogliano segnalare la violazione, da parte di uno dei Paesi contraenti, di uno dei diritti
sanciti dalla CEDU. Gli Stati al contrario, non possono presentare ricorsi, ma possono
interpellare la Corte nel momento in cui vogliano portare innanzi ad essa
un'inosservanza compiuta da un altro Stato (Viterbo 2010, p. 90). Questo elemento è
esemplificativo della volontà collettiva di tutela che la CEDU pretende di avere, in
quanto promotrice di un sistema di garanzia sovranazionale.
Vi sono delle condizioni preliminari affinché un ricorrente possa adire la Corte EDU.
La prima è espressa all'art. 1 dalla convenzione: per permettere al ricorrente di
24
rivendicare una violazione, egli deve trovarsi sotto la giurisdizione dello Stato parte che
la commette. Anche in questo caso, come visto nel capitolo precedente per l'applicazione
del principio di non-refoulement, il concetto di giurisdizione è fondamentale e sono state
necessarie numerose pronunce della Corte prima che essa venisse intesa in termini
extraterritoriali. Nel caso Drozd e Janousek c. France et Espagne33 viene esplicitamente
affermato che il termine giurisdizione non si limita al territorio nazionale delle Parti
contraenti. La responsabilità statale può essere imputata ogni volta che gli atti, da cui
dipende la violazione di un diritto della CEDU, siano compiuti da organi statali, ma
anche ogni volta che le conseguenze di tali azioni si protraggano oltre il territorio
nazionale. Ugualmente, per quel che concerne i casi di estradizione, la Corte di
Strasburgo ha affermato che la responsabilità è dello Stato estradante, nel momento in
cui espone il ricorrente ad uno dei trattamenti proibiti dalla CEDU34. La giurisprudenza
successiva rafforza ancora più puntualmente l'interpretazione non territoriale del
concetto di giurisdizione: in relazione al caso Loizidou c. Turchia35, la Corte dichiarò
che uno Stato ha giurisdizione su tutte le zone al di fuori dal suo territorio nazionale, da
lui occupate e/o controllate militarmente. Nel caso di zone occupate temporaneamente la
Corte EDU non esclude che vi possa essere effettivo controllo: quest'ultimo deve però
essere di alto livello e la presenza di un consistente numero di truppe militari non
necessariamente lo implica36. Il controllo determina giurisdizione, sia se esercitato da
corpi armati, sia da autorità locali subordinate e/o delegate dallo Stato in questione.
Infine la Corte di Strasburgo puntualizza che l'art. 1 della CEDU non può essere
interpretato in modo tale da permettere alla Parte contraente di violare i diritti della
convenzione, neanche sul territorio di un Paese terzo37. La giurisprudenza dunque, ha
sempre più consolidato l'idea che ciò che determina la giurisdizione è il controllo che lo
Stato esercita sulla persona, indipendentemente dallo spazio geografico in cui tale
controllo viene attuato. Infine, nella recente sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia la
Corte EDU prende in esame anche i casi di giurisdizione in alto mare: nella vicenda in
questione, che verrà analiticamente affrontata in seguito, è stata riconosciuta la
giurisdizione dell'Italia, perché i ricorrenti si trovavano su navi battenti bandiera italiana,
33 Affaire Drozd et Janousek c. France et Espagne, requête n. 12747/87, sentenza del 26 giugno 1992,
par. 91.
34 Affaire Soering c. Royaume Uni, requête n. 14038/88, sentenza del 7 luglio 1989, par. 91.
35 Affaire Loizidou c. Turquie, requête n. 15318/89, sentenza del 23 marzo 1995, par. 62.
36 Case of Issa and others v. Turkey, application n. 31821/96, sentenza del 16 novembre 2004, par. 79.
37 Ivi, parr. 71-74.
25
ma soprattutto perché sotto il diretto controllo delle autorità italiane38. Per quel che
concerne le vicende svoltesi in acque internazionali, la Corte si era già espressa
affermando che la giurisdizione va attribuita a quello Stato a cui appartengono le autorità
che effettuano i controlli, indipendentemente che tali controlli siano eseguiti su una nave
battente bandiera di un altro Paese39.
Altra condizione preliminare per adire la Corte EDU viene espressa all'art. 35: il
ricorrente deve aver esaurito preliminarmente tutte le vie di ricorso interno. Ne consegue
che lo Stato chiamato in causa deve rendere disponibili ed effettive tali vie, ovvero esse
devono essere in grado di garantire un possibile successo. Inoltre, in base al paragrafo 2
dello stesso articolo, la Corte EDU non accetta alcun ricorso, anonimo o identico ad uno
già da essa esaminato, o presentato davanti ad altri organi internazionali. Infine, in base
ad una modifica apportata dal Protocollo addizionale n° 14, presente all'art. 35(3), la
Corte di Strasburgo potrà non accettare un ricorso se ritiene che il diretto interessato non
ha subito un pregiudizio importante.
Nel caso in cui venga dichiarata la ricevibilità del ricorso e venga emessa la sentenza, la
Corte EDU obbliga lo Stato a porre termine alla violazione del diritto per la quale è stato
chiamato in causa (art. 46). Tale disposizione non obbliga il Paese in questione ad
annullare o modellare normative nazionali in contrasto con la CEDU (Viterbo 2010, p.
94). Al contrario, nel caso in cui il diritto interno non permetta di estirpare le
conseguenze della violazione, lo Stato, in base all'art. 41, dovrà garantire un' “equa
soddisfazione” che solitamente si concretizza in una somma di denaro che lo Stato è
costretto a versare al ricorrente (Viterbo 2010, p. 95).
Nel corso dei decenni il ruolo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è stato di
notevole importanza per la CEDU: la Corte infatti, non ha svolto semplicemente un
ruolo di verifica, ma indirettamente anche di modifica della convenzione stessa.
Quest'ultima è divenuta uno strumento in continua evoluzione, rispondente alle esigenze
del momento storico. Da un lato infatti, si è assistito ad un'ampliamento del contenuto
dei diritti inizialmente sanciti, grazie al carattere casistico della giurisprudenza della
Corte EDU che si pronuncia rispondendo solo in merito alla natura del quesito che le
38 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza del 23 febbraio 2012, par. 76.
39 Ivi, parr. 79-80, dove la Corte EDU ricorda il caso Medvedyev ed altri c. Francia, ricorso n. 3394/03,
sentenza del 29 marzo 2010. Qui la Francia viene accusata di violazione dell'art. 5 della CEDU, in
quanto le sue autorità, una volta avuto l'assenso del governo cambogiano, intercettarono in alto mare e
la condussero fino al porto di Brest, una nave non battente bandiera, ma che fu segnalata e identificata
come nave cambogiana.
26
viene posto. Questo meccanismo garantisce che ogni decisione sia individualizzata e
ponderata sugli elementi del singolo caso; ma, al tempo stesso, la Corte assicura stabilità
e coerenza al sistema interpretativo della CEDU, perché, emettendo la propria decisione,
tiene sempre conto dei suoi precedenti (Zagrebelsky, pp. 68-69-70).
Oltre all'ampliarsi del contenuto dei diritti sanciti della convenzione, si è assistito anche
ad un arricchimento del catalogo dei diritti, grazie ai Protocolli addizionali, che però, le
Parti contraenti possono decidere se ratificare o no. Non si ha invece libertà d'arbitrio
per quel che concerne il cosiddetto zoccolo duro della CEDU: il diritto alla vita (art. 2),
il divieto di tortura e pene o trattamenti inumani e degradanti (art. 3), quello di schiavitù
e lavoro forzato (art. 4) e il principio di legalità dei diritti e delle pene (art.7).
Gli Stati parte hanno inoltre degli obblighi positivi che impongono loro, non
semplicemente di non violare i diritti sanciti, ma anche di adottare misure che ne
assicurino il rispetto (Viterbo 2010, p.79). Questo non fa della CEDU uno strumento
rigido: le Parti hanno la facoltà di concretizzare il godimento dei diritti con
atteggiamenti più o meno restrittivi. Le limitazioni che gli Stati possono porre
all'esercizio dei diritti sono considerate legittime se: trovano un riscontro effettivo
nell'ordinamento nazionale dei singoli Paesi; se in rapporto ad esse è garantito un
rimedio effettivo; se sono adottate in quanto corrispondenti ad un interesse pubblico
rilevante; e se sono necessarie e proporzionate allo scopo perseguito (Viterbo 2010,
p.81). Il criterio di necessità e proporzione trova la sua ragion d'essere proprio nel fatto
che la Corte di Strasburgo opera rispondendo a casi concreti di violazione di diritti: su
ogni singola vicenda essa può esprimersi in merito alla legittimità dell'interferenza dello
Stato, rispetto all'esercizio del diritto sancito, valutando la necessità e la proporzione del
comportamento della Parte coinvolta (Zagrebelsky, p. 65).
Questa introduzione sul meccanismo di garanzia sovranazionale e collettiva dei diritti
fondamentali incarnato dalla Corte EDU, permette ora di ritornare all'argomento
specifico del presente lavoro, l'obbligo del non-refoulement. Nei successivi paragrafi si
prenderanno in esame diverse sentenze della Corte, dimostrando l'ampliarsi della tutela
di tale principio all'interno del diritto comunitario.
2- Il principio di non-refoulement alla luce della giurisprudenza della Corte
EDU
Come messo in evidenza nel capitolo precedente, in base all'art. 33 della Convenzione di
27
Ginevra del 1951, l'obbligo di non-respingimento viene applicato solo nei confronti dei
rifugiati, così come definiti dall'art. 1 della Convenzione. Si è però assistito,
gradualmente, all'affermazione del principio in questione anche da parte di altri
strumenti internazionali e regionali che hanno contribuito alla creazione di una
“protezione complementare” a quella offerta dalla Convenzione di Ginevra 40.
La CEDU rappresenta uno di questi strumenti e la sua giurisprudenza ha costruito un
meccanismo di tutela nei confronti delle misure di allontanamento di una categoria
specifica di persone: i non-nazionali. Per indicare tale meccanismo di salvaguardia nei
confronti di pratiche quali l'estradizione, l'espulsione e il respingimento è stato coniato,
da parte dei giuristi Gérad Cohen-Jonathan e Frédéric Sudre, il termine protezione par
ricochet, a seguito del caso Soering c. Royaume-Uni (Julien-Laferrière 2006, p. 141).
La protezione di riflesso permette, da un lato di estendere “materialmente” il campo di
applicazione della CEDU, proteggendo diritti non espressamente dichiarati in essa;
dall'altro estende “territorialmente” le garanzie della convenzione, tutelandone i diritti
contro la violazione che potrebbe essere messa in opera da Stati non contraenti
(Laferrière 2006, p. 141). La celebre sentenza sul caso Soering infatti, ha affermato,
tenendo conto della specificità della situazione presa in analisi, il diritto a non essere
estradati41, diritto non presente nella CEDU. Il meccanismo di costruzione di tale
garanzia prevede che lo Stato contraente abbia l'obbligo di verificare che nel Paese in cui
il ricorrente dovrebbe essere rinviato, siano garantiti libertà e diritti tutelati nella
CEDU42. La protezione di riflesso dunque, nel momento in cui l'estradizione comporta la
violazione di uno dei diritti sanciti dalla convenzione europea, permette di giudicare lo
Stato contraente ed estradante responsabile della possibile violazione indiretta di uno di
questi diritti.
Con l'evoluzione della sua giurisprudenza la Corte di Strasburgo ha rafforzato il
meccanismo della protezione par ricochet in materia di allontanamenti rivolti a stranieri,
nonostante la CEDU, di per sé, non vieti né espulsioni, né estradizioni. Infatti, all'art.
5(1,f) vengono consentite le varie misure di allontanamento, addirittura limitando il
diritto alla libertà personale (Starace 2003, p. 97). Le uniche limitazioni a queste
procedure espressamente presenti nella CEDU riguardano le espulsioni collettive (art. 4
del Protocollo addizionale n° 4) e quelle nei riguardi di chi è cittadino di uno Stato parte
40 Vedi paragrafo 10 del 1° capitolo.
41 Diritti che Sudre definisce “derivati”, in quanto non espressamente sanciti dalla CEDU (Sudre 2006, p.
17)
42 Affaire Soering c. Royaume Uni, par. 86.
28
(art. 3 del medesimo Protocollo).
La giurisprudenza della Corte EDU ha dunque reso possibile che l'obbligo di nonrefoulement acquisisse una solida tutela all'interno del diritto europeo. Tale principio, in
particolare, è stato collegato alla possibile violazione di alcuni articoli della CEDU che
ora saranno presi in esame.
2.1- La protezione di riflesso a garanzia dell'art. 3
Si inizierà con l'approfondire le sentenze e le decisioni in merito all'art. 3 che è quello
che fornisce maggiori garanzie di non-refoulement, in quanto la ricca giurisprudenza che
lo riguarda ha permesso di estenderne la portata, donando numerose sfumature al
concetto di “trattamenti inumani e degradanti”.
La protezione relativa all'art. 3 diviene dunque assai più estesa di quella fornita dall'art.
33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, perché il divieto di
allontanamento non si basa esclusivamente sul concetto di persecuzione: in base alla
Convenzione il principio di non-refoulement va applicato nei confronti di coloro che
temono di essere perseguitati per razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o politico. La protezione di riflesso relativa all'art. 3 della
CEDU, permette invece che un individuo sia tutelato rispetto a misure di allontanamento
dal territorio dello Stato contraente, se rischia di essere esposto, nel Paese di
destinazione, a tortura o pene o trattamenti inumani e degradanti.
Numerose sono le questioni su cui la Corte EDU si è espressa per delucidare i casi in cui
l'articolo trovi la sua applicazione.
Prima di tutto è necessario riflettere sulla tipologia di Stato verso cui il ricorrente rischia
di essere allontanato. Si ricordi infatti, che per molti anni nella giurisprudenza della
Corte EDU vi fu “una sorta di presunzione”, secondo la quale non si riteneva possibile, a
priori, una violazione dell'art. 3 se il Paese di destinazione dell'espulsione era uno Stato
membro del Consiglio d'Europa: si era convinti che uno Stato, in quanto parte del
Consiglio, automaticamente sottostava al meccanismo di garanzia della CEDU
(Malinverni 2003, p. 168). In sentenze più recenti invece, questa presunzione è stata
superata e sono stati presi in esame casi di rinvio verso Paesi europei. Emblematiche in
proposito sono le numerose vicende coinvolgenti richiedenti asilo che avrebbero dovuto
essere rinviati, in base al Regolamento Dublino43, nel primo Paese europeo in cui erano
43 Regolamento n° 604/2013, che stabilisce i criteri di determinazione dello Stato membro competente
29
stati fotosegnalati. Si ricordi il caso TI c. Royaume-Uni in cui un richiedente asilo srilankese sosteneva che, se rinviato in Germania, la sua domanda d'asilo non sarebbe stata
valutata in modo scrupoloso e dunque avrebbe rischiato di essere rimandato nel suo
Paese d'origine, dove molto probabilmente sarebbe stato sottoposto a torture o pene
inumane e degradanti44. In merito ricordiamo anche la sentenza M.S.S. c. Belgique et
Grèce45, che ha rappresentato un radicale cambiamento in proposito, come verrà
illustrato in seguito, in cui vengono impediti rinvii in Grecia, in quanto considerata un
Paese dove un richiedente asilo rischia di subire trattamenti inumani e degradanti.
La Corte EDU si è inoltre espressa in merito all'allontanamento verso un Paese non
contraente e ha dimostrato lo stesso orientamento: nel caso Hussun e altri c. Italia46, si
prese per la prima volta in considerazione la situazione dei migranti giunti
irregolarmente a Lampedusa che rischiavano di essere respinti in Libia, Paese non
firmatario della CEDU, e, in più, correvano il rischio di essere successivamente rinviati
nei loro Paesi d'origine, dove sarebbero stati vittime di tortura o trattamenti inumani e
degradanti. La politica italiana dei respingimenti verrà messa sotto accusa nel recente
caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in cui la Corte EDU si è espressa in termini perentori
nei confronti dell'atteggiamento italiano, inaugurando un orientamento innovativo che
segna un'importante garanzia dell'obbligo di non-refoulement nel diritto europeo.
Quando viene chiamato in causa l'art. 3, oltre che sullo Stato di destinazione, si deve
riflettere sulla tipologia di agente che attua la tortura. Anche in questo caso la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ampliato la protezione offerta dall'art. 3,
accordandone la violazione in vicende in cui gli agenti di tortura erano non-statali. Il
primo caso fu H.L.R. c. France47, in cui un cittadino colombiano, espiata una pena di
reclusione di cinque anni in Francia per traffico di stupefacenti, aveva congiuntamente
ricevuto un provvedimento di espulsione. Il soggetto presentò ricorso, in quanto
sosteneva che in Colombia la sua vita poteva essere minacciata dai membri del
“cartello” di cui aveva fatto parte. Nonostante la Corte EDU si sia pronunciata
per l'esame della domanda d'asilo.
44 Affaire T.I. c. Royaume-Uni, requête n. 43844/98, sentenza del 7 marzo 2000.
45 Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, requête n. 30696/09, sentenza del 21 gennaio 2011.
Questa sentenza ha avuto il merito di rendere esplicita nel Regolamento Dublino III l’impossibilità di
trasferire un richiedente verso uno Stato membro nel quale egli rischia di subire un trattamento
inumano o degradante.
46 Caso Hussun e altri c. Italia, ricorsi n. 10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, sentenza del 19
gennaio 2010.
47 Affaire H.L.R. c. France, requête n. 24573/94, sentenza del 29 aprile 1997.
30
negativamente sul caso, vanno sottolineate le sue parole: il diritto garantito dall'art. 3 è
inderogabile e proprio per questa sua assolutezza devono essere scrupolosamente
vagliate anche quelle circostanze in cui l'agente di tortura o di pene o trattamenti
inumani e degradanti è non-statale. Ovviamente, però, bisogna dimostrare che il rischio
sia reale e che le autorità dello Stato verso cui il soggetto dovrebbe essere respinto non
siano in grado di ovviare il rischio, attraverso la prova di un'adeguata protezione48.
Proseguendo su questo orientamento la Corte EDU ha nettamente ampliato le garanzie
relative all'art. 3, accordandone ammissibile la violazione anche nei casi in cui la tortura
o le pene o i trattamenti inumani e degradanti dipendano da circostanze oggettive.
Emblematico è il caso D. c. Royaume-Uni49, in cui le condizioni sanitarie e sociali del
luogo in cui il ricorrente doveva essere rinviato sono state considerate tali da costituire
una violazione dell'art. 3. Va comunque ricordato che in quest'ultima casistica, e in
quella in cui l'agente di persecuzione è non-statale, la Corte di Strasburgo pretende
un'alta soglia dimostrativa del rischio in cui il ricorrente potrebbe incorrere. Se l'agente
non è statale, la Corte di Strasburgo ha sempre chiesto che si dimostrasse che lo Stato
non fosse in grado di dare protezione al ricorrente; nel caso di circostanze oggettive che
mettono a rischio la salute dello straniero, finora solo la sentenza sopra enunciata ha
avuto un esito positivo e la Corte EDU ha espresso la necessità di valutare in modo
inconfutabile il rischio in questione (Saccucci 2011, p.158). Infine, vi sono anche casi in
cui il provvedimento di espulsione potrebbe incidere sulla salute del ricorrente in base a
circostanze soggettive: si tratta di quegli episodi in cui l'espulsione potrebbe portare il
soggetto al suicidio. Basti ricordare in proposito che la Corte EDU non ha mai
interpretato questa particolare casistica attraverso il meccanismo della protezione par
ricochet, in quanto il rischio “non è di regola destinato a materializzarsi nel Paese di
destinazione, ma costituisce piuttosto una conseguenza diretta dell'esecuzione della
misura contestata” (Saccucci 2011, p.159)50.
Già quanto detto finora dimostra una tendenza della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo ad ampliare le garanzie offerte dall'art. 3, comprendendo sotto la sua
protezione una gamma sempre più variegata di ipotesi.
Analizzeremo ora l'effetto estensivo che tale giurisprudenza ha avuto anche nella
definizione, via via sempre più ampia, del concetto di “pene” e “trattamenti inumani e
48 Ivi, par. 40.
49 Affaire D. c. Royaume-Uni, requête n. 30240/96, sentenza del 2 maggio 1997.
50 Si veda in proposito Haziri e altri c. Svezia, ricorso n. 37468/04, decisione del 5 settembre 2006.
31
degradati”.
La Corte di Strasburgo per giurisprudenza consolidata definisce “inumano” quel
trattamento inflitto con premeditazione, che dura per ore, causando lesioni corporali ed
intense sofferenze fisiche o mentali. Per “degradante” si intende invece quel trattamento
che umilia e avvilisce la persona, senza rispettare la sua dignità umana e addirittura
diminuendola; un trattamento che suscita nella persona che lo subisce paura, angoscia, o
inferiorità, distruggendo la sua resistenza morale e fisica 51.
In primis, si rammenti ancora una volta il caso Soering in cui la Corte EDU ha
dichiarato trattamento inumano e degradante esporre una persona, non alla pena di
morte, ma alla “sindrome del corridoio della morte”. All'epoca la Corte affermò che la
pena di morte non avrebbe mai potuto sollevare un problema in merito all'art. 3 52, si
ricordi infatti che nel 1989, ancora non era stato redatto il Protocollo addizionale n° 13
che all'art. 1 abolisce la pena di morte, in quanto essenziale per l'affermazione del diritto
fondamentale alla vita (art. 2). Al contrario, nella vicenda Soering la sindrome del
corridoio della morte fu considerata una pena inumana e degradante per: la durata delle
detenzione prima dell'esecuzione della pena che avrebbe potuto protrarsi per anni 53, la
severità del regime speciale di detenzione, dove il soggetto interessato dati la sua età, la
sua nazionalità e il suo colore, avrebbe potuto subire sevizie omosessuali ed aggressioni
fisiche54. Infine, quello che la Corte di Strasburgo ritenne essenziale per considerare il
corridoio della morte una pratica inumana fu la situazione personale del ricorrente, in
particolare la sua giovane età ed i suoi disturbi mentali 55.
Il concetto di trattamenti inumani e degradanti viene poi esteso con la sentenza D. c.
Royaume-Uni a quelle situazioni che mettono in pericolo la salute di una persona
gravemente malata. Nel caso specifico il ricorrente, affetto da virus HIV, rischiava
un'espulsione verso il suo Paese d'origine, Saint Kitts. La Corte di Strasburgo emettendo
la sentenza a favore del non-refoulement specificò che:
“les non-nationaux qui ont purgé leur peine d’emprisonnement et sont sous le coup d’un
arrêté d’expulsion ne peuvent en principe revendiquer le droit de rester sur le territoire d’un
Etat contractant afin de continuer à bénéficier de l’assistance médicale, sociale ou autre,
assurée durant leur séjour en prison par l’Etat qui expulse. Cependant, compte tenu des
51
52
53
54
55
Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, par. 220.
Ivi, par. 104.
Ivi, par. 106.
Ivi, par. 107.
Ivi, par. 111.
32
circonstances très exceptionnelles de l’affaire et des considérations humanitaires
impérieuses qui sont en jeu, force est de conclure que la mise à exécution de la décision
d’expulser le requérant emporterait violation de l’article 3 ”56.
Si noti in proposito, che la Corte EDU tende a descrivere come eccezionale la situazione
in cui un soggetto possa sottrarsi al decreto di espulsione ricevuto da uno Stato. Nel caso
in questione le circostanze particolari che hanno indotto gli organi europei ad esprimersi
in tali termini furono: la documentata prova che a Saint Kitts non vi fossero strutture
adatte alla cura del virus HIV, che l'arresto delle cure che al momento il ricorrente
riceveva, dato il suo stadio avanzato di malattia, avrebbe avuto conseguenze gravi; che il
ricorrente si sarebbe trovato nella condizione di non avere alcun familiare o persona
vicina a Saint Kitts e ciò gli avrebbe causato sofferenze “fisiche e mentali estreme”; e
infine la Corte rilevò che non vi erano elementi a dimostrazione che il ricorrete avrebbe
potuto ricevere una qualsiasi altra forma di aiuto morale e sociale nel Paese di
destinazione57. Sia per il presente caso che per quello Soering, la Corte EDU ha
rivendicato un orientamento d'eccezione, in entrambe le circostanze dedotto dall'analisi
scrupolosa degli elementi in questione.
La Corte di Strasburgo da sempre dichiara la sua non ingerenza in materia di politiche
migratorie, in particolare quando si tratta di decidere sull'entrata e la permanenza di
stranieri nel territorio degli Stati contraenti. Proprio per questo, quando impedisce ai
Paesi parte di attuare misure di allontanamento dal loro territorio nazionale, giustifica
l'imposizione dell'obbligo di non-refoulement specificando che essa dipende dalle
peculiarità dei fatti in questione, a perentorio monito dell'eccezionalità della sua
decisione.
Continuando l'analisi dell'utilizzo estensivo del concetto di pena o trattamento inumano
e degradante non si può non citare la sentenza Salah Sheekh c. Pays-Bas58, dove viene
considerata contraria all'art. 3 l'espulsione di un ricorrente facente parte, nel Paese di
destinazione, di un gruppo esposto sistematicamente a maltrattamenti. Nel suo giudizio
la Corte di Strasburgo rammenta che nulla nella CEDU e nei suoi Protocolli sancisce il
diritto d'asilo, ma che, nell'esercizio del loro diritto di espellere uno straniero, le Parti
contraenti devono tenere in considerazione l'art. 3, in quanto emblema di uno dei valori
56 Affaire D. c. Royaume-Uni, par. 54.
57 Ivi, par. 52.
58 Affaire Salah Sheekh c. Pays-Bas, requête n. 1948/04, sentenza del 23 maggio 2007.
33
fondamentali delle società democratiche59. Facendo riferimento ad un rapporto
dell'UNHCR, la Corte EDU individua che l'appartenenza ad un gruppo marginalizzato
ed isolato, come quello di cui fa parte il ricorrente, non gli consentirebbe di essere al
sicuro, in un paese come la Somalia dove “L'appartenance à un clan a [...] été décrite
comme le dénominateur commun le plus important de la sécurité personnelle sur
l'ensemble du territoire somalien”60. Infatti, le zone individuate dal governo olandese
come sicure, sono luoghi in cui la maggioranza etnica non corrisponde a quella del
ricorrente, dunque nulla può assicurare che al soggetto sia permesso di trovare rifugio in
questi luoghi61. Inoltre, la Corte EDU giudica la minoranza ashraf, a cui appartiene il
ricorrente, un gruppo tra i più vulnerabili in Somalia, soggetto a sistematici
maltrattamenti 62. A differenza del caso Vilvaraja, dove era stato richiesto, nonostante la
situazione di generale violenza del Paese di destinazione, di dimostrare che il rischio di
subire atti contrari all'art. 3 fosse individuale, nella vicenda Salah Sheekh non viene
preteso che il ricorrente dimostri caratteristiche particolari, rispetto al suo gruppo di
appartenenza; pretendere ciò equivarrebbe a rendere “illusoria” la protezione offerta
dall'art. 363.
Ancora, nel caso Sufi and Elmi v. The United Kingdom64, la garanzia appena citata si
amplia ancora di più: di fronte al caso di due somali soggetti a decreto di espulsione in
quanto ritenuti pericolo per la sicurezza dello Stato, la Corte EDU afferma che la
“general situation of violence in the country of destination was of a sufficient level of
intensity to create a real risk” tanto da rendere l'espulsione una chiara violazione dell'art.
3, senza pretendere che i ricorrenti dimostrino di appartenere ad una minoranza
vulnerabile65.
Infine non possiamo non soffermarci ai fini del presente lavoro su una sentenza
esemplare in materia di non-refoulement, quella M.S.S. c. Belgique et Grèce. Qui la
Corte EDU si è pronunciata sul rinvio di un richiedente asilo afgano dal Belgio alla
Grecia, in base al Regolamento Dublino. Il migrante, rinviato in Grecia, era stato qui
trattenuto in un centro adiacente l'aeroporto e aveva lamentato di aver subito trattamenti
59
60
61
62
63
64
Ivi, par. 135.
Ivi, par. 139.
Ivi, par. 144.
Ivi, par. 146.
Ivi, par. 148.
Case of Sufi and Elmi v. The United Kingdom, applications n. 8319/07 and 11449/07, sentenza del 28
giugno 2011.
65 Ivi, par 217.
34
inumani e degradanti. La Corte di Strasburgo ha giudicato il rinvio in Grecia una
violazione dell'art. 3 della CEDU. Per sostenere tale tesi sono stati presi in
considerazione numerosi rapporti di organizzazioni internazionali che denunciavano
varie male condotte del governo greco nei confronti dei richiedenti asilo. Ad esempio, la
pratica sistematica di detenzione, di durata variante da qualche giorno a qualche mese,
da parte del governo greco applicata nei confronti dei richiedenti asilo, sia di quelli
appena arrivati, sia di quelli rinviati dagli altri Paesi europei in base al Regolamento
Dublino66. Nei centri di detenzione venivano riscontrati: sovrappopolazione, sporcizia,
spazi ristretti, assenza di ventilazione, servizi igenici inadeguati, accesso limitato alle
cure, non rispetto dell'intimità, ecc...67. Le indagini di varie organizzazioni internazionali
inoltre, mettevano in evidenza una notevole difficoltà ad accedere alla procedura d'asilo,
che spesso era scoraggiata, grazie all'omissione sistematica di informazioni in
proposito68. In aggiunta, durante il periodo di esame della domanda di asilo non era
fornito agli interessati alcun aiuto da parte dell'autorità pubblica, costringendo i
richiedenti a vivere in luoghi “di fortuna” abusivi69. Infine, molti documenti
dimostravano che la pratica della detenzione in aeroporto era di fatto una prassi del
governo greco70. Allo stesso modo, spesso la Grecia rinviava in Turchia, o addirittura nel
proprio Paese di origine, sovente tramite espulsioni collettive, i richiedenti asilo, sia
prima che venisse ufficializzata la richiesta d'asilo, che addirittura in seguito71. Proprio
basandosi su questi elementi, visto che il ricorrente non era riuscito a portare prove dei
trattamenti che aveva ricevuto, la Corte di Strasburgo ha emesso la propria sentenza,
considerando la violazione dell'art. 3, non solo in rapporto alle condizioni degradanti di
detenzione72, ma anche in rapporto alle condizioni di esistenza in Grecia del ricorrente,
simili a quelle appena descritte di molti altri richiedenti asilo, o potenzialmente tali 73.
La tendenza a comprendere diverse fattispecie all'interno della protezione di riflesso
offerta dall'art. 3 è stata resa possibile dal carattere assoluto ed inderogabile del divieto
quivi espresso che è divenuto oramai una regola imperativa del diritto internazionale.
Nel 1991, per la prima volta la Corte di Strasburgo riconobbe il carattere assoluto
66
67
68
69
70
71
72
73
Ivi, par. 161.
Ivi, par. 162.
Ivi, parr. 172-173.
Ivi, parr. 168-169.
Ivi, par. 176.
Ivi, par. 192.
Ivi, da par. 214 a 234.
Ivi, da par. 247 a 264.
35
dell'art. 374, ma solo nel 1996, ne diede effettiva prova, nel caso Chahal c. France. Qui
la Corte EDU rigetta tutte le obiezioni del governo britannico che avrebbe voluto
bilanciare la protezione offerta tramite l'art. 3 con la sicurezza dello Stato:
“L'article 3 (art. 3) consacre l'une des valeurs fondamentales des sociétés démocratiques [...].
La Cour est parfaitement consciente des énormes difficultés que rencontrent à notre époque
les Etats pour protéger leur population de la violence terroriste. Cependant, même en tenant
compte de ces facteurs, la Convention prohibe en termes absolus la torture ou les peines ou
traitements inhumains ou dégradants, quels que soient les agissements de la victime”75.
La protezione offerta dall'art. 3 va rivendicata con assolutezza in ogni caso di espulsione
in cui l'individuo potrebbe incorrere nel rischio reale di trattamenti inumani e degradanti.
Il soggetto dovrà dunque essere protetto indipendentemente dalla sua posizione di
pericolosità o indesiderabilità per lo Stato in questione 76.
Molti Stati hanno poi cercato di rimettere in discussione questa assolutezza, soprattutto
in riferimento alle misure anti-terroristiche e a quelle volte a salvaguardare la sicurezza
nazionale (Saccucci 2011, p.169). Al contrario la Corte di Strasburgo ha riaffermato
l'inderogabilità del principio di non-refoulement nei casi coinvolgenti l'art. 3 e
l'inammissibilità di qualsiasi giudizio di bilanciamento fra esigenze di protezione
dell'individuo ed esigenze di sicurezza nazionale. Si tratta del caso Saadi c. Italia77,
emblematico in quanto il ricorrente soggetto ad espulsione era sospettato di attività
terroristiche. Nel corso dell'esame della vicenda intervenne anche il governo britannico,
sottolineando la necessità che la Corte di Strasburgo rivedesse la posizione presa per il
caso Chahal: ricorda la Gran Bretagna che, non solo la CEDU non riconosce il diritto di
asilo, ma addirittura la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, lo riconosce, ma
lo bilancia con la sicurezza nazionale dello Stato di accoglienza78. La Corte EDU rispose
perentoriamente che l'art. 3 “non prevede limitazioni”79; dunque era da considerarsi
inaccettabile la tesi del Regno Unito che proponeva di fare un discrimine tra i casi in cui
i maltrattamenti erano effettuati da uno Stato parte della CEDU e i casi che invece erano
imputabili ad un Paese terzo80. Allo stesso modo contrastava con l'assolutezza dell'art. 3
74 Affaire Vilvarajah et autres c. Royaume-Uni, requêtes n. 13163/87, 13164/87, 13165/87, 13447/87,
13448/87, sentenza del 30 ottobre 1991, par. 108.
75 Affaire Chahal c. Royaume-Uni, requête n. 22414/93, sentenza del 15 novembre 1996, par. 79.
76 Ivi, par. 80.
77 Caso Saadi c. Italia, ricorso n. 37201/06, sentenza del 28 febbraio 2008.
78 Ivi, par. 119.
79 Ivi, par. 127.
80 Ivi, par. 138.
36
la successiva posizione britannica che prevedeva che il ricorrente reputato minaccia per
la sicurezza nazionale, fosse obbligato a presentare prove più rigorose per dimostrare il
rischio di maltrattamenti a cui l'espulsione lo avrebbe sottoposto 81.
Per concludere, questa sentenza permette di mettere in luce un ultimo aspetto relativo
alla protezione par ricochet: le modalità per stabilire che il rischio di subire tortura sia
reale. È evidente che trattandosi di una protezione di riflesso abbiamo a che fare con un
effetto “preventivo” e dunque non potrà essere chiesto al ricorrente di portare delle
prove (Julien-Laferrière 2006, p. 148). La Corte EDU dovrà dunque analizzare le
“conseguenze prevedibili” in caso di espulsione del ricorrente verso il Paese in
questione82. Non è necessario che il rischio sia certo, ma ci devono essere dei motivi seri
per credere che in seguito all'allontanamento il rischio sia reale (Julien-Laferrière 2006,
p. 149).
2.2- Altre garanzie di protezione in materia di espulsioni ed estradizioni: gli artt. 26-8-9-13 della CEDU
Prenderemo ora in considerazione tramite quali altri diritti della CEDU sia possibile
affermare una protezione di riflesso che tuteli lo straniero in materia di espulsioni ed
estradizioni.
La protezione par ricochet è stata espressa in merito alla violazione dell'art. 2 della
CEDU: diritto alla vita. Ad esempio nella caso Fracins Gomes v. Sweden83, la Corte di
Strasburgo afferma che il provvedimento di espulsione verso il Bangladesh del
ricorrente chiama in causa il governo svedese in merito alla violazione dell'art. 2 e
dell'art. 1 del Protocollo addizionale n° 13 che abolisce la pena di morte. La Corte EDU
sottolinea la necessità di analizzare i due articoli congiuntamente e riconosce il rischio
che il ricorrente, una volta espulso, sarebbe in pericolo in seguito all'imposizione della
pena di morte che lo aspetta.
In secondo luogo, una giurisprudenza sempre più folta riguarda il diritto ad un equo
processo, sancito dall'art. 6 e già affermato nel famoso caso Soering: la Corte dichiara di
non escludere che l'estradizione possa causare problemi in rapporto all'art. 6, nel caso in
81 Ivi, par. 140.
82 Ivi, par. 130.
83 Case of Fracins Gomes v. Sweden, application n. 34556/04, decisione del 7 febbraio 2006.
37
cui il ricorrente rischi di subire un diniego flagrante di un equo processo84. Questa
posizione, poi riaffermata nel caso Al-Moayad v. Germany85, “costituisce uno degli
aspetti di maggiore innovatività della giurisprudenza europea”, rappresentando una
notevole tutela in materia di non-refoulement (Saccucci 2011, p.174)86.
Di particolare rilievo risulta anche la giurisprudenza che riconosce la protezione par
ricochet a tutela dell'inosservanza dell'art. 8, garante del rispetto della vita privata e
familiare. A differenza dell'art. 3 che è assoluto, l'art. 8 bilancia i diritti appena citati con
altri valori quali, la sicurezza nazionale, il benessere economico, la difesa dell'ordine
pubblico, la prevenzione di reati, la protezione della salute o della morale, o la
protezione dei diritti altrui. L'orientamento della Corte EDU ha finora affermato una
definizione estensiva del concetto di vita familiare, rendendola autonoma da quelle
fornite dai vari ordinamenti nazionali.
Nel momento in cui il concetto di vita familiare non può essere invocato, la Corte di
Strasburgo si appella al diritto alla vita privata, definito come
“the right to establish and develop relationships with other human beings and the outside
world and can sometimes embrace aspects of an individual's social identity, it must be
accepted that the totality of social ties between settled migrants and the community in which
they are living constitutes part of the concept of 'private life' ”87.
Non si può condurre un'analisi dettagliata e mettere in evidenza orientamenti consolidati
della giurisprudenza CEDU così come è stato fatto in merito alla protezione offerta
tramite l'art. 3, perché la Corte di Strasburgo, affrontando la violazione dell'art. 8, deve
di volta in volta esprimersi bilanciando gli interessi del ricorrente con quelli dello Stato
espellente, prendendo in considerazione tutte le sfumature che caratterizzano la vicenda
in questione. La Corte EDU ha però individuato i criteri da valutare nel bilanciamento
dei valori in gioco: la natura e la gravità del reato commesso, la durata della residenza
del ricorrente nel Paese dove dovrebbe essere espulso, il tempo passato dopo la
commissione del reato e la condotta del richiedente durante questo periodo, le
nazionalità delle persone coinvolte, la situazione familiare del ricorrente (ad esempio la
durata del matrimonio o altri fattori che evidenzino l’effettiva vita familiare della coppia,
84
85
86
87
Affaire Soering c. Royaume-Uni, par. 113.
Case of Al-Moayad v. Germany, application n. 35865/03, decisione del 20 febbraio 2007.
Si veda anche il già citato caso Saadi c. Italia, da par. 153 a 160.
Case of Omojudi v. United Kingdom, application n. 1820/08, sentenza del 24/02/2010.
38
la presenza di figli, ecc...)88.
Inoltre, spesso, nei casi che coinvolgono il non-refoulement, la violazione dell'art. 8 è
posposta a quella dell'art. 3. Una volta accordata quest'ultima dunque, la Corte EDU
afferma che non è necessario esprimersi in merito alla violazione dell'art. 8, essendo il
diritto espresso dall'art. 3 assoluto, dunque sufficiente a rendere illegittima la forma di
allontanamento prevista per il ricorrente 89.
Possiamo comunque trarre delle considerazioni generali in merito all'art. 8. Per quanto
riguarda il concetto di vita familiare la giurisprudenza ha dimostrato un orientamento
volto a favorire nei casi di un provvedimento di espulsione, i ricorrenti che si presentano
come lungo-residenti, o i migranti di seconda generazione, in quanto hanno avuto tempo
di creare rapporti saldi e forti sul territorio (Goodwin-Gill, McAdam 2007, pp. 319-320).
La Corte infatti, nel caso Uner c. Pays-Bas, ricorda che, pur se nella CEDU non vi è
nessun divieto in merito, va tenuta in considerazione la Raccomandazione n° 1504 del
2001, dove l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa rammenta che gli Stati
parte devono garantire la non-espulsione dei migranti lungo-residenti, nati, o cresciuti,
sul proprio territorio nazionale. L'Assemblea raccomanda che i migranti lungo-residenti
che commettono un reato, debbano essere trattati al pari dei nazionali e la misura
dell'espulsione vada adoperata solo in casi di eccezionale gravità del reato90. In altre
situazioni invece, la Corte di Strasburgo non ha accordato la violazione dell'art. 8 in
materia di allontanamenti, ma ha considerato più ragionevole che la famiglia del
ricorrente si trasferisse nel Paese in cui egli sarebbe stato espulso (Goodwin-Gill,
McAdam 2007, p. 320).
La Corte EDU si è anche pronunciata in merito alla protezione par ricochet che potrebbe
scaturire dalla violazione dell'art. 9, pur non avendo mai accordato la sua trasgressione
nei casi di espulsione o estradizione. L'art. 9 garantisce la libertà di pensiero, coscienza e
religione, che comprende il diritto di cambiare credo, la libertà di manifestarlo
singolarmente o in gruppo, in pubblico o in privato, tramite il culto, l'insegnamento, le
pratiche e l'osservanza dei riti. Comunque, anche questo diritto, a differenza di quello
espresso nell'art. 3, non è assoluto, infatti viene bilanciato chiamando in causa quelle
misure necessarie nelle società democratiche per garantire la sicurezza, l'ordine, la
88 Affaire Uner c. Pays-Bas, requête n. 46410/99, sentenza del 18 ottobre 2006, par. 57.
89 Si riscontri ciò nei casi già citati, Chahal c. Royaume-Uni, par. 139, D. c. Royaume-Uni, par. 63,
Saadi c. Italia, par. 170.
90 Affaire Uner c. Pays-Bas, parr. 55-56.
39
salute, o la morale pubblica e la protezione dei diritti altrui (art.9, par. 2). Nel caso Z. et
T. c. Royaume-Uni91 viene presa in esame la vicenda di due pakistani cristiani, soggetti a
provvedimento di espulsione verso il Pakistan, Paese a maggioranza islamica, dove i
ricorrenti ritenevano di non poter professare liberamente la propria religione. La Corte
EDU afferma che, pur se la responsabilità di uno Stato parte può essere chiamata in
causa indirettamente, in vista del rischio reale di violazione di uno degli articoli della
CEDU sul territorio di un Paese non contraente, ciò non implica che l'art. 9 obblighi lo
Stato parte a garantire la libertà di culto ovunque. Nel caso in specie la Corte di
Strasburgo non ha acconsentito alla violazione dell'art. 9, ma nella decisione ha precisato
che non si deve escludere che a “titolo eccezionale” si manifesti la possibilità di un
rischio reale di violazione flagrante dell'art. 9 nel Paese di destinazione. Allo stesso
tempo però, risulta
“difficile d'imaginer une affaire dans laquelle une violation suffisamment flagrante de
l'article 9 n'impliquerait pas également un traitement contraire à l'article 3 de la
Convention”92.
Si noti come anche in questo caso, la Corte sottolinea che la protezione di riflesso in
merito all'art. 9 possa avvenire, ma solo in condizioni particolarmente eccezionali e che
comunque, come accade spesso per l'art. 8, la violazione del diritto alla libertà di
pensiero, coscienza e religione è spesso posposta a quella dell'art. 3.
Per concludere ricordiamo la giurisprudenza in merito all'art. 13 della CEDU che
garantisce il diritto ad un effettivo ricorso per tutti coloro che hanno subito una
violazione di uno dei diritti riconosciuti dalla convenzione. Prendiamo in considerazione
due casi che hanno riguardato richiedenti asilo: per prima ricordiamo la sentenza Jabari
c . Turquie93, dove la ricorrente sostiene di non aver avuto possibilità di un riscorso
effettivo in proposito alla decisione del governo turco che le ha impedito di accedere alla
procedura di richiesta di asilo a causa di tardività. Nonostante la Corte EDU riconosca
un “margine di apprezzamento” agli Stati parte nella scelta di come conformarsi all'art.
13, non bisogna dimenticare che quest'ultimo esige perentoriamente che le Parti
contraenti abilitino l'istanza nazionale competente in merito al contenuto dei possibili
91 Affaire Z. et T. c. Royaume-Uni, requête n. 27034/05, decisione del 28 febbraio 2006.
92 Ibidem.
93 Affaire Jabari c. Turquie, requête n. 40035/98, sentenza del 11 luglio 2000.
40
reclami fondati sulla CEDU, rendendo così realizzabile la possibilità di un ricorso
relativo ai diritti in essa contenuti94. Inoltre la Corte di Strasburgo lega indissolubilmente
nel caso di richiedenti asilo l'art. 13 al 3: data “la natura irreversibile” del danno che
comporterebbe la violazione dell'art. 3, la nozione di ricorso effettivo prevede in primo
luogo un esame “rigoroso e indipendente” dei reclami relativi al rischio di trasgressione
dell'art. 3 e nel caso in cui essa sia riconosciuta la possibilità di sospendere l'esecuzione
della misura prevista95. Nella vicenda M.S.S. c. Belgique et Grèce, dove la violazione
dell'art. 13 viene analizzata in combinato con l'art. 2 e 3, la Corte EDU definisce
effettivo quel ricorso che sia disponibile “sia in diritto che in pratica” ed esige dallo
Stato che non ne ostacoli l'esercizio, né tramite azioni, né tramite omissioni 96.
2.3- Il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia
L'analisi della giurisprudenza della Corte EDU in materia di non-refoulement merita di
concludersi con la recente sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia che rappresenta
un'evoluzione emblematica dell'orientamento della Corte di Strasburgo. Per la prima
volta infatti, la Corte EDU si esprime con decisione in merito alla critica situazione che
coinvolge le frontiere esterne europee ed applica la protezione par ricochet in un
contesto ancora più radicale di quelli affrontati finora, le acque internazionali,
coinvolgendo la violazione di plurimi diritti espressi nella CEDU.
L'Italia viene chiamata a difendersi per il respingimento in Libia di 11 somali e 13
eritrei, avvenuto il 6 maggio 2009. I migranti, intercettati nella zona di Ricerca e
Salvataggio di Malta, sono stati soccorsi dalle autorità italiane, trasferiti sulle loro
imbarcazioni e poi riportati in Libia, in quanto ritenuto porto sicuro. Il 7 maggio il
Ministro dell'Interno italiano ha affermato che l'operazione era frutto dell'accordo
bilaterale stipulato il 4 febbraio 2009 con la Libia. Qui riportati, 14 dei migranti hanno
ottenuto lo status di rifugiato ad opera dell'ufficio dell'UNHCR a Tripoli.
La vicenda in questione ci permette di riflettere su numerosi punti che sono stati già
affrontati in questo lavoro. Prima di tutto la questione della ricevibilità del ricorso da
parte della Corte EDU, a cui il governo italiano si è opposto, affermando che i ricorrenti
non avrebbero prima esperito le vie di ricorso interne97. La Corte di Strasburgo una volta
accordata la violazione dell'art. 13, come sotto si mostrerà, riterrà infondata la posizione
94 Ivi, par. 48.
95 Ivi, par. 50.
96 Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, par. 290. In merito alla violazione dell'art. 13 si vedano anche i casi
Chahal c. Royaume-Uni, e D. c. Royaume-Uni.
97 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, questioni preliminari par. B.
41
di non ricevibilità, in quanto ai ricorrenti non è stato garantito il diritto di ricorso
effettivo, dunque sarebbe stato impossibile per loro esperire preliminarmente le vie di
ricorso interne98.
In secondo luogo, la sentenza risulta esemplificava in merito all'analisi fatta del concetto
di giurisdizione ed ha inaugurato un nuovo orientamento, consono all'attuale situazione
che vede le rotte migratorie prediligere il mare, alla terra.
L'Italia sostiene di aver condotto un'operazione di salvataggio in mare, così come
prescritta dalle già citate Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare e
Convenzione di Montego Bay. Non si tratta di un'operazione di polizia marittima,
dunque “l’obbligo di salvare la vita umana (...) non comporta di per sé la creazione di un
legame tra lo Stato e le persone interessate suscettibile di stabilire la giurisdizione di
questo”99. Al contrario, la Corte EDU sostiene vi sia giurisdizione ogni qual volta “uno
Stato esercita, tramite i propri agenti operanti fuori del proprio territorio, controllo e
autorità su un individuo”100. Si consideri infatti che, in base al diritto del mare, una nave
in acque internazionali è soggetta alla giurisdizione dello Stato di cui batte bandiera,
inoltre lo stesso codice della navigazione italiana afferma che le navi battenti bandiera
italiana devono essere considerate territorio nazionale (art. 4)101. Infine la Corte EDU
ricorda la sua precedente posizione in merito al caso Medvedyev ed altri, dove aveva
stabilito che su un'imbarcazione, indipendentemente dalla bandiera affissa, la
giurisdizione è dello Stato di cui le autorità effettuano i controlli 102.
Affrontate le questioni preliminari, la Corte di Strasburgo si pronuncia sulle violazioni
chiamate in causa, prima fra tutte quella dell'art. 3. I ricorrenti denunciano di non essere
stati informati che sarebbero stati ricondotti in Libia e che, nel momento in cui ne hanno
preso coscienza, hanno manifestato la volontà di tornare in Italia; che sulla nave non
sarebbe stato possibile procedere alla loro identificazione e dunque alla formalizzazione
della domanda d'asilo; che la Libia non è un Paese sicuro 103, come dimostrato dai
rapporti di varie organizzazioni internazionali, riportati nella sentenza 104.
98 Ivi, par. 207.
99 Ivi, par. 65.
100 Ivi, par. 74.
101 Ivi, parr. 77-78.
102 Ivi, par. 80.
103 Ivi, da par. 85 a 91.
104 Ad esempio si ricordi il Rapporto del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio
d’Europa che ha fortemente criticato la politica dei respingimenti italiana e i rispettivi accordi con la
Libia, definendolo un Paese non sicuro in materia di diritti dell'uomo e dei rifugiati. Successivamente
vengono citate le indagini di Human Rights Watch e di Amnesty International che criticano i centri di
detenzione libici, dove molte persone, potenziali rifugiati, sono stati rinviati dall'Italia.
42
Il governo italiano risponde mettendo a garanzia del respingimento in Libia gli accordi
bilaterali e il patto di amicizia stipulati tra il 2007 e il 2009 tra i due Stati, che sono in
armonia, precisa l'Italia, con la recente politica europea di cooperazione mediterranea
per il controllo dei flussi migratori. Inoltre, il regime giuridico in alto mare “è
caratterizzato dal principio della libertà di navigazione” che non esige procedure di
identificazione degli interessati. Infine, l'Italia basa la sua argomentazione sul fatto che
la Libia all'epoca dei fatti era ritenuto un Paese sicuro, in quanto ha ratificato la CAT e il
PIDCP, in quanto appartenente all'OIM e in quanto operante sul suo territorio uffici
dell'UNHCR e dell'OIM105.
La Corte di Strasburgo al contrario si affida ai rapporti delle organizzazioni
internazionali che risultano esemplificativi del fatto che per i migranti respinti in Libia
tale Paese è tutt'altro che sicuro; il maltrattamento sistematico dei migranti irregolari, le
loro condizioni di detenzione, sono sufficiente garanzia per la Corte che non chiede ai
ricorrenti di dimostrare “la natura individuale del rischio” 106. Al contrario, non è garanzia
adeguata rispetto al rischio di subire trattamenti inumani, la ratifica da parte della Libia
di trattati che la vincolino al rispetto dei diritti umani107; così come la presenza
dell'UNHCR è da considerasi del tutto fittizia, dato che tale ufficio non vantava un
riconoscimento da parte delle autorità politiche libiche e per quei pochi a cui è stato
concesso lo status di rifugiato, la Libia non prevedeva alcun diritto connesso 108.
La violazione dell'art. 3 viene chiamata in causa anche per il rischio di rinvio dei
ricorrenti da parte della Libia nei rispettivi Paesi d'origine, ovvero Eritrea e Somalia,
dove, vari rapporti internazionali giudicano che vi sia rischio di subire trattamenti
contrari all'art. 3 della CEDU. Anche in questo caso la responsabilità è dell'Italia che
doveva assicurarsi che il Paese intermedio desse sufficienti garanzie in merito al nonrefoulement109: la semplice presenza dell'UNHCR a Tripoli non garantisce l'assenza di
rimpatri, a differenza di ciò che ha sostenuto il governo italiano 110.
Inoltre, innovativa risulta la violazione accordata dalla Corte di Strasburgo dell'art. 4 del
Protocollo addizionale n° 4 che vieta le espulsioni collettive.
Il governo italiano non accetta che la parola espulsione venga impiegata per definire
l'operazione compiuta, al contrario ritiene che si potrebbe parlare in tali termini solo se i
105 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, da par. 93 a 97.
106 Ivi, par. 136.
107 Ivi, par. 128.
108 Ivi, par. 130.
109 Ivi, par. 147.
110 Ivi, par. 154.
43
ricorrenti fossero stati respinti dal territorio italiano. La Corte ribatte che proprio in base
al codice italiano della navigazione la nave battente bandiera corrisponde a suolo
italiano; ma ciò che risulta davvero innovativo è la volontà della Corte di Strasburgo di
abbracciare un'interpretazione “teleologica ed extraterritoriale” della disposizione in
questione. Infatti,
“lo scopo essenziale del divieto delle espulsioni collettive è quello di impedire agli Stati di
procedere al trasferimento forzato di un gruppo di stranieri verso un altro Stato senza
esaminare, fosse anche in maniera sommaria, la loro situazione individuale ”111.
Concepito in tali termini, il divieto sancito dall'art. 4 del Protocollo n° 4 diviene concreto
ed effettivamente garante del diritto tutelato. La Corte ricorda che nell'applicazione del
divieto di espulsioni collettive deve essere tenuta in considerazione l'attuale complessità
dei fenomeni migratori, caratterizzati da flussi misti. Dunque, pur se è vero che al pari
del concetto di giurisdizione anche quello di espulsione è principalmente territoriale,
laddove, la Corte EDU abbia riconosciuto che uno Stato contraente ha esercitato, a titolo
eccezionale, la propria giurisdizione fuori dal suo territorio nazionale, “la Corte non vede
ostacoli nell’accettare che l’esercizio della giurisdizione extraterritoriale di tale Stato ha
preso la forma di una espulsione collettiva”112. A dimostrazione di ciò, nella fattispecie,
la situazione individuale di nessun ricorrente è stata presa in considerazione, dato che
non vi erano né interpreti, né consulenti legali che potessero realizzare colloqui
individuali con i singoli migranti.
Per concludere, la Corte EDU accorda anche la violazione dell'art. 13 in combinato con
l'art. 3 e l'art. 4 del Protocollo n° 4. Viene ricordato che il ricorso effettivo, nei casi in cui
l'art. 13 è combinato con il 3, deve essere oggetto di un “controllo attento”, di un “esame
indipendente e rigoroso” e prevedere la possibilità di una sospensione dell'esecuzione
dell'espulsione113. La condotta italiana non solo ha previsto l'omissione delle
informazioni che avrebbero permesso ai migranti di accedere alla procedura d'asilo, ma
ha anche impedito loro di mettere in atto un ricorso in merito alla violazione degli
articoli sopra analizzati114.
111 Ivi, par. 162.
112 Ivi, par. 178.
113 Ivi, par. 198.
114 Ivi, parr. 204-205.
44
Il caso Hirsi è emblematico dell'importanza accordata alla protezione par ricochet che
risulta sempre più ampia grazie al “dinamismo interpretativo” della Corte di Strasburgo,
che viene rivendicato in quanto unico mezzo in grado di dare piena efficacia ai diritti che
la CEDU tutela, diritti che vanno intesi, non come teorici, ma come “concreti ed
effettivi” (Sudre 2006, p. 8).
Comunque, nonostante l'estensione della tutela finora mostrata, decisamente più ampia
rispetto ai diritti e alle libertà che la CEDU garantisce espressamente, non mancano
critiche in proposito all'imprevedibilità delle sentenze che rendono il meccanismo di
tutela descritto, a tratti incoerente e perennemente modificabile. Va infatti ricordato che
le differenti origini culturali dei giudici che presiedono la Corte EDU influenzano
inevitabilmente le loro decisioni (Pettiti 1999, p. 28); che quest'ultime variano anche
sulla base delle tecniche interpretative utilizzate dal giudice al fine di conferire efficacia
ai diritti della CEDU (Sudre 2006, p.8); che, proprio perché la Corte di Strasburgo si
esprime su casi concreti, valutando di volta in volta tutti gli elementi della vicenda, un
caso, pur se molto simile al precedente, rischia di essere giudicato diversamente. In
particolare, per quel che concerne quest'ultimo aspetto, la Corte EDU ha sempre
rigidamente imposto, per considerare applicabile l'art. 3, la dimostrazione della soglia
minima di gravità del trattamento inumano e degradante, specificando recentemente, che
per giudicare il trattamento inumano e degradante “la sofferenza o l’umiliazione devono
in ogni caso andare al di là di quelle inevitabilmente conseguenti ad un dato trattamento
o ad una pena legittima”115. La valutazione in merito alla soglia minima di gravità risulta
del tutto arbitraria, in quanto dipendente dalle circostanze specifiche del caso, come la
durata dei trattamenti, i suoi effetti fisici e mentali, in altri casi, da caratteristiche quali, il
sesso, l'età, lo stato mentale delle vittima116. Dunque tale concetto si rivela “ampiamente
soggettivo” e problematico al fine di tracciare delle linee interpretative generali a cui la
Corte di Strasburgo potrebbe più costantemente rifarsi (Tavernier 2006, p. 273).
3- Rapporti ambigui: il diritto d'asilo europeo e le garanzie di non-refoulement
espresse nella CEDU
L'estensione della tutela relativa all'obbligo di non-refoulement, garantita dalla
giurisprudenza CEDU, pone dei problemi se si pensa che per essere effettiva è
sufficiente che la protezione eviti l'allontanamento. Al contrario, verrebbe spontaneo
115 Caso Saadi c. Italia, par. 135.
116 Si veda: caso Saadi c. Italia, par. 134; case of Ireland v. United Kingdom, application n. 5310/71,
sentenza del 18 gennaio 1978.
45
ritenere che l'effettività della protezione si realizzi anche attraverso alcune garanzie in
merito alle condizioni di vita nel Paese di accoglienza. Tali garanzie sono però,
solitamente derivanti da uno status che andrebbe riconosciuto all'individuo non espulso,
in modo da consentirgli il godimento dei diritti civili e politici. Ricordiamo in proposito,
che la Corte EDU ha più volte affermato di non contemplare in nessuna sua parte, né nei
suoi Protocolli addizionali, il diritto di asilo. Congiuntamente a tale affermazione la
Corte di Strasburgo tende sempre a ricordare che gli Stati contraenti hanno il diritto, in
base alla convenzione stessa e ai principi di diritto internazionale, di controllare l'entrata,
il soggiorno e l'allontanamento degli stranieri dal loro territorio 117.
Nonostante l'assenza del diritto d'asilo nella CEDU, numerosi studiosi ritengono che
l'evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU in materia di non-refoulement, abbia
consentito di creare un diritto d'asilo europeo più forte rispetto a quello previsto nella
Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951118. Quindi, pur se la CEDU non contempla
uno status di rifugiato da accordare a chi non viene respinto, nell'evoluzione del diritto
d'asilo europeo troviamo delle garanzie maggiori, rispetto a quelle affermate nel diritto
internazionale. Esemplificativa è la direttiva 2003/84/CE. Da un lato, essa riconosce lo
status di rifugiato così come espresso nel 1951, integrandone timidamente i motivi di
persecuzione: il concetto di gruppo sociale garantisce tutela anche per motivi di
orientamento sessuale, età e genere (Favilli 2011, p.133). Dall'altro lato, il vero
ampliamento della tutela è rappresentato da un'ulteriore tipologia di protezione, quella
sussidiaria, che costituisce la realizzazione di quella definizione allargata di rifugiato
fornita dalla Convenzione dell'OUA. La protezione sussidiaria è riconosciuta in quei casi
in cui non ricorrano i presupposti per concedere lo status di rifugiato, ma vi siano
comunque fondati motivi per ritenere che il soggetto in questione rischi di subire nel suo
Paese di origine un “danno grave”. Per danno grave, così come definito all'art. 15, si
intende: condanna a morte o esecuzione; torture o altre pene o trattamenti inumani o
degradanti; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona dipendente dalla
violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Si noti
quindi che nella definizione del termine rientrano quelle situazioni in cui una persona ha
diritto di ricevere protezione al fine di prevenire lesioni ad un diritto riconosciuto da
convenzioni diverse da quella di Ginevra. La prima e seconda accezione di danno grave
117 Si prendano come esplicativi: Vilvarajah et autres c. Royaume-Uni, par. 102; Salah Sheekh c. PaysBas, par. 135.
118 GOODWIN-GILL G. S., McADAM J. 2007; BENEDETTI E. 2010; GAMMELTOFT-HANSEN T.
2011; FAVILLI 2011.
46
riprendono infatti, rispettivamente, gli artt. 2 e 3 della CEDU. Riguardo alla terza
accezione, che di per sé costituisce la garanzia più ampia di protezione, troviamo invece
una notevole difficoltà nella sua applicazione, perché gli Stati membri hanno la tendenza
a definire in modo molto diverso le condizioni di “rischio individuale”. Infatti al
considerando 26 della direttiva è specificato che i rischi a cui è sottoposta un'intera
popolazione a seguito di una condizione instabile e violenta del Paese in questione non
sono sufficienti a dimostrare un rischio individualizzato. Si è espressa in merito la Corte
di Giustizia europea119 che ha specificato che più la violenza nel Paese è grave e
generalizzata, meno il ricorrente dovrà dimostrare che il rischio di danno grave sia
individualizzato, al contrario, se c'è il rischio individualizzato, non è necessario mettere
in evidenza la gravità della situazione generale del Paese in questione (Favilli 2011, p.
137). All'art. 21 inoltre, la direttiva afferma il principio di non-refoulement, da rispettare
così come prescritto dagli obblighi internazionali, ad eccezione che la persona
costituisca pericolo per la sicurezza dello Stato, o in quanto condannato per reato
particolarmente grave, costituisca pericolo per la comunità. Va notato che nonostante
l'art. 3 della CEDU ripreso nella definizione di protezione sussidiaria, sia un diritto
inderogabile, non vi è alcun riferimento nella direttiva 2003/84/CE “al carattere assoluto
che la protezione sussidiaria può assumere, almeno nell'ipotesi in cui il diritto tutelato
coincida con quello derivante dall'art. 3 della CEDU” (Favilli 2011, p. 139).
Dunque, invece che una coerenza tra l'evoluzione del diritto d'asilo europeo e la
giurisprudenza CEDU in materia di non-refoulement, si riscontra piuttosto una
discrepanza, che risulterà ancora più evidente analizzando le due successive questioni.
Prima di tutto va notato che, nonostante vi sia una netta corrispondenza tra l'art. 3 della
CEDU e la definizione di protezione sussidiaria, chi non chiede asilo, ma si rivolge alla
Corte EDU che frena il suo allontanamento, in quanto potrebbe costituire violazione
dell'art. 3, si trova nella condizione di avere il diritto di restare sul territorio, ma senza
uno status giuridico che preveda quei diritti e doveri necessari all'integrazione nel
tessuto sociale. Si viene così a creare una sorta di discriminazione tra diverse categorie
di rifugiati, come afferma il giudice Pino de Albuquerque, nel parere concordate con la
sentenza sul caso Hirsi. Da un lato,
“il diritto internazionale dei rifugiati si è evoluto assimilando la norma di tutela più ampia
dei diritti umani, estendendo così la nozione di rifugiati che deriva dalla Convenzione
119 Sentenza del 17 febbraio 2009, Elgafaji C-465/07 2009, p. I-921.
47
(impropriamente chiamati rifugiati de jure) ad altri individui che hanno bisogno di una
protezione internazionale complementare (impropriamente chiamati i rifugiati de facto) 120”.
Con quest'ultima accezione vengono solitamente chiamati i rifugiati che in base al diritto
europeo acquisiscono la protezione umanitaria o sussidiaria e i rifugiati così come
definiti dalla Convenzione dell'OUA e dalla Dichiarazione di Cartagena. Dall'altro, si
attua una discriminazione ancora più forte tra coloro che hanno acquisito uno status
riconosciuto di rifugiato, a cui sono inevitabilmente collegati diritti e doveri sociali e
politici, e coloro a cui semplicemente è accordato il diritto a non essere allontanati. In
ognuna di queste fattispecie, essendo il principio di non-refoulement garanzia assoluta,
la protezione che ne scaturisce non dovrebbe differenziasi in termini così discriminatori;
ricordiamo infatti, come già analizzato nel precedente capitolo, che un individuo non
diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma che è riconosciuto tale perché è un
rifugiato121.
La seconda questione su cui è necessario riflettere chiama in causa il concetto di
territorialità. La direttiva 2005/85/CE recante norme minime sulla procedura di
riconoscimento e revoca dello status di rifugiato, prevede una rigida applicazione
territoriale della direttiva stessa. All'art. 3 viene infatti specificato che essa si applica
solo alle domande di asilo presentate sul territorio, alla frontiera e nelle zone di transito.
Nella recente direttiva 2013/32/UE che sostituisce la precedente, viene aggiunta in
proposito l'applicazione nelle acque territoriali; restano comunque scoperte le domande
di asilo territoriale e diplomatico fatte presso le rappresentanze degli Stati membri e
resta aperta la questione della sua applicazione in acque internazionali. In merito a
quest'ultimo tema la sentenza Hirsi ha dichiarato un orientamento ben preciso della
Corte EDU, che però, ancora una volta, non corrisponde all'evoluzione del diritto d'asilo
europeo. Nella sentenza viene riportata la lettera di Jacques Barrot, vicepresidente della
Commissione europea, datata 15 luglio 2009122, nella quale viene specificato come
interpretare le situazioni in alto mare che coinvolgono potenziali richiedenti asilo. Da un
lato c'è l'acquis comunitario in materia d'asilo che continua ad affermare la valenza
strettamente territoriale delle normative europee in merito; dall'altro c'è il Codice delle
Frontiere Schengen che prescrive il controllo delle frontiere nel rispetto del principio di
120 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
121 UNHCR, Linee guida sulle procedure e i criteri per determinazione dello status di rifugiato, Ginevra,
1992.
122 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, par. 34.
48
non-refoulement. Considerando che “le attività di sorveglianza delle frontiere svolte in
mare, siano esse nelle acque territoriali, nella zona contigua, nella zona economica
esclusiva o in alto mare” rientrano nel campo di applicazione del Codice delle Frontiere
Schengen, si deduce che l'obbligo di non-respingimento, e le garanzie d'asilo che da esso
derivano, vanno applicati in termini extraterritoriali. Si ricordi infatti, come analizzato
nel primo capitolo, che il non-refoulement è una garanzia assoluta e principio di jus
cogens, dunque il suo rispetto dovrebbe superare ogni vincolo di territorialità. In tali
termini il giudizio accordato nella sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, risulta
emblematico, in quanto chiarisce agli Stati membri l'atteggiamento che dovrebbe essere
mantenuto in alto mare in merito al non-refoulement. Nonostante ciò, anche le nuove
norme123 emanate nell'estate 2013 che costituiscono il Sistema Europeo Comune d'Asilo,
non prevedono alcuna disposizione che riconosca quest'importante atteggiamento
auspicato dalla Corte EDU, in materia di respingimenti in acque internazionali.
123 La nuova direttiva accoglienza (2013/33/UE), la nuova direttiva procedure (Direttiva 2013/32/UE), il
nuovo Regolamento Dublino, c.d. Regolamento Dublino III (n° 604 del 2013) ed il nuovo
Regolamento Eurodac (n° 603 del 2013).
49
L'esternalizzazione dei controlli di frontiera e il rispetto dell'obbligo di
non-refoulement. Il caso italiano
Il lavoro finora proposto, volto ad esporre le garanzie del non-refoulement a livello
internazionale ed europeo, ha mostrato che tale obbligo, pur se divenuto principio di jus
cogens, fatica a coniugarsi con l'esigenza degli Stati di controllare i propri confini e di
decidere chi può varcarli.
In questo capitolo, prendendo come spunto la sentenza della Corte EDU Hirsi Jamaa e
altri c. Italia , verranno analizzate le cosiddette “politiche del non arrivo” che oramai da
più di dieci anni, caratterizzano l'atteggiamento di numerosi Paesi d'immigrazione. Le
“politiche del non arrivo” non sono altro che l'espressione della volontà degli Stati di
difendere il proprio territorio, di renderlo sicuro e di limitare il più possibile l'ingresso di
cittadini stranieri.
Verranno analizzate in primis le misure anti-terroristiche che sono un chiaro esempio a
livello internazionale di questa volontà, poi l'attenzione sarà posta sulla politica europea
degli ultimi anni in materia di contrasto all'immigrazione irregolare che ha comportato
la cosiddetta esternalizzazione dei controlli delle frontiere. In merito si indagheranno le
varie modalità attraverso cui tale esternalizzazione si realizza e le garanzie volte a
tutelare il non-refoulement in queste situazioni.
La restante parte del capitolo sarà dedicata alla situazione italiana: la sua politica di
contrasto all'immigrazione irregolare e le sue “politiche del non arrivo”, di cui eclatanti
esempi sono i rinvii in Grecia ed i respingimenti verso la Libia.
Queste nuove pratiche caratterizzano in modo particolare le frontiere esterne europee,
ma anche altri Paesi d'immigrazione, e hanno posto il problema di un accesso effettivo
alla protezione che gli organismi del terzo settore rivendicano sempre più a gran voce.
Si concluderà dunque, riportando le raccomandazioni e le proposte di organizzazioni
non governative ed enti di tutela in merito al diritto di avere accesso alla protezione.
1- La sicurezza di uno Stato vs la tutela del non-refoulement
1.1- Necessità di sicurezza: le misure anti-terroristiche a livello internazionale
Come ripete costantemente la Corte EDU nelle sue sentenze, ogni Stato ha il pieno
diritto di controllare l'ingresso e la permanenza sul proprio territorio di cittadini
stranieri. Le politiche di contrasto all'immigrazione irregolare sono forme di controllo
50
volte a garantire la sicurezza statale. Nel caso dell'Unione Europea analizzeremo nello
specifico, l'evoluzione di questa necessità nel corso dell'ultimo decennio, a livello
internazionale non è ovviamente possibile condurre un discorso generalizzante su tale
tematica, perché ogni Stato adotta la propria politica di contrasto. Nonostante ciò, per
dimostrare quanto la volontà di sicurezza, difficilmente riesca a coniugarsi con la tutela
del non-refoulement, si è scelto di prende in esame le Risoluzioni n° 1373 e n° 1624 del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di terrorismo (rispettivamente 28
settembre 2001 e 14 settembre 2005). La lotta al terrorismo infatti, al pari del controllo
dei flussi irregolari di migranti, è una forma attraverso cui si manifesta l'esigenza di uno
Stato di controllare l'accesso al suo territorio e di limitarlo a certe categorie di stranieri,
ai fini della propria sicurezza.
Nella prima Risoluzione già il Consiglio di Sicurezza incitava gli Stati a verificare,
prima di concedere l'asilo, che il soggetto non avesse partecipato, pianificato o facilitato
la commissione di atti terroristici124; che lo status di rifugiato non venisse manipolato da
coloro che sono coinvolti in atti terroristici e soprattutto che la motivazione politica non
fosse considerata sufficiente per non acconsentire ad un'estradizione di presunti
terroristi125. Infine il Consiglio di Sicurezza dichiarava apertamente che “gli atti, i
metodi e le pratiche di terrorismo” e che “finanziare pianificare e istigare
consapevolmente atti di terrorismo”, sono condotte contrarie agli obiettivi ed ai principi
delle Nazioni Unite126. Questa dichiarazione crea un problema di non poca importanza
riguardo alla definizione di tutti questi termini; ricordiamo infatti, che il terrorismo non
è un concetto legalmente stabilito, ma piuttosto un'etichetta politica (Mathew 2008, p.
20). Niente può aiutarci nell'interpretazione, dato che la Risoluzione n° 1373 non ha
storia legislativa, né lavori preparatori, non vi è stato un dibattito che l'abbia
accompagnata, ma è stata immediatamente approvata in un unico incontro (Mathew
2008, p. 25).
Prendendo in esame la successiva Risoluzione n° 1624, si noti che viene più volte
sottolineato che tutte le misure adottate dagli Stati per la lotta al terrorismo devono
essere rispettose degli obblighi internazionali, in modo particolare di quelli relativi ai
diritti umani e ai rifugiati. Nello specifico però la Risoluzione parla anche di eccezioni a
questi obblighi: ricordando la tutela offerta dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati
124 Risoluzione n° 1373 del Consiglio di Sicurezza, 28/09/01, par. 3(f).
125 Ivi, par. 3(g).
126 Ivi, par. 5.
51
del 1951 e dal relativo Protocollo del 1967, si pone l'accento sul fatto che la protezione
non deve essere data a colui nei confronti del quale vi sono serie ragioni per ritenere che
sia colpevole di atti contrari agli obiettivi e ai principi delle Nazioni Unite. Si tratta
dell'art. 1(F) della Convenzione che espone le già affrontate clausole di eccezione. Nel
momento in cui uno Stato deve bilanciare il rispetto dei diritti umani con un proprio
interesse, tale interesse deve essere necessario, ovvero può essere invocato solo sotto
precise condizioni. Una di queste condizioni è che lo Stato sia soggetto ad un grave e
imminente pericolo e la minaccia deve essere oggettivamente stabilita e non meramente
appresa (Goodwin-Gill 2008, p. 14). Al contrario si tende sempre più, negli ultimi anni,
a giustificare pratiche statali attraverso l'agenda terroristica internazionale, prassi
alquanto dubbie in materia di rifugiati che costituiscono veri e propri abusi di potere da
parte degli Stati (Goodwin-Gill 2008, pp. 7-8-9). Chi arriva in cerca di asilo o di
qualsiasi altra protezione accordata da trattati internazionali e regionali è sempre più
considerato una minaccia; non è un caso dunque, che in tutte le convenzioni
internazionali, gli Stati si siano battuti per imporre come limite all'esercizio dei diritti
umani la propria sicurezza. Questo ha portato ad associare colui che è in cerca di
protezione alla figura di un presunto terrorista, facendo leva su quanto scritto nella
Risoluzione n° 1373, dove si parla di “non abusare” dello status di rifugiato. Allo stesso
modo, inserire la clausola di esclusione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del
1951 nella Risoluzione anti-terroristica del 2005, rende tale clausola una misura
preventiva, che autorizza l'esclusione prima dell'inclusione e rende chiunque sospetto
(Mathew 2008, p. 33). Questa trasposizione pone inoltre un altro problema. L'UNHCR
ha più volte considerato l'art. 1(F,b), ovvero l'esclusione a causa di crimini gravi,
bilanciabile con altri valori, volti ovviamente a tutelare il soggetto da un possibile
refoulement. Al contrario, rispetto all'art. 1(F,c) che prevede crimini contrari alle Nazioni
Unite che hanno una valenza molto più grave (crimini contro la pace e l'umanità) non
può essere accordato alcun bilanciamento. L'UNHCR tende ad esprimersi giudicando gli
atti terroristici come crimini gravi, giudizio che non è stato affatto preso in
considerazione nella Risoluzione n° 1373 che esplicitamente invece, parla di quelli
terroristici come atti contrari agli obiettivi e principi delle Nazioni Unite, dunque
rientranti sotto l'art. 1(F,c) (Mathew 2008, pp. 34-5).
Nonostante ciò va ricordato che anche nel caso di bilanciamento è necessario stabilire
uno standard minimo a cui esso debba fare riferimento: nel caso specifico vi devono
52
essere serie ragioni (art. 1(F,c) della Convenzione) per ritenere che il soggetto in
questione abbia commesso crimini contrari alle Nazioni Unite e devono presentarsi
gravi motivi per ritenerlo un pericolo per la sicurezza dello Stato (art. 33(2) della
Convenzione). Queste garanzie, alla luce di quanto detto nel primo capitolo, non
dovrebbero neanche essere prese in considerazione, perché l'obbligo di non-refoulement
è da tempo considerato principio inderogabile e parte del diritto consuetudinario.
Nonostante tale consapevolezza, dopo l' 11 settembre 2001, qualcosa è cambiato: è
iniziato un periodo storico di intensificazione dei controlli e di severa rigidità
nell'ammissione ai territori degli Stati-nazione e sempre più le misure anti-terroristiche
vengono confuse con quelle adottate per regolare i flussi misti di migranti e contrastarne
l'irregolarità (Mathew 2008, p. 53). La Risoluzione del 2001 ha incoraggiato gli Stati ad
intendere i meccanismi di controllo come una soluzione al terrorismo ed è stato
impiegato un linguaggio volto soprattutto a rassicurare gli Stati sulla questione della
sicurezza (Mathew 2008, p. 60).
Questa necessità di prevenzione, di escludere prima di includere, ha ovviamente causato
numerosi abusi in materia di diritti umani e rappresenta un incipit di quelle misure di
esternalizzazione dei controlli di frontiera che allo stesso modo hanno come obiettivo il
non-arrivo di colui che chiede protezione. L'asilo è divenuto politicizzato ed i concetti di
Paese terzo sicuro e Paese d'origine sicuro di fatto rappresentano strategie di politica
estera, in quanto non essere menzionati sotto nessuno di questi due appellativi, diviene
inevitabilmente rilevante a livello di politica internazionale (Bruin, Wouters 2003, p.
29).
1.2- La politica europea in materia di protezione delle frontiere esterne e le garanzie
previste per il non-refoulement
L'attacco alle Torri Gemelle ha notoriamente dato inizio ad una politica molto più rigida
di controlli nelle singole regioni del pianeta e la zona europea non è stata da meno.
Il 20 settembre 2001 il Consiglio Europeo su Giustizia e Affari Interi, adottando la
Conclusione 3926/6/01, incitò gli Stati membri ad intensificare i controlli delle frontiere
esterne, ad applicare le procedure inerenti i visti d'ingresso con massimo rigore ed esortò
la Commissione Europea a riflettere il prima possibile sulla relazione tra salvaguardia
della sicurezza ed obblighi in materia di protezione internazionale (Bruin, Wouters 2003,
p. 8). La Commissione rispose a tale sollecitazione il 5 dicembre 2001, pubblicando il
53
documento dal titolo La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il
rispetto degli obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione. Qui la
Commissione afferma che, seguendo quanto consigliato dall'UNHCR, non verranno
apportate delle modifiche al sistema di protezione dei rifugiati, ma sarà sufficiente, per
arginare comportamenti terroristici da parte di potenziali titolari di protezione
internazionale, impiegare la legge già esistente, ovvero le clausole di esclusione previste
dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951127. Il documento presenta criticità
simili a quelle messe in evidenza poc'anzi, prima fra tutte la mancanza di una
definizione di terrorismo, che la Commissione auspica che sarà presto stabilita, così da
essere condivisa da tutti gli Stati membri, perché solo grazie a quest'ultima sarà
effettivamente possibile decidere quali atti rientrino rispettivamente sotto l'art. 1(F,a) e
quali sotto gli artt. 1(F,b) e 1(F,c) 128. La Commissione avanza anche l'ipotesi che, oltre
alla revoca di rifugiato, così come già stabilita dal Manuale sulle procedure e i criteri
per determinare lo status di rifugiato dell'UNHCR, si potrebbe prevedere, a livello
europeo, una “revisione” dello status per coloro a cui è stato già concesso; revisione da
compiere solo sulla base di informazioni dei servizi di intelligence che accertino che la
persona in questione rappresenti un pericolo per la sicurezza129. Si cita inoltre l'art. 33(2)
come deroga al principio di non-refoulement, acconsentendo al rimpatrio di rifugiati
“qualora rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale del paese ospitante, e
qualora la loro comprovata natura criminale e i loro precedenti penali costituiscano un
pericolo per la comunità. I diversi elementi di tali circostanze estreme ed eccezionali devono
tuttavia essere interpretati in senso restrittivo e richiedono un elevato livello di prova”130.
Nonostante ciò la Commissione ricorda che nella procedura di espulsione di un
rifugiato, gli Stati dovranno sempre tener conto di altri obblighi, ad esempio l'art. 3 della
CEDU. Inoltre è necessario che tutti, anche i sospettati, abbiano accesso alla procedura
d'asilo, perché un respingimento alla frontiera potrebbe costituire refoulement131. Altre
garanzie che vengono poste a tutela dell'interesse del richiedente sono: la decisione di
espulsione che deve essere presa “nell'ambito del procedimento d'asilo, dall'autorità che
127 Commissione Europea, La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli
obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione, 05/12/2001, p. 7.
128 Ivi, p. 9 (par. 1.1.2.).
129 Ivi, p. 9 (par 1.2.1.).
130 Ivi, p. 10 (par. 1.3.).
131 Ivi, p. 10 (par. 1.4.1.).
54
dispone dell'esperienza e della specifica formazione”132; il diritto a presentare ricorso133;
e il controllo giurisdizionale nei casi di detenzione di richiedenti asilo che possano
costituire un rischio per la sicurezza134. La Commissione dichiara apertamente che la
Corte EDU a seguito degli eventi delle Torri Gemelle, sarà costretta a pronunciarsi
nuovamente in merito all'assolutezza dell'art. 3 della CEDU, prevedendo la possibilità di
un “atto di bilanciamento” tra tutela dell'individuo soggetto a respingimento e sicurezza
dello Stato135.
Le “raccomandazioni” con cui la Commissione conclude il documento sono le stesse
che guideranno la sua politica europea in materia di immigrazione irregolare fino ad
oggi: nell'instaurazione di un regime comune d'asilo dovrà costantemente essere
presente la riflessione sulla sicurezza e per tutelare quest'ultima dovrà costituirsi un
sistema di cooperazione e scambio di informazioni tra Stati136. Non è un caso che, a
partire dal 2001, lo sviluppo di un comune diritto d'asilo si è sempre più scontrato con il
bisogno di sicurezza e di protezione delle frontiere. Esempi ne sono, il Consiglio di
Siviglia, nel giugno 2002, dove l'Unione Europea considerò prioritaria per creare lo
spazio di libertà, sicurezza e giustizia la politica relativa al contrasto all'immigrazione
irregolare (Benedetti 201, p.165) 137. Nel Consiglio di Salonicco che si tenne l'anno dopo,
discutendo della creazione di un comune diritto d'asilo, venne affermato che per ottenere
un sistema “integrato” era necessario coinvolgere i Paesi di origine e di transito dei
rifugiati. Gli obiettivi che vennero posti furono: consentire un arrivo organizzato dei
rifugiati in Unione Europea, condividere gli oneri e le responsabilità tra Paesi di transito
e arrivo, elaborare procedure efficaci in materia d'asilo e rimpatri (Benedetti 2010, pp.
167-8). Nel 2004 venne costituita FRONTEX, l'Agenzia Europea per la gestione della
cooperazione internazionale alle frontiere esterne, nel rispetto dei diritti fondamentali
132 Ivi, p. 11 (par. 1.4.3.).
133 Ivi, p. 12 (par. 1.4.5.).
134 Ivi, p. 14 (par. 1.6.). Nel documento infatti, la Commissione ritiene la detenzione la misura più
“idonea” per evitare che un richiedente asilo, sospettato di essere pericoloso per la sicurezza dello
Stato, si renda irreperibile sul territorio.
135 Commissione Europea, La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli
obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione, 05/12/2001, p. 14.
136 Ivi, p. 18 (rispettivamente par. 3.1. e par. 3.2.).
137 Per il contrasto dell'immigrazione irregolare uno strumento molto utilizzato saranno le riammissioni
di cittadini stranieri nei loro Paesi di origine. In proposito, già nel Consiglio di Tampere del 16 ottobre
1999 che fissava le linee giuda per la costruzione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia,
al capitolo IV “Gestione dei flussi migratori” il Consiglio chiedeva “assistenza” nei confronti dei Paesi
di origine e transito ed adempimento dei loro obblighi in materia di riammissioni (par. 26). Ricordando
inoltre il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, che conferiva alla Comunità competenze nel
settore delle riammissioni, il Consiglio esortava la stipula di accordi di riammissione esterna, ovvero
con Paesi terzi, ed interna, ovvero tra gli Stati membri (par. 27) (Cossu 2006, p. 110).
55
sanciti dal Trattato dell'Unione Europea e dalla Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione138. Tema ricorrente, come vedremo anche in seguito e che inciderà sulla
politica italiana in merito, è la cooperazione con i Paesi terzi; Frontex infatti, tra gli altri
compiti, dovrà anche agevolazione i rapporti tra gli Stati membri e Paesi terzi139. La
cooperazione con tali Stati, la gestione integrata delle frontiere, l'intensificazione della
lotta all'immigrazione irregolare, politiche sostenibili ed efficaci di rimpatrio, sono
invece gli obiettivi riproposti, nel 2008, nella Comunicazione sull'asilo140, adottata nel
giugno 2008, congiuntamente al Patto sull'asilo,141 entrambi derivanti dal Patto Europeo
sull'Immigrazione e l'Asilo, risultato del semestre di presidenza all'Unione di Sarkozy
(Benedetti 2010, p. 182). Nel maggio 2010 viene infine emanato il Programma di
Stoccolma142 nel quale venne affermata la necessità di un'Europa dei diritti, dove
l'adesione alla CEDU si presenta come lo strumento più efficacie per una sua
realizzazione. Viene inoltre promossa un'Europa della giustizia, volta a creare uno
spazio giuridico comune tra tutti gli Stati membri, stabilendo diritti minimi riconosciuti
in ogni legislazione nazionale. Infine necessaria è un'Europa che protegge, ovvero una
strategia di sicurezza interna contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani, la
criminalità organizzata, il traffico di “clandestini”143 e soprattutto la criminalità
transfrontaliera che ha “pesanti ripercussioni per il quotidiano dei cittadini
dell'Unione”144. Tale strategia dovrà essere attuata nel rispetto dei diritti umani e della
protezione internazionale e necessiterà di una costante collaborazione e solidarietà tra
gli Stati membri, realizzabile soprattutto attraverso lo scambio di informazioni tra gli
stessi. Il Programma di Stoccolma poi dedica un intero paragrafo alla questione
dell'accesso all'Unione Europea: la priorità è la protezione delle frontiere esterne,
138 Regolamento CE n° 2007/2004, 26/10/04, considerando 22.
139 Ivi, art. 14.
In particolare l' “agevolazione” di tali rapporti si focalizzerà soprattutto sulla questione delle frontiere
marittime: da ricordare è la Comunicazione della Commissione al Consiglio dell'Unione Europea
Rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali, del 30 novembre 2006, che esorta la
cooperazione con i Paesi di transito dell'Africa e del Medio Oriente; e la Comunicazione della stessa
Commissione del 13 febbraio 2008 che ha per tema la sorveglianza delle frontiere, dove si parla
esplicitamente di diritto di intercettazione di navi che si trovano nelle acque territoriali dei Paesi di
transito (Vassallo Paleologo 2010, pp. 25-6).
140 Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e
Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Piano strategico sull'asilo. Un approccio integrato in
materia di protezione nell'Unione Europea, 17/06/08.
141 Consiglio dell'Unione Europea, Patto europeo sull'immigrazione e sull'asilo, 24/09/08.
142 Consiglio dell'Unione Europea, Programma di Stoccolma — Un'Europa aperta e sicura al servizio e
a tutela dei cittadini, 04/05/10.
143 Ivi, par. 4.1.
144 Ivi, par. 4.3.1.
56
attuabile con una seria politica di contrasto all'immigrazione “clandestina”, volta a
mantenere un “livello elevato di sicurezza”, ma non ad impedire l'accesso alla
protezione per chi ne necessita. La Commissione viene inoltre esortata a definire con
maggior precisione, e al tempo stesso a potenziare, il ruolo di Frontex, a promuovere
operazioni congiunte in mare ed a stimolare la cooperazione tra Frontex e i Paesi
d'origine e di transito145. Infine il Programma esprime le azioni da intraprendere in
materia di immigrazione e asilo: organizzare un'immigrazione regolare in base alle
esigenze dei singoli Stati, favorire l'integrazione, lotta all'immigrazione irregolare,
rafforzamento dei controlli alle frontiere, costruzione di un'Europa dell'asilo,
collaborazione con i Paesi di origine e transito146. Come risulta da queste linee guida che
avrebbero dettato la politica europea in materia di immigrazione ed asilo per gli anni
2010-2014, la sicurezza è sempre l'esigenza che viene messa al primo posto, pur nel
rispetto dei diritti fondamentali, e la cooperazione con i Paesi d'emigrazione sembra
l'unica strategia efficacie per creare il tanto anelato spazio di sicurezza.
Parallelamente a queste prese di posizione, un elemento determinante che ha inciso sulle
politiche in materia d'immigrazione dell'Unione Europea è stata la creazione dello
spazio Schengen. Nel 1985 Francia, Germania e i Paesi del Benelux firmarono il
Trattato di Schengen, nel quale venivano abolite le frontiere interne tra i suddetti Stati e
veniva proposta una seria riflessione in merito alla creazione di una comune politica in
materia di immigrazione che si sarebbe dovuta realizzare, primo fra tutti, con un sistema
di visti unificato. Questo avrebbe permesso una libera circolazione all'interno dello
spazio Schengen che non minasse l'ordine pubblico e la sicurezza degli Stati coinvolti. Il
trattato divenne effettivamente vincolante solo cinque anni dopo, quando entrò in vigore
la Convenzione di applicazione del 1990 che fece coincidere lo spazio Schengen con
quello comunitario del mercato interno senza frontiere e le regole Schengen divennero a
tutti gli effetti normative comunitarie (Benedetti 2010, p. 121).
Nella Convenzione di applicazione dell'Accordo Schengen del 2000, volto
all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, vennero poi delineate le
condotte da seguire in materia di ingresso da parte di cittadini di Paesi terzi e del loro
allontanamento in caso di situazione di irregolarità e vennero dettate disposizioni in
merito all'accesso alla procedura d'asilo e alla sua esplicazione. Nel testo della
convenzione viene più volte ribadito il rispetto degli obblighi relativi alla Convenzione
145 Ivi, par. 5.1.
146 Ivi, par. 6.
57
di Ginevra sui rifugiati del 1951 e al rispettivo Protocollo del 1967 (artt. 26-28-135), ma
lo spirito generale è raccolto nelle dichiarazioni finali, dove viene affermato che, “tenuto
conto dei rischi in materia di sicurezza e d'immigrazione clandestina” nasce l'esigenza
“di attuare un controllo efficace alle frontiere esterne” che abbia metodi comuni tra tutti
gli Stati membri147. La priorità della tematica della sicurezza risulta ancora più evidente
nel Regolamento CE 562/2006 (Codice Frontiere Schengen)148, volto a regolare
l'attraversamento delle frontiere sia esterne che interne, a prevenire l'ingresso illegale ed
a lottare contro la criminalità transfrontaliera (art. 12). Al considerando 6 viene
espressamente affermato che il controllo delle frontiere contribuisce alla lotta contro
l'immigrazione irregolare e la tratta degli essere umani, “nonché alla prevenzione di
qualunque minaccia per la sicurezza interna”. All'art. 16(3) si ricorda che gli Stati
possono “continuare” la politica di cooperazione con i Paesi terzi. Infine, nell'allegato
VI, relativo ai controlli su diverse tipologie di trasporto, viene data possibilità di
effettuare verifiche anche durante il corso del viaggio e non necessariamente alle
stazioni di partenza o arrivo e viene incitata la stipula di accordi bilaterali per un
controllo congiunto delle frontiere. Per quel che concerne invece le tutele nei confronti
di queste misure, troviamo all'art. 3, che il Regolamento va applicato senza pregiudizio
del diritto alla libera circolazione e del diritto dei rifugiati e di coloro che chiedono
protezione, con particolare riferimento al principio di non-refoulement149. Così come
all'art. 13 si sottolinea che le misure di respingimento non pregiudicano il diritto di asilo,
inoltre tale provvedimento deve essere motivato con ragioni precise e notificato
dall'autorità competente (art. 13(2)) e le persone soggette a tale misura devono avere
diritto a presentare ricorso, pur se esso non ha effetto sospensivo (art. 13(3)). All'art. 6
infine, si sottolineano le tutele relative ai controlli: le guardie addette al ruolo devono
rispettare la dignità umana, adottare misure proporzionate all'obiettivo delle stesse e
rispettare il principio di non-discriminazione.
Il presente Regolamento viene successivamente arricchito dal Regolamento 3625/09 che
istituisce il Codice comunitario dei visti. Al considerando 1 subito viene espresso
l'obiettivo del documento: creare uno spazio di libera circolazione, per il quale
necessarie risultano misure relative al controllo delle frontiere esterne, all'asilo e
147 Acquis di Schengen - Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985,
22/09/2000, p. 51.
148 Da ora in poi Codice delle Frontiere Schengen.
149 Ricordiamo inoltre che tale obbligo a livello europeo è espresso all’art. 78 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all'art. 18 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea e, come dimostrato nel capitolo precedente, nella CEDU.
58
all'immigrazione e disposizioni relative al transito in zone internazionali aeroportuali,
volte a combattere l'immigrazione irregolare (considerando 5). Tutto ciò deve essere
realizzato nel rispetto della dignità umana (considerando 6), della CEDU e della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (considerando 29).
1.3- Le varie forme di esternalizzazione dei controlli delle frontiere
La politica europea finora analizzata ha causato nell'ultimo decennio la cosiddetta
esternalizzazione dei controlli delle frontiere che si esprime sotto diverse forme.
Prime fra tutte, le pratiche di intercettazione. Tale termine non possiede una definizione
giuridicamente stabilita, ma solitamente indica le misure che uno Stato adotta, al di fuori
dei confini nazionali, per prevenire, interrompere e fermare il viaggio di cittadini
stranieri che intendono varcare le sue frontiere, ma non hanno la giusta documentazione
per farlo (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 371). Le intercettazioni possono essere
“attive”, come quelle che hanno caratterizzato il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, e di
cui ci occuperemo più nel dettaglio nel prossimo paragrafo dedicato alla politica italiana
dei respingimenti, ma possono essere anche passive. In quest'ultimo caso si tratta di tutte
quelle pratiche volte al controllo dei documenti per l'espatrio che vengono attuate prima
che il cittadino straniero varchi i confini dello Stato.
Un altro strumento che indirettamente ha comportato l'esternalizzazione dei controlli
sono state le già citate “carrier sanctions”, multe imposte alle compagnie di trasporto nel
caso in cui facciano viaggiare persone sprovviste della giusta documentazione. Risulta
ovvio che lo scopo primario della compagnia è quello di non essere multata, dunque gli
agenti predisposti al controllo si occuperanno semplicemente della verifica dei
documenti, senza prendere in considerazione le motivazioni che spingo la persona a
viaggiare irregolarmente (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 377). È prassi, infatti, che
gli agenti privati predisposti al controllo non siano formati su tematiche quali, la tutela
dei diritti umani e del diritto d'asilo.
Altra criticità è rappresentata dal sistema dei visti. In Europa sono stati creati, in linea
con la politica comunitaria dei controlli sopra affrontata, il Sistema di Informazione
Schengen (SIS) e il Sistema di Informazione Visti (VIS), che sono parte integrante delle
procedure di esternalizzazione, perché permettono di effettuare il controllo prima della
partenza. Soprattutto per chi è in cerca di protezione il sistema dei visti rappresenta una
delle maggiori difficoltà per un accesso effettivo alla tutela riconosciuta dal diritto
59
regionale ed internazionale: infatti, per sua natura, il rifugiato non ha, o non vuole, la
protezione del suo Stato di origine o di residenza abituale, dunque risulta al quanto
difficile che egli possa riuscire ad ottenere un visto ai fini dell'espatrio.
In questo quadro di politiche volte a bloccare sul nascere i flussi migratori irregolari vi
sono anche, in linea con le prescrizioni europee, una folta rete di accordi di cooperazione
tra Stati europei e Paesi di transito ed origine, di natura alquanto diversa a seconda degli
attori firmatari. Gli elementi comuni che li caratterizzano sono solitamente la fornitura
gratuita, o i contributi economici, volti all'acquisto di attrezzature utili al controllo delle
frontiere e della formazione del personale addetto al controllo; i finanziamenti di centri
di detenzione, volti ad arginare l'immigrazione irregolare; la riserva di quote fisse per
l'entrata dei cittadini dei Paesi terzi che collaborano al controllo delle frontiere150. In
queste situazioni di cooperazione la difficoltà maggiore risulta nell'attribuzione della
responsabilità, in caso di violazione di obbligo di non-refoulement. Infatti, se la
responsabilità dipende dalla giurisdizione, che a sua volta dipende da chi ha il controllo
effettivo sulla persona, nei casi in cui diversi attori, anche privati, si mescolano nelle
operazioni di controllo, risulta oltremodo difficile stabilire un'univoca giurisdizione.
Inoltre ricordiamo soltanto, visto che l'argomento è stato già ampiamente trattato, che la
stessa nozione di Paese terzo sicuro viene sovente impiegata come “politica di non
arrivo” sul territorio europeo. Rappresentando un concetto tutt'altro che ben definito,
come dimostrato nel primo capitolo, crea dunque numerosi problemi in merito
all'effettiva tutela nei confronti di un refoulement.
1.4- Gli sviluppi del diritto comunitario dopo la pronuncia sul caso Hirsi
Le pratiche finora presentante conferiscono allo Stato il diritto di scegliere
preventivamente chi può varcare i propri confini, al contrario colui che necessita di
protezione non ha possibilità di scegliere la propria destinazione (Kneebone 2008, p.
130). Inoltre ricordiamo che il diritto di lasciare il proprio Paese si presenta come
incompleto, perché non ha come corrispondente il diritto dell'altro Stato di accogliere,
semplicemente obbliga il Paese di partenza a lasciar uscire il suo cittadino ed a fornirgli i
documenti adatti. Più completo risulta invece il diritto di asilo che prevede il diritto di
lasciare un Paese in cerca di protezione e l'accesso alla procedura (Goodwin-Gill,
McAdam 2007, p. 376). È evidente che le forme di esternalizzazione sopra descritte
150 Si veda Cuttitta 2006, da p. 16 a 34.
60
poco si accordano con il rispetto di questo diritto e sempre più sono state percepite come
tentativi da parte degli Stati-nazione di frenare preventivamente i flussi migratori e di
eludere le proprie responsabilità internazionali nel campo dei diritti umani.
In merito al non-refoulement senza dubbio il caso Hirsi ha prescritto diritti ben precisi
che non possono subire deroghe nel momento in cui si ha a che fare con tale obbligo: il
diritto ad essere informati sulla procedura d'asilo, il diritto ad avere un'interprete, il
diritto di essere esaminati singolarmente da personale qualificato sul tema, il diritto ad
un ricorso effettivo, il diritto che lo Stato respingente si accerti della situazione in cui il
soggetto potrebbe trovarsi nel Paese in cui viene rinviato. La sentenza inoltre, è stata
senza dubbio una presa di posizione nei confronti delle misure dei controlli
extraterritoriali sopra descritte, ma è stata anche una presa di coscienza per l'Unione
stessa che ha visto smascherata e contraddetta la sua politica dell'ultimo decennio.
Ricordiamo infatti, che lo stesso governo italiano giustifica la sua condotta e gli accordi
precedentemente presi con la Libia, inserendoli nel quadro decisionale in materia
d'immigrazione che ha caratterizzato le scelte dell'Unione Europea a partire dal nuovo
millennio.
Questa presa di consapevolezza è indubbiamente evidente nella Direttiva 2013/32/UE,
parte del nuovo sistema europeo d'asilo varato dal Parlamento la scorsa estate. Basti
notare la specifica dell'art. 8 che prevede che siano date informazioni e consulenza
relativi alla procedura di asilo nei centri di trattenimento ed ai valichi di frontiera. Viene
inoltre sottolineata la necessità di sevizi di interpretariato e l'obbligo degli Stati di
assicurarsi che le associazioni di tutela abbiano libero accesso ai valichi, siano esse zone
di transito o frontiere esterne. All'art. 12 vengono enunciate altre garanzie relative al
diritto di accedere ai servizi di interpretariato e alla consulenza dell'UNHCR e di altre
organizzazioni di tutela. Infine l'art. 26 è interamente dedicato al diritto ad un ricorso
effettivo.
Accorgimenti simili possono essere ritrovati anche nella modifica del Codice delle
Frontiere Schengen151 del 26 giugno 2013. Non a caso viene aggiunto l'art. 3-bis che
specifica che in sede di applicazione del regolamento gli Stati devono agire tenendo
conto degli obblighi prescritti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea,
dal diritto internazionale, in particolare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951
e da tutte le norme relative al non-refoulement. L'articolo si conclude con una
151 Regolamento UE n° 610/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica il Regolamento
CE n° 562/2006, 26/06/13.
61
puntualizzazione fondamentale, reduce dell'esperienza Hirsi: “le decisioni adottate ai
sensi del presente regolamento devono essere adottate su base individuale”152. Viene
inoltre ampliato l'art. 15 che obbliga gli Stati membri a formare adeguatamente le
guardie di frontiera e “incoraggia” a far loro apprendere le lingue straniere utili
all'espletamento delle loro funzioni. Viene inoltre specificato che nella loro formazione
determinante deve essere l'attenzione data alla materia riguardante la gestione di persone
vulnerabili153.
2- Il Mare di Mezzo154: l'antefatto del caso Hirsi
Nel giungere verso la conclusione di questo lavoro è nata la necessità di dedicare spazio
all'analisi della politica del governo italiano nell'ultimo decennio in materia di
respingimenti che, dopo il quadro tracciato del diritto europeo relativo ai controlli di
frontiera, non risulta in effetti così incomprensibile. Verranno analizzate le scelte che
l'Italia ha adottato in questi anni e che l'hanno condotta alla condanna della Corte EDU
presentata nel capitolo precedente.
Il quadro internazionale relativo al diritto del mare e al diritto di prestare soccorso è stato
delineato nel primo capitolo, dove sono state messe in evidenza le criticità relative alle
operazioni di soccorso in mare. In merito gli Stati adottano interpretazioni molto
divergenti: come visto nel caso Hirsi, il governo italiano sosteneva di aver compiuto
un'operazione di salvataggio che non gli avrebbe imposto l'identificazione e la
definizione dello status delle persone a bordo 155. Le stesse azioni marittime coordinate da
Frontex, che per statuto non è un'agenzia SAR, diventano però operazioni di ricerca e
salvataggio, sottraendole così all'ambito di applicazione del regolamento di Frontex e del
diritto comunitario (Vassallo Paleologo 2010, p. 33). Riguardo alla Convenzione SAR
non vi sono inoltre delle linee giuda ben determinate. Questo ha permesso a Stati come
Malta di sottrarsi numerose volte all'obbligo di soccorso e salvataggio156, evitando così
di farsi carico di potenziali rifugiati presenti sulle imbarcazioni.
Ulteriore criticità che si pone nelle operazioni in alto mare chiama in causa il Protocollo
152 Ivi, art. 1(3).
153 Ivi, art. 1(13).
154 Dal libro DEL GRANDE G., Il Mare di Mezzo, al tempo dei respingimenti, Edizioni Infinito,
Modena, 2010.
155 Questo viene esplicitato nella Risoluzione MSC.167 (78) Guidelines in the treatment of persons
rescued at sea, del Comitato per la sicurezza marittima (MSC), del 20 maggio 2004.
156 Nel caso Hirsi l'Italia agì, come accaduto molte altre volte, nella zona di ricerca e salvataggio di Malta
che puntualmente viene meno ai suoi obblighi, adducendo la scusa di possedere una SAR molto più
ampia di quelle che sono le sue possibili capacità di controllo.
62
di Palermo del 2000 contro il traffico illegale di migranti157 che prescrive, al fine di
raggiungere il proprio scopo, la cooperazione tra gli Stati parte e possibili interventi
congiunti in alto mare (artt. 7-8). Il Protocollo afferma il rispetto degli obblighi
internazionali tra cui quello di non-refoulement e non considera il traffico di migranti nei
termini di crimine internazionale, a differenza dell'ordinamento italiano dove invece
l'ingresso e il soggiorno irregolari sono considerati reati (art. 10-bis del Testo Unico
sull'immigrazione).
Emblematico in proposito è il famoso caso Cap Anamur. Il 20 giugno 2004 la suddetta
nave appartenete all'omonima ONG tedesca che si occupa di interventi umanitari,
recuperava 37 naufraghi in acque internazionali tra la Libia e Lampedusa. La nave restò
fino al 12 luglio in acque internazionali perché, dopo una prima apparente concessione,
il governo italiano revocò l'autorizzazione di attraccare a porto Empedocle che fu
concessa solo il 12 luglio. I naufraghi soccorsi, che avevano già presentato domanda
d'asilo sulla nave, dunque di competenza tedesca, vennero trasferiti in Centri di
permanenza temporanea e il comandante e parte dell'equipaggio e il capo dell'ONG
tedesca vennero accusati di favoreggiamento all'immigrazione irregolare (art. 12 del
suddetto Testo Unico) (Annaloro 2006, p. 146). Al di là delle varie vicissitudini che
riguardarono i migranti158, quello che interessa sottolineare è la completa sottrazione di
ogni Stato coinvolto alle sue responsabilità: da un lato la Germania sosteneva che la
competenza era di Malta perché avrebbe inizialmente acconsentito l'ingresso nelle sue
acque territoriali, dall'altro lato l'Italia riteneva che la competenza fosse della Germania
che aveva attuato l'operazione di soccorso e infine Malta dichiarava la sua completa
estraneità al fatto (Annaloro 2006, p. 143). Inoltre, va posto l'accento sulla condanna
dell'equipaggio che ha operato il salvataggio che dimostra ancora la confusione
157 Protocollo relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata
transnazionale, ratificata dall'Italia nel febbraio 2006.
158 I migranti avevano già presentato la prima domanda d'asilo sulla nave che venne completamente
misconosciuta. Ne presentarono poi una seconda sul territorio italiano che venne considerata
incompleta. Per due giorni i migranti vennero sottoposti ad interrogatori senza assistenza legale e
vennero visitati dal console sudanese. Avendo dichiarato di essere di tale nazionalità, le autorità
italiane non avrebbero mai dovuto permettere la visita, in quanto le minacce delle autorità
diplomatiche inducono molti profughi a ritirare le domande d'asilo. Solo in seguito, grazie all'UNHCR
ed altri enti di tutela, le domande d'asilo vennero accolte e il 15 luglio la Commissione Territoriale
dichiarò la concessione della protezione umanitaria (Annaloro 2006, p. 149). Il 21 luglio la
Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato revocò la protezione, in base alle
dichiarazioni fatte del Ministro dell'Interno che, seguendo quando dichiarato dall'ambasciata sudanese,
riteneva che i migranti in questione non fossero più sudanesi, ma ghanesi. L'ambasciata del Ghana
confermò, compilando dei certificati le cui uniche voci riempite erano nome e cognome e i migranti
furono trasferiti in Ghana (Annaloro 2006, pp. 150-1).
63
volontaria che viene fatta tra operazioni di contrasto all'immigrazione irregolare e quelle
umanitarie di soccorso in mare. Dopo cinque anni di processo, tutti gli interessati
vennero assolti con una sentenza del Tribunale di Agrigento159 che ha dichiarato che il
soccorso assolutamente non può essere considerato reato; che il comandante è l'unica
persona che può decidere il luogo sicuro per lo sbarco; e che i dinieghi dati alla nave
prima del suo effettivo ingresso in acque territoriali non avevano alcun fondamento
giuridico, ma erano il risultato solo di “scelte politiche” dell'allora Ministro dell'Interno
Pisanu160. Il caso riportato è un esempio di come la politica, cosiddetta dei respingimenti,
che ha caratterizzato l'Italia dell'ultimo decennio, affonda le sue radici nella retorica del
contrasto all'immigrazione irregolare ed è una dimostrazione della volontaria confusione
tra pratiche di soccorso e di controllo che viene rivendicata dagli Stati a giustificazione e
discolpa delle loro condotte.
Nel T.U. sull'immigrazione161 e nei famosi “pacchetti sicurezza” emanati nel primo
decennio del 2000, l'attenzione alla tematica del contrasto dei flussi migratori irregolari,
risulta prioritaria, rispetto ad ogni altra esigenza. Già nel decreto legislativo n. 268/98,
prima legge organica in Italia sul tema, i tre pilastri
individuati furono: la
programmazione dei flussi, il contrasto all' “immigrazione clandestina” e l'integrazione
dei cittadini stranieri regolari. Con la legge n. 189 del 30 luglio 2002, la tematica della
sicurezza divenne prioritaria. In particolare va sottolineata la modifica relativa ai
controlli delle frontiere marittime (art. 9) che sono resi legittimi anche oltre le acque
territoriali, fino alla zona contigua162, nei casi in cui si individui una nave che si presume
sia coinvolta nel traffico di migranti. Si precisa che il fermo, l'ispezione e il sequestro,
nel caso in cui avvengano fuori dalle acque territoriali devono essere eseguiti rispettando
il diritto internazionale e gli obblighi tra Stati 163.
Infine ricordiamo il decreto legge n. 92 “Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica”, del 23 maggio 2008, poi convertito con modificazioni in legge n. 125/08, che
introdusse all'art. 61 del codice penale il n° 11-bis che prevede una circostanza
159 Sentenza del Tribunale di Agrigento, sez. penale, dd. 15.02.2010 (Cap Anamur).
160 In http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=880&l=it (consultato il 03/01/14).
161 Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero, ovvero decreto legge n. 286 del 25 luglio 1998 e successive modificazioni.
162 La zona contigua si estende massimo a 24 miglia nautiche dalla linea di base da cui si misura il mare
territoriale (art. 33 della Convenzione di Montego Bay). La zona contigua va dichiarata dallo Stato
costiero, l'Italia, nonostante applichi controlli al di fuori del suo mare territoriale, non ha mia
dichiarato la sua zona contigua.
163 Rispettivamente agli artt. 9-bis, 9-ter e 9-quinquies della legge n° 189 del 30 luglio 2002.
64
aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole “mentre si trova illegalmente sul
territorio nazionale”. Inoltre la legge n. 94 del 15 luglio 2009 “Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica”, introdusse nel T.U. sull'immigrazione l'art. 10-bis, ovvero il reato di
ingresso e soggiorno irregolare.
Oltre alla tematica della sicurezza, anche quella della cooperazione con i Paesi terzi è
stata sempre cardine, nel T.U. sull'immigrazione, della politica dei controlli delle
frontiere. Ciò si evince sia dall'art. 11(4) in cui si afferma la promozione di “iniziative
d'intesa” con i “Paesi interessati”, volte alla “reciproca collaborazione a fini di contrasto
dell'immigrazione clandestina”, prevedendo la “cessione a titolo gratuito (...) di beni
mobili ed apparecchiature specificamente individuate”. Al contrario, la non
collaborazione da parte di Stati terzi, sarà penalizzata con la restrizione numerica delle
quote d'ingresso per i lavoratori di tali Stati, o addirittura con la riammissione per coloro
che sono destinatari di un provvedimento di rimpatrio (art. 21(1)).
A livello europeo la presidenza italiana al Parlamento nella seconda metà del 2003 ha
messo al centro dell'agenda europea la lotta all'immigrazione irregolare supportata dalla
cooperazione con i Paesi Terzi, realizzata tramite gli accordi di riammissione e le
intercettazioni in alto mare (di Pascale 2010, p. 289). Nel 2003, per raggiungere tali fini,
l'Italia lanciò il piano Ulisse, coinvolgendo Spagna, Francia, Portogallo e Regno Unito e,
l'anno successivo, il piano Nettuno, per il pattugliamento del Mediterraneo centrale e
orientale. Nel novembre 2008 inoltre, l'Italia lanciò il “Quadro Group” insieme a Malta,
Cipro e Grecia, con lo scopo di porre maggiore attenzione sulla questione
dell'immigrazione irregolare coinvolgente il Sud Europa e dove nuovamente venne
sponsorizzata la politica degli accordi bilaterali tra Paesi di origine e transito (di Pascale
2010, p. 291).
Gli accordi con Paesi terzi rappresentano nel caso italiano lo strumento determinate per
l'esternalizzazione dei controlli delle frontiere.
Già negli anni Novanta gli Stati europei iniziarono ad adottare nei confronti di quelli
africani, una politica basata da un lato, su accordi di riammissione e dell'altro, su accordi
di cooperazione di polizia che, in assenza dei primi, spesso assolvono la stessa funzione.
Inoltre, soprattutto i Paesi del Nord Africa, furono incentivati ad adottare politiche
migratorie che si adeguassero agli standard europei, comportando così regimi molto più
restrittivi rispetto a quelli precedentemente vigenti (Cuttitta 2006, p. 14). In cambio i
65
Paesi europei attuarono politiche di sostegno esplicite, quali contributi per costruire
centri di detenzione per migranti irregolari, o per incrementare le forze di polizia locale,
oppure mezzi meno espliciti, come ad esempio i sostegni alla cooperazione allo
sviluppo. Nel caso italiano ad esempio, i cui Paesi prediletti per la collaborazione sono
sempre stati Tunisia, Egitto, Algeria e Libia164, si assiste ad una precisa strategia che ha
visto negli ultimi decenni un aumento considerevole dei finanziamenti per programmi di
cooperazione e sviluppo destinati a questi Stati (Cuttitta 2006, p.23).
Una breve analisi meritano le relazioni tra Italia e Libia emblematiche dell'opera di
esternalizzazione e de-responsabilizzazione compiuta dal governo italiano. Nel caso
libico la politica italiana non poteva basarsi, né su quote riservate nei decreti flussi ai
cittadini libici, perché quest'ultimo non è mai stato un Paese d'emigrazione, né su una
strategia di finanziamenti per la cooperazione e lo sviluppo, perché la Libia per anni è
stata isolata nello scenario politico mondiale e soggetta ad embarghi165 (Cuttitta 2006, p.
30). Dunque la strategia che si decise di impiegare fu quella degli accordi bilaterali. Il
primo venne siglato il 13 dicembre 2000 con l'obiettivo di collaborare contro il
terrorismo, la criminalità organizzata e il traffico illegale di droghe e migranti; il
secondo fu un accordo operativo tra le autorità di polizia firmato nel luglio 2003; il
terzo, nel 2004, fu un accordo di riammissione il cui contenuto non venne mai rivelato.
Nel dicembre 2007 venne poi siglato un protocollo di cooperazione che prevedeva
l'aumento dei pattugliamenti congiunti, il dono da parte dell'Italia di sei navi, il cui
personale a bordo sarebbe stato sia italiano che libico (di Pascale 2010, p. 297). Infine
nell'agosto 2008 fu firmato il Trattato di amicizia, dove venne promosso un sistema di
controllo delle frontiere libiche da parte di società italiane ed “operazioni di controllo,
ricerca e salvataggio” nei luoghi di partenza e transito, dunque anche in alto mare
(Malena 2011, p. 51). Di dubbia costituzionalità devono essere considerati questi accordi
che, in base all'art. 10(2) della Costituzione che afferma che lo status dello straniero
deve essere regolato dalla legge in conformità al diritto internazionale e in base all'art.
80 che esige la ratifica parlamentare, avrebbero dovuto avere l'autorizzazione del
Parlamento prima di divenire operativi (di Pascale 2010, p. 299).
164 Si veda per gli accordi stipulati con questi Paesi il rapporto Accesso alla protezione: un diritto umano,
da p. 26 a 30.
165 I rapporti tra Libia e Paesi occidentali sono ripresi alla fine del 2003, quando Mu'ammar al-Gheddafi
annunciò che avrebbe smantellato il proprio programma di armi di distruzione di massa. Nel 2004,
dopo 15 anni, Gheddafi fece visita alla Commissione Europea a Bruxelles e nel giro di breve tempo
l'ultimo embargo stabilito dal'UE nel 1986 viene eliminato (Messineo 2006, p. 98).
66
3- Cattive prassi senza fine: i rinvii dai porti adriatici
La politica italiana adottata nel Mediterraneo appena descritta e la recente condanna da
parte delle Corte EDU, sono conferme della critica situazione che caratterizza le
frontiere esterne meridionali dell'Unione Europea. Vi è però un altro mare, altrettanto
ostico che presenta analoghe pratiche di respingimento.
Si tratta della situazione che interessa i porti del Mare Adriatico che da anni vedono
persone bisognose di protezione, rinviate, o meglio, “riammesse” verso la Grecia. Tale
condotta affonda la sua “legittimità” nell'accordo di riammissione per le persone in
situazione irregolare, firmato da Italia e Grecia nel 1999166. In base a quanto siglato, i
due Stati si impegnano a riammettere un cittadino di un Paese terzo in situazione
irregolare, nel territorio dell'altro, nel caso in cui egli vi abbia precedentemente
transitato; tale azione viene fatta su richiesta della controparte e “senza formalità”
(Malena 2011, p. 51). L'accordo prevede comunque il rispetto della Convenzione di
Ginevra sui rifugiati del 1951 ma, in realtà, dovrebbe essere considerato superato dal
diritto comunitario, in modo particolare dal Regolamento Dublino, trattandosi infatti, di
un accordo bilaterale tra due membri UE su cui dovrebbe prevalere il diritto
comunitario, in quanto entità sovranazionale (Malena 2011, p. 52). Non è un caso che
l'UNHCR abbia più volte raccomandato per le pratiche di riammissione tra Italia e
Grecia l'applicazione dell'art. 3(2) del Regolamento Dublino che permette ad uno Stato
membro di farsi carico della richiesta d'asilo, pur se non gli spetterebbe la competenza 167.
È necessario comunque sottolineare che molte persone bisognose di protezione si
sottraggono volontariamente a questa tutela, sempre perché, a causa del Regolamento
Dublino, sarebbero costrette a restare in Italia, se formalizzassero qui la loro domanda di
asilo. Preferiscono dunque omettere la loro necessità di protezione, nella speranza che
alla prossima traversata possano varcare anche il confine italiano, dirigendosi verso i
Paesi del Nord Europa.
Nelle vicenda che stiamo analizzando, oltre all'accordo di riammissione, troviamo a
giustificazione della prassi dei rinvii, la legislazione italiana in merito agli stranieri a
bordo di vettori (art. 12(6) del T.U. sull'immigrazione): quest'ultimi prima della partenza
hanno l'obbligo di controllare che non si siano imbarcati stranieri sprovvisti della giusta
166 Entrato in vigore il 01/02/01.
167 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, Rapporto a cura
di ASGI, AICCRE, Caritas Italiana, CeSPI, Consorzio Communitas Onlus, 2012, in ww.asgi.it, p. 50.
67
documentazione per varcare i confini del Paese di destinazione. Nel caso in cui i vettori
si accorgano solo durante il viaggio, o una volta raggiunta la destinazione, della presenza
di stranieri in condizione irregolare, devono riferirlo immediatamente alle autorità del
Paese di arrivo e devono ritrasportare lo straniero nel suo Paese di origine, o in quello
che gli ha rilasciato il documento di viaggio (art. 10(3) del T.U. sull'immigrazione) 168.
Analizziamo ora le critiche, provenienti dal terzo settore, in merito alla questione delle
riammissioni. Prima fra tutte è la preoccupazione che l'accordo tra Italia e Grecia non
contempli esplicitamente l'obbligo di non-refoulement, ma solo il rispetto della
Convenzione di Ginevra su rifugiati del 1951169. Inoltre, più volte è stato fatto presente,
che l'assenza di notificazione del rinvio, con l'esplicitazione delle motivazioni che lo
hanno guidato, costituisce un primo grande problema, perché lascia l'atto in balia
dell'arbitrarietà degli agenti di polizia. In merito, va ricordato, che il Codice delle
frontiere Schengen, specifica all'art. 3, di applicarsi sia alle frontiere esterne che interne,
dunque il rispetto dei diritti umani prescritto, dovrebbe trovare applicazione anche nel
caso in questione. Ne consegue che la prassi del rinvio dovrebbe essere considerata, a
tutti gli effetti, un provvedimento di respingimento: necessita quindi di una motivazione
e deve essere consegnato al diretto interessato, non semplicemente registrato dalle
autorità di polizia. A sostegno che la prassi delle riammissioni possa di fatto essere
intesa nei termini di refoulement, troviamo l'opinione concordante del giudice Pinto de
Albuquerque sulla sentenza Hirsi, dove egli specifica che è da intendersi come
respingimento qualsiasi atto di “restituzione”, “trasferimento ufficioso”, o “rifiuto di
ammissione”. Seguendo questa linea interpretativa, non si può fare a meno di
individuare un'ulteriore violazione, quella del divieto di espulsione collettiva, così come
sancita dalla CEDU; risulta infatti evidente che nessun caso sarà analizzato
individualmente, nessuna persona identificata, prima di mettere in atto la procedura 170.
Altra criticità delle pratiche dei rinvii, chiama in causa la legislazione italiana in merito
ai valichi di frontiera: qui devono essere istituti, ove possibile, nell'area di transito,
servizi per fornire informazioni ed assistenza agli stranieri che intendano presentare
domanda di asilo (art.11(6) del T.U. sull'immigrazione)171.
168 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, Rapporto a cura del CIR, Imprinting, Roma, 2013,
p. 21.
169 Ivi, p. 22.
170 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, p. 47.
171 Ricordiamo inoltre le tutele sopra elencate nel paragrafo 1.4, derivanti dalla Direttiva 2013/32/UE,
all'art. 8.
68
“Il fatto che tale disposizione si rivolga esplicitamente a chi intende inoltrare la richiesta
d’asilo è una chiara indicazione che il diritto di informazione debba essere assicurato ai
migranti prescindendo da una formale istanza di asilo, in quanto ciò che deve essere
scrupolosamente tutelato è tanto il principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione
di Ginevra quanto il rispetto dell’articolo 3 della CEDU.”172.
Inoltre si ricordi che la Circolare del 2 maggio 2001 del Ministero dell'Intero, prevede
che tali servizi siano garantiti, non solo, a chi chiede asilo, ma anche a coloro che
potrebbero ricevere una protezione a titolo umanitario e/o temporaneo 173.
Nella prassi però, i servizi ai valichi di frontiera nei porti adriatici non riescono a
garantire queste tutela. Ad eccezione di quello anconetano, negli altri porti la frontiera
marittima è militarizzata, dunque le associazioni di tutela non hanno libero accesso alle
navi e non possono rendersi conto di chi effettivamente arriva e spesso non ne vengono
informate (Vassallo Paleologo 2010, p. 75). Inoltre, a partire dal 2007, le modalità di
affidamento di tali servizi si sono basate su bandi di gara che hanno sempre premiato
l'ente proponente la migliore offerta in termini economici, causando una diminuzione del
numero di operatori e dell'orario di attività dei servizi, rendendo dunque sempre più
difficile un effettivo accesso alle informazioni. Altro problema sorge in merito
all'individuazione dell'area di transito: è difficile da delimitare nei porti, perché non vi
sono disposizioni chiare in merito, dunque, spesso, non si sa se l'obbligo del contatto con
i servizi di tutela debba essere reso effettivo primo o dopo il controllo della polizia 174.
La prassi delle riammissioni tra Italia e Grecia è fortemente criticata anche per un altro
motivo: gran parte dei migranti respinti verso il Paese ellenico, sono minori non
accompagnati. In base al Rapporto dell'associazione Medici per i Diritti Umani, Porti
insicuri, la maggior parte dei minori respinti dichiara di non aver avuto accesso alla
procedura per stabilire la minor età. L'accordo tra Italia e Grecia non prevede alcuna
garanzia per i minori non accompagnati, eludendo completamente la Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo del 1989, già ratificata quando l'accordo è stato
siglato175. Viene completamente dimenticata anche la legislazione italiana che tutela il
172 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, p. 43.
173 Ibidem.
174 Ivi, p. 44.
175 AAVV, Porti insicuri. Le riammissioni dai porti italiani alla Grecia e le violazioni dei diritti
fondamentali dei migranti, Rapporto a cura di MEDU, novembre 2013, p.19.
69
minore non accompagnato dall'espulsione, all'art. 19(2) del T.U. sull'immigrazione,
considerando come unica eccezione solo il caso in cui il minore sia un pericolo per la
sicurezza dello Stato e l'ordine pubblico. Ricordiamo inoltre, che in queste situazioni
dovrebbe valere il “principio del beneficio del dubbio”, espressamente sancito dalla
normativa italiana, che impedisce di allontanare un presunto minore straniero dal
territorio, prima dell'accertamento della sua età176. Altra criticità risiede proprio nella
pratica per stabilire l'età: in Italia non esiste una prassi omogenea in merito e viene
solitamente utilizzato l'esame radiologico del polso, ovvero la misurazione del grado di
maturazione delle ossa del polso-mano, che risulta però alquanto incerta, dato che
ammette un margine di errore di due anni nella determinazione dell'età 177.
Concludiamo infine, ricordando che recentemente, la prassi dei rinvii in Grecia ha
chiamato in causa un'ulteriore violazione delle norme internazionali. Come viene più
volte ribadito dalla Corte EDU, lo Stato che effettuata la misura di allontanamento, deve
assicurarsi che il Paese nel quale la persona sarà riportata non violi gli obblighi
internazionali in materia di diritti umani, in particolare, il principio di non-refoulement e
il divieto di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La già citata sentenza
M.S.S. c. Belgique et Grèce, la cui presa di posizione è stata poi ufficializzata nel
Regolamento Dublino III all'art. 3(2), impedisce di trasferire un richiedente asilo nello
Stato membro competente ad analizzare la sua domanda, se sussistono fondati motivi di
credere che in tale Paese vi siano “carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle
condizioni di accoglienza”, tali da implicare il rischio di trattamento inumano e
degradante.
La Corte EDU è stata inoltre chiamata ad esprimersi sul caso Sharifi e altri c. Italia e
Grecia, coinvolgente 32 persone, afgani, sudanesi, eritrei, tra cui minori, che denunciano
di essere stati respinti dai porti adriatici verso la Grecia in momenti diversi, senza aver
avuto possibilità di accedere alla procedura d'asilo ed entrare in contatto con avvocati e
rivendicano inoltre maltrattamenti da parte delle autorità di polizia. Viene dunque
chiamata in causa la violazione degli artt. 2, 3, 13 e 34 della CEDU e quella dell'art.4 del
Protocollo addizionale n°4. Il 24 giugno 2009 la Corte EDU comunicò ad Italia e Grecia
il ricorso in questione, n° 16649, presentato il 25 marzo dello stesso anno, con una
previsione di pronuncia entro il 2012. Ad oggi la Corte non si è ancora espressa,
rischiando probabilmente la dispersione e la perdita di contatto tra i ricorrenti e gli
176 Ibidem.
177 Ivi, p. 20.
70
avvocati che hanno impugnato la causa. Come messo in evidenza nel secondo capitolo,
tali tempistiche rappresentano un punto debole della Corte e non è un caso che ne
abbiano già fatto le spese i ricorrenti del caso Hirsi: dei 24 ricorrenti, nel momento in
cui la sentenza è stata pronuncia, gli avvocati erano riusciti a rimanere in contatto solo
con sei persone. Due sono deceduti dopo il respingimento verso Libia e di sedici
ricorrenti sono stati persi i contatti dopo la crisi libica del 2011. Inoltre tra i sei ricorrenti
rimasti, solo uno, Ermias Berhane riconosciuto rifugiato il 21 giugno 2011 dalla
Commissione territoriale di Crotone, ha ottenuto il risarcimento in denaro che, in base
alla sentenza, il governo italiano deve pagare ad ogni ricorrente. Le altre cinque persone
che si trovano fuori dall'Italia178 non riescono per il momento ad avere il rimborso
stabilito, in quanto il governo italiano chiede documentazioni quali un codice fiscale, un
attestato di esistenza, un conto corrente, elementi che evidentemente non possono essere
facilmente forniti da chi risiede in un altro Paese 179.
Per concludere questa analisi delle politiche dei respingimenti che hanno caratterizzato
l'ultimo decennio dell'atteggiamento italiano nei confronti delle migrazioni, ricordiamo
misure simili adottate anche nei confronti di altre categorie di cittadini stranieri.
Dimostrano numerosi rapporti internazionali e il giudizio di François Crépeau180, che
egiziani e tunisini sono categorie di migranti estremamente a rischio di respingimento in
Italia. Risulta infatti, che essi appena intercettati vengono identificati dalle loro rispettive
autorità consolari e nel giro di 48 ore dall'ingresso rimpatriati. Nelle 48 ore vengono
solitamente trattenuti presso i Centri di primo soccorso ed accoglienza e quelli di
identificazione ed espulsione senza alcuna convalida giudiziaria181. I respingimenti nei
confronti di tunisini ed egiziani sono condotti da molti anni e mai sono stati messi in
discussione, né prima, né dopo la cosiddetta primavera araba, perché solitamente,
Tunisia ed Egitto non sono Paesi dai quali provengono potenziali richiedenti asilo. È
stato però messo in evidenza nel presente lavoro, che la protezione non è limita alla sola
178 All'epoca della sentenza il ricorrente Habtom Tsegay si trovava nel campo di Choucha, in Tunisia,
Kiflom Tesfazion Kidan risiedeva a Malta; Hayelom Mogos Kidane e Waldu Habtemchael si
trovavano in Svizzera, dove attendevano una risposta allo loro domanda di protezione internazionale;
Roberl Abzighi Yohannes era in Benin.
179 Intervento dell'avvocato Lana che ha seguito il ricorso Hirsi, al convegno Access to protection: a
human right, organizzato dal CIR a Roma, il 15 ottobre 2013.
180 Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti, che ha condotto una missione in
Italia tra il 30 settembre e l'8 ottobre 2012, a seguito della quale ha espresso forti preoccupazioni in
merito agli standard di tutela dei diritti dei migranti in Italia.
181 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, pp. 36.
71
sancita dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, quindi anche tra tunisini ed
egiziani potrebbero esserci persone bisognose di tutela. Non prendendo in
considerazione caso per caso le singole storie personali, questo non potrà mai essere
accertato e di conseguenza come ha insegnato la sentenza Hirsi, ciò implica una
violazione del non-refoulement.
4- Le ultime vicende nel Mar Mediterraneo
Le questioni finora affrontate non trovano purtroppo facile risoluzione e sono
dimostrazione di una volontà sovranazionale, quella europea, che difficilmente riesce a
trovare un compromesso con gli Stati-nazione che non vogliono limitare i propri diritti
di scelta in materia d'immigrazione, in particolare di accesso al loro territorio, ma che
difficilmente riesce a coniugare anche le sue stesse esigenze di sicurezza, in base alle
quali più volte è stata etichettata come “Fortezza Europea”. Dall'altro lato, si trova una
volontà nazionale, soprattutto espressa dai Paesi che rappresentano le frontiere esterne
dell'Unione, che richiedono a gran voce che l'Europa riservi loro un trattamento speciale
e conceda loro supporto, anche economico, per il controllo delle frontiere.
La situazione italiana è particolarmente critica in questo momento storico di grandi
afflussi via mare di migranti, la cui maggior parte risulta provenire da Paesi quali
l'Eritrea, la Somalia e la Siria, che notoriamente rappresentano Stati dai quali si fugge
per chiedere protezione182.
Lampedusa è oramai da anni una frontiera di estrema criticità e non a caso, nel 2006 il
Ministero dell'Interno ha dato avvio al progetto Praesidium “Potenziamento
dell'accoglienza dei flussi migratori che interessano Lampedusa”, in collaborazione con
la CRI, l'OIM, l'UNHCR e Save the Children. Il Ministero dell'Interno fu sicuramente
spronato da una risoluzione del Parlamento Europeo (aprile 2005) che criticava le
espulsioni collettive che venivano costantemente attuate da Lampedusa verso la Libia, a
seguito dell'accordo di riammissione siglato nel 2004183. Nel 2007 il progetto fu
riproposto coinvolgendo altri punti strategici di sbarco in Sicilia, dove le autorità delle
organizzazioni sopra citate avrebbero dovuto presidiare; e nel 2008 luoghi di interesse
divennero anche Puglia, Calabria e Sardegna. Lo scopo degli operatori di Praesidium è
fornire informazioni e consulenza a chi è appena arrivato, individuando i soggetti
vulnerabili e dando supporto agli operatori dei centri in cui i migranti vengono sistemati
182 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, pp. 11-12.
183 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, p. 53.
72
subito dopo lo sbarco184. Di anno in anno il progetto si è ampliato coinvolgendo anche
altre regioni come le Marche e la Campania ed è arrivato nel 2013 alla sua VIII edizione.
Le ultime vicende di Lampedusa non smentiscono il quadro, purtroppo consolidato da
anni. Lo scorso 3 ottobre si è parlato di strage, di tragedia, di lutto nazionale: centinaia
di migranti, sono rimasti vittime di un incendio divampato sulla barca che li stava
portando verso Lampedusa, a mezzo miglio dell'isola dei Conigli. 368 è stata la stima
dei morti di quel giorno185, più della metà di coloro che erano a bordo, a cui ne sono
seguiti altri nel successivo naufragio della notte dell'11 ottobre186. L'evento ha ottenuto
una risonanza epocale, nonostante da tempo, oramai, le coste di Lampedusa e il mare
che le circonda lasciano affiorare quotidianamente cadaveri di migranti 187.
L'Italia si è indignata e dal 31 gennaio al 2 febbraio associazioni e movimenti di varia
natura si sono incontrati sull'isola per stilare La Carta di Lampedusa, volta a proporre
azioni comuni di sensibilizzazione che possano influenzare l'opinione politica sui
repentini cambiamenti da attuare per evitare altre tragedie. Parallelamente si è creato il
Comitato 3 ottobre, che ha l'obiettivo di istituire in quella data la Giornata nazionale
della memoria e dell'accoglienza, che vede già in atto una proposta di legge presentata
alla Camera. Dall'altro lato, è l'opinione politica che si è indigna, nei confronti
dell'Europa, che costringe i Paesi che gestiscono le frontiere esterne ad atteggiamenti
poco coerenti. È questa l'opinione del Prefetto Compagnucci, Vice Capo Dipartimento
per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'Interno che sottolinea la
confusione tra attività di soccorso e controllo prescritte dall'Unione Europea ed attacca i
Paesi dell'Europa centro-settentrionale che percepiscono la condizione del Mediterraneo
come un problema italiano e non europeo188. La retorica della condivisione delle
responsabilità è quella che ha sempre guidato la difesa dell'Italia negli ultimi anni, non è
un caso che dopo la “tragedia”, nel Consiglio dei Ministri del 9 ottobre scorso, il
governo ha predisposto il decreto legislativo volto all'attuazione della Direttiva
184 Ivi, p. 54.
185 In http://www.meltingpot.org/La-Carta-di-Lampedusa-Dal-31-gennaio-al-2-febbraio
2014.html#.UvZDNCgW4Vp (consultato il 06/02/14).
186 In
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/10/12/news/lampedusa_barcone_rovesciato_recuperati_34_c
orpi_206_superstiti-68420574/ (consultato il 06/02/14).
187 Si veda in proposito la meticolosa rassegna stampa proposta da Fortress Europe, osservatorio sulle
vittime di frontiera (http://fortresseurope.blogspot.co.uk/).
188 Intervento del Prefetto Riccardo Compagnucci al convegno Access to protection: a human right,
organizzato dal CIR a Roma, il 15 ottobre 2013.
73
2011/51/UE che consente il rilascio del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di
lungo periodo anche ai rifugiati che finora ne erano esclusi, decreto che è stato
approvato lo scorso 17 dicembre189. Lo stesso Ministro dell'Interno Alfano, al Consiglio
di Giustizia e Affari Interni, tenutosi in Lussemburgo l' 8 ottobre 2013, ha parlato di
Lampedusa come di una questione europea, non solo italiana. Ugualmente il Presidente
del Consiglio Letta, in una comunicazione del 23 ottobre 2013 alle Camere, ha
sottolineato che per troppi anni l'Unione è stata distante dall'Italia ed è ora arrivato il
momento che faccia di più 190.
Conseguenza di queste vicende è stata la repentina approvazione del Regolamento n°
1052/2013 che istituisce il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur),
adottato lo scorso 10 ottobre. Dalla lettura del documento risulta evidente, a differenza
del Regolamento che aveva istituito l'agenzia Frontex, la consapevolezza delle tragiche
condizioni che caratterizzano le frontiere esterne del Mediterraneo: il controllo delle
frontiere non è necessario solo per la sicurezza dello Stato-nazione, ma anche per
garantire quella dei migranti. Infatti, al considerando 1 viene così definito lo scopo di
Eurosur: “rafforzare” lo scambio di informazioni e la cooperazione tra gli Stati membri e
con Frontex, al fine di combattere “l'immigrazione clandestina” e al fine di “contribuire
a garantire la protezione e la salvezza della vita dei migranti” e, ovviamente, di coloro
che necessitano di protezione191. Sempre con la consapevolezza delle ultime vicende che
hanno interessato il Mediterraneo, il Regolamento raccomanda il rispetto del diritto
internazionale, specificando le convenzioni riguardanti il diritto del mare (considerando
25) e, nei casi di cooperazione con Paesi terzi, viene puntualizzato che la gestione delle
attività deve prevedere il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare dell'obbligo di
non-refoulement (considerando 15). Infine, precisazione importate che non può non
ricordare i famosi patti nascosti tra Italia e Libia, è quella che prevede la notificazione
immediata alla Commissione degli accordi bilaterali stipulati con Stati terzi al fine della
cooperazione per il controllo delle frontiere.
Inoltre, sempre il Parlamento Europeo, il 23 ottobre scorso ha adottato una risoluzione
nella quale è stato precisato che: gli Stati interni devono seriamente prendere in
considerazione l'art. 3(2) del Regolamento Dublino III e mettere in atto progetti di
189 In http://www.integrazionemigranti.gov.it/newsletter/Documents/newsletter_11_novembre_2013.pdf
(consultato il 30/11/13).
190 Ibidem.
191 Viene infatti specificato al considerando 3: “È riconosciuto nel presente regolamento che le rotte
migratorie sono percorse anche da persone che necessitano di protezione internazionale”.
74
ricollocazione dei rifugiati, così da non sovraccaricare eccessivamente i sistemi di
accoglienza dei Paesi esterni. Il Parlamento raccomanda l'attuazione di strategie di
accesso sicuro per i migranti al sistema d'asilo europeo, vede negli accordi con i Paesi di
transito un punto nevralgico della futura politica in materia di immigrazione, infine,
puntualizza che mai l'azione di soccorso in mare costituisce un'azione sanzionabile 192.
Dal canto suo l'Italia non è stata da meno. A seguito degli eventi del 3 ottobre, il governo
italiano ha predisposto una serie di misure di “emergenza”, stanziando 210 milioni di
euro per far fronte agli sbarchi193. Da un lato, sembra restare perennemente salda la
retorica dell'emergenza, nonostante da diversi decenni l'Italia sia Paese d'immigrazione e
di asilo, senza pensare a proposte di legge organiche in merito. Dall'altro, resta salda la
retorica della sicurezza, sia a livello europeo che nazionale. Infatti, nel Consiglio di
Giustizia e Affari Interni dell' 8 ottobre scorso, sopra richiamato, l'Italia ha chiesto una
maggiore efficacia nell'azione di sorveglianza di Frontex, inoltre, a solo quattro giorni
dall'approvazione di Eurosur, il governo ha dato inizio all'operazione Mare Nostrum.
Operazione definita come una “missione militare ed umanitaria” che prevede un
pattugliamento che si spinge fino alle coste Nord-africane, così da cogliere in flagranza
di reato i trafficanti di uomini194. Inizialmente, la fine di Mare Nostrum era stata fissata
per il 2 dicembre, invece, nella seconda metà di gennaio, è stato addirittura previsto
l'utilizzato di altre due navi per l'operazione 195.
Mare Nostrum ha subito scatenato una serie di perplessità da parte degli enti di tutela dei
migranti: permane l'ambiguità tra il soccorso e il controllo, più volte messa in evidenza
in questo lavoro, lo dimostra la stessa definizione dell'operazione, detta umanitaria e al
tempo stesso militare. A conferma di quest'ultimo carattere piuttosto che del primo,
troviamo l'impiego di mezzi, quali ad esempio le fregate lanciamissili. Preoccupa inoltre,
il destino dei migranti salvati. È evidente che su navi militari del genere non ci sarà la
possibilità, né tanto meno il personale adatto per un'identificazione ed una valutazione
caso per caso della situazione dei naufraghi196. Inoltre, il Ministro dell'Interno Alfano,
192 In http://www.integrazionemigranti.gov.it/newsletter/Documents/newsletter_11_novembre_2013.pdf
(consultato il 30/11/13).
193 In http://www.immigrazioneoggi.it/daily_news/notizia.php?id=005764#.UvZPFSgW4V (consultato il
06/02/14).
194 CAPRARA G., L'operazione Mare Nostrum, in Eurasia, in http://www.eurasia-rivista.org/loperazionemare-nostrum/20335/, 04/11/13 (consultato il 03/01/14).
195 In http://www.marina.difesa.it/attivita/operativa/Pagine/MareNostrum.aspx (consultato il 06/02/14).
196 VASSALLO PALEOLOGO F., Mare Nostrum – Luci ed ombre sulle modalità operativa, in
http://www.meltingpot.org/Mare-Nostrum-Luci-ed-ombre-sulle-modalitaoperative.html#.UtUe6SgiIVp, 28/10/13 (consultato il 03/01/14).
75
nella conferenza stampa di presentazione dell'operazione, ha affermato che i migranti
soccorsi saranno condotti in un porto sicuro, non necessariamente in Italia. L’ex capo di
Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico, neo-presidente della
Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis) ha esplicitamente
augurato una seria politica di collaborazione con la Libia, così da permettere ai droni
(mezzi aerei) di arrivare ad effettuare il controllo fino alle coste libiche197. Entrambe
queste dichiarazioni destano preoccupazione, perché si prefigura una situazione poco
chiara, come quella che ha permesso fino a questo momento la pratica dei respingimenti.
Va comunque riconosciuto che, dal suo inizio, Mare Nostrum ha salvato numerose vite
in mare: la stima, al 25 gennaio 2014, è di 8020 persone 198.
A seguito di un afflusso del genere, sono ovviamente scattate misure eccezionali di
accoglienza: il 10 gennaio 2014 il Ministero dell'Interno ha inviato una circolare ai
prefetti incitandoli ad individuare strutture adatte per l'accoglienza, in attesa dell'uscita
delle graduatorie Sprar199. Il Ministero consiglia di non affidarsi a strutture alberghiere,
reduce probabilmente della mala gestione che negli ultimi anni ha riguardato le strutture
di “emergenza”, spesso attivate tramite la cosiddetta legge Puglia200. Quest'ultima, ai
suoi esordi, venne concepita per la gestione dei flussi migratori provenienti dall'Est
Europa, con particolare riferimento agli sbarchi albanesi sulle coste pugliesi. Però, con il
successivo regolamento di attuazione n. 233 del 1996, venne data ai Prefetti la
possibilità di attivare, su tutto il territorio nazionale, strutture provvisorie per stranieri
irregolari, al fine di identificarli ed espellerli, o, nel caso ad esempio di richiedenti asilo,
di regolarizzare la loro situazione201. Questo, a ben vedere comporta una situazione
alquanto precaria e difficilmente controllabile: la neonata struttura potrebbe durate pochi
giorni, o molti mesi, è faticoso il suo controllo a livello nazionale, proprio per
l'arbitrarietà che viene lasciata al prefetto, non è ben chiara la “tipologia” del centro e
197 MAZZEO A., Riflessioni critiche sull'Operazione Mare Nostrum, in Scienza e Pace, in
http://scienzaepace.unipi.it/index.php?option=com_content&view=article&catid=33:articoli-focus-n12013&id=154:guerra-ai-migranti-e-alle-migrazioni, 12/12/13(consultato il 03/01/14).
198 In http://www.cir-onlus.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1054:operazionemare-nostrum-salvati-finora-8-020-migranti&catid=13&Itemid=143&lang=it (consultato il 06/02/14).
199 Lo Sprar è il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che si pone come obiettivo
un'accoglienza integrata, volta a realizzare un percorso di autonomia per i beneficiari. La Sprar è
finanziato dal Ministero per l'Interno con bandi triennali e le graduatorie per il 2014-2016 sono state
pubblicate il 29 gennaio scorso, acconsentendo ad un notevole aumento dei posti riservati ai
beneficiari.
200 Decreto legge n° 451 del 30 ottobre 1995, convertito in legge n° 563 del 29 dicembre 1995.
201 In http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2005/luglio/decr-mininterno-2331996.html (consultato il 12/12/13).
76
dunque neanche le tutele che dovrebbero esservi garantire all'interno. Nel caso in
questione, per la nuova emergenza scatenata dai soccorsi dell'operazione Mare Nostrum,
il Ministero consiglia alle prefetture di affidarsi, nella scelta delle strutture, ad enti
pubblici, o del privato sociale, prediligendo quelle realtà che hanno già gestito progetti
all'interno del sistema Sprar202. Le persone così accolte dovranno avere diritto ad una
accoglienza materiale di base, rispettosa delle loro abitudini culturali203, in più, alla
mediazione linguistica, all'informazione e ad un primo orientamento per la
formalizzazione della domanda di protezione 204.
Concludiamo questo resoconto sull'attuale situazione italiana, con una puntualizzazione
sul sistema di accoglienza nazionale. È inevitabile non pensare che, se in tre mesi,
considerando tra l'altro che siamo in stagione invernale, sono state soccorse più di 8000
persone, i numeri non faranno che aumentare e parallelamente dovrebbero essere
incrementati anche i posti di accoglienza. Il sistema italiano rischia dunque di scoppiare,
visto che si trova, già per sua natura, sotto costante pressione. Ricordiamo infatti che,
per la prossima triennalità, è stato confermato un aumento dei posti Sprar, da 3000 a
16000 unità, un numero sicuramente significativo, a cui però dovrebbe corrispondere un
altrettanto incremento di qualità dei servizi. Infatti, nonostante lo Sprar abbia le giuste
doti per proporre un'accoglienza integrata, finora i limitati posti concessi hanno lasciato
la maggior parte dei potenziali beneficiari in una situazione di abbandono. Inoltre lo
Sprar nel corso degli anni ha supplito alla mancanza di un sistema di asilo unico: questo
ha fatto sì che durante le emergenze, come sta accadendo anche in questo momento, il
sistema abbia accolto più persone di quelle per cui erano stanziate risorse 205. Allo stesso
modo, anche in assenza di emergenze, lo Sprar è stato spesso chiamato a supplire alle
carenze dei servizi socio-educativi-assistenziali, infatti certi beneficiari richiedono anche
un intervento di tipo socio-sanitario che il Sistema per sua natura non dovrebbe
fornire206.
Considerato tutto questo, non stupisce che il 9 luglio 2013 una sentenza del Tribunale
202
Circolare
del
Ministero
dell'Interno
n°
104,
dell'
8
gennaio
2014,
in
http://www.meltingpot.org/IMG/pdf/circolare_gennaio_2014.pdf (consultato il 06/02/14).
203 Vitto, alloggio, biancheria, abbigliamento adeguato alla stagione, prodotti per l'igiene, una tessera
telefonica di 15 euro al momento dell'ingresso, 2,5 euro giornalieri di pocket money. (Circolare del
Ministero dell'Interno n° 104, dell' 8 gennaio 2014).
204 Circolare del Ministero dell'Interno n° 104, dell' 8 gennaio 2014.
205 GIOVANETTI M., OLIVIERI M.S. (a cura di), Tessere l'inclusione: territori, operatori, rifugiati,
Rapporto del Servizio Centrale, luglio 2012, pp. 40-41.
206 Ivi, pp. 42-43.
77
amministrativo di Francoforte abbia impedito, sulla base dell'art. 3(2) del nuovo
Regolamento Dublino, il trasferimento verso l'Italia di un richiedente asilo che qui era
stato inizialmente fotosegnalato. Il Tribunale afferma che l'accoglienza dei richiedenti
asilo in Italia, in particolare dei cosiddetti “dublinati”, verte in condizioni alquanto
penose, che rischiavano di esporre il ricorrente ad una situazione di abbandono tale da
costituire un trattamento inumano e degradante. Il caso inoltre risulta emblematico
perché il ricorrente ha subito un prelievo forzato delle impronte digitali, pratica, che
aveva già caratterizzato un gruppo di eritrei trattenuti a Lampedusa nella primavera 2013
e, in seguito, intere famiglie siriane che sono state trattenute nei centri provvisori creati
con la legge Puglia, finché non hanno acconsentito al prelievo. Il Tribunale di
Francoforte in proposito ha espresso un'importante dichiarazione: la presenza delle
impronte digitali all'interno del sistema EURODAC non è prova sufficiente che la
persona abbia chiesto asilo nel primo Paese d'ingresso, è necessario che vi sia un atto
formale e sottoscritto, dove il soggetto esprima la sua volontà di chiedere protezione207.
Non si tratta della prima sentenza da parte di Tribunali tedeschi in merito alle condizioni
del sistema d'accoglienza dei richiedenti asilo in Italia. Tutte hanno rilevato numerose
criticità in merito: la sovente assenza di interpreti e mediatori nella fase subito
successiva all'ingresso, la pessima condizione alloggiativa che costringe molti
richiedenti asilo a divenire dei senzatetto, l'eccessiva durata della procedura che
rappresenta un forte limite nei casi di ricongiungimento con familiari che non si trovano
in condizioni di sicurezza.
Nonostante l'ampliamento dei posti riservati allo Sprar, nonostante l'ingente
finanziamento di 210 milioni di euro prima annunciato, di cui una parte riservata alla
tutela dei minori stranieri, nonostante il controllo degli operatori di Praesidium, l'Italia
sembra ancora un Paese non sicuro per i richiedenti asilo. Non può cadere nel
dimenticatoio l'evento che ancora una volta ha messo in luce le carenze del sistema di
accoglienza e che, per l'ennesima volta, ha portato Lampedusa sulle prime pagine della
stampa nazionale. Ci riferiamo alle immagini del CPSA di Lampedusa, dello scorso
dicembre, dove i migranti sono stati tenuti al freddo, bagnati e svestiti, mentre erano
sottoposti al trattamento anti scabbia, malattia probabilmente contratta nel centro, dato
che nessuno di loro al momento dell'arrivo era infetto. Immagini che hanno nuovamente
207 VASSALLO PALEOLOGO F., L'Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, in
http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Commento_Vassallo.pdf, 07/10/13 (consultato il
05/11/13).
78
indignato l'Italia che dimostrano i molti passi ancora da fare nella direzione di
un'effettiva accoglienza e tutela dei diritti.
5- Il diritto ad avere diritti
Già nel 1951 quando scrisse Le origini del totalitarismo Hannah Arendt individuava la
perdita del diritto di avere diritti, come una mancanza del diritto d'azione, anche politica,
e della perdita della relazioni di un individuo all'interno della comunità. Nella piramide
gerarchica dei diritti umani, il diritto ad avere diritti, dovrebbe essere all'apice della
struttura, perché senza di esso nessun altro può essere goduto. Come ben rivendica il
giudice Pinto de Albuquerque, il caso Hirsi non ha semplicemente chiamato in causa la
compatibilità della protezione e delle politiche di controllo delle frontiere, ma ha posto
una questione di fondamento, ovvero se “l'Europa debba riconoscere ai rifugiati 'il diritto
di avere diritti'”208, diritto che deve infatti essere assicurato dalla comunità stessa, sia
essa locale o globale, e che nulla ha di naturale e predeterminato.
Nel corso dell'ultimo decennio è risultato evidente che le pratiche di esternalizzazione
dei controlli delle frontiere abbiano impedito il godimento del diritto d'asilo, o meglio di
accedere ad una procedura d'asilo. Per trovare soluzione a questa evidenza a livello
istituzionale è stato incentivato il dibattito su procedure che potessero coniugare
l'esigenza del controllo a quella del diritto.
Nel 2003 la Gran Bretagna presentò la proposta alla Commissione Europea di creare
delle “regional protection areas” in Paesi prossimi all'Europa, presumibilmente di
transito, con l'obiettivo di esaminare lì le domande d'asilo e in caso concedere una
protezione in loco e solo raramente dare accesso a programmi di reinsediamento in
Europa. La seconda proposta riguardava la costruzione nei Paesi di transito di “transit
processing centres” dove rinviare i richiedenti asilo giunti in Europa e lì esaminare le
loro domande (Schiavone 2006, p. 155). La proposta britannica risulta ovviamente
radicale, compiendo una vera e propria delocalizzazione delle procedure d'asilo. La
contro-proposta fu subito sviluppata dall'UNHCR con l'obiettivo di creare un
meccanismo che permettesse di distinguere coloro che necessitano di protezione da altre
tipologie di migranti. Gli strumenti proposti per raggiungere tale fine sono stati:
incentivare l'esame della domanda nei Paesi di primo asilo, definire accordi di
riammissione specifici in merito, stabilire una lista di Paesi sicuri di origine così da poter
208 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
79
facilmente individuare le domande manifestamente infondate, raccogliere tutti coloro
che si trovano in questa situazione in centri chiusi appositamente adibiti vicino le
frontiere esterne dell'UE (Schiavone 2006, p. 157). Nel 2004, a seguito di altre proposte
di
esternalizzazione
della
procedura
d'asilo,
il
Parlamento
Europeo
rifiutò
perentoriamente queste iniziative, ricordando che l'accoglienza di chi chiede asilo è un
obbligo che non può essere eluso (Schiavone 2006, p. 165). Al contrario il Parlamento,
adotterà da quel momento in poi una strategia volta a promuovere le “procedure di
ingresso protetto” nel territorio dell'Unione. In un periodo di decisivo incremento della
politica dei respingimenti, il Parlamento emise un'altra risoluzione (10 marzo 2009) sul
futuro del sistema europeo comune di asilo, dove affermava di prendere “atto con grande
interesse dell'idea di istituire 'procedure di entrata protetta' e incoraggia[va] fermamente
la Commissione a farsi carico delle modalità concrete e delle implicazioni pratiche di
questo tipo di misure” (par. 49). In seguito, nel caldo periodo tra 2011 e 2012, che ha
caratterizzato la crisi libica, numerose ONG ed enti del Terzo settore hanno riproposto a
gran voce l'istituzione di tali procedure, non ottenendo però risposte concrete.
La “tragedia” di Lampedusa ha riportato all'attenzione del dibattito pubblico le
“procedure di accesso protetto”. Infatti nella Risoluzione 2013/2827, dello scorso
ottobre, il Parlamento Europeo mostra preoccupazione per
“il crescente numero di persone che rischia la vita intraprendendo pericolose traversate del
Mediterraneo verso l'UE; invita gli Stati membri ad adottare misure che consentano ai
richiedenti asilo di accedere in maniera sicura ed equa al sistema di asilo dell'Unione;
rileva che l'ingresso legale nell'UE è preferibile all'ingresso irregolare (…); incoraggia gli
Stati membri a sopperire alle necessità impellenti attraverso il reinsediamento, in aggiunta
alle quote nazionali esistenti, e l'ammissione per motivi umanitari;”209.
Il reinsediamento di cui parla il Parlamento permette di trasferire il rifugiato dal Paese di
primo asilo ad un altro che accetta di accoglierlo. Tale procedura garantirebbe un arrivo
ordinato dei rifugiati, non più tramite flussi misti, e nonostante sia stato uno strumento
molto proficuo in passato, risulta completamente in disuso oggi. Molti Stati infatti,
obiettano che il reinsediamento non comporta un'effettiva diminuzione del traffico
irregolare dei migranti, perché non si pone come unica alternativa all'accesso alla
209 Risoluzione n° 2013/2827 del Parlamento Europeo sui flussi migratori nel Mediterraneo, con
particolare attenzione ai tragici eventi al largo di Lampedusa, 23/10/13, parr. 21-22.
80
procedura d'asilo, quindi molti rifugiati continuerebbero ad auspicare un arrivo diretto
sul territorio europeo. Nell'ottica del bilanciamento dei valori andrebbe individuata una
priorità: nel caso in specie l'accesso sicuro alla protezione. Ricordiamo infatti, che
l’obbligo di non-refoulement ha due conseguenze procedurali: “il dovere di informare lo
straniero sul suo diritto di ottenere una protezione internazionale ed il dovere di offrire
una procedura individuale, equa ed effettiva che consenta di determinare e valutare la
qualità di rifugiato”210. Tali garanzie nell'attuale sistema di asilo europeo, che non
riconosce l'asilo diplomatico, sono realizzabili solo tramite un accesso sicuro alla
protezione, dunque al territorio.
La seconda alternativa per consentire un ingresso protetto sarebbe infatti quella di
permettere ai rifugiati di ottenere un visto presso le ambasciate o le rappresentanze
consolari dello Stato in cui vorrebbero espatriare; questo consentirebbe loro di viaggiare
legalmente verso il Paese d'asilo. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati ha chiesto, alla
vigilia del Consiglio Europeo del 23/24 ottobre scorso, per chi è bisognoso di protezione
l'apertura di “canali di ingresso legale e protetto al territorio dell'Unione” 211. Allo stesso
modo, Progetto Melting Pot Europa, associazione di tutela e promozione dei diritti,
rivendica l'apertura di canali umanitari che permettano di richiedere asilo direttamente
presso le autorità diplomatiche presenti nei Paesi terzi, senza costringere chi necessita di
protezione ad imbarcarsi illegalmente ed alimentare il traffico e la tratta di esseri
umani212. Luigi Maconi, Presidente della Commissione straordinaria dei diritti
dell'uomo, preferisce parlare di “presidi”, piuttosto che di “canali umanitari”, perché
l'esigenza è di organizzare una partenza sicura: la protezione non può iniziare a
Lampedusa, ma prima, nei Paesi di origine e transito 213.
Tutti restano inoltre convinti che pratiche del genere se fatte nel rispetto della normativa
europea, non si tradurranno in una misura di delocalizzazione dell'asilo, tanto meno in
una perdita di garanzie per la protezione.
Purtroppo tale soluzione non risolve il problema di moltissime persone che come
dimostrano le sentenze e le decisioni della Corte EDU, non chiedono asilo, ma
210 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
211 In http://www.cir-onlus.org/index.php?option=com_multicategories&view=article&id=913:cirappello-al-consiglio-europeo-per-aprire-canali-di-ingresso-protetto-ineuropa&catid=37&Itemid=142&lang=it (consultato il 06/02/14).
212 In http://www.meltingpot.org/Appello-per-l-apertura-di-un-canale-umanitario-finoall.html#.UvfEASgW4Vp (consultato il 06/02/14)
213 Intervento di Luigi Maconi al convegno Access to protection: a human right, organizzato dal CIR a
Roma, il 15 ottobre 2013.
81
comunque dovrebbero essere tutelati rispetto ad ogni forma di refoulement (GoodwinGill, McAdam 2007, p. 376). Inoltre, non per tutti l'accesso ad organi governativi risulta
così semplice: tanto dipende dal luogo dove si vive e dalle condizioni delle vie di
comunicazione della zona, o addirittura del genere della persona che può, a seconda dei
casi, limitare o agevolare il movimento e il contatto con organi statali.
Attualmente dunque le due soluzioni che sembrano garantire un accesso sicuro alla
protezione sono i programmi di reinsediamento e l'asilo diplomatico. Per quanto
riguarda il primo, sembra una via difficile da percorrere, perché si fonda sullo spirito di
solidarietà tra gli Stati dell'Unione che, quando si tratta di migrazione, sembrano
tutt'altro che solidali. In proposito, basti ricordare quando la Francia minacciò nel 2011
di ristabilire la sua frontiera interna per bloccare la “fuga” dall'Italia di migliaia di
tunisini, a cui il governo italiano aveva concesso dei permessi temporanei per circolare
nell'area Schengen. Per quanto riguarda l'asilo diplomatico esso non ha ancora trovato
spazio nel diritto comunitario. Infatti una definizione giuridica di questa tipologia di
asilo esiste solo nel continente americano. Qui è stata praticata frequentemente,
soprattutto in America Latina, e ha trovato codifica in trattati risalenti alle fine
dell'Ottocento e nella più recente Convenzione di riferimento del 1954 adottata
dall'organizzazione degli Stati Americani, che contempla però l'asilo diplomatico solo
nei casi di persecuzione per motivi o reati politici.
82
Conclusione
Nell'indagare le garanzie relative al principio di non-refoulement e il loro entrare in
contrasto con l'esigenza di sicurezza nazionale degli Stati, la discussione si è conclusa
riportando la rivendicazione da parte degli enti di tutela dei migranti del diritto
all'accesso alla protezione, ovvero di un diritto ad avere diritti. Quest'ultimo termine
nasce dalla riflessione di Hannah Arendt sui regimi totalitari che spogliano l'individuo
dal diritto di appartenere all'umanità, diritto che dovrebbe essere garantito dall'umanità
stessa. Tale concetto oggi viene sempre più impiegato per descrivere la precaria
condizione giuridica dei migranti, siano essi irregolari o potenziali richiedenti asilo. Chi
non possiede uno status infatti, non ha la possibilità di godere dei diritti civili, politici e
sociali, ma paradossalmente, nel mondo contemporaneo, neanche di quelli umani.
Questa è la conclusione a cui molti accademici ed intellettuali sono giunti: si pensi al
concetto di non-persone del sociologo Alessandro Dal Lago, a quello di nuda vita del
filosofo Giorgio Agamben, ma anche a quello di doppia assenza del sociologo
Abdelmalek Sayad. Ognuno di questi autori declina ovviamente con peculiarità diverse
la riflessione in questione. Nel caso di Sayad si tratta di un'esclusione sociale, piuttosto
che giuridica, che porta il migrante ad essere assente sia nella sua società d'origine, che
in quella d'accoglienza, sperimentando la condizione di estraneazione da ogni relazione
sociale che mette a dura prova il proprio riconoscimento identitario. Il concetto di nonpersone di Dal Lago chiama in causa invece le regole dello Stato-nazione, basate sul
vincolo imprescindibile della cittadinanza e del godimento dei diritti che essa comporta.
Dal Lago non può prescindere dalla riflessione della Arendt e definisce la persona come
“l'insieme di attributi sufficienti a fare di un essere umano un uomo tra gli uomini”214.
La storia, come ricorda Dal Lago, ci ha insegnato che tali attributi non sono riconosciuti
a priori, ma dettati dall'appartenenza alla specie umana, quando questa appartenenza
viene meno, si diventa non-persona. Infine la riflessione di Agamben richiama
l'immagine dei campi profughi, dove i rifugiati vengono tenuti in una situazione di
“nuda vita”, ovvero di privazione sostanziale di diritti. Tutte queste espressioni sono
simbolo di una condizione dove il godimento dei diritti umani, che dovrebbero essere
riconosciuti per loro definizione ad ogni persona, indipendente dall'appartenenza
nazionale, è vincolato dal consenso di una società, locale o globale che sia.
214 DAL LAGO A., Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano,
2006, p. 208.
83
Nel caso in questione il diritto all'accesso alla protezione, che si realizza
preliminarmente tramite l'obbligo di non-refoulement, è riconosciuto dal diritto
comunitario, ma è subordinato all'arrivo nel territorio di uno Stato. Come mostrato in
questo lavoro l'accesso dei cittadini stranieri all'Unione Europea ha subito sempre
maggiori deroghe, portando gli enti di tutela dei migranti a rivendicare il diritto
all'accesso come un diritto umano. L'assenza di questa prospettiva, dunque di un diritto
ad avere diritti, comporta nell'ottica della Arendt e di coloro che odiernamente hanno
sposato il suo pensiero, ad una perdita di agency, intesa in termini antropologici come la
possibilità di agire e partecipare attivamente alla comunità, e ad una perdita delle
relazioni sociali, da cui prescinde il proprio riconoscimento come membro della
società/umanità.
Le soluzioni proposte per la riconquista del diritto ad avere diritti abbiano visto essere
due: una l'istituzione dell'asilo diplomatico, che spaventa molto gli Stati europei, perché
potrebbe essere strumentalizzato come un mezzo legale di accesso al territorio anche per
coloro che poi non avrebbero il diritto di permanervi. Dall'altro lato, troviamo invece la
strategia del reinsediamento, che sembra però ancora più difficile da realizzare, perché
in materia d'immigrazione risulta decisamente carente la solidarietà tra Stati, condizione
preliminare per la sua attuazione.
Le due proposte sono dunque percorribili, e si auspica diventino concrete, ma lasciano
irrisolta la questione del bilanciamento tra rispetto dei diritti umani e prerogativa statale
di decidere l'accesso al proprio territorio.
Reduci delle ultime esperienze lampedusane è forse giunto il momento di scegliere
quale sia la priorità tra i due valori in gioco.
84
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