Tesi - Asilo in Europa
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Tesi - Asilo in Europa
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BERGAMO Dipartimento di Giurisprudenza Master di II livello in Diritto delle Migrazioni L'evoluzione del non-refoulement nel tempo. Controlli extra-territoriali e accesso alla protezione. Relatore: Chiar.mo Prof. Mauro Mazza Tesi di Master di: Federica Molossi Matricola n°: 1027128 ANNO ACCADEMICO 2013/2014 1 INTRODUZIONE 4 CAPITOLO 1 IL PRINCIPIO DI NON-REFOULEMENT NEL SISTEMA DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE 6 1 - La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, tra diritto d'asilo e obbligo di non-refoulement 6 2 - L'applicazione ratione personae 7 3 - Una garanzia di protezione non assoluta 8 4 - L'applicazione ratione materiae 9 5 - Il concetto di Paese terzo sicuro 11 6 - Lo “shopping” della giurisdizione 13 7 - Non-refoulement e diritto del mare 15 8 - “Afflusso massiccio” 18 9 - Non-refoulement: un principio di diritto consuetudinario 19 10 - L'ampliarsi delle garanzie del non-refoulement 20 CAPITOLO 2 L'EVOLUZIONE DELL'OBBLIGO DI NON-REFOULEMENT NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO 24 1- Nozioni generali sulle modalità di funzionamento della Corte EDU 24 2- Il principio di non-refoulement alla luce della giurisprudenza della Corte EDU 27 2.1- La protezione di riflesso a garanzia dell'art. 3 29 2.2- Altre garanzie di protezione in materia di espulsioni ed estradizioni: gli artt. 2-6-8-9-13 della CEDU 37 2.3- Il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia 41 3- Rapporti ambigui: il diritto d'asilo europeo e le garanzie di non-refoulement espresse nella CEDU 45 CAPITOLO 3 L'ESTERNALIZZAZIONE DEI CONTROLLI DI FRONTIERA E IL RISPETTO DELL'OBBLIGO DI NON-REFOULEMENT. IL CASO ITALIANO 50 1- La sicurezza di uno Stato vs la tutela del non-refoulement 50 1.1- Necessità di sicurezza: le misure anti-terroristiche a livello internazionale 2 50 1.2- La politica europea in materia di protezione delle frontiere esterne e le garanzie previste per il non-refoulement 53 1.3- Le varie forme di esternalizzazione dei controlli delle frontiere 59 1.4- Gli sviluppi del diritto comunitario dopo la pronuncia sul caso Hirsi 60 2- Il Mare di Mezzo: l'antefatto del caso Hirsi 62 3- Cattive prassi senza fine: i rinvii dai porti adriatici 67 4- Le ultime vicende nel Mar Mediterraneo 72 5- Il diritto ad avere diritti 79 CONCLUSIONE 83 BIBLIOGRAFIA 85 3 Introduzione Il presente lavoro ha come oggetto l'obbligo di non-refoulement. Viene spontaneo chiedersi, cosa resta ancora da dire su una tematica simile che, dalla metà del Novecento, è al centro di ogni dibattito sui diritti umani, in particolare di quelli concernenti i flussi migratori verso il Nord del mondo. A livello di teoria del diritto resta ben poco da dire, proprio perché la tradizione ha voluto da tempo fare di questo obbligo un principio inderogabile di diritto consuetudinario. Sul versante dell'attuazione pratica del diritto resta, a mio avviso, molto su cui poter riflettere. Ricordiamo infatti, che qualsiasi diritto è “storicamente relativo”1: ciò che è fondamentale in un'epoca, per una civiltà, non lo sarà per altre, o per la stessa comunità in un altro momento storico. I diritti dunque evolvono con l'evolvere della storia. Da qui deriva il titolo del presente lavoro, volto a mettere in luce come una norma si incarna e si modella a seconda delle circostanze temporali e spaziali. L'obbligo di non-refoulement infatti, è nato a seguito della seconda guerra mondiale per far fronte ai profughi che provenivano soprattutto dell'Est-Europa; nel corso dei decenni ha superato la portata iniziale, circoscritta alla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951, ed è diventato uno strumento di garanzia dei diritti umani molto più trasversale, tramite il riconoscimento accordatogli in altri trattati internazionali e regionali. L'ampliamento del suo contenuto iniziale dipende dalla natura stessa della legge, che esige il compromesso con la realtà sociale nella quale si attua, rispondendo alle diverse esigenze di varie epoche storiche e contesti geografico-culturali. Parallelamente all'evoluzione di questo diritto sono progredite anche le strategie volte ad arginarlo. Il divieto di non-refoulement infatti, chiama in causa il difficile compromesso tra tutela dei diritti umani ed esigenze dello Stato-nazione. Quest'ultimo per sua costituzione si prefigura come un'entità omogenea, dove i cittadini condividono la stessa matrice biologica e culturale. Intesa in tali termini ottocenteschi l'idea di Stato-nazione è ovviamente superata e non regge il confronto con i flussi migratori che sempre più interessano le regioni dell'Europa, dove tale concetto nacque. Da un lato quindi, ci sono le persone che migrano alla ricerca di un luogo sicuro in cui trovare rifugio, dall'altro gli Stati che malvolentieri derogano a principi sovranazionali la scelta di chi ammettere sul proprio territorio. In un periodo storico come quello attuale dove è notevolmente aumentato il movimento di persone bisognose di protezione, gli Stati si sentono minacciati e rispondo a questo timore inasprendo le politiche d'accesso al proprio suolo 1 Si ricordi in proposito BOBBIO N., L'età dei diritti, Einaudi Contemporanea, Torino, 1990. 4 nazionale. Questi saranno i due fili conduttori dell'intero lavoro: le garanzie del non-refoulement e le strategie volte a circumnavigare tali tutele. Si procederà analizzando come il divieto di non-refoulement viene assicurato a livello di diritto internazionale. Si prenderanno in considerazione, già nel primo capitolo, le criticità che l'applicazione di tale principio comporta in tempi odierni, dove le rotte dei migranti utilizzano sempre più la via marittima, che la terrestre. Si proseguirà accennando all'ampliamento delle garanzie del non-refoulement in altre convenzioni internazionali e regionali, per approdare nel secondo capitolo, all'analisi delle strumento che maggiormente sembra aver assolto questo compito: la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La Corte europea dei diritti dell'uomo, meccanismo di garanzia della Convenzione, è la lampante dimostrazione della capacità del diritto di incarnasi nelle varie epoche storiche: le pronunce della Corte infatti, se consolidate da una folta giurisprudenza, diventano vincolanti per tutte le vicende che verrano proposte in seguito. Ai fini del presente lavoro, nel secondo capitolo verranno analizzate le pronunce della Corte in merito al principio di non-refoulement, per mostrare come quest'istituzione sia riuscita ad ampliarne la portata, pur se circoscritta a livello europeo. Infine nell'ultimo capitolo, verrà preso in considerazione il secondo filo conduttore del presente lavoro, ovvero le strategie di elusione da parte degli Stati dell'obbligo di nonrefoulement, meccanismi che si concretizzano principalmente nella pratica di esternalizzazione dei controlli delle frontiere. Infine verrà dedicato un focus alla situazione italiana, in quanto esempio emblematico in Europa di queste pratiche. Verranno analizzate le politiche dell'ultimo decennio in materia di controlli dei flussi migratori e la violazione sistematica del non-refoulement che ha causato all'Italia una severa condanna da parte della Corte EDU. Si concluderà con una riflessione sulle ultime vicende che hanno coinvolto l'isola di Lampedusa e sulle proposte da parte di organizzazioni della società civile e di tutela dei diritti umani, volte ad evitare che il bisogno di protezione di molte persone che attraversano il Mediterraneo si concluda in un viaggio della morte. 5 Il principio del non-refoulement nel sistema di protezione internazionale Il presente capitolo intende analizzare il non-refoulement in quanto principio fondamentale, garante della protezione internazionale che consente ad un rifugiato di non essere rinviato nel Paese in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale, o per opinioni politiche. Vedremo come l'obbligo di non-refoulement acquisisce una portata più ampia di quella che lo lega al diritto d'asilo, assicurando maggiori tutele a chi necessita di protezione. L'analisi inizierà prendendo in considerazione come il divieto di respingimento viene garantito nel diritto internazionale e proseguirà, nel capitolo successivo, concentrandosi sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo2, che, grazie alle sue sentenze, ha sancito l'obbligo di non-refoulement ampliandone la portata iniziale, circoscritta alla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951. 1 - La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, tra diritto d'asilo e obbligo di non-refoulement La Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati3 nasce in un contesto storico ben preciso, quello immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, dove le istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite e l'Organizzazione internazionale per i rifugiati, espressero l'esigenza di garantire protezione a rifugiati e sfollati che avessero valide motivazioni per non essere rinviati nel proprio Paese di origine (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 203). Il primo passo verso la costruzione di tale protezione fu rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (14 dicembre 1948) che all'art. 14(1) afferma il diritto di “cercare” e “beneficiare” dell'asilo per chi è soggetto a persecuzione. Il diritto d'asilo si riferisce dunque alla persona che è in cerca di protezione e ad esso dovrebbe quindi corrispondere il dovere da parte dello Stato di rifugio di attuare e rispettare tale diritto. Nella pratica però, la Convenzione assicura la protezione ai rifugiati, non attraverso l'obbligo di fornire asilo, ma attraverso l'obbligo di non-refoulement4. Da tale principio deriva soltanto il divieto imposto allo 2 Da ora in poi “Corte EDU”. 3 Da ora in poi “Convenzione”. 4 Art. 33(1): “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.”. 6 Stato di respingere un individuo verso un Paese nel quale la sua vita e le sue libertà potrebbero essere violate e nulla viene invece asserito per vincolare lo Stato in modo che assicuri al soggetto in questione un regime stabile e duraturo di protezione ed accoglienza. 2 - L'applicazione ratione personae All'art. 33 della Convenzione viene chiaramente espresso che l'obbligo di nonrefoulement deve essere applicato al “rifugiato”, così come definito all'art. 1(A,2) della stessa, ovvero colui che, trovandosi fuori dal Paese di cui è cittadino, per avvenimenti antecedenti al 1° gennaio del 1951, teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un gruppo sociale e per opinioni politiche e non intende chiedere protezione al suo Paese d'origine o di residenza abituale (caso degli apolidi). All'art. 1(B,1) viene specificato che per “avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951” è da intendersi tutti quegli eventi verificatisi prima della suddetta data, in Europa, o altrove. Il Protocollo addizionale di New York del 1967, aggiuntivo alla Convenzione, abolirà questa limitazione temporale, adattando il testo alle esigenze di nuovi momenti storici. Per quanto riguarda la condizione di rifugiato non è necessario che sia formalmente riconosciuta dallo Stato d'accoglienza, posizione che più volte è stata ribadita dal Comitato Esecutivo dell'UNHCR (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 233). Da ciò segue che anche verso un richiedente asilo si ha l'obbligo di non-refoulement. Per consolidare questa interpretazione si fa riferimento all'art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, del 23 maggio 1969 che sottolinea la necessità di interpretare le convenzioni “in buona fede” e tenendo conto del loro “contesto” (allegati, preambolo) e soprattutto degli obiettivi che si prefiggono, così da non deviarne o manipolarne il senso. Vanno inoltre tenuti in considerazione tutti gli altri documenti e strumenti firmati dalle parti contraenti e relative al trattato, così da poter cogliere la definizione dei termini più vicina a quella che era l'intenzione iniziale delle parti firmatarie. Prestando fede a tali linee guida, per la Convenzione che si sta analizzando si può affermare che: respingere chi non è formalmente riconosciuto come rifugiato priverebbe di senso l'obbligo del non-refoulement, perché si rischierebbe di rinviare una persona nel Paese in cui la sua vita e libertà potrebbero essere in pericolo. Altro elemento a conferma di questa interpretazione dell'applicazione del divieto di refoulement si trova nella definizione di rifugiato, nei termini di “chiunque nel 7 giustificato timore di essere perseguitato” non vuole rientrare nel suo Paese: l'articolo in questione non parla di chi ha avuto formalmente riconosciuto lo status, ma di “chiunque” manifesti timore di persecuzione. Un'ulteriore conferma di questa interpretazione può essere trovata all'art. 31(1) dalla Convenzione che impone agli Stati di non usare misure penali nei confronti dei rifugiati che entrano o soggiornano irregolarmente sul proprio territorio, a condizione che essi si presentino “senza indugio” alle autorità del Paese d'accoglienza, esponendo “ragioni ritenute valide” per giustificare tale condotta. L'unica interpretazione ragionevole di questo articolo è che i rifugiati a cui qui si fa riferimento sono quelli, così come definiti dell'art.1, ne segue dunque, che tale definizione presuppone la possibilità che sia considerato rifugiato anche colui che non è formalmente riconosciuto come tale (Feller, Türk, Nicholson 2003, p. 117). Come afferma infatti l'UNHCR nelle Linee guida sulle procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiato (Ginevra 1992): “Une personne ne devient pas réfugié parce qu'elle est reconnue comme telle, mais elle est reconnue comme telle parce qu'elle est réfugié”. I caratteri espressi dall'art. 1 della Convenzione che definiscono chi è rifugiato sono intrinsechi alla persona e precedono inevitabilmente il riconoscimento dello status (Chetail 2001b, p. 10). 3 - Una garanzia di protezione non assoluta Il principio di non-refoulement non è una garanzia assoluta di protezione, ma viene bilanciato con alcuni valori che esprimono l'interesse dello Stato di rifugio. Prima di tutto si noti l'art. 33(2) che afferma che il respingimento di un rifugiato potrà aver luogo se questi è ritenuto una minaccia per la sicurezza dello Stato, o una minaccia per la comunità, elemento quest'ultimo che dovrà essere comprovato da una condanna passata, definitiva per un crimine particolarmente grave. In secondo luogo troviamo le cosiddette clausole di esclusione, all'art 1(F), che aboliscono il divieto di non-refoulement per tre categorie di stranieri ben precise: per chi abbia commesso un crimine di guerra, o contro la pace, o contro l'umanità; per chi abbia commesso un crimine grave fuori dallo Stato di rifugio e prima di esservi entrato; ed infine, per chi abbia commesso atti contrari ai principi ed agli scopi delle Nazioni Unite. I due articoli appena presi in esame esprimono eccezioni al principio di non-refoulement di carattere diverso. Combinando l'art. 1(F) che tratta di crimini commessi fuori dal Paese di rifugio e l'art. 33(2) che invece chiama in causa la sicurezza nazionale di tale Paese e una condanna che equivale ad una minaccia per la comunità, sarebbe logico 8 ritenere che le eccezioni al divieto di non-respingimento stabilite all'art. 33(2) siano applicabili solo a chi è formalmente riconosciuto come rifugiato; al contrario, le clausole di esclusione all'art. 1(F) andrebbero applicate a tutti i richiedenti asilo. Nella pratica spesso è accaduto che gli Stati non tenessero conto di questa differenza, finendo così per applicare indistintamente l'art. 33(2), sia ai titolari di protezione internazionale, che ai richiedenti asilo (Chetail 2001b, p. 14). Preso atto che la Convenzione ritiene legittimo bilanciare l'obbligo di non-refoulement con il valore della sicurezza nazionale, bisogna interrogarsi sulla definizione di quest'ultimo concetto. A differenza del non-refoulement, il concetto di sicurezza rientra sotto la sfera della sovranità statale, non è quindi definibile a livello di diritto internazionale. Consapevoli di questa debolezza e, al contrario, dell'importanza fondamentale del principio di non-refoulement, in quanto condizione preliminare del godimento di un diritto umano (quello d'asilo), il bilanciamento di valori deve essere fatto seguendo delle accortezze ben precise. Prima di tutto lo Stato deve dimostrare che vi siano “fondate ragioni” per ritenere che il rifugiato sia un pericolo per la sua sicurezza nazionale. Nel compiere tale valutazione lo Stato dovrà tenere conto di diversi elementi che concorrono alla prova: la natura dell'offesa imputata al rifugiato, il background che l'ha preceduta e il comportamento individuale del soggetto in questione (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 239). Inoltre, a rafforzare la garanzia dell'apparato internazionale dei diritti umani rispetto all'interesse dello Stato, vi è un'ulteriore richiesta che viene imposta a quest'ultimo: dato che termini quali “pericolo” e “sicurezza” sono tutt'altro che autoevidenti ed auto-applicabili, il rifugiato deve essere messo nella condizione di poter dimostrare il perché, nella sua vicenda specifica, questi concetti non risultino applicabili (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 239). 4 - L'applicazione ratione materiae Il termine “refouler” è da sempre al centro di un acceso dibattito. Fin dai lavori preparatori alla Convenzione numerose e contrastanti erano le interpretazioni in merito. In modo particolare molto si discusse sulla diversa accezione che il termine inglese aveva rispetto a quello francese. Infatti “return” presuppone che il soggetto per non essere allontanato debba trovarsi sul territorio dello Stato. Al contrario “refouler”, tra l'altro accompagnato nell'art. 33 dalla dicitura “in nessun modo”, conferisce all'obbligo di non-respingimento una valenza extra-territoriale. Intenzionalmente, proprio perché le varie delegazioni non riuscivano ad accordarsi, si predilesse una formulazione del 9 principio che potesse dare adito a differenti interpretazioni (Chetail 2001b, p. 17). Nonostante ciò, a livello di diritto internazionale, è ormai consolidata l'accezione più amplia del termine “refouler”, non a caso lo troviamo inserito tra parentesi accanto a “return” nella versione inglese della Convenzione, ad indicare il medesimo significato che deve essere attribuito ad entrambi. Come chiarisce perentoriamente l'UNHCR: “La traduzione di “refouler” comprende parole come ‘respingere’, ‘repellere’, ‘portare indietro’. È difficile concepire che queste parole siano limitate ai rifugiati che sono già entrati nel territorio di uno Stato contraente. Il significato comune dei termini “rinviare” e “respingere” (“refouler”) non sostiene alcuna interpretazione che avrebbe il risultato di restringere il suo ambito di applicazione all’interno del territorio dello Stato interessato, né vi è alcuna indicazione che tali termini fossero intesi dagli autori della Convenzione del 1951 per essere limitati in questa maniera”5. Dunque, l'obbligo di non-refoulement va applicato alla frontiera e, in secondo luogo, vincola anche i casi di estradizione. Prima di tutto perché l'incipit dell'art. 33 “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà - in nessun modo -” sta già ad indicare che il concetto di respingimento debba essere inteso senza alcuna limitazione. Infatti, non vi è alcun elemento nell'art. 33(1), né nell'art. 33(2), che possa lasciare intendere che l'estradizione faccia eccezione rispetto a questa formulazione (“in nessun modo”) così ampia (Feller, Türk, Nicholson 2003, p. 112). In secondo luogo, nel riaffermare il carattere fondamentale del principio di nonrefoulement, la Conclusione n° 17 (XXXI) del 1980 del Comitato Esecutivo dell'UNHCR, ha esplicitamente dichiarato che i rifugiati devono essere tutelati in materia di estradizioni (Ibid.). Allo stesso modo l'obbligo in questione deve essere applicato anche nei confronti delle situazioni di frontiera, proprio per gli stessi motivi di onnicomprensività del termine refoulement appena descritti e per numerose Conclusioni e Rapporti di organi internazionali in merito 6. Infine, meritano una riflessione le espulsioni dei rifugiati, così come stabilite dall'art. 32 della Convenzione. I motivi per cui un rifugiato può incorrere in tale misura sono la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico, termini per i quali resta valido il ragionamento fatto nel paragrafo precedente. Invece i lavori preparatori alla Convenzione ci forniscono interessanti indizi riguardo al senso generale da attribuire all'espulsione. 5 Paragrafo 27 del Parere Consultivo sull'applicazione extraterritoriale degli obblighi del nonrefoulement, Ginevra 2007. 6 Si veda Feller, Türk, Nicholson 2003, pp. 114-5. 10 Quest'ultima viene considerata una misura grave, proprio perché si è consapevoli che il rifugiato ha fondato timore di ritornare nel suo Paese di origine e da usare eccezionalmente, non a caso tutto l'articolo è costruito in forma negativa (Chetail 2001b, p. 47). A dimostrazione dell'eccezionalità di questa disposizione vi sono delle garanzie procedurali forti, espresse nel paragrafo 2 dello stesso articolo: la decisione dell'espulsione deve essere presa in conformità con la procedura prevista dalla legge, il rifugiato potrà presentare prove che lo discolpino, avrà diritto a presentare ricorso ed avrà diritto di essere rappresentato. Infine all'art. 32(3) si specifica che gli Stati contraenti che intendono espellere un rifugiato gli concederanno “un periodo di tempo ragionevole per permettergli di tentare di farsi ammettere regolarmente in un altro Paese”. Si continuerà ora l'analisi del principio di non-refoulement affrontando delle questioni che chiamano in causa la sua adattabilità al nuovo contesto storico. La Convenzione, infatti, nata per rispondere alla condizione di rifugiati creati dalla seconda guerra mondiale ed essenzialmente provenienti dall'Est-Europa, deve oggi far fronte a nuove esigenze, legate alla mutazione delle modalità di migrazione e all'irrigidimento delle politiche di controllo delle frontiere dei Paesi di accoglienza. 5 - Il concetto di Paese terzo sicuro Come evidenziato all'inizio, all'obbligo di non-refoulement non corrisponde necessariamente un diritto d'asilo. Di fatti, attenendosi alla Convenzione, lo Stato è vincolato solo sul non respingere il soggetto verso un Paese nel quale possa essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, o per opinioni politiche. Diretta conseguenza di un'interpretazione così letterale del testo è la nascita del termine “Paese terzo sicuro” che permette di rinviare un richiedente asilo, che non è arrivato direttamente dal suo Paese, in uno degli Stati dove ha transitato. La giustificazione di questo nuovo concetto è stata trovata all'art. 31(1), in particolare nell'espressione “i rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate”. L'articolo in questione però, fa riferimento ad un oggetto ben preciso, le sanzioni penali da non applicare ai rifugiati che entrano e soggiornano illegalmente, giungendo direttamente da un Paese in cui sono in pericolo, e secondo Chetail quest'ultima dicitura deve riferirsi solo a questo articolo, evitando di travisare il senso dell'intera Convenzione (Chetail 2001b, p. 26). I 11 sostenitori del concetto di Paese terzo sicuro però, trovano la giustificazione a tale pratica all'interno della Convenzione stessa: torna in gioco la dicitura “in nessun modo” propria dell'art. 33(1) che di fatto permette di considerare il non-refoulement sia in termini diretti, che indiretti (Chetail 2001b, p. 30). Ciò non significa che il concetto di Paese terzo sicuro sia pacificamente accettato, al contrario, proprio a causa della sua arbitrarietà, anima molte discussioni in materia di diritti umani. Ovviamente per essere sicuro un Paese deve rispettare il principio di nonrefoulement, altrimenti si verrebbe a creare il fenomeno cosiddetto dei “rifugiati in orbita”: respinto da uno Stato all'altro, il rifugiato rischierebbe di non poter mai avere accesso alla procedura d'asilo. La ratifica della Convenzione non è però sufficiente a dimostrare che un Paese terzo rispetti tale obbligo, bisognerà dunque assicurarsi che la garanzia sia effettiva. In merito l'Unione Europea ha legiferato più volte. Da ricordare la Convenzione Dublino del 1990, nata con l'obiettivo di stabilire lo Stato competente per l'esame della domanda di asilo presentata in uno dei territori della Comunità Europea. L'art. 3(5) accorda la possibilità ad uno Stato membro di “inviare un richiedente asilo in uno Stato terzo, nel rispetto delle disposizioni della convenzione di Ginevra, modificata dal protocollo di New York”. L'attuale direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, fornisce una definizione più rigorosa del termine che, comunque, ruota intorno alla garanzia del nonrefoulement. È da considerarsi Paese terzo sicuro quel Paese dove: “a) non sussistono minacce alla sua [del rifugiato] vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale; b) non sussiste il rischio di danno grave definito dalla direttiva 2011/95/UE; c) è rispettato il principio di "non refoulement" conformemente alla convenzione di Ginevra; d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra. ”7. 7 Art. 38 della direttiva 2013/32/UE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Questa direttiva ha sostituito la precedente, 2005/85/CE, aggiungendo alla definizione di Paese terzo sicuro il punto b. Ricordiamo che 12 Il concetto resta comunque di equivoca definizione: risulta infatti dalla direttiva in questione che la designazione di un Paese terzo come sicuro “non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese”, perché, per accordarsi su tale definizione, l'unico strumento per determinarla è quello di tenere in considerazione la situazione civile giuridica e politica generale del Paese in questione8. Una precisazione del genere, implica che nella definizione di tale concetto, verranno tralasciate quelle circostanze individuali che rendono un luogo pericoloso per una specifica persona e che inevitabilmente non possono essere sottoposte a generalizzazioni. Ricordiamo tra l'altro, che la definizione di rifugiato presuppone un agente di persecuzione individuale, dunque la creazione di una lista di Paesi sicuri sulla sola base delle caratteristiche di tali Stati non è sufficiente a tutelare la persona che necessita di protezione. 6 - Lo “shopping” della giurisdizione9 Per giurisdizione si intende i limiti della competenza legale e dell'autorità di uno Stato. Tale concetto è stato sempre legato a quello di frontiera, dunque indica anche l'affermazione della sovranità di uno Stato in rapporto ad un altro. Nel contesto dei diritti umani però, la questione si pone in diverso modo: la giurisdizione è necessaria, non per delimitare il potere di un Paese rispetto ad un altro, ma per determinare la responsabilità riguardo la violazione di obblighi internazionali. Per capire quali atti possono essere attribuiti ad uno Stato secondo il diritto internazionale, utile è il Projet d'articles sur la responsabilité de l'État pour fait internationalement illicite et commentaires y relatif, redatto dalla Commissione di Diritto Internazionale nel 2001. Il comportamento di tutti gli organi10 di uno Stato rientra sotto la responsabilità di quest'ultimo, così come vi rientra il comportamento di organi messi a disposizione da un secondo Stato che agiscono però nell'esercizio dei poteri pubblici del primo (art. 6 del Projet). Inoltre un Paese risponde degli atti compiuti da persone che agiscono sotto le sue istruzioni o il suo diretto controllo (art. 8 del Projet); il rischio di subire un danno grave nel Paese di origine garantisce la possibilità di ottenere la protezione sussidiaria. 8 Direttiva 2013/32/UE, considerando 42. 9 Termine usato da Thomas Gammeltoft-Hansen nel suo libro Access to asylum per indicare una della cause della “commercializzazione della sovranità”: gli Stati, in particolar modo quelli europei, tendono nell'ultimo decennio ad appaltare a terzi, privati, i controlli sull'immigrazione, rendendo sempre più difficile individuare chi ha responsabilità nel momento in cui vengono eseguiti tali controlli. 10 Per organo di uno Stato si intende entità o persone che hanno riconosciuto tale statuto dal diritto interno (art.4 del Projet). 13 risponde del comportamento di persone che esercitano poteri pubblici in assenza o carenza di autorità ufficiali (art. 9 del Projet); ed infine uno Stato, a livello di diritto internazionale, è ritenuto responsabile di tutte quelle condotte che adotta o riconosce come proprie (art. 11 del Projet). Alla luce di queste linee guida possiamo affermare che il divieto di non-refoulement espresso dalla Convenzione, deve essere rispettato da qualsiasi organo statale e da qualsiasi altra entità o persona che agisca sotto la giuda di uno degli Stati contraenti, o che, in un vuoto di potere, eserciti le funzioni pubbliche al loro posto (Feller, Türk, Nicholson 2003, p. 109). Nel quadro storico attuale però, queste indicazioni risultano ugualmente parziali e sempre più si riflette sul concetto di giurisdizione extraterritoriale: non è infatti sufficiente stabilire quali condotte possono essere attribuite alla responsabilità di uno Stato, è necessario, preliminarmente, individuare fin dove arriva la giurisdizione dello stesso. Nel 2007, l'UNHCR ha redatto un Parere Consultivo (dunque tutt'altro che vincolante) sull'applicazione extraterritoriale degli obblighi del non-refoulement: “Nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato.”11. Per argomentare tale ipotesi l'UNHCR riporta le dichiarazioni del Comitato Diritti Umani, della Corte Internazionale di Giustizia, del Comitato contro la Tortura e della Corte EDU12 e conclude affermando che ogni Stato è vincolato al non-refoulement in ogni dove eserciti la sua giurisdizione, concetto che va inteso non in termini geografici, ma in termini di controllo e autorità sulla persona. Preso atto che il Parere non è vincolante, comunque, anche se lo fosse, nell' “era delle migrazioni”13, esso non sarebbe sufficiente per una chiara determinazione della giurisdizione. Ad oggi, risulta sempre più difficile stabilire se è uno Stato o no ad esercitare un effettivo controllo sulla persona. Thomas Gammeltoft-Hansen compie una magistrale analisi dei fenomeni quali l'esternalizzazione dei controlli dell'immigrazione 11 Paragrafo 35 del Parere Consultivo. 12 Rispettivamente paragrafi da 36 a 39 del Parere Consultivo. 13 In riferimento all'omonimo libro di Castles F. e Miller M. J. che analizza le nuove modalità in cui si attuano le migrazioni internazionali. 14 e loro privatizzazione, dimostrando come essi rendano sempre più arduo questo compito. Decolonizzare e/o appaltare a terzi il compito di eseguire i controlli ha comportato un vero e proprio “shopping della competenze e della giurisdizione” di cui gli Stati sempre più approfittano per circumnavigare gli obblighi relativi ai diritti umani14. Le rotte migratorie si fanno sempre più complicate ed altrettanto lo diventano i controlli. Questa combinazione crea situazioni in cui non è così automatico stabilire la responsabilità di uno Stato in rapporto ai suoi obblighi internazionali. Situazioni critiche, ad esempio, possono essere quelle di un Paese che sta operando un controllo su una zona che è sotto la giurisdizione di un altro, o in zone internazionali, o che sta compiendo un'operazione di soccorso e ricerca in mare. Frequenti sono anche gli accordi “shiprider”, dove è consentito agli ufficiali di uno Stato di salire a bordo di navi di un altro per operare controlli sull'immigrazione. In episodi del genere, come vedremo in seguito nel presente lavoro, individuare chi ha il controllo effettivo sulla persona risulta oltremodo complicato. A ciò si aggiunge la questione della privatizzazione dei controlli. L'esempio più eclatante è la muraglia che separa oramai da tempo gli Stati Uniti dal Messico, il cui controllo è sempre più affidato a corpi di polizia, non ingaggiati dallo Stato, ma autoformatisi che si dubita rispettino le normative vigenti in materia di diritti umani. Rilevanti in merito sono anche le “carrier sanctions”, ovvero le ammende che vengono inflitte alle società di trasporto private che consentono il viaggio a stranieri irregolari. Tale pratica rischia di legittimare l'attivazione da parte delle compagnie di trasporto di controlli privati sui passeggeri, a prescindere dal rispetto di qualsiasi diritto fondamentale. 7 - Non-refoulement e diritto del mare Nel proseguire l'analisi del principio di non-refoulement alla luce del quadro storico contemporaneo, è necessario riservare parte della riflessione al diritto del mare, dato che i rifugiati sempre più utilizzano la via marittima, piuttosto che quella terrestre per raggiungere i Paesi d'asilo. Sulla base dell'art. 2 della Convenzione della Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM)15, uno Stato ha giurisdizione sulle sue acque interne e nel suo mare territoriale, ovvero, come definito all'art. 5, su quella fascia adiacente di mare, al di là 14 In proposito si veda GAMMELTOFT-HANSEN T., Access to asylum, Cambridge Studies in International and Comparative Law, Cambrigde University Press, Cambridge, 2011. 15 Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmata a Montego Bay, il 10 dicembre 1982. 15 delle sue acque interne16. Il mare territoriale non è di completa sovranità dello Stato, quest'ultima è infatti limitata dal diritto internazionale, nel caso specifico dal diritto di passaggio inoffensivo che lo Stato deve riconoscere alle navi battenti bandiera di altri Stati17 (Trevisanut 2011, p. 245). Allo stesso tempo però, in base all'art. 21(1,h) della CNUDM, lo Stato può imporre delle limitazioni al passaggio inoffensivo di altre navi, emanando leggi e regolamenti, nel rispetto della convenzione e del diritto internazionale, relative alla prevenzione delle violazioni delle leggi nazionali in materia d'immigrazione. Non solo, l'esercizio della sovranità statale va oltre: in base all'art 25(3) del CNUDM lo Stato può decidere di sospendere il passaggio di altre navi, senza operare discriminazioni, quando ritenga che “tale sospensione è indispensabile per la protezione della propria sicurezza”. Ciò è legittimato dall'art. 19(2,g), dove viene specificato che il passaggio di navi straniere è “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave” in questione è impegnata nel carico o scarico di persone in violazione alle leggi sull'immigrazione, vigenti nello Stato costiero. Come fa ben notare Seline Tevisanut, ciò significa che, nella condizione appena descritta, lo Stato applica la sua legislazione in materia d'immigrazione, al di là della sua frontiera terrestre, o meglio, la sua frontiera si sposta nella porzione di mare in cui lo Stato sta intervenendo. Questo ovviamente, non lo esonera dal rispettare anche gli obblighi sanciti dal diritto internazionale, dunque il nonrefoulement (Trevisanut 2011, p. 246). Altra pratica in merito alla quale interrogarsi, che sempre più caratterizza l'atteggiamento in mare di Paesi d'immigrazione, è la “redirection”, ovvero l'obbligare una nave a deviare la sua rotta. Infatti, da un lato uno Stato ha il diritto di costringere ad allontanarsi e rientrare in acque internazionali, una nave che è nelle sue acque territoriali e sta violando le leggi relative all'immigrazione. Dall'altro lato però, le acque territoriali corrispondo al suolo dello Stato, dunque allontanare una nave, senza aver prima esaminato la condizione individuale di coloro che vi sono a bordo, potrebbe costituire, nel caso si trattasse di persone bisognose di protezione, una violazione del principio di non-refoulement (Trevisanut 2011, p. 251). Infatti, essendo il diritto d'asilo un diritto individuale, esige un esame caso per caso, per vagliare quali rischi incorrerebbe una 16 Art. 4 CNUDM: “Salvo diversa disposizione della presente convenzione, la linea di base normale dalla quale si misura la larghezza del mare territoriale è la linea di bassa marea lungo la costa, come indicata sulle carte nautiche a grande scala ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero”. Art. 5 CNUDM: “Il limite esterno del mare territoriale è la linea ciascun punto della quale si trova a una distanza dal punto più prossimo della linea di base, uguale alla larghezza del mare territoriale.”. 17 In base all'art. 24 della CNUDM. 16 persona se respinta verso un altro Paese. Ciò significa che l'azione collettiva di deviazione della rotta di una nave che potrebbe contenere richiedenti asilo, rappresenta una violazione di fatto del non-refoulement (Trevisanut 2011, p. 252). Altri dubbi sorgono in merito alle cosiddette operazioni di soccorso in mare che creano non pochi problemi in materia di giurisdizione. L'art. 98 del CNUDM prevede che ogni Stato debba esigere che il comandante di una nave che batte sua bandiera presti soccorso, senza mettere a repentaglio i suoi passeggeri, a naufraghi, o persone presenti su imbarcazioni, che si possano trovare in una situazione di pericolo. A ciò si aggiunge la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare, del 27 aprile 1979, il cui obiettivo è il coordinamento delle azioni di salvataggio, in modo che siano eseguite il più sicuramente possibile. La presente convenzione prevede che i naufraghi debbano essere condotti in un porto sicuro, ovvero un luogo in cui le operazioni di recupero possano considerarsi ultimate, dove la vita dei soccorsi è al sicuro, dove le loro necessità primarie possano essere soddisfatte e dove possa essere organizzato il loro trasporto verso la destinazione vicina o finale18 (Vassallo Paleologo 2010, p. 41). Preso atto di ciò, “Lo Stato costiero e lo Stato intervenente devono pertanto rispettare il principio di non respingimento dei richiedenti asilo e rifugiati nell'adempimento del loro obbligo di salvaguardia della vita in mare; principio che non si applica solamente in considerazione dell'autorizzazione di accesso nel mare territoriale o nel porto, ma anche nella scelta del luogo in cui le operazioni di soccorso possono essere considerate terminate.” (Trevisanut 2011, p. 263). La Convenzione non specifica il suo campo di applicazione19, dunque bisogna affidarsi alla giurisprudenza in merito. Come vedremo più dettagliatamente nei prossimi capitoli, la giurisprudenza ha oramai consolidato l'idea che il principio di non-refoulement trovi applicazione anche in alto mare e che, sia nelle situazioni di presa a bordo dei passeggeri da parte della nave che compie l'operazione, sia nel caso in cui la suddetta nave forzi la rotta di un'altra, lo Stato agente ha giurisdizione, dunque è vincolato dagli obblighi internazionali. 18 In base alla definizione della Risoluzione MSC.167 (78) Guidelines in the treatment of persons rescued at sea, del Comitato per la sicurezza marittima (MSC) del 20 maggio 2004. 19 In alcuni articoli risulta evidente il criterio territoriale di applicazione (art.4), in altri invece l'applicazione si basa sulla giurisdizione (artt. 3-7-33) non contenendo riferimento al territorio degli Stati contraenti. 17 8 - “Afflusso massiccio” Continuando a riflettere sulle nuove questioni poste alla Convenzione in questo momento storico, non si può non affrontare il tema degli afflussi di massa di profughi e migranti che sempre più caratterizzano le modalità migratorie della nostra epoca. Nella Convenzione non troviamo riferimento a situazioni del genere, al contrario il nonrefoulement si applica ad un rifugiato che dimostri di essere perseguitato in termini prettamente individuali. Comunque, niente nell'art. 33 della Convenzione suggerisce la sua inapplicabilità alle situazioni di arrivi in massa. Nella pratica però, spesso gli Stati hanno molte remore ad accogliere un gran numero di rifugiati, adducendo come giustificazione, il fatto che tale situazione potrebbe essere pericolosa per la sicurezza nazionale (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 236). Dato che la Convenzione non aiuta a chiarire la condotta che lo Stato deve avere in rapporto a tale fenomeno, è necessario far riferimento a normative regionali. In proposito fondamentale è la Direttiva 2001/55/CE che definisce la protezione temporanea come una procedura “eccezionale”, volta ad assicurare protezione “immediata e temporanea” ad un gruppo consistente di persone che arrivano contemporaneamente sul territorio. Questo genere di tutela viene considerata una sorta di paracadute da utilizzare nel caso in cui il sistema nazionale d'asilo non possa garantire una protezione adeguata a questo “afflusso massiccio di sfollati”, senza mettere a rischio il suo corretto funzionamento20. La protezione temporanea è uno strumento da sempre utilizzato: negli anni 70 nei confronti dei rifugiati causati dalla crisi del Vietnam, in seguito, evento a noi più vicino, è stata impiegata per gestire il grande esodo proveniente dall'ex-Jugoslavia negli anni 90. Allo stesso modo, nel continente africano la protezione temporanea è una pratica da sempre in vigore, che prevede modalità diverse da quelle europee e spesso si risolve nell'attivazione di campi profughi supervisionati e gestititi da organi internazionali. La protezione temporanea non deve essere considerata come una minaccia per la Convenzione che non va rinegoziata in vista di questa nuova tipologia di accoglienza, al contrario è piuttosto “a pragmatic response intended to clarify the application of the principle of non-refoulement in certain circumstances” (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 241), un adattamento delle condizioni di protezione alle nuove esigenze storiche. Idoneo nei casi di afflussi massicci sarebbe l'uso del reinsediamento che, come vedremo nell'ultimo capitolo, è una pratica poco amata dagli Stati odierni, perché presuppone 20 Art. 2(a) della suddetta direttiva. 18 l'attuazione pratica del principio di solidarietà internazionale e di equa condivisione degli oneri. Ricordiamo però, che il non-refoulement non coincide con il diritto di asilo, non impone agli Stati nulla in materia di divisione delle responsabilità, o garanzie d'asilo in termini di soluzioni durevoli di accoglienza. Questo non toglie che, essendo il non-refoulement un principio fondamentale di diritto internazionale, la sua evoluzione nel tempo deve necessariamente tenere conto di nuove problematicità, con l'obiettivo di “promoting admission and protection, and simultaneously emphasizing the responsibility of nations at large to find the solutions” (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 244). Nasce dunque l'esigenza di leggere il non-refoulement non solo alla luce delle singole responsabilità dello Stato e di chi agisce per suo conto, ma alla luce di una governance globale che fatica ancora molto ad affermarsi nel campo delle politiche migratorie. 9 – Non-refoulement: un principio di diritto consuetudinario Per far sì che una norma entri nel diritto internazionale consuetudinario gli Stati la devono praticare, in quanto percepita come obbligatoria. L'importante è che la pratica sia accettata come legge, non che sia universale o che abbia una particolare durata. Inoltre, ciò che contribuisce a rendere una norma consuetudinaria è anche la letteratura di riferimento che convalida tale ipotesi (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 346). Nel Parere Consultivo dell'UNHCR già citato, esplicitamente si afferma che il nonrefoulement deve essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario, dunque è vincolante anche per gli Stati non aderenti alla Convenzione e al Protocollo di New York del 1967. L'UNHCR inoltre nota che: “gli Stati hanno abbondantemente indicato di accettare il principio di non-refoulement come vincolante, come dimostrato - inter alia – in numerose istanze nelle quali gli Stati hanno risposto alle rappresentanze dell’UNHCR fornendo spiegazioni o giustificazioni di casi di effettivi o presunti refoulement, in tal modo confermando implicitamente l’accettazione del principio.”21. A conferma di ciò si aggiunga che nella pratica gli Stati non hanno mai mosso obiezioni nei confronti di tale obbligo, elemento che ancor più conferma, secondo l'UNHCR, il 21 Paragrafo 15 del Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del 1967, 2007. 19 suo essere parte del diritto cogente. Per quanto riguarda invece il dovere di vincolare anche gli Stati non parte della Convenzione, è avanzata l'ipotesi che quest'ultimi devono sentirsi vincolati, non solo dal diritto consuetudinario, ma anche in quanto membri dell'ONU, carica che impone loro di collaborare in materia d'asilo. Essendo tra l'altro la Convenzione, mezzo attraverso cui l'ONU tutela i rifugiati, lo Stato non contraente non potrà mettere in atto una condotta contraria alla stessa, altrimenti si opporrebbe ad uno degli scopi dell'ONU (Salerno 2011, p. 19). Infine, per quel che concerne lo Stato parte della Convenzione, va ricordato che in essa l'obbligo di non fare, di non-refouler, è strettamente legato all'obbligo di fare, ovvero al riconoscimento dello status di rifugiato. Dunque, il Paese firmatario dovrà sempre agire conformemente a questo obiettivo, anche, e soprattutto, nei momenti in cui sarà in grado di esercitare la sua influenza su uno Stato non parte (Salerno 2011, p. 27) 22. 10 – L'ampliarsi delle garanzie del non-refoulement Il non-refoulement non è affermato solo nella Convenzione di Ginevra del 1951, troviamo altri strumenti volti a garantirlo. È espresso indirettamente all'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (1950)23; all'art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966)24. Direttamente lo troviamo dichiarato all'art. II(3) della Convenzione OUA (1969) che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa25; all'art. 22(8) della Convenzione americana sui diritti umani (1969)26; al capitolo III(5) della Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati (1984) che proclama addirittura il non-refoulement come norma di diritto cogente27; all'art. 1(3) della Convenzione contro 22 Sentenza della Corte EDU Ilaşcu c. Moldavia e Federazione Russa, del 8 luglio 2004, dove la Moldavia venne condannata, perché non aveva fatto il possibile affinché la regione secessionista della Transnistria rispettasse la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. 23 “Nessuno può essere sottoposto a tortura né pene o trattamenti inumani e degradanti.”, da ora in poi “CEDU”. 24 “Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni, o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.”, da ora in poi “PIDCP”. 25 “Nessuno può essere sottoposto da parte di uno Stato membro a misure quali il rifiuto di ammissione alla frontiera, il respingimento o l'espulsione che lo obbligherebbero a ritornare o a restare in un territorio dove la sua vita, integrità fisica o libertà sarebbero minacciate per i motivi enumerati nell'art. 1, paragrafi 1 e 2.”. 26 “In nessun caso uno straniero può essere espulso o respinto verso un paese, si tratti o meno del suo paese d'origine, se in quel paese rischia di essere violato il suo diritto alla vita o la sua libertà personale per motivi di razza, religione, condizione sociale o opinioni politiche.”. 27 “Riaffermare l'importanza e il significato del principio del non-respingimento (compreso il divieto di respingimento alla frontiera) come pietra angolare della protezione internazionale dei rifugiati. Questo principio imperativo nei confronti dei rifugiati deve essere riconosciuto e rispettato, allo stato attuale del diritto internazionale, come un principio di jus cogens”. 20 la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984) 28. Tutti questi strumenti, internazionali e regionali, hanno di fatto creato quella che viene definita “protezione complementare”, ovvero “State's protection obligations arising from international legal instruments and custom that complement - or supplement – the 1951 Refugee Convention” (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 285). Nella pratica la protezione complementare è stata sempre messa in atto attraverso le decisioni dei singoli Stati a livello nazionale, ma anche l'evoluzione del ruolo dell'UNHCR mette in risalto questo fenomeno. Infatti, l'UNHCR nasce con l'obiettivo di vegliare sull'applicazione delle convenzioni internazionali che assicurano la protezione dei rifugiati 29, l'art. 35 della Convenzione sottolinea l'importanza della collaborazione degli Stati contraenti con l'Alto Commissariato e l'impegno di fornire ad esso, quando richieste, le informazioni sulle leggi e procedure nazionali in merito all'asilo. L'ampliamento degli strumenti di protezione ha comportato anche un'ampliamento del mandato dell'UNHCR che non si occupa solo dei rifugiati, così come definiti dalla Convenzione, ma sempre più di IDP, ovvero sfollati interni, che migrano spesso per le stesse cause dei richiedenti asilo, ma non varcano i confini nazionali; e la discussione è ancora aperta sulla responsabilità dell'Alto commissariato di farsi portavoce dei “rifugiati ambientali”. Tra i vari strumenti di tutela sopracitati, fondamentale per lo sviluppo del diritto internazionale dei rifugiati è stata la Convenzione OUA che ha ampliato la definizione di rifugiato rispetto a quella fornita dalla Convenzione di Ginevra (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 292). Tale ampliamento è stato permesso proprio dal carattere regionale della Convenzione OUA che risponde alle esigenze di uno specifico contesto temporale e geografico: gli esodi di massa provocati dalle guerre di decolonizzazione in Africa (Mubiala 2001, p. 223). Per far fronte a questa situazione, la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione di Ginevra non era sufficiente e così all'art. I(2) della Convenzione OUA, si afferma che il termine in questione deve essere applicato anche a coloro che “a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio straniero o gravi turbamenti dell'ordine pubblico in tutto o in una parte del Paese di origine o di cittadinanza” sono costretti a lasciare tale Paese per cercare rifugio in un altro luogo. In seguito tale definizione è entrata a far parte del diritto internazionale in materia di rifugiati, tanto che lo stesso Comitato Esecutivo dell'UNHCR30 ha chiarito che non vi è 28 “Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura.”, da ora in poi “CAT”. 29 Preambolo della Convenzione, paragrafo VI. 30 Conclusione n° 22 del 1981, Protection of Asylum- Seekers in Situations of Large-Scale Influx. 21 nulla all'interno della Convenzione di Ginevra che le impedisca di essere applicata a persone che fuggono da situazioni di guerra o di generale violenza (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 292). Allo stesso modo, nel capitolo III(3) della Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati, viene riproposta questa ampia definizione, includendo tra le cause di fuga dal proprio Paese il timore per la propria vita, sicurezza e libertà, determinato da una generalizzata condizione di violenza, da un'aggressione esterna, ma anche da conflitti interni, e l'elenco viene lasciato aperto aggiungendo “e da altre circostanze che abbiano gravemente turbato l'ordine pubblico”. Per quanto concerne invece gli altri trattati sui diritti umani sopracitati, bisogna prima di tutto comprendere che possibilità effettive ha un soggetto di essere ammesso ad una riparazione di un diritto violato riconosciuto in uno di questi strumenti. Ad esempio, all'art. 22 della CAT è specificato che ogni Stato deve dichiarare di riconoscere il Comitato rispettivo, per far sì che quest'ultimo prenda in esame una violazione della Convenzione suddetta, rivendicata da un soggetto che è sotto la giurisdizione di tale Stato31. Inoltre, valida sia per la CAT, la CEDU che per il PIDCP è la regola che debbano prima essere esauriti tutti i rimedi interni, per i primi due trattati è inoltre necessario che la vicenda del ricorrente non sia già stata esaminata sotto una procedura internazionale, invece nel caso del PIDCP il ricorso viene giudicato inammissibile solo se risulta in sospeso davanti ad un altro organo internazionale32 (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 298). Se questi elementi possono essere percepiti come uno “svantaggio” rispetto alla protezione offerta nella Convenzione di Ginevra, va sottolineato che i tre trattati appena citati hanno un notevole punto di forza rispetto ad essa: affermano in modo inderogabile il principio di non-refoulement. Nella CAT viene espresso il carattere assoluto di tale obbligo, senza eccezioni o clausole di esclusione rispetto ad esso. Vi sono comunque delle limitazioni, date dal carattere specifico di tale convenzione. Prima di tutto il non-refoulement è proibito solo nei confronti del rischio di tortura, non di altri trattamenti o punizioni inumani, in secondo luogo l'agente della tortura deve essere statale, infine all'art. 1 viene chiaramente 31 Lo stesso affermano l'art. 41 del PIDCP e l'art. 35 della CEDU. 32 Per quanto riguarda la necessità preliminare dei rimedi interni gli artt. di riferimento sono: art. 35 (1) della CEDU, art. 41 (1, c) del PIDCP, art. 22 (5, b) della CAT. Per quel che concerne l'inammissibilità se la richiesta è stata precedentemente presa in esame dinnanzi ad un'altra istanza internazionale: art. 35 (2, b) della CEDU, art. 25 (5, a) della CAT. Per quanto concerne l'inammissibilità se l'istanza è ancora in sospeso dinnanzi ad un organo internazionale: art. 5 (2, a) del Protocollo Opzionale del PIDCP. 22 esplicitato che il concetto di tortura “non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate” (Gill, McAdam 2007, pp. 302-3). Per quel che concerne invece il PIDCP, l'art.7 rappresenta una disposizione inderogabile, e pur se non è esplicitamente affermato l'obbligo di non-refoulement, il Comitato Diritti Umani ha interpretato questo articolo considerando implicito il divieto di respingere una persona verso un luogo in cui ci sia il rischio reale di violazione del presente articolo (Gill, McAdam 2007, p. 306). Infine troviamo la CEDU che sarà oggetto d'analisi del prossimo capitolo; in tale sede basti ricordare che anche il principio di non-refoulement espresso dall'art. 3 della stessa è assoluto e ha una valenza nettamente più ampia rispetto a quello espresso dalla Convenzione di Ginevra in quanto “opera in relazione a qualsiasi tipologia di rischio per l'incolumità psico-fisica dell'individuo nel Paese di destinazione [mentre] il divieto di refoulement sancito dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra può essere invocato solamente in favore di una persona che soddisfi i requisiti generali di eleggibilità previsti dall'art. 1 della Convenzione stessa ” (Saccucci 2011, p. 177). 23 L'evoluzione dell'obbligo di non-refoulement nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo In questo secondo capitolo analizzeremo come le garanzie relative al principio di nonrefoulement, si sono ampliate nel sistema regionale del diritto comunitario. Verranno commentate alcune sentenze esemplari della Corte EDU, che si è espressa sul respingimento di cittadini stranieri dal territorio dell'UE e che rappresentano un'ulteriore evoluzione di tale principio ed un suo adeguamento a momenti storici diversi. 1- Nozioni generali sulle modalità di funzionamento della Corte EDU La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali fu redatta dal Consiglio d'Europa, firmata a Roma il 4 novembre del 1950 dai dodici Stati che allora ne facevano parte ed entrò in vigore il 3 settembre del 1953. Ispirandosi alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma volendo affermarsi come uno strumento effettivo di tutela collettiva dei diritti fondamentali, la CEDU fu dotata di un meccanismo di verifica: la Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo. Inizialmente quest'ultima non era sola, ma lavorava congiuntamente con la Commissione europea dei diritti umani, istituita nel 1954, composta da un cittadino rappresentate di ogni Stato membro. Scopo della Commissione era giudicare la ricevibilità del ricorso, che non veniva accettato solo nel caso di manifesta infondatezza (Viterbo 2010, p. 88). Con l'approvazione del Protocollo addizionale n° 11, nel 1998, la suddetta Commissione fu eliminata e, sia il lavoro di filtro, che di giudizio del ricorso, è ora nelle mani della Corte EDU. Si possono appellare alla Corte di Strasburgo persone fisiche, organizzazioni nongovernative le cui azioni non siano imputabili ad uno Stato e gruppi di privati che vogliano segnalare la violazione, da parte di uno dei Paesi contraenti, di uno dei diritti sanciti dalla CEDU. Gli Stati al contrario, non possono presentare ricorsi, ma possono interpellare la Corte nel momento in cui vogliano portare innanzi ad essa un'inosservanza compiuta da un altro Stato (Viterbo 2010, p. 90). Questo elemento è esemplificativo della volontà collettiva di tutela che la CEDU pretende di avere, in quanto promotrice di un sistema di garanzia sovranazionale. Vi sono delle condizioni preliminari affinché un ricorrente possa adire la Corte EDU. La prima è espressa all'art. 1 dalla convenzione: per permettere al ricorrente di 24 rivendicare una violazione, egli deve trovarsi sotto la giurisdizione dello Stato parte che la commette. Anche in questo caso, come visto nel capitolo precedente per l'applicazione del principio di non-refoulement, il concetto di giurisdizione è fondamentale e sono state necessarie numerose pronunce della Corte prima che essa venisse intesa in termini extraterritoriali. Nel caso Drozd e Janousek c. France et Espagne33 viene esplicitamente affermato che il termine giurisdizione non si limita al territorio nazionale delle Parti contraenti. La responsabilità statale può essere imputata ogni volta che gli atti, da cui dipende la violazione di un diritto della CEDU, siano compiuti da organi statali, ma anche ogni volta che le conseguenze di tali azioni si protraggano oltre il territorio nazionale. Ugualmente, per quel che concerne i casi di estradizione, la Corte di Strasburgo ha affermato che la responsabilità è dello Stato estradante, nel momento in cui espone il ricorrente ad uno dei trattamenti proibiti dalla CEDU34. La giurisprudenza successiva rafforza ancora più puntualmente l'interpretazione non territoriale del concetto di giurisdizione: in relazione al caso Loizidou c. Turchia35, la Corte dichiarò che uno Stato ha giurisdizione su tutte le zone al di fuori dal suo territorio nazionale, da lui occupate e/o controllate militarmente. Nel caso di zone occupate temporaneamente la Corte EDU non esclude che vi possa essere effettivo controllo: quest'ultimo deve però essere di alto livello e la presenza di un consistente numero di truppe militari non necessariamente lo implica36. Il controllo determina giurisdizione, sia se esercitato da corpi armati, sia da autorità locali subordinate e/o delegate dallo Stato in questione. Infine la Corte di Strasburgo puntualizza che l'art. 1 della CEDU non può essere interpretato in modo tale da permettere alla Parte contraente di violare i diritti della convenzione, neanche sul territorio di un Paese terzo37. La giurisprudenza dunque, ha sempre più consolidato l'idea che ciò che determina la giurisdizione è il controllo che lo Stato esercita sulla persona, indipendentemente dallo spazio geografico in cui tale controllo viene attuato. Infine, nella recente sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia la Corte EDU prende in esame anche i casi di giurisdizione in alto mare: nella vicenda in questione, che verrà analiticamente affrontata in seguito, è stata riconosciuta la giurisdizione dell'Italia, perché i ricorrenti si trovavano su navi battenti bandiera italiana, 33 Affaire Drozd et Janousek c. France et Espagne, requête n. 12747/87, sentenza del 26 giugno 1992, par. 91. 34 Affaire Soering c. Royaume Uni, requête n. 14038/88, sentenza del 7 luglio 1989, par. 91. 35 Affaire Loizidou c. Turquie, requête n. 15318/89, sentenza del 23 marzo 1995, par. 62. 36 Case of Issa and others v. Turkey, application n. 31821/96, sentenza del 16 novembre 2004, par. 79. 37 Ivi, parr. 71-74. 25 ma soprattutto perché sotto il diretto controllo delle autorità italiane38. Per quel che concerne le vicende svoltesi in acque internazionali, la Corte si era già espressa affermando che la giurisdizione va attribuita a quello Stato a cui appartengono le autorità che effettuano i controlli, indipendentemente che tali controlli siano eseguiti su una nave battente bandiera di un altro Paese39. Altra condizione preliminare per adire la Corte EDU viene espressa all'art. 35: il ricorrente deve aver esaurito preliminarmente tutte le vie di ricorso interno. Ne consegue che lo Stato chiamato in causa deve rendere disponibili ed effettive tali vie, ovvero esse devono essere in grado di garantire un possibile successo. Inoltre, in base al paragrafo 2 dello stesso articolo, la Corte EDU non accetta alcun ricorso, anonimo o identico ad uno già da essa esaminato, o presentato davanti ad altri organi internazionali. Infine, in base ad una modifica apportata dal Protocollo addizionale n° 14, presente all'art. 35(3), la Corte di Strasburgo potrà non accettare un ricorso se ritiene che il diretto interessato non ha subito un pregiudizio importante. Nel caso in cui venga dichiarata la ricevibilità del ricorso e venga emessa la sentenza, la Corte EDU obbliga lo Stato a porre termine alla violazione del diritto per la quale è stato chiamato in causa (art. 46). Tale disposizione non obbliga il Paese in questione ad annullare o modellare normative nazionali in contrasto con la CEDU (Viterbo 2010, p. 94). Al contrario, nel caso in cui il diritto interno non permetta di estirpare le conseguenze della violazione, lo Stato, in base all'art. 41, dovrà garantire un' “equa soddisfazione” che solitamente si concretizza in una somma di denaro che lo Stato è costretto a versare al ricorrente (Viterbo 2010, p. 95). Nel corso dei decenni il ruolo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è stato di notevole importanza per la CEDU: la Corte infatti, non ha svolto semplicemente un ruolo di verifica, ma indirettamente anche di modifica della convenzione stessa. Quest'ultima è divenuta uno strumento in continua evoluzione, rispondente alle esigenze del momento storico. Da un lato infatti, si è assistito ad un'ampliamento del contenuto dei diritti inizialmente sanciti, grazie al carattere casistico della giurisprudenza della Corte EDU che si pronuncia rispondendo solo in merito alla natura del quesito che le 38 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza del 23 febbraio 2012, par. 76. 39 Ivi, parr. 79-80, dove la Corte EDU ricorda il caso Medvedyev ed altri c. Francia, ricorso n. 3394/03, sentenza del 29 marzo 2010. Qui la Francia viene accusata di violazione dell'art. 5 della CEDU, in quanto le sue autorità, una volta avuto l'assenso del governo cambogiano, intercettarono in alto mare e la condussero fino al porto di Brest, una nave non battente bandiera, ma che fu segnalata e identificata come nave cambogiana. 26 viene posto. Questo meccanismo garantisce che ogni decisione sia individualizzata e ponderata sugli elementi del singolo caso; ma, al tempo stesso, la Corte assicura stabilità e coerenza al sistema interpretativo della CEDU, perché, emettendo la propria decisione, tiene sempre conto dei suoi precedenti (Zagrebelsky, pp. 68-69-70). Oltre all'ampliarsi del contenuto dei diritti sanciti della convenzione, si è assistito anche ad un arricchimento del catalogo dei diritti, grazie ai Protocolli addizionali, che però, le Parti contraenti possono decidere se ratificare o no. Non si ha invece libertà d'arbitrio per quel che concerne il cosiddetto zoccolo duro della CEDU: il diritto alla vita (art. 2), il divieto di tortura e pene o trattamenti inumani e degradanti (art. 3), quello di schiavitù e lavoro forzato (art. 4) e il principio di legalità dei diritti e delle pene (art.7). Gli Stati parte hanno inoltre degli obblighi positivi che impongono loro, non semplicemente di non violare i diritti sanciti, ma anche di adottare misure che ne assicurino il rispetto (Viterbo 2010, p.79). Questo non fa della CEDU uno strumento rigido: le Parti hanno la facoltà di concretizzare il godimento dei diritti con atteggiamenti più o meno restrittivi. Le limitazioni che gli Stati possono porre all'esercizio dei diritti sono considerate legittime se: trovano un riscontro effettivo nell'ordinamento nazionale dei singoli Paesi; se in rapporto ad esse è garantito un rimedio effettivo; se sono adottate in quanto corrispondenti ad un interesse pubblico rilevante; e se sono necessarie e proporzionate allo scopo perseguito (Viterbo 2010, p.81). Il criterio di necessità e proporzione trova la sua ragion d'essere proprio nel fatto che la Corte di Strasburgo opera rispondendo a casi concreti di violazione di diritti: su ogni singola vicenda essa può esprimersi in merito alla legittimità dell'interferenza dello Stato, rispetto all'esercizio del diritto sancito, valutando la necessità e la proporzione del comportamento della Parte coinvolta (Zagrebelsky, p. 65). Questa introduzione sul meccanismo di garanzia sovranazionale e collettiva dei diritti fondamentali incarnato dalla Corte EDU, permette ora di ritornare all'argomento specifico del presente lavoro, l'obbligo del non-refoulement. Nei successivi paragrafi si prenderanno in esame diverse sentenze della Corte, dimostrando l'ampliarsi della tutela di tale principio all'interno del diritto comunitario. 2- Il principio di non-refoulement alla luce della giurisprudenza della Corte EDU Come messo in evidenza nel capitolo precedente, in base all'art. 33 della Convenzione di 27 Ginevra del 1951, l'obbligo di non-respingimento viene applicato solo nei confronti dei rifugiati, così come definiti dall'art. 1 della Convenzione. Si è però assistito, gradualmente, all'affermazione del principio in questione anche da parte di altri strumenti internazionali e regionali che hanno contribuito alla creazione di una “protezione complementare” a quella offerta dalla Convenzione di Ginevra 40. La CEDU rappresenta uno di questi strumenti e la sua giurisprudenza ha costruito un meccanismo di tutela nei confronti delle misure di allontanamento di una categoria specifica di persone: i non-nazionali. Per indicare tale meccanismo di salvaguardia nei confronti di pratiche quali l'estradizione, l'espulsione e il respingimento è stato coniato, da parte dei giuristi Gérad Cohen-Jonathan e Frédéric Sudre, il termine protezione par ricochet, a seguito del caso Soering c. Royaume-Uni (Julien-Laferrière 2006, p. 141). La protezione di riflesso permette, da un lato di estendere “materialmente” il campo di applicazione della CEDU, proteggendo diritti non espressamente dichiarati in essa; dall'altro estende “territorialmente” le garanzie della convenzione, tutelandone i diritti contro la violazione che potrebbe essere messa in opera da Stati non contraenti (Laferrière 2006, p. 141). La celebre sentenza sul caso Soering infatti, ha affermato, tenendo conto della specificità della situazione presa in analisi, il diritto a non essere estradati41, diritto non presente nella CEDU. Il meccanismo di costruzione di tale garanzia prevede che lo Stato contraente abbia l'obbligo di verificare che nel Paese in cui il ricorrente dovrebbe essere rinviato, siano garantiti libertà e diritti tutelati nella CEDU42. La protezione di riflesso dunque, nel momento in cui l'estradizione comporta la violazione di uno dei diritti sanciti dalla convenzione europea, permette di giudicare lo Stato contraente ed estradante responsabile della possibile violazione indiretta di uno di questi diritti. Con l'evoluzione della sua giurisprudenza la Corte di Strasburgo ha rafforzato il meccanismo della protezione par ricochet in materia di allontanamenti rivolti a stranieri, nonostante la CEDU, di per sé, non vieti né espulsioni, né estradizioni. Infatti, all'art. 5(1,f) vengono consentite le varie misure di allontanamento, addirittura limitando il diritto alla libertà personale (Starace 2003, p. 97). Le uniche limitazioni a queste procedure espressamente presenti nella CEDU riguardano le espulsioni collettive (art. 4 del Protocollo addizionale n° 4) e quelle nei riguardi di chi è cittadino di uno Stato parte 40 Vedi paragrafo 10 del 1° capitolo. 41 Diritti che Sudre definisce “derivati”, in quanto non espressamente sanciti dalla CEDU (Sudre 2006, p. 17) 42 Affaire Soering c. Royaume Uni, par. 86. 28 (art. 3 del medesimo Protocollo). La giurisprudenza della Corte EDU ha dunque reso possibile che l'obbligo di nonrefoulement acquisisse una solida tutela all'interno del diritto europeo. Tale principio, in particolare, è stato collegato alla possibile violazione di alcuni articoli della CEDU che ora saranno presi in esame. 2.1- La protezione di riflesso a garanzia dell'art. 3 Si inizierà con l'approfondire le sentenze e le decisioni in merito all'art. 3 che è quello che fornisce maggiori garanzie di non-refoulement, in quanto la ricca giurisprudenza che lo riguarda ha permesso di estenderne la portata, donando numerose sfumature al concetto di “trattamenti inumani e degradanti”. La protezione relativa all'art. 3 diviene dunque assai più estesa di quella fornita dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, perché il divieto di allontanamento non si basa esclusivamente sul concetto di persecuzione: in base alla Convenzione il principio di non-refoulement va applicato nei confronti di coloro che temono di essere perseguitati per razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o politico. La protezione di riflesso relativa all'art. 3 della CEDU, permette invece che un individuo sia tutelato rispetto a misure di allontanamento dal territorio dello Stato contraente, se rischia di essere esposto, nel Paese di destinazione, a tortura o pene o trattamenti inumani e degradanti. Numerose sono le questioni su cui la Corte EDU si è espressa per delucidare i casi in cui l'articolo trovi la sua applicazione. Prima di tutto è necessario riflettere sulla tipologia di Stato verso cui il ricorrente rischia di essere allontanato. Si ricordi infatti, che per molti anni nella giurisprudenza della Corte EDU vi fu “una sorta di presunzione”, secondo la quale non si riteneva possibile, a priori, una violazione dell'art. 3 se il Paese di destinazione dell'espulsione era uno Stato membro del Consiglio d'Europa: si era convinti che uno Stato, in quanto parte del Consiglio, automaticamente sottostava al meccanismo di garanzia della CEDU (Malinverni 2003, p. 168). In sentenze più recenti invece, questa presunzione è stata superata e sono stati presi in esame casi di rinvio verso Paesi europei. Emblematiche in proposito sono le numerose vicende coinvolgenti richiedenti asilo che avrebbero dovuto essere rinviati, in base al Regolamento Dublino43, nel primo Paese europeo in cui erano 43 Regolamento n° 604/2013, che stabilisce i criteri di determinazione dello Stato membro competente 29 stati fotosegnalati. Si ricordi il caso TI c. Royaume-Uni in cui un richiedente asilo srilankese sosteneva che, se rinviato in Germania, la sua domanda d'asilo non sarebbe stata valutata in modo scrupoloso e dunque avrebbe rischiato di essere rimandato nel suo Paese d'origine, dove molto probabilmente sarebbe stato sottoposto a torture o pene inumane e degradanti44. In merito ricordiamo anche la sentenza M.S.S. c. Belgique et Grèce45, che ha rappresentato un radicale cambiamento in proposito, come verrà illustrato in seguito, in cui vengono impediti rinvii in Grecia, in quanto considerata un Paese dove un richiedente asilo rischia di subire trattamenti inumani e degradanti. La Corte EDU si è inoltre espressa in merito all'allontanamento verso un Paese non contraente e ha dimostrato lo stesso orientamento: nel caso Hussun e altri c. Italia46, si prese per la prima volta in considerazione la situazione dei migranti giunti irregolarmente a Lampedusa che rischiavano di essere respinti in Libia, Paese non firmatario della CEDU, e, in più, correvano il rischio di essere successivamente rinviati nei loro Paesi d'origine, dove sarebbero stati vittime di tortura o trattamenti inumani e degradanti. La politica italiana dei respingimenti verrà messa sotto accusa nel recente caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in cui la Corte EDU si è espressa in termini perentori nei confronti dell'atteggiamento italiano, inaugurando un orientamento innovativo che segna un'importante garanzia dell'obbligo di non-refoulement nel diritto europeo. Quando viene chiamato in causa l'art. 3, oltre che sullo Stato di destinazione, si deve riflettere sulla tipologia di agente che attua la tortura. Anche in questo caso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ampliato la protezione offerta dall'art. 3, accordandone la violazione in vicende in cui gli agenti di tortura erano non-statali. Il primo caso fu H.L.R. c. France47, in cui un cittadino colombiano, espiata una pena di reclusione di cinque anni in Francia per traffico di stupefacenti, aveva congiuntamente ricevuto un provvedimento di espulsione. Il soggetto presentò ricorso, in quanto sosteneva che in Colombia la sua vita poteva essere minacciata dai membri del “cartello” di cui aveva fatto parte. Nonostante la Corte EDU si sia pronunciata per l'esame della domanda d'asilo. 44 Affaire T.I. c. Royaume-Uni, requête n. 43844/98, sentenza del 7 marzo 2000. 45 Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, requête n. 30696/09, sentenza del 21 gennaio 2011. Questa sentenza ha avuto il merito di rendere esplicita nel Regolamento Dublino III l’impossibilità di trasferire un richiedente verso uno Stato membro nel quale egli rischia di subire un trattamento inumano o degradante. 46 Caso Hussun e altri c. Italia, ricorsi n. 10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, sentenza del 19 gennaio 2010. 47 Affaire H.L.R. c. France, requête n. 24573/94, sentenza del 29 aprile 1997. 30 negativamente sul caso, vanno sottolineate le sue parole: il diritto garantito dall'art. 3 è inderogabile e proprio per questa sua assolutezza devono essere scrupolosamente vagliate anche quelle circostanze in cui l'agente di tortura o di pene o trattamenti inumani e degradanti è non-statale. Ovviamente, però, bisogna dimostrare che il rischio sia reale e che le autorità dello Stato verso cui il soggetto dovrebbe essere respinto non siano in grado di ovviare il rischio, attraverso la prova di un'adeguata protezione48. Proseguendo su questo orientamento la Corte EDU ha nettamente ampliato le garanzie relative all'art. 3, accordandone ammissibile la violazione anche nei casi in cui la tortura o le pene o i trattamenti inumani e degradanti dipendano da circostanze oggettive. Emblematico è il caso D. c. Royaume-Uni49, in cui le condizioni sanitarie e sociali del luogo in cui il ricorrente doveva essere rinviato sono state considerate tali da costituire una violazione dell'art. 3. Va comunque ricordato che in quest'ultima casistica, e in quella in cui l'agente di persecuzione è non-statale, la Corte di Strasburgo pretende un'alta soglia dimostrativa del rischio in cui il ricorrente potrebbe incorrere. Se l'agente non è statale, la Corte di Strasburgo ha sempre chiesto che si dimostrasse che lo Stato non fosse in grado di dare protezione al ricorrente; nel caso di circostanze oggettive che mettono a rischio la salute dello straniero, finora solo la sentenza sopra enunciata ha avuto un esito positivo e la Corte EDU ha espresso la necessità di valutare in modo inconfutabile il rischio in questione (Saccucci 2011, p.158). Infine, vi sono anche casi in cui il provvedimento di espulsione potrebbe incidere sulla salute del ricorrente in base a circostanze soggettive: si tratta di quegli episodi in cui l'espulsione potrebbe portare il soggetto al suicidio. Basti ricordare in proposito che la Corte EDU non ha mai interpretato questa particolare casistica attraverso il meccanismo della protezione par ricochet, in quanto il rischio “non è di regola destinato a materializzarsi nel Paese di destinazione, ma costituisce piuttosto una conseguenza diretta dell'esecuzione della misura contestata” (Saccucci 2011, p.159)50. Già quanto detto finora dimostra una tendenza della giurisprudenza della Corte di Strasburgo ad ampliare le garanzie offerte dall'art. 3, comprendendo sotto la sua protezione una gamma sempre più variegata di ipotesi. Analizzeremo ora l'effetto estensivo che tale giurisprudenza ha avuto anche nella definizione, via via sempre più ampia, del concetto di “pene” e “trattamenti inumani e 48 Ivi, par. 40. 49 Affaire D. c. Royaume-Uni, requête n. 30240/96, sentenza del 2 maggio 1997. 50 Si veda in proposito Haziri e altri c. Svezia, ricorso n. 37468/04, decisione del 5 settembre 2006. 31 degradati”. La Corte di Strasburgo per giurisprudenza consolidata definisce “inumano” quel trattamento inflitto con premeditazione, che dura per ore, causando lesioni corporali ed intense sofferenze fisiche o mentali. Per “degradante” si intende invece quel trattamento che umilia e avvilisce la persona, senza rispettare la sua dignità umana e addirittura diminuendola; un trattamento che suscita nella persona che lo subisce paura, angoscia, o inferiorità, distruggendo la sua resistenza morale e fisica 51. In primis, si rammenti ancora una volta il caso Soering in cui la Corte EDU ha dichiarato trattamento inumano e degradante esporre una persona, non alla pena di morte, ma alla “sindrome del corridoio della morte”. All'epoca la Corte affermò che la pena di morte non avrebbe mai potuto sollevare un problema in merito all'art. 3 52, si ricordi infatti che nel 1989, ancora non era stato redatto il Protocollo addizionale n° 13 che all'art. 1 abolisce la pena di morte, in quanto essenziale per l'affermazione del diritto fondamentale alla vita (art. 2). Al contrario, nella vicenda Soering la sindrome del corridoio della morte fu considerata una pena inumana e degradante per: la durata delle detenzione prima dell'esecuzione della pena che avrebbe potuto protrarsi per anni 53, la severità del regime speciale di detenzione, dove il soggetto interessato dati la sua età, la sua nazionalità e il suo colore, avrebbe potuto subire sevizie omosessuali ed aggressioni fisiche54. Infine, quello che la Corte di Strasburgo ritenne essenziale per considerare il corridoio della morte una pratica inumana fu la situazione personale del ricorrente, in particolare la sua giovane età ed i suoi disturbi mentali 55. Il concetto di trattamenti inumani e degradanti viene poi esteso con la sentenza D. c. Royaume-Uni a quelle situazioni che mettono in pericolo la salute di una persona gravemente malata. Nel caso specifico il ricorrente, affetto da virus HIV, rischiava un'espulsione verso il suo Paese d'origine, Saint Kitts. La Corte di Strasburgo emettendo la sentenza a favore del non-refoulement specificò che: “les non-nationaux qui ont purgé leur peine d’emprisonnement et sont sous le coup d’un arrêté d’expulsion ne peuvent en principe revendiquer le droit de rester sur le territoire d’un Etat contractant afin de continuer à bénéficier de l’assistance médicale, sociale ou autre, assurée durant leur séjour en prison par l’Etat qui expulse. Cependant, compte tenu des 51 52 53 54 55 Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, par. 220. Ivi, par. 104. Ivi, par. 106. Ivi, par. 107. Ivi, par. 111. 32 circonstances très exceptionnelles de l’affaire et des considérations humanitaires impérieuses qui sont en jeu, force est de conclure que la mise à exécution de la décision d’expulser le requérant emporterait violation de l’article 3 ”56. Si noti in proposito, che la Corte EDU tende a descrivere come eccezionale la situazione in cui un soggetto possa sottrarsi al decreto di espulsione ricevuto da uno Stato. Nel caso in questione le circostanze particolari che hanno indotto gli organi europei ad esprimersi in tali termini furono: la documentata prova che a Saint Kitts non vi fossero strutture adatte alla cura del virus HIV, che l'arresto delle cure che al momento il ricorrente riceveva, dato il suo stadio avanzato di malattia, avrebbe avuto conseguenze gravi; che il ricorrente si sarebbe trovato nella condizione di non avere alcun familiare o persona vicina a Saint Kitts e ciò gli avrebbe causato sofferenze “fisiche e mentali estreme”; e infine la Corte rilevò che non vi erano elementi a dimostrazione che il ricorrete avrebbe potuto ricevere una qualsiasi altra forma di aiuto morale e sociale nel Paese di destinazione57. Sia per il presente caso che per quello Soering, la Corte EDU ha rivendicato un orientamento d'eccezione, in entrambe le circostanze dedotto dall'analisi scrupolosa degli elementi in questione. La Corte di Strasburgo da sempre dichiara la sua non ingerenza in materia di politiche migratorie, in particolare quando si tratta di decidere sull'entrata e la permanenza di stranieri nel territorio degli Stati contraenti. Proprio per questo, quando impedisce ai Paesi parte di attuare misure di allontanamento dal loro territorio nazionale, giustifica l'imposizione dell'obbligo di non-refoulement specificando che essa dipende dalle peculiarità dei fatti in questione, a perentorio monito dell'eccezionalità della sua decisione. Continuando l'analisi dell'utilizzo estensivo del concetto di pena o trattamento inumano e degradante non si può non citare la sentenza Salah Sheekh c. Pays-Bas58, dove viene considerata contraria all'art. 3 l'espulsione di un ricorrente facente parte, nel Paese di destinazione, di un gruppo esposto sistematicamente a maltrattamenti. Nel suo giudizio la Corte di Strasburgo rammenta che nulla nella CEDU e nei suoi Protocolli sancisce il diritto d'asilo, ma che, nell'esercizio del loro diritto di espellere uno straniero, le Parti contraenti devono tenere in considerazione l'art. 3, in quanto emblema di uno dei valori 56 Affaire D. c. Royaume-Uni, par. 54. 57 Ivi, par. 52. 58 Affaire Salah Sheekh c. Pays-Bas, requête n. 1948/04, sentenza del 23 maggio 2007. 33 fondamentali delle società democratiche59. Facendo riferimento ad un rapporto dell'UNHCR, la Corte EDU individua che l'appartenenza ad un gruppo marginalizzato ed isolato, come quello di cui fa parte il ricorrente, non gli consentirebbe di essere al sicuro, in un paese come la Somalia dove “L'appartenance à un clan a [...] été décrite comme le dénominateur commun le plus important de la sécurité personnelle sur l'ensemble du territoire somalien”60. Infatti, le zone individuate dal governo olandese come sicure, sono luoghi in cui la maggioranza etnica non corrisponde a quella del ricorrente, dunque nulla può assicurare che al soggetto sia permesso di trovare rifugio in questi luoghi61. Inoltre, la Corte EDU giudica la minoranza ashraf, a cui appartiene il ricorrente, un gruppo tra i più vulnerabili in Somalia, soggetto a sistematici maltrattamenti 62. A differenza del caso Vilvaraja, dove era stato richiesto, nonostante la situazione di generale violenza del Paese di destinazione, di dimostrare che il rischio di subire atti contrari all'art. 3 fosse individuale, nella vicenda Salah Sheekh non viene preteso che il ricorrente dimostri caratteristiche particolari, rispetto al suo gruppo di appartenenza; pretendere ciò equivarrebbe a rendere “illusoria” la protezione offerta dall'art. 363. Ancora, nel caso Sufi and Elmi v. The United Kingdom64, la garanzia appena citata si amplia ancora di più: di fronte al caso di due somali soggetti a decreto di espulsione in quanto ritenuti pericolo per la sicurezza dello Stato, la Corte EDU afferma che la “general situation of violence in the country of destination was of a sufficient level of intensity to create a real risk” tanto da rendere l'espulsione una chiara violazione dell'art. 3, senza pretendere che i ricorrenti dimostrino di appartenere ad una minoranza vulnerabile65. Infine non possiamo non soffermarci ai fini del presente lavoro su una sentenza esemplare in materia di non-refoulement, quella M.S.S. c. Belgique et Grèce. Qui la Corte EDU si è pronunciata sul rinvio di un richiedente asilo afgano dal Belgio alla Grecia, in base al Regolamento Dublino. Il migrante, rinviato in Grecia, era stato qui trattenuto in un centro adiacente l'aeroporto e aveva lamentato di aver subito trattamenti 59 60 61 62 63 64 Ivi, par. 135. Ivi, par. 139. Ivi, par. 144. Ivi, par. 146. Ivi, par. 148. Case of Sufi and Elmi v. The United Kingdom, applications n. 8319/07 and 11449/07, sentenza del 28 giugno 2011. 65 Ivi, par 217. 34 inumani e degradanti. La Corte di Strasburgo ha giudicato il rinvio in Grecia una violazione dell'art. 3 della CEDU. Per sostenere tale tesi sono stati presi in considerazione numerosi rapporti di organizzazioni internazionali che denunciavano varie male condotte del governo greco nei confronti dei richiedenti asilo. Ad esempio, la pratica sistematica di detenzione, di durata variante da qualche giorno a qualche mese, da parte del governo greco applicata nei confronti dei richiedenti asilo, sia di quelli appena arrivati, sia di quelli rinviati dagli altri Paesi europei in base al Regolamento Dublino66. Nei centri di detenzione venivano riscontrati: sovrappopolazione, sporcizia, spazi ristretti, assenza di ventilazione, servizi igenici inadeguati, accesso limitato alle cure, non rispetto dell'intimità, ecc...67. Le indagini di varie organizzazioni internazionali inoltre, mettevano in evidenza una notevole difficoltà ad accedere alla procedura d'asilo, che spesso era scoraggiata, grazie all'omissione sistematica di informazioni in proposito68. In aggiunta, durante il periodo di esame della domanda di asilo non era fornito agli interessati alcun aiuto da parte dell'autorità pubblica, costringendo i richiedenti a vivere in luoghi “di fortuna” abusivi69. Infine, molti documenti dimostravano che la pratica della detenzione in aeroporto era di fatto una prassi del governo greco70. Allo stesso modo, spesso la Grecia rinviava in Turchia, o addirittura nel proprio Paese di origine, sovente tramite espulsioni collettive, i richiedenti asilo, sia prima che venisse ufficializzata la richiesta d'asilo, che addirittura in seguito71. Proprio basandosi su questi elementi, visto che il ricorrente non era riuscito a portare prove dei trattamenti che aveva ricevuto, la Corte di Strasburgo ha emesso la propria sentenza, considerando la violazione dell'art. 3, non solo in rapporto alle condizioni degradanti di detenzione72, ma anche in rapporto alle condizioni di esistenza in Grecia del ricorrente, simili a quelle appena descritte di molti altri richiedenti asilo, o potenzialmente tali 73. La tendenza a comprendere diverse fattispecie all'interno della protezione di riflesso offerta dall'art. 3 è stata resa possibile dal carattere assoluto ed inderogabile del divieto quivi espresso che è divenuto oramai una regola imperativa del diritto internazionale. Nel 1991, per la prima volta la Corte di Strasburgo riconobbe il carattere assoluto 66 67 68 69 70 71 72 73 Ivi, par. 161. Ivi, par. 162. Ivi, parr. 172-173. Ivi, parr. 168-169. Ivi, par. 176. Ivi, par. 192. Ivi, da par. 214 a 234. Ivi, da par. 247 a 264. 35 dell'art. 374, ma solo nel 1996, ne diede effettiva prova, nel caso Chahal c. France. Qui la Corte EDU rigetta tutte le obiezioni del governo britannico che avrebbe voluto bilanciare la protezione offerta tramite l'art. 3 con la sicurezza dello Stato: “L'article 3 (art. 3) consacre l'une des valeurs fondamentales des sociétés démocratiques [...]. La Cour est parfaitement consciente des énormes difficultés que rencontrent à notre époque les Etats pour protéger leur population de la violence terroriste. Cependant, même en tenant compte de ces facteurs, la Convention prohibe en termes absolus la torture ou les peines ou traitements inhumains ou dégradants, quels que soient les agissements de la victime”75. La protezione offerta dall'art. 3 va rivendicata con assolutezza in ogni caso di espulsione in cui l'individuo potrebbe incorrere nel rischio reale di trattamenti inumani e degradanti. Il soggetto dovrà dunque essere protetto indipendentemente dalla sua posizione di pericolosità o indesiderabilità per lo Stato in questione 76. Molti Stati hanno poi cercato di rimettere in discussione questa assolutezza, soprattutto in riferimento alle misure anti-terroristiche e a quelle volte a salvaguardare la sicurezza nazionale (Saccucci 2011, p.169). Al contrario la Corte di Strasburgo ha riaffermato l'inderogabilità del principio di non-refoulement nei casi coinvolgenti l'art. 3 e l'inammissibilità di qualsiasi giudizio di bilanciamento fra esigenze di protezione dell'individuo ed esigenze di sicurezza nazionale. Si tratta del caso Saadi c. Italia77, emblematico in quanto il ricorrente soggetto ad espulsione era sospettato di attività terroristiche. Nel corso dell'esame della vicenda intervenne anche il governo britannico, sottolineando la necessità che la Corte di Strasburgo rivedesse la posizione presa per il caso Chahal: ricorda la Gran Bretagna che, non solo la CEDU non riconosce il diritto di asilo, ma addirittura la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, lo riconosce, ma lo bilancia con la sicurezza nazionale dello Stato di accoglienza78. La Corte EDU rispose perentoriamente che l'art. 3 “non prevede limitazioni”79; dunque era da considerarsi inaccettabile la tesi del Regno Unito che proponeva di fare un discrimine tra i casi in cui i maltrattamenti erano effettuati da uno Stato parte della CEDU e i casi che invece erano imputabili ad un Paese terzo80. Allo stesso modo contrastava con l'assolutezza dell'art. 3 74 Affaire Vilvarajah et autres c. Royaume-Uni, requêtes n. 13163/87, 13164/87, 13165/87, 13447/87, 13448/87, sentenza del 30 ottobre 1991, par. 108. 75 Affaire Chahal c. Royaume-Uni, requête n. 22414/93, sentenza del 15 novembre 1996, par. 79. 76 Ivi, par. 80. 77 Caso Saadi c. Italia, ricorso n. 37201/06, sentenza del 28 febbraio 2008. 78 Ivi, par. 119. 79 Ivi, par. 127. 80 Ivi, par. 138. 36 la successiva posizione britannica che prevedeva che il ricorrente reputato minaccia per la sicurezza nazionale, fosse obbligato a presentare prove più rigorose per dimostrare il rischio di maltrattamenti a cui l'espulsione lo avrebbe sottoposto 81. Per concludere, questa sentenza permette di mettere in luce un ultimo aspetto relativo alla protezione par ricochet: le modalità per stabilire che il rischio di subire tortura sia reale. È evidente che trattandosi di una protezione di riflesso abbiamo a che fare con un effetto “preventivo” e dunque non potrà essere chiesto al ricorrente di portare delle prove (Julien-Laferrière 2006, p. 148). La Corte EDU dovrà dunque analizzare le “conseguenze prevedibili” in caso di espulsione del ricorrente verso il Paese in questione82. Non è necessario che il rischio sia certo, ma ci devono essere dei motivi seri per credere che in seguito all'allontanamento il rischio sia reale (Julien-Laferrière 2006, p. 149). 2.2- Altre garanzie di protezione in materia di espulsioni ed estradizioni: gli artt. 26-8-9-13 della CEDU Prenderemo ora in considerazione tramite quali altri diritti della CEDU sia possibile affermare una protezione di riflesso che tuteli lo straniero in materia di espulsioni ed estradizioni. La protezione par ricochet è stata espressa in merito alla violazione dell'art. 2 della CEDU: diritto alla vita. Ad esempio nella caso Fracins Gomes v. Sweden83, la Corte di Strasburgo afferma che il provvedimento di espulsione verso il Bangladesh del ricorrente chiama in causa il governo svedese in merito alla violazione dell'art. 2 e dell'art. 1 del Protocollo addizionale n° 13 che abolisce la pena di morte. La Corte EDU sottolinea la necessità di analizzare i due articoli congiuntamente e riconosce il rischio che il ricorrente, una volta espulso, sarebbe in pericolo in seguito all'imposizione della pena di morte che lo aspetta. In secondo luogo, una giurisprudenza sempre più folta riguarda il diritto ad un equo processo, sancito dall'art. 6 e già affermato nel famoso caso Soering: la Corte dichiara di non escludere che l'estradizione possa causare problemi in rapporto all'art. 6, nel caso in 81 Ivi, par. 140. 82 Ivi, par. 130. 83 Case of Fracins Gomes v. Sweden, application n. 34556/04, decisione del 7 febbraio 2006. 37 cui il ricorrente rischi di subire un diniego flagrante di un equo processo84. Questa posizione, poi riaffermata nel caso Al-Moayad v. Germany85, “costituisce uno degli aspetti di maggiore innovatività della giurisprudenza europea”, rappresentando una notevole tutela in materia di non-refoulement (Saccucci 2011, p.174)86. Di particolare rilievo risulta anche la giurisprudenza che riconosce la protezione par ricochet a tutela dell'inosservanza dell'art. 8, garante del rispetto della vita privata e familiare. A differenza dell'art. 3 che è assoluto, l'art. 8 bilancia i diritti appena citati con altri valori quali, la sicurezza nazionale, il benessere economico, la difesa dell'ordine pubblico, la prevenzione di reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti altrui. L'orientamento della Corte EDU ha finora affermato una definizione estensiva del concetto di vita familiare, rendendola autonoma da quelle fornite dai vari ordinamenti nazionali. Nel momento in cui il concetto di vita familiare non può essere invocato, la Corte di Strasburgo si appella al diritto alla vita privata, definito come “the right to establish and develop relationships with other human beings and the outside world and can sometimes embrace aspects of an individual's social identity, it must be accepted that the totality of social ties between settled migrants and the community in which they are living constitutes part of the concept of 'private life' ”87. Non si può condurre un'analisi dettagliata e mettere in evidenza orientamenti consolidati della giurisprudenza CEDU così come è stato fatto in merito alla protezione offerta tramite l'art. 3, perché la Corte di Strasburgo, affrontando la violazione dell'art. 8, deve di volta in volta esprimersi bilanciando gli interessi del ricorrente con quelli dello Stato espellente, prendendo in considerazione tutte le sfumature che caratterizzano la vicenda in questione. La Corte EDU ha però individuato i criteri da valutare nel bilanciamento dei valori in gioco: la natura e la gravità del reato commesso, la durata della residenza del ricorrente nel Paese dove dovrebbe essere espulso, il tempo passato dopo la commissione del reato e la condotta del richiedente durante questo periodo, le nazionalità delle persone coinvolte, la situazione familiare del ricorrente (ad esempio la durata del matrimonio o altri fattori che evidenzino l’effettiva vita familiare della coppia, 84 85 86 87 Affaire Soering c. Royaume-Uni, par. 113. Case of Al-Moayad v. Germany, application n. 35865/03, decisione del 20 febbraio 2007. Si veda anche il già citato caso Saadi c. Italia, da par. 153 a 160. Case of Omojudi v. United Kingdom, application n. 1820/08, sentenza del 24/02/2010. 38 la presenza di figli, ecc...)88. Inoltre, spesso, nei casi che coinvolgono il non-refoulement, la violazione dell'art. 8 è posposta a quella dell'art. 3. Una volta accordata quest'ultima dunque, la Corte EDU afferma che non è necessario esprimersi in merito alla violazione dell'art. 8, essendo il diritto espresso dall'art. 3 assoluto, dunque sufficiente a rendere illegittima la forma di allontanamento prevista per il ricorrente 89. Possiamo comunque trarre delle considerazioni generali in merito all'art. 8. Per quanto riguarda il concetto di vita familiare la giurisprudenza ha dimostrato un orientamento volto a favorire nei casi di un provvedimento di espulsione, i ricorrenti che si presentano come lungo-residenti, o i migranti di seconda generazione, in quanto hanno avuto tempo di creare rapporti saldi e forti sul territorio (Goodwin-Gill, McAdam 2007, pp. 319-320). La Corte infatti, nel caso Uner c. Pays-Bas, ricorda che, pur se nella CEDU non vi è nessun divieto in merito, va tenuta in considerazione la Raccomandazione n° 1504 del 2001, dove l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa rammenta che gli Stati parte devono garantire la non-espulsione dei migranti lungo-residenti, nati, o cresciuti, sul proprio territorio nazionale. L'Assemblea raccomanda che i migranti lungo-residenti che commettono un reato, debbano essere trattati al pari dei nazionali e la misura dell'espulsione vada adoperata solo in casi di eccezionale gravità del reato90. In altre situazioni invece, la Corte di Strasburgo non ha accordato la violazione dell'art. 8 in materia di allontanamenti, ma ha considerato più ragionevole che la famiglia del ricorrente si trasferisse nel Paese in cui egli sarebbe stato espulso (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 320). La Corte EDU si è anche pronunciata in merito alla protezione par ricochet che potrebbe scaturire dalla violazione dell'art. 9, pur non avendo mai accordato la sua trasgressione nei casi di espulsione o estradizione. L'art. 9 garantisce la libertà di pensiero, coscienza e religione, che comprende il diritto di cambiare credo, la libertà di manifestarlo singolarmente o in gruppo, in pubblico o in privato, tramite il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. Comunque, anche questo diritto, a differenza di quello espresso nell'art. 3, non è assoluto, infatti viene bilanciato chiamando in causa quelle misure necessarie nelle società democratiche per garantire la sicurezza, l'ordine, la 88 Affaire Uner c. Pays-Bas, requête n. 46410/99, sentenza del 18 ottobre 2006, par. 57. 89 Si riscontri ciò nei casi già citati, Chahal c. Royaume-Uni, par. 139, D. c. Royaume-Uni, par. 63, Saadi c. Italia, par. 170. 90 Affaire Uner c. Pays-Bas, parr. 55-56. 39 salute, o la morale pubblica e la protezione dei diritti altrui (art.9, par. 2). Nel caso Z. et T. c. Royaume-Uni91 viene presa in esame la vicenda di due pakistani cristiani, soggetti a provvedimento di espulsione verso il Pakistan, Paese a maggioranza islamica, dove i ricorrenti ritenevano di non poter professare liberamente la propria religione. La Corte EDU afferma che, pur se la responsabilità di uno Stato parte può essere chiamata in causa indirettamente, in vista del rischio reale di violazione di uno degli articoli della CEDU sul territorio di un Paese non contraente, ciò non implica che l'art. 9 obblighi lo Stato parte a garantire la libertà di culto ovunque. Nel caso in specie la Corte di Strasburgo non ha acconsentito alla violazione dell'art. 9, ma nella decisione ha precisato che non si deve escludere che a “titolo eccezionale” si manifesti la possibilità di un rischio reale di violazione flagrante dell'art. 9 nel Paese di destinazione. Allo stesso tempo però, risulta “difficile d'imaginer une affaire dans laquelle une violation suffisamment flagrante de l'article 9 n'impliquerait pas également un traitement contraire à l'article 3 de la Convention”92. Si noti come anche in questo caso, la Corte sottolinea che la protezione di riflesso in merito all'art. 9 possa avvenire, ma solo in condizioni particolarmente eccezionali e che comunque, come accade spesso per l'art. 8, la violazione del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione è spesso posposta a quella dell'art. 3. Per concludere ricordiamo la giurisprudenza in merito all'art. 13 della CEDU che garantisce il diritto ad un effettivo ricorso per tutti coloro che hanno subito una violazione di uno dei diritti riconosciuti dalla convenzione. Prendiamo in considerazione due casi che hanno riguardato richiedenti asilo: per prima ricordiamo la sentenza Jabari c . Turquie93, dove la ricorrente sostiene di non aver avuto possibilità di un riscorso effettivo in proposito alla decisione del governo turco che le ha impedito di accedere alla procedura di richiesta di asilo a causa di tardività. Nonostante la Corte EDU riconosca un “margine di apprezzamento” agli Stati parte nella scelta di come conformarsi all'art. 13, non bisogna dimenticare che quest'ultimo esige perentoriamente che le Parti contraenti abilitino l'istanza nazionale competente in merito al contenuto dei possibili 91 Affaire Z. et T. c. Royaume-Uni, requête n. 27034/05, decisione del 28 febbraio 2006. 92 Ibidem. 93 Affaire Jabari c. Turquie, requête n. 40035/98, sentenza del 11 luglio 2000. 40 reclami fondati sulla CEDU, rendendo così realizzabile la possibilità di un ricorso relativo ai diritti in essa contenuti94. Inoltre la Corte di Strasburgo lega indissolubilmente nel caso di richiedenti asilo l'art. 13 al 3: data “la natura irreversibile” del danno che comporterebbe la violazione dell'art. 3, la nozione di ricorso effettivo prevede in primo luogo un esame “rigoroso e indipendente” dei reclami relativi al rischio di trasgressione dell'art. 3 e nel caso in cui essa sia riconosciuta la possibilità di sospendere l'esecuzione della misura prevista95. Nella vicenda M.S.S. c. Belgique et Grèce, dove la violazione dell'art. 13 viene analizzata in combinato con l'art. 2 e 3, la Corte EDU definisce effettivo quel ricorso che sia disponibile “sia in diritto che in pratica” ed esige dallo Stato che non ne ostacoli l'esercizio, né tramite azioni, né tramite omissioni 96. 2.3- Il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia L'analisi della giurisprudenza della Corte EDU in materia di non-refoulement merita di concludersi con la recente sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia che rappresenta un'evoluzione emblematica dell'orientamento della Corte di Strasburgo. Per la prima volta infatti, la Corte EDU si esprime con decisione in merito alla critica situazione che coinvolge le frontiere esterne europee ed applica la protezione par ricochet in un contesto ancora più radicale di quelli affrontati finora, le acque internazionali, coinvolgendo la violazione di plurimi diritti espressi nella CEDU. L'Italia viene chiamata a difendersi per il respingimento in Libia di 11 somali e 13 eritrei, avvenuto il 6 maggio 2009. I migranti, intercettati nella zona di Ricerca e Salvataggio di Malta, sono stati soccorsi dalle autorità italiane, trasferiti sulle loro imbarcazioni e poi riportati in Libia, in quanto ritenuto porto sicuro. Il 7 maggio il Ministro dell'Interno italiano ha affermato che l'operazione era frutto dell'accordo bilaterale stipulato il 4 febbraio 2009 con la Libia. Qui riportati, 14 dei migranti hanno ottenuto lo status di rifugiato ad opera dell'ufficio dell'UNHCR a Tripoli. La vicenda in questione ci permette di riflettere su numerosi punti che sono stati già affrontati in questo lavoro. Prima di tutto la questione della ricevibilità del ricorso da parte della Corte EDU, a cui il governo italiano si è opposto, affermando che i ricorrenti non avrebbero prima esperito le vie di ricorso interne97. La Corte di Strasburgo una volta accordata la violazione dell'art. 13, come sotto si mostrerà, riterrà infondata la posizione 94 Ivi, par. 48. 95 Ivi, par. 50. 96 Affaire M.S.S.c. Belgique et Grèce, par. 290. In merito alla violazione dell'art. 13 si vedano anche i casi Chahal c. Royaume-Uni, e D. c. Royaume-Uni. 97 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, questioni preliminari par. B. 41 di non ricevibilità, in quanto ai ricorrenti non è stato garantito il diritto di ricorso effettivo, dunque sarebbe stato impossibile per loro esperire preliminarmente le vie di ricorso interne98. In secondo luogo, la sentenza risulta esemplificava in merito all'analisi fatta del concetto di giurisdizione ed ha inaugurato un nuovo orientamento, consono all'attuale situazione che vede le rotte migratorie prediligere il mare, alla terra. L'Italia sostiene di aver condotto un'operazione di salvataggio in mare, così come prescritta dalle già citate Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare e Convenzione di Montego Bay. Non si tratta di un'operazione di polizia marittima, dunque “l’obbligo di salvare la vita umana (...) non comporta di per sé la creazione di un legame tra lo Stato e le persone interessate suscettibile di stabilire la giurisdizione di questo”99. Al contrario, la Corte EDU sostiene vi sia giurisdizione ogni qual volta “uno Stato esercita, tramite i propri agenti operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo”100. Si consideri infatti che, in base al diritto del mare, una nave in acque internazionali è soggetta alla giurisdizione dello Stato di cui batte bandiera, inoltre lo stesso codice della navigazione italiana afferma che le navi battenti bandiera italiana devono essere considerate territorio nazionale (art. 4)101. Infine la Corte EDU ricorda la sua precedente posizione in merito al caso Medvedyev ed altri, dove aveva stabilito che su un'imbarcazione, indipendentemente dalla bandiera affissa, la giurisdizione è dello Stato di cui le autorità effettuano i controlli 102. Affrontate le questioni preliminari, la Corte di Strasburgo si pronuncia sulle violazioni chiamate in causa, prima fra tutte quella dell'art. 3. I ricorrenti denunciano di non essere stati informati che sarebbero stati ricondotti in Libia e che, nel momento in cui ne hanno preso coscienza, hanno manifestato la volontà di tornare in Italia; che sulla nave non sarebbe stato possibile procedere alla loro identificazione e dunque alla formalizzazione della domanda d'asilo; che la Libia non è un Paese sicuro 103, come dimostrato dai rapporti di varie organizzazioni internazionali, riportati nella sentenza 104. 98 Ivi, par. 207. 99 Ivi, par. 65. 100 Ivi, par. 74. 101 Ivi, parr. 77-78. 102 Ivi, par. 80. 103 Ivi, da par. 85 a 91. 104 Ad esempio si ricordi il Rapporto del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa che ha fortemente criticato la politica dei respingimenti italiana e i rispettivi accordi con la Libia, definendolo un Paese non sicuro in materia di diritti dell'uomo e dei rifugiati. Successivamente vengono citate le indagini di Human Rights Watch e di Amnesty International che criticano i centri di detenzione libici, dove molte persone, potenziali rifugiati, sono stati rinviati dall'Italia. 42 Il governo italiano risponde mettendo a garanzia del respingimento in Libia gli accordi bilaterali e il patto di amicizia stipulati tra il 2007 e il 2009 tra i due Stati, che sono in armonia, precisa l'Italia, con la recente politica europea di cooperazione mediterranea per il controllo dei flussi migratori. Inoltre, il regime giuridico in alto mare “è caratterizzato dal principio della libertà di navigazione” che non esige procedure di identificazione degli interessati. Infine, l'Italia basa la sua argomentazione sul fatto che la Libia all'epoca dei fatti era ritenuto un Paese sicuro, in quanto ha ratificato la CAT e il PIDCP, in quanto appartenente all'OIM e in quanto operante sul suo territorio uffici dell'UNHCR e dell'OIM105. La Corte di Strasburgo al contrario si affida ai rapporti delle organizzazioni internazionali che risultano esemplificativi del fatto che per i migranti respinti in Libia tale Paese è tutt'altro che sicuro; il maltrattamento sistematico dei migranti irregolari, le loro condizioni di detenzione, sono sufficiente garanzia per la Corte che non chiede ai ricorrenti di dimostrare “la natura individuale del rischio” 106. Al contrario, non è garanzia adeguata rispetto al rischio di subire trattamenti inumani, la ratifica da parte della Libia di trattati che la vincolino al rispetto dei diritti umani107; così come la presenza dell'UNHCR è da considerasi del tutto fittizia, dato che tale ufficio non vantava un riconoscimento da parte delle autorità politiche libiche e per quei pochi a cui è stato concesso lo status di rifugiato, la Libia non prevedeva alcun diritto connesso 108. La violazione dell'art. 3 viene chiamata in causa anche per il rischio di rinvio dei ricorrenti da parte della Libia nei rispettivi Paesi d'origine, ovvero Eritrea e Somalia, dove, vari rapporti internazionali giudicano che vi sia rischio di subire trattamenti contrari all'art. 3 della CEDU. Anche in questo caso la responsabilità è dell'Italia che doveva assicurarsi che il Paese intermedio desse sufficienti garanzie in merito al nonrefoulement109: la semplice presenza dell'UNHCR a Tripoli non garantisce l'assenza di rimpatri, a differenza di ciò che ha sostenuto il governo italiano 110. Inoltre, innovativa risulta la violazione accordata dalla Corte di Strasburgo dell'art. 4 del Protocollo addizionale n° 4 che vieta le espulsioni collettive. Il governo italiano non accetta che la parola espulsione venga impiegata per definire l'operazione compiuta, al contrario ritiene che si potrebbe parlare in tali termini solo se i 105 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, da par. 93 a 97. 106 Ivi, par. 136. 107 Ivi, par. 128. 108 Ivi, par. 130. 109 Ivi, par. 147. 110 Ivi, par. 154. 43 ricorrenti fossero stati respinti dal territorio italiano. La Corte ribatte che proprio in base al codice italiano della navigazione la nave battente bandiera corrisponde a suolo italiano; ma ciò che risulta davvero innovativo è la volontà della Corte di Strasburgo di abbracciare un'interpretazione “teleologica ed extraterritoriale” della disposizione in questione. Infatti, “lo scopo essenziale del divieto delle espulsioni collettive è quello di impedire agli Stati di procedere al trasferimento forzato di un gruppo di stranieri verso un altro Stato senza esaminare, fosse anche in maniera sommaria, la loro situazione individuale ”111. Concepito in tali termini, il divieto sancito dall'art. 4 del Protocollo n° 4 diviene concreto ed effettivamente garante del diritto tutelato. La Corte ricorda che nell'applicazione del divieto di espulsioni collettive deve essere tenuta in considerazione l'attuale complessità dei fenomeni migratori, caratterizzati da flussi misti. Dunque, pur se è vero che al pari del concetto di giurisdizione anche quello di espulsione è principalmente territoriale, laddove, la Corte EDU abbia riconosciuto che uno Stato contraente ha esercitato, a titolo eccezionale, la propria giurisdizione fuori dal suo territorio nazionale, “la Corte non vede ostacoli nell’accettare che l’esercizio della giurisdizione extraterritoriale di tale Stato ha preso la forma di una espulsione collettiva”112. A dimostrazione di ciò, nella fattispecie, la situazione individuale di nessun ricorrente è stata presa in considerazione, dato che non vi erano né interpreti, né consulenti legali che potessero realizzare colloqui individuali con i singoli migranti. Per concludere, la Corte EDU accorda anche la violazione dell'art. 13 in combinato con l'art. 3 e l'art. 4 del Protocollo n° 4. Viene ricordato che il ricorso effettivo, nei casi in cui l'art. 13 è combinato con il 3, deve essere oggetto di un “controllo attento”, di un “esame indipendente e rigoroso” e prevedere la possibilità di una sospensione dell'esecuzione dell'espulsione113. La condotta italiana non solo ha previsto l'omissione delle informazioni che avrebbero permesso ai migranti di accedere alla procedura d'asilo, ma ha anche impedito loro di mettere in atto un ricorso in merito alla violazione degli articoli sopra analizzati114. 111 Ivi, par. 162. 112 Ivi, par. 178. 113 Ivi, par. 198. 114 Ivi, parr. 204-205. 44 Il caso Hirsi è emblematico dell'importanza accordata alla protezione par ricochet che risulta sempre più ampia grazie al “dinamismo interpretativo” della Corte di Strasburgo, che viene rivendicato in quanto unico mezzo in grado di dare piena efficacia ai diritti che la CEDU tutela, diritti che vanno intesi, non come teorici, ma come “concreti ed effettivi” (Sudre 2006, p. 8). Comunque, nonostante l'estensione della tutela finora mostrata, decisamente più ampia rispetto ai diritti e alle libertà che la CEDU garantisce espressamente, non mancano critiche in proposito all'imprevedibilità delle sentenze che rendono il meccanismo di tutela descritto, a tratti incoerente e perennemente modificabile. Va infatti ricordato che le differenti origini culturali dei giudici che presiedono la Corte EDU influenzano inevitabilmente le loro decisioni (Pettiti 1999, p. 28); che quest'ultime variano anche sulla base delle tecniche interpretative utilizzate dal giudice al fine di conferire efficacia ai diritti della CEDU (Sudre 2006, p.8); che, proprio perché la Corte di Strasburgo si esprime su casi concreti, valutando di volta in volta tutti gli elementi della vicenda, un caso, pur se molto simile al precedente, rischia di essere giudicato diversamente. In particolare, per quel che concerne quest'ultimo aspetto, la Corte EDU ha sempre rigidamente imposto, per considerare applicabile l'art. 3, la dimostrazione della soglia minima di gravità del trattamento inumano e degradante, specificando recentemente, che per giudicare il trattamento inumano e degradante “la sofferenza o l’umiliazione devono in ogni caso andare al di là di quelle inevitabilmente conseguenti ad un dato trattamento o ad una pena legittima”115. La valutazione in merito alla soglia minima di gravità risulta del tutto arbitraria, in quanto dipendente dalle circostanze specifiche del caso, come la durata dei trattamenti, i suoi effetti fisici e mentali, in altri casi, da caratteristiche quali, il sesso, l'età, lo stato mentale delle vittima116. Dunque tale concetto si rivela “ampiamente soggettivo” e problematico al fine di tracciare delle linee interpretative generali a cui la Corte di Strasburgo potrebbe più costantemente rifarsi (Tavernier 2006, p. 273). 3- Rapporti ambigui: il diritto d'asilo europeo e le garanzie di non-refoulement espresse nella CEDU L'estensione della tutela relativa all'obbligo di non-refoulement, garantita dalla giurisprudenza CEDU, pone dei problemi se si pensa che per essere effettiva è sufficiente che la protezione eviti l'allontanamento. Al contrario, verrebbe spontaneo 115 Caso Saadi c. Italia, par. 135. 116 Si veda: caso Saadi c. Italia, par. 134; case of Ireland v. United Kingdom, application n. 5310/71, sentenza del 18 gennaio 1978. 45 ritenere che l'effettività della protezione si realizzi anche attraverso alcune garanzie in merito alle condizioni di vita nel Paese di accoglienza. Tali garanzie sono però, solitamente derivanti da uno status che andrebbe riconosciuto all'individuo non espulso, in modo da consentirgli il godimento dei diritti civili e politici. Ricordiamo in proposito, che la Corte EDU ha più volte affermato di non contemplare in nessuna sua parte, né nei suoi Protocolli addizionali, il diritto di asilo. Congiuntamente a tale affermazione la Corte di Strasburgo tende sempre a ricordare che gli Stati contraenti hanno il diritto, in base alla convenzione stessa e ai principi di diritto internazionale, di controllare l'entrata, il soggiorno e l'allontanamento degli stranieri dal loro territorio 117. Nonostante l'assenza del diritto d'asilo nella CEDU, numerosi studiosi ritengono che l'evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU in materia di non-refoulement, abbia consentito di creare un diritto d'asilo europeo più forte rispetto a quello previsto nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951118. Quindi, pur se la CEDU non contempla uno status di rifugiato da accordare a chi non viene respinto, nell'evoluzione del diritto d'asilo europeo troviamo delle garanzie maggiori, rispetto a quelle affermate nel diritto internazionale. Esemplificativa è la direttiva 2003/84/CE. Da un lato, essa riconosce lo status di rifugiato così come espresso nel 1951, integrandone timidamente i motivi di persecuzione: il concetto di gruppo sociale garantisce tutela anche per motivi di orientamento sessuale, età e genere (Favilli 2011, p.133). Dall'altro lato, il vero ampliamento della tutela è rappresentato da un'ulteriore tipologia di protezione, quella sussidiaria, che costituisce la realizzazione di quella definizione allargata di rifugiato fornita dalla Convenzione dell'OUA. La protezione sussidiaria è riconosciuta in quei casi in cui non ricorrano i presupposti per concedere lo status di rifugiato, ma vi siano comunque fondati motivi per ritenere che il soggetto in questione rischi di subire nel suo Paese di origine un “danno grave”. Per danno grave, così come definito all'art. 15, si intende: condanna a morte o esecuzione; torture o altre pene o trattamenti inumani o degradanti; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona dipendente dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Si noti quindi che nella definizione del termine rientrano quelle situazioni in cui una persona ha diritto di ricevere protezione al fine di prevenire lesioni ad un diritto riconosciuto da convenzioni diverse da quella di Ginevra. La prima e seconda accezione di danno grave 117 Si prendano come esplicativi: Vilvarajah et autres c. Royaume-Uni, par. 102; Salah Sheekh c. PaysBas, par. 135. 118 GOODWIN-GILL G. S., McADAM J. 2007; BENEDETTI E. 2010; GAMMELTOFT-HANSEN T. 2011; FAVILLI 2011. 46 riprendono infatti, rispettivamente, gli artt. 2 e 3 della CEDU. Riguardo alla terza accezione, che di per sé costituisce la garanzia più ampia di protezione, troviamo invece una notevole difficoltà nella sua applicazione, perché gli Stati membri hanno la tendenza a definire in modo molto diverso le condizioni di “rischio individuale”. Infatti al considerando 26 della direttiva è specificato che i rischi a cui è sottoposta un'intera popolazione a seguito di una condizione instabile e violenta del Paese in questione non sono sufficienti a dimostrare un rischio individualizzato. Si è espressa in merito la Corte di Giustizia europea119 che ha specificato che più la violenza nel Paese è grave e generalizzata, meno il ricorrente dovrà dimostrare che il rischio di danno grave sia individualizzato, al contrario, se c'è il rischio individualizzato, non è necessario mettere in evidenza la gravità della situazione generale del Paese in questione (Favilli 2011, p. 137). All'art. 21 inoltre, la direttiva afferma il principio di non-refoulement, da rispettare così come prescritto dagli obblighi internazionali, ad eccezione che la persona costituisca pericolo per la sicurezza dello Stato, o in quanto condannato per reato particolarmente grave, costituisca pericolo per la comunità. Va notato che nonostante l'art. 3 della CEDU ripreso nella definizione di protezione sussidiaria, sia un diritto inderogabile, non vi è alcun riferimento nella direttiva 2003/84/CE “al carattere assoluto che la protezione sussidiaria può assumere, almeno nell'ipotesi in cui il diritto tutelato coincida con quello derivante dall'art. 3 della CEDU” (Favilli 2011, p. 139). Dunque, invece che una coerenza tra l'evoluzione del diritto d'asilo europeo e la giurisprudenza CEDU in materia di non-refoulement, si riscontra piuttosto una discrepanza, che risulterà ancora più evidente analizzando le due successive questioni. Prima di tutto va notato che, nonostante vi sia una netta corrispondenza tra l'art. 3 della CEDU e la definizione di protezione sussidiaria, chi non chiede asilo, ma si rivolge alla Corte EDU che frena il suo allontanamento, in quanto potrebbe costituire violazione dell'art. 3, si trova nella condizione di avere il diritto di restare sul territorio, ma senza uno status giuridico che preveda quei diritti e doveri necessari all'integrazione nel tessuto sociale. Si viene così a creare una sorta di discriminazione tra diverse categorie di rifugiati, come afferma il giudice Pino de Albuquerque, nel parere concordate con la sentenza sul caso Hirsi. Da un lato, “il diritto internazionale dei rifugiati si è evoluto assimilando la norma di tutela più ampia dei diritti umani, estendendo così la nozione di rifugiati che deriva dalla Convenzione 119 Sentenza del 17 febbraio 2009, Elgafaji C-465/07 2009, p. I-921. 47 (impropriamente chiamati rifugiati de jure) ad altri individui che hanno bisogno di una protezione internazionale complementare (impropriamente chiamati i rifugiati de facto) 120”. Con quest'ultima accezione vengono solitamente chiamati i rifugiati che in base al diritto europeo acquisiscono la protezione umanitaria o sussidiaria e i rifugiati così come definiti dalla Convenzione dell'OUA e dalla Dichiarazione di Cartagena. Dall'altro, si attua una discriminazione ancora più forte tra coloro che hanno acquisito uno status riconosciuto di rifugiato, a cui sono inevitabilmente collegati diritti e doveri sociali e politici, e coloro a cui semplicemente è accordato il diritto a non essere allontanati. In ognuna di queste fattispecie, essendo il principio di non-refoulement garanzia assoluta, la protezione che ne scaturisce non dovrebbe differenziasi in termini così discriminatori; ricordiamo infatti, come già analizzato nel precedente capitolo, che un individuo non diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma che è riconosciuto tale perché è un rifugiato121. La seconda questione su cui è necessario riflettere chiama in causa il concetto di territorialità. La direttiva 2005/85/CE recante norme minime sulla procedura di riconoscimento e revoca dello status di rifugiato, prevede una rigida applicazione territoriale della direttiva stessa. All'art. 3 viene infatti specificato che essa si applica solo alle domande di asilo presentate sul territorio, alla frontiera e nelle zone di transito. Nella recente direttiva 2013/32/UE che sostituisce la precedente, viene aggiunta in proposito l'applicazione nelle acque territoriali; restano comunque scoperte le domande di asilo territoriale e diplomatico fatte presso le rappresentanze degli Stati membri e resta aperta la questione della sua applicazione in acque internazionali. In merito a quest'ultimo tema la sentenza Hirsi ha dichiarato un orientamento ben preciso della Corte EDU, che però, ancora una volta, non corrisponde all'evoluzione del diritto d'asilo europeo. Nella sentenza viene riportata la lettera di Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea, datata 15 luglio 2009122, nella quale viene specificato come interpretare le situazioni in alto mare che coinvolgono potenziali richiedenti asilo. Da un lato c'è l'acquis comunitario in materia d'asilo che continua ad affermare la valenza strettamente territoriale delle normative europee in merito; dall'altro c'è il Codice delle Frontiere Schengen che prescrive il controllo delle frontiere nel rispetto del principio di 120 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. 121 UNHCR, Linee guida sulle procedure e i criteri per determinazione dello status di rifugiato, Ginevra, 1992. 122 Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, par. 34. 48 non-refoulement. Considerando che “le attività di sorveglianza delle frontiere svolte in mare, siano esse nelle acque territoriali, nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o in alto mare” rientrano nel campo di applicazione del Codice delle Frontiere Schengen, si deduce che l'obbligo di non-respingimento, e le garanzie d'asilo che da esso derivano, vanno applicati in termini extraterritoriali. Si ricordi infatti, come analizzato nel primo capitolo, che il non-refoulement è una garanzia assoluta e principio di jus cogens, dunque il suo rispetto dovrebbe superare ogni vincolo di territorialità. In tali termini il giudizio accordato nella sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, risulta emblematico, in quanto chiarisce agli Stati membri l'atteggiamento che dovrebbe essere mantenuto in alto mare in merito al non-refoulement. Nonostante ciò, anche le nuove norme123 emanate nell'estate 2013 che costituiscono il Sistema Europeo Comune d'Asilo, non prevedono alcuna disposizione che riconosca quest'importante atteggiamento auspicato dalla Corte EDU, in materia di respingimenti in acque internazionali. 123 La nuova direttiva accoglienza (2013/33/UE), la nuova direttiva procedure (Direttiva 2013/32/UE), il nuovo Regolamento Dublino, c.d. Regolamento Dublino III (n° 604 del 2013) ed il nuovo Regolamento Eurodac (n° 603 del 2013). 49 L'esternalizzazione dei controlli di frontiera e il rispetto dell'obbligo di non-refoulement. Il caso italiano Il lavoro finora proposto, volto ad esporre le garanzie del non-refoulement a livello internazionale ed europeo, ha mostrato che tale obbligo, pur se divenuto principio di jus cogens, fatica a coniugarsi con l'esigenza degli Stati di controllare i propri confini e di decidere chi può varcarli. In questo capitolo, prendendo come spunto la sentenza della Corte EDU Hirsi Jamaa e altri c. Italia , verranno analizzate le cosiddette “politiche del non arrivo” che oramai da più di dieci anni, caratterizzano l'atteggiamento di numerosi Paesi d'immigrazione. Le “politiche del non arrivo” non sono altro che l'espressione della volontà degli Stati di difendere il proprio territorio, di renderlo sicuro e di limitare il più possibile l'ingresso di cittadini stranieri. Verranno analizzate in primis le misure anti-terroristiche che sono un chiaro esempio a livello internazionale di questa volontà, poi l'attenzione sarà posta sulla politica europea degli ultimi anni in materia di contrasto all'immigrazione irregolare che ha comportato la cosiddetta esternalizzazione dei controlli delle frontiere. In merito si indagheranno le varie modalità attraverso cui tale esternalizzazione si realizza e le garanzie volte a tutelare il non-refoulement in queste situazioni. La restante parte del capitolo sarà dedicata alla situazione italiana: la sua politica di contrasto all'immigrazione irregolare e le sue “politiche del non arrivo”, di cui eclatanti esempi sono i rinvii in Grecia ed i respingimenti verso la Libia. Queste nuove pratiche caratterizzano in modo particolare le frontiere esterne europee, ma anche altri Paesi d'immigrazione, e hanno posto il problema di un accesso effettivo alla protezione che gli organismi del terzo settore rivendicano sempre più a gran voce. Si concluderà dunque, riportando le raccomandazioni e le proposte di organizzazioni non governative ed enti di tutela in merito al diritto di avere accesso alla protezione. 1- La sicurezza di uno Stato vs la tutela del non-refoulement 1.1- Necessità di sicurezza: le misure anti-terroristiche a livello internazionale Come ripete costantemente la Corte EDU nelle sue sentenze, ogni Stato ha il pieno diritto di controllare l'ingresso e la permanenza sul proprio territorio di cittadini stranieri. Le politiche di contrasto all'immigrazione irregolare sono forme di controllo 50 volte a garantire la sicurezza statale. Nel caso dell'Unione Europea analizzeremo nello specifico, l'evoluzione di questa necessità nel corso dell'ultimo decennio, a livello internazionale non è ovviamente possibile condurre un discorso generalizzante su tale tematica, perché ogni Stato adotta la propria politica di contrasto. Nonostante ciò, per dimostrare quanto la volontà di sicurezza, difficilmente riesca a coniugarsi con la tutela del non-refoulement, si è scelto di prende in esame le Risoluzioni n° 1373 e n° 1624 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di terrorismo (rispettivamente 28 settembre 2001 e 14 settembre 2005). La lotta al terrorismo infatti, al pari del controllo dei flussi irregolari di migranti, è una forma attraverso cui si manifesta l'esigenza di uno Stato di controllare l'accesso al suo territorio e di limitarlo a certe categorie di stranieri, ai fini della propria sicurezza. Nella prima Risoluzione già il Consiglio di Sicurezza incitava gli Stati a verificare, prima di concedere l'asilo, che il soggetto non avesse partecipato, pianificato o facilitato la commissione di atti terroristici124; che lo status di rifugiato non venisse manipolato da coloro che sono coinvolti in atti terroristici e soprattutto che la motivazione politica non fosse considerata sufficiente per non acconsentire ad un'estradizione di presunti terroristi125. Infine il Consiglio di Sicurezza dichiarava apertamente che “gli atti, i metodi e le pratiche di terrorismo” e che “finanziare pianificare e istigare consapevolmente atti di terrorismo”, sono condotte contrarie agli obiettivi ed ai principi delle Nazioni Unite126. Questa dichiarazione crea un problema di non poca importanza riguardo alla definizione di tutti questi termini; ricordiamo infatti, che il terrorismo non è un concetto legalmente stabilito, ma piuttosto un'etichetta politica (Mathew 2008, p. 20). Niente può aiutarci nell'interpretazione, dato che la Risoluzione n° 1373 non ha storia legislativa, né lavori preparatori, non vi è stato un dibattito che l'abbia accompagnata, ma è stata immediatamente approvata in un unico incontro (Mathew 2008, p. 25). Prendendo in esame la successiva Risoluzione n° 1624, si noti che viene più volte sottolineato che tutte le misure adottate dagli Stati per la lotta al terrorismo devono essere rispettose degli obblighi internazionali, in modo particolare di quelli relativi ai diritti umani e ai rifugiati. Nello specifico però la Risoluzione parla anche di eccezioni a questi obblighi: ricordando la tutela offerta dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati 124 Risoluzione n° 1373 del Consiglio di Sicurezza, 28/09/01, par. 3(f). 125 Ivi, par. 3(g). 126 Ivi, par. 5. 51 del 1951 e dal relativo Protocollo del 1967, si pone l'accento sul fatto che la protezione non deve essere data a colui nei confronti del quale vi sono serie ragioni per ritenere che sia colpevole di atti contrari agli obiettivi e ai principi delle Nazioni Unite. Si tratta dell'art. 1(F) della Convenzione che espone le già affrontate clausole di eccezione. Nel momento in cui uno Stato deve bilanciare il rispetto dei diritti umani con un proprio interesse, tale interesse deve essere necessario, ovvero può essere invocato solo sotto precise condizioni. Una di queste condizioni è che lo Stato sia soggetto ad un grave e imminente pericolo e la minaccia deve essere oggettivamente stabilita e non meramente appresa (Goodwin-Gill 2008, p. 14). Al contrario si tende sempre più, negli ultimi anni, a giustificare pratiche statali attraverso l'agenda terroristica internazionale, prassi alquanto dubbie in materia di rifugiati che costituiscono veri e propri abusi di potere da parte degli Stati (Goodwin-Gill 2008, pp. 7-8-9). Chi arriva in cerca di asilo o di qualsiasi altra protezione accordata da trattati internazionali e regionali è sempre più considerato una minaccia; non è un caso dunque, che in tutte le convenzioni internazionali, gli Stati si siano battuti per imporre come limite all'esercizio dei diritti umani la propria sicurezza. Questo ha portato ad associare colui che è in cerca di protezione alla figura di un presunto terrorista, facendo leva su quanto scritto nella Risoluzione n° 1373, dove si parla di “non abusare” dello status di rifugiato. Allo stesso modo, inserire la clausola di esclusione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 nella Risoluzione anti-terroristica del 2005, rende tale clausola una misura preventiva, che autorizza l'esclusione prima dell'inclusione e rende chiunque sospetto (Mathew 2008, p. 33). Questa trasposizione pone inoltre un altro problema. L'UNHCR ha più volte considerato l'art. 1(F,b), ovvero l'esclusione a causa di crimini gravi, bilanciabile con altri valori, volti ovviamente a tutelare il soggetto da un possibile refoulement. Al contrario, rispetto all'art. 1(F,c) che prevede crimini contrari alle Nazioni Unite che hanno una valenza molto più grave (crimini contro la pace e l'umanità) non può essere accordato alcun bilanciamento. L'UNHCR tende ad esprimersi giudicando gli atti terroristici come crimini gravi, giudizio che non è stato affatto preso in considerazione nella Risoluzione n° 1373 che esplicitamente invece, parla di quelli terroristici come atti contrari agli obiettivi e principi delle Nazioni Unite, dunque rientranti sotto l'art. 1(F,c) (Mathew 2008, pp. 34-5). Nonostante ciò va ricordato che anche nel caso di bilanciamento è necessario stabilire uno standard minimo a cui esso debba fare riferimento: nel caso specifico vi devono 52 essere serie ragioni (art. 1(F,c) della Convenzione) per ritenere che il soggetto in questione abbia commesso crimini contrari alle Nazioni Unite e devono presentarsi gravi motivi per ritenerlo un pericolo per la sicurezza dello Stato (art. 33(2) della Convenzione). Queste garanzie, alla luce di quanto detto nel primo capitolo, non dovrebbero neanche essere prese in considerazione, perché l'obbligo di non-refoulement è da tempo considerato principio inderogabile e parte del diritto consuetudinario. Nonostante tale consapevolezza, dopo l' 11 settembre 2001, qualcosa è cambiato: è iniziato un periodo storico di intensificazione dei controlli e di severa rigidità nell'ammissione ai territori degli Stati-nazione e sempre più le misure anti-terroristiche vengono confuse con quelle adottate per regolare i flussi misti di migranti e contrastarne l'irregolarità (Mathew 2008, p. 53). La Risoluzione del 2001 ha incoraggiato gli Stati ad intendere i meccanismi di controllo come una soluzione al terrorismo ed è stato impiegato un linguaggio volto soprattutto a rassicurare gli Stati sulla questione della sicurezza (Mathew 2008, p. 60). Questa necessità di prevenzione, di escludere prima di includere, ha ovviamente causato numerosi abusi in materia di diritti umani e rappresenta un incipit di quelle misure di esternalizzazione dei controlli di frontiera che allo stesso modo hanno come obiettivo il non-arrivo di colui che chiede protezione. L'asilo è divenuto politicizzato ed i concetti di Paese terzo sicuro e Paese d'origine sicuro di fatto rappresentano strategie di politica estera, in quanto non essere menzionati sotto nessuno di questi due appellativi, diviene inevitabilmente rilevante a livello di politica internazionale (Bruin, Wouters 2003, p. 29). 1.2- La politica europea in materia di protezione delle frontiere esterne e le garanzie previste per il non-refoulement L'attacco alle Torri Gemelle ha notoriamente dato inizio ad una politica molto più rigida di controlli nelle singole regioni del pianeta e la zona europea non è stata da meno. Il 20 settembre 2001 il Consiglio Europeo su Giustizia e Affari Interi, adottando la Conclusione 3926/6/01, incitò gli Stati membri ad intensificare i controlli delle frontiere esterne, ad applicare le procedure inerenti i visti d'ingresso con massimo rigore ed esortò la Commissione Europea a riflettere il prima possibile sulla relazione tra salvaguardia della sicurezza ed obblighi in materia di protezione internazionale (Bruin, Wouters 2003, p. 8). La Commissione rispose a tale sollecitazione il 5 dicembre 2001, pubblicando il 53 documento dal titolo La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione. Qui la Commissione afferma che, seguendo quanto consigliato dall'UNHCR, non verranno apportate delle modifiche al sistema di protezione dei rifugiati, ma sarà sufficiente, per arginare comportamenti terroristici da parte di potenziali titolari di protezione internazionale, impiegare la legge già esistente, ovvero le clausole di esclusione previste dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951127. Il documento presenta criticità simili a quelle messe in evidenza poc'anzi, prima fra tutte la mancanza di una definizione di terrorismo, che la Commissione auspica che sarà presto stabilita, così da essere condivisa da tutti gli Stati membri, perché solo grazie a quest'ultima sarà effettivamente possibile decidere quali atti rientrino rispettivamente sotto l'art. 1(F,a) e quali sotto gli artt. 1(F,b) e 1(F,c) 128. La Commissione avanza anche l'ipotesi che, oltre alla revoca di rifugiato, così come già stabilita dal Manuale sulle procedure e i criteri per determinare lo status di rifugiato dell'UNHCR, si potrebbe prevedere, a livello europeo, una “revisione” dello status per coloro a cui è stato già concesso; revisione da compiere solo sulla base di informazioni dei servizi di intelligence che accertino che la persona in questione rappresenti un pericolo per la sicurezza129. Si cita inoltre l'art. 33(2) come deroga al principio di non-refoulement, acconsentendo al rimpatrio di rifugiati “qualora rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale del paese ospitante, e qualora la loro comprovata natura criminale e i loro precedenti penali costituiscano un pericolo per la comunità. I diversi elementi di tali circostanze estreme ed eccezionali devono tuttavia essere interpretati in senso restrittivo e richiedono un elevato livello di prova”130. Nonostante ciò la Commissione ricorda che nella procedura di espulsione di un rifugiato, gli Stati dovranno sempre tener conto di altri obblighi, ad esempio l'art. 3 della CEDU. Inoltre è necessario che tutti, anche i sospettati, abbiano accesso alla procedura d'asilo, perché un respingimento alla frontiera potrebbe costituire refoulement131. Altre garanzie che vengono poste a tutela dell'interesse del richiedente sono: la decisione di espulsione che deve essere presa “nell'ambito del procedimento d'asilo, dall'autorità che 127 Commissione Europea, La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione, 05/12/2001, p. 7. 128 Ivi, p. 9 (par. 1.1.2.). 129 Ivi, p. 9 (par 1.2.1.). 130 Ivi, p. 10 (par. 1.3.). 131 Ivi, p. 10 (par. 1.4.1.). 54 dispone dell'esperienza e della specifica formazione”132; il diritto a presentare ricorso133; e il controllo giurisdizionale nei casi di detenzione di richiedenti asilo che possano costituire un rischio per la sicurezza134. La Commissione dichiara apertamente che la Corte EDU a seguito degli eventi delle Torri Gemelle, sarà costretta a pronunciarsi nuovamente in merito all'assolutezza dell'art. 3 della CEDU, prevedendo la possibilità di un “atto di bilanciamento” tra tutela dell'individuo soggetto a respingimento e sicurezza dello Stato135. Le “raccomandazioni” con cui la Commissione conclude il documento sono le stesse che guideranno la sua politica europea in materia di immigrazione irregolare fino ad oggi: nell'instaurazione di un regime comune d'asilo dovrà costantemente essere presente la riflessione sulla sicurezza e per tutelare quest'ultima dovrà costituirsi un sistema di cooperazione e scambio di informazioni tra Stati136. Non è un caso che, a partire dal 2001, lo sviluppo di un comune diritto d'asilo si è sempre più scontrato con il bisogno di sicurezza e di protezione delle frontiere. Esempi ne sono, il Consiglio di Siviglia, nel giugno 2002, dove l'Unione Europea considerò prioritaria per creare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia la politica relativa al contrasto all'immigrazione irregolare (Benedetti 201, p.165) 137. Nel Consiglio di Salonicco che si tenne l'anno dopo, discutendo della creazione di un comune diritto d'asilo, venne affermato che per ottenere un sistema “integrato” era necessario coinvolgere i Paesi di origine e di transito dei rifugiati. Gli obiettivi che vennero posti furono: consentire un arrivo organizzato dei rifugiati in Unione Europea, condividere gli oneri e le responsabilità tra Paesi di transito e arrivo, elaborare procedure efficaci in materia d'asilo e rimpatri (Benedetti 2010, pp. 167-8). Nel 2004 venne costituita FRONTEX, l'Agenzia Europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne, nel rispetto dei diritti fondamentali 132 Ivi, p. 11 (par. 1.4.3.). 133 Ivi, p. 12 (par. 1.4.5.). 134 Ivi, p. 14 (par. 1.6.). Nel documento infatti, la Commissione ritiene la detenzione la misura più “idonea” per evitare che un richiedente asilo, sospettato di essere pericoloso per la sicurezza dello Stato, si renda irreperibile sul territorio. 135 Commissione Europea, La relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna ed il rispetto degli obblighi e strumenti internazionali in materia di protezione, 05/12/2001, p. 14. 136 Ivi, p. 18 (rispettivamente par. 3.1. e par. 3.2.). 137 Per il contrasto dell'immigrazione irregolare uno strumento molto utilizzato saranno le riammissioni di cittadini stranieri nei loro Paesi di origine. In proposito, già nel Consiglio di Tampere del 16 ottobre 1999 che fissava le linee giuda per la costruzione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, al capitolo IV “Gestione dei flussi migratori” il Consiglio chiedeva “assistenza” nei confronti dei Paesi di origine e transito ed adempimento dei loro obblighi in materia di riammissioni (par. 26). Ricordando inoltre il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, che conferiva alla Comunità competenze nel settore delle riammissioni, il Consiglio esortava la stipula di accordi di riammissione esterna, ovvero con Paesi terzi, ed interna, ovvero tra gli Stati membri (par. 27) (Cossu 2006, p. 110). 55 sanciti dal Trattato dell'Unione Europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione138. Tema ricorrente, come vedremo anche in seguito e che inciderà sulla politica italiana in merito, è la cooperazione con i Paesi terzi; Frontex infatti, tra gli altri compiti, dovrà anche agevolazione i rapporti tra gli Stati membri e Paesi terzi139. La cooperazione con tali Stati, la gestione integrata delle frontiere, l'intensificazione della lotta all'immigrazione irregolare, politiche sostenibili ed efficaci di rimpatrio, sono invece gli obiettivi riproposti, nel 2008, nella Comunicazione sull'asilo140, adottata nel giugno 2008, congiuntamente al Patto sull'asilo,141 entrambi derivanti dal Patto Europeo sull'Immigrazione e l'Asilo, risultato del semestre di presidenza all'Unione di Sarkozy (Benedetti 2010, p. 182). Nel maggio 2010 viene infine emanato il Programma di Stoccolma142 nel quale venne affermata la necessità di un'Europa dei diritti, dove l'adesione alla CEDU si presenta come lo strumento più efficacie per una sua realizzazione. Viene inoltre promossa un'Europa della giustizia, volta a creare uno spazio giuridico comune tra tutti gli Stati membri, stabilendo diritti minimi riconosciuti in ogni legislazione nazionale. Infine necessaria è un'Europa che protegge, ovvero una strategia di sicurezza interna contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani, la criminalità organizzata, il traffico di “clandestini”143 e soprattutto la criminalità transfrontaliera che ha “pesanti ripercussioni per il quotidiano dei cittadini dell'Unione”144. Tale strategia dovrà essere attuata nel rispetto dei diritti umani e della protezione internazionale e necessiterà di una costante collaborazione e solidarietà tra gli Stati membri, realizzabile soprattutto attraverso lo scambio di informazioni tra gli stessi. Il Programma di Stoccolma poi dedica un intero paragrafo alla questione dell'accesso all'Unione Europea: la priorità è la protezione delle frontiere esterne, 138 Regolamento CE n° 2007/2004, 26/10/04, considerando 22. 139 Ivi, art. 14. In particolare l' “agevolazione” di tali rapporti si focalizzerà soprattutto sulla questione delle frontiere marittime: da ricordare è la Comunicazione della Commissione al Consiglio dell'Unione Europea Rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali, del 30 novembre 2006, che esorta la cooperazione con i Paesi di transito dell'Africa e del Medio Oriente; e la Comunicazione della stessa Commissione del 13 febbraio 2008 che ha per tema la sorveglianza delle frontiere, dove si parla esplicitamente di diritto di intercettazione di navi che si trovano nelle acque territoriali dei Paesi di transito (Vassallo Paleologo 2010, pp. 25-6). 140 Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Piano strategico sull'asilo. Un approccio integrato in materia di protezione nell'Unione Europea, 17/06/08. 141 Consiglio dell'Unione Europea, Patto europeo sull'immigrazione e sull'asilo, 24/09/08. 142 Consiglio dell'Unione Europea, Programma di Stoccolma — Un'Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, 04/05/10. 143 Ivi, par. 4.1. 144 Ivi, par. 4.3.1. 56 attuabile con una seria politica di contrasto all'immigrazione “clandestina”, volta a mantenere un “livello elevato di sicurezza”, ma non ad impedire l'accesso alla protezione per chi ne necessita. La Commissione viene inoltre esortata a definire con maggior precisione, e al tempo stesso a potenziare, il ruolo di Frontex, a promuovere operazioni congiunte in mare ed a stimolare la cooperazione tra Frontex e i Paesi d'origine e di transito145. Infine il Programma esprime le azioni da intraprendere in materia di immigrazione e asilo: organizzare un'immigrazione regolare in base alle esigenze dei singoli Stati, favorire l'integrazione, lotta all'immigrazione irregolare, rafforzamento dei controlli alle frontiere, costruzione di un'Europa dell'asilo, collaborazione con i Paesi di origine e transito146. Come risulta da queste linee guida che avrebbero dettato la politica europea in materia di immigrazione ed asilo per gli anni 2010-2014, la sicurezza è sempre l'esigenza che viene messa al primo posto, pur nel rispetto dei diritti fondamentali, e la cooperazione con i Paesi d'emigrazione sembra l'unica strategia efficacie per creare il tanto anelato spazio di sicurezza. Parallelamente a queste prese di posizione, un elemento determinante che ha inciso sulle politiche in materia d'immigrazione dell'Unione Europea è stata la creazione dello spazio Schengen. Nel 1985 Francia, Germania e i Paesi del Benelux firmarono il Trattato di Schengen, nel quale venivano abolite le frontiere interne tra i suddetti Stati e veniva proposta una seria riflessione in merito alla creazione di una comune politica in materia di immigrazione che si sarebbe dovuta realizzare, primo fra tutti, con un sistema di visti unificato. Questo avrebbe permesso una libera circolazione all'interno dello spazio Schengen che non minasse l'ordine pubblico e la sicurezza degli Stati coinvolti. Il trattato divenne effettivamente vincolante solo cinque anni dopo, quando entrò in vigore la Convenzione di applicazione del 1990 che fece coincidere lo spazio Schengen con quello comunitario del mercato interno senza frontiere e le regole Schengen divennero a tutti gli effetti normative comunitarie (Benedetti 2010, p. 121). Nella Convenzione di applicazione dell'Accordo Schengen del 2000, volto all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, vennero poi delineate le condotte da seguire in materia di ingresso da parte di cittadini di Paesi terzi e del loro allontanamento in caso di situazione di irregolarità e vennero dettate disposizioni in merito all'accesso alla procedura d'asilo e alla sua esplicazione. Nel testo della convenzione viene più volte ribadito il rispetto degli obblighi relativi alla Convenzione 145 Ivi, par. 5.1. 146 Ivi, par. 6. 57 di Ginevra sui rifugiati del 1951 e al rispettivo Protocollo del 1967 (artt. 26-28-135), ma lo spirito generale è raccolto nelle dichiarazioni finali, dove viene affermato che, “tenuto conto dei rischi in materia di sicurezza e d'immigrazione clandestina” nasce l'esigenza “di attuare un controllo efficace alle frontiere esterne” che abbia metodi comuni tra tutti gli Stati membri147. La priorità della tematica della sicurezza risulta ancora più evidente nel Regolamento CE 562/2006 (Codice Frontiere Schengen)148, volto a regolare l'attraversamento delle frontiere sia esterne che interne, a prevenire l'ingresso illegale ed a lottare contro la criminalità transfrontaliera (art. 12). Al considerando 6 viene espressamente affermato che il controllo delle frontiere contribuisce alla lotta contro l'immigrazione irregolare e la tratta degli essere umani, “nonché alla prevenzione di qualunque minaccia per la sicurezza interna”. All'art. 16(3) si ricorda che gli Stati possono “continuare” la politica di cooperazione con i Paesi terzi. Infine, nell'allegato VI, relativo ai controlli su diverse tipologie di trasporto, viene data possibilità di effettuare verifiche anche durante il corso del viaggio e non necessariamente alle stazioni di partenza o arrivo e viene incitata la stipula di accordi bilaterali per un controllo congiunto delle frontiere. Per quel che concerne invece le tutele nei confronti di queste misure, troviamo all'art. 3, che il Regolamento va applicato senza pregiudizio del diritto alla libera circolazione e del diritto dei rifugiati e di coloro che chiedono protezione, con particolare riferimento al principio di non-refoulement149. Così come all'art. 13 si sottolinea che le misure di respingimento non pregiudicano il diritto di asilo, inoltre tale provvedimento deve essere motivato con ragioni precise e notificato dall'autorità competente (art. 13(2)) e le persone soggette a tale misura devono avere diritto a presentare ricorso, pur se esso non ha effetto sospensivo (art. 13(3)). All'art. 6 infine, si sottolineano le tutele relative ai controlli: le guardie addette al ruolo devono rispettare la dignità umana, adottare misure proporzionate all'obiettivo delle stesse e rispettare il principio di non-discriminazione. Il presente Regolamento viene successivamente arricchito dal Regolamento 3625/09 che istituisce il Codice comunitario dei visti. Al considerando 1 subito viene espresso l'obiettivo del documento: creare uno spazio di libera circolazione, per il quale necessarie risultano misure relative al controllo delle frontiere esterne, all'asilo e 147 Acquis di Schengen - Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, 22/09/2000, p. 51. 148 Da ora in poi Codice delle Frontiere Schengen. 149 Ricordiamo inoltre che tale obbligo a livello europeo è espresso all’art. 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all'art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, come dimostrato nel capitolo precedente, nella CEDU. 58 all'immigrazione e disposizioni relative al transito in zone internazionali aeroportuali, volte a combattere l'immigrazione irregolare (considerando 5). Tutto ciò deve essere realizzato nel rispetto della dignità umana (considerando 6), della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (considerando 29). 1.3- Le varie forme di esternalizzazione dei controlli delle frontiere La politica europea finora analizzata ha causato nell'ultimo decennio la cosiddetta esternalizzazione dei controlli delle frontiere che si esprime sotto diverse forme. Prime fra tutte, le pratiche di intercettazione. Tale termine non possiede una definizione giuridicamente stabilita, ma solitamente indica le misure che uno Stato adotta, al di fuori dei confini nazionali, per prevenire, interrompere e fermare il viaggio di cittadini stranieri che intendono varcare le sue frontiere, ma non hanno la giusta documentazione per farlo (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 371). Le intercettazioni possono essere “attive”, come quelle che hanno caratterizzato il caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, e di cui ci occuperemo più nel dettaglio nel prossimo paragrafo dedicato alla politica italiana dei respingimenti, ma possono essere anche passive. In quest'ultimo caso si tratta di tutte quelle pratiche volte al controllo dei documenti per l'espatrio che vengono attuate prima che il cittadino straniero varchi i confini dello Stato. Un altro strumento che indirettamente ha comportato l'esternalizzazione dei controlli sono state le già citate “carrier sanctions”, multe imposte alle compagnie di trasporto nel caso in cui facciano viaggiare persone sprovviste della giusta documentazione. Risulta ovvio che lo scopo primario della compagnia è quello di non essere multata, dunque gli agenti predisposti al controllo si occuperanno semplicemente della verifica dei documenti, senza prendere in considerazione le motivazioni che spingo la persona a viaggiare irregolarmente (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 377). È prassi, infatti, che gli agenti privati predisposti al controllo non siano formati su tematiche quali, la tutela dei diritti umani e del diritto d'asilo. Altra criticità è rappresentata dal sistema dei visti. In Europa sono stati creati, in linea con la politica comunitaria dei controlli sopra affrontata, il Sistema di Informazione Schengen (SIS) e il Sistema di Informazione Visti (VIS), che sono parte integrante delle procedure di esternalizzazione, perché permettono di effettuare il controllo prima della partenza. Soprattutto per chi è in cerca di protezione il sistema dei visti rappresenta una delle maggiori difficoltà per un accesso effettivo alla tutela riconosciuta dal diritto 59 regionale ed internazionale: infatti, per sua natura, il rifugiato non ha, o non vuole, la protezione del suo Stato di origine o di residenza abituale, dunque risulta al quanto difficile che egli possa riuscire ad ottenere un visto ai fini dell'espatrio. In questo quadro di politiche volte a bloccare sul nascere i flussi migratori irregolari vi sono anche, in linea con le prescrizioni europee, una folta rete di accordi di cooperazione tra Stati europei e Paesi di transito ed origine, di natura alquanto diversa a seconda degli attori firmatari. Gli elementi comuni che li caratterizzano sono solitamente la fornitura gratuita, o i contributi economici, volti all'acquisto di attrezzature utili al controllo delle frontiere e della formazione del personale addetto al controllo; i finanziamenti di centri di detenzione, volti ad arginare l'immigrazione irregolare; la riserva di quote fisse per l'entrata dei cittadini dei Paesi terzi che collaborano al controllo delle frontiere150. In queste situazioni di cooperazione la difficoltà maggiore risulta nell'attribuzione della responsabilità, in caso di violazione di obbligo di non-refoulement. Infatti, se la responsabilità dipende dalla giurisdizione, che a sua volta dipende da chi ha il controllo effettivo sulla persona, nei casi in cui diversi attori, anche privati, si mescolano nelle operazioni di controllo, risulta oltremodo difficile stabilire un'univoca giurisdizione. Inoltre ricordiamo soltanto, visto che l'argomento è stato già ampiamente trattato, che la stessa nozione di Paese terzo sicuro viene sovente impiegata come “politica di non arrivo” sul territorio europeo. Rappresentando un concetto tutt'altro che ben definito, come dimostrato nel primo capitolo, crea dunque numerosi problemi in merito all'effettiva tutela nei confronti di un refoulement. 1.4- Gli sviluppi del diritto comunitario dopo la pronuncia sul caso Hirsi Le pratiche finora presentante conferiscono allo Stato il diritto di scegliere preventivamente chi può varcare i propri confini, al contrario colui che necessita di protezione non ha possibilità di scegliere la propria destinazione (Kneebone 2008, p. 130). Inoltre ricordiamo che il diritto di lasciare il proprio Paese si presenta come incompleto, perché non ha come corrispondente il diritto dell'altro Stato di accogliere, semplicemente obbliga il Paese di partenza a lasciar uscire il suo cittadino ed a fornirgli i documenti adatti. Più completo risulta invece il diritto di asilo che prevede il diritto di lasciare un Paese in cerca di protezione e l'accesso alla procedura (Goodwin-Gill, McAdam 2007, p. 376). È evidente che le forme di esternalizzazione sopra descritte 150 Si veda Cuttitta 2006, da p. 16 a 34. 60 poco si accordano con il rispetto di questo diritto e sempre più sono state percepite come tentativi da parte degli Stati-nazione di frenare preventivamente i flussi migratori e di eludere le proprie responsabilità internazionali nel campo dei diritti umani. In merito al non-refoulement senza dubbio il caso Hirsi ha prescritto diritti ben precisi che non possono subire deroghe nel momento in cui si ha a che fare con tale obbligo: il diritto ad essere informati sulla procedura d'asilo, il diritto ad avere un'interprete, il diritto di essere esaminati singolarmente da personale qualificato sul tema, il diritto ad un ricorso effettivo, il diritto che lo Stato respingente si accerti della situazione in cui il soggetto potrebbe trovarsi nel Paese in cui viene rinviato. La sentenza inoltre, è stata senza dubbio una presa di posizione nei confronti delle misure dei controlli extraterritoriali sopra descritte, ma è stata anche una presa di coscienza per l'Unione stessa che ha visto smascherata e contraddetta la sua politica dell'ultimo decennio. Ricordiamo infatti, che lo stesso governo italiano giustifica la sua condotta e gli accordi precedentemente presi con la Libia, inserendoli nel quadro decisionale in materia d'immigrazione che ha caratterizzato le scelte dell'Unione Europea a partire dal nuovo millennio. Questa presa di consapevolezza è indubbiamente evidente nella Direttiva 2013/32/UE, parte del nuovo sistema europeo d'asilo varato dal Parlamento la scorsa estate. Basti notare la specifica dell'art. 8 che prevede che siano date informazioni e consulenza relativi alla procedura di asilo nei centri di trattenimento ed ai valichi di frontiera. Viene inoltre sottolineata la necessità di sevizi di interpretariato e l'obbligo degli Stati di assicurarsi che le associazioni di tutela abbiano libero accesso ai valichi, siano esse zone di transito o frontiere esterne. All'art. 12 vengono enunciate altre garanzie relative al diritto di accedere ai servizi di interpretariato e alla consulenza dell'UNHCR e di altre organizzazioni di tutela. Infine l'art. 26 è interamente dedicato al diritto ad un ricorso effettivo. Accorgimenti simili possono essere ritrovati anche nella modifica del Codice delle Frontiere Schengen151 del 26 giugno 2013. Non a caso viene aggiunto l'art. 3-bis che specifica che in sede di applicazione del regolamento gli Stati devono agire tenendo conto degli obblighi prescritti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, dal diritto internazionale, in particolare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e da tutte le norme relative al non-refoulement. L'articolo si conclude con una 151 Regolamento UE n° 610/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica il Regolamento CE n° 562/2006, 26/06/13. 61 puntualizzazione fondamentale, reduce dell'esperienza Hirsi: “le decisioni adottate ai sensi del presente regolamento devono essere adottate su base individuale”152. Viene inoltre ampliato l'art. 15 che obbliga gli Stati membri a formare adeguatamente le guardie di frontiera e “incoraggia” a far loro apprendere le lingue straniere utili all'espletamento delle loro funzioni. Viene inoltre specificato che nella loro formazione determinante deve essere l'attenzione data alla materia riguardante la gestione di persone vulnerabili153. 2- Il Mare di Mezzo154: l'antefatto del caso Hirsi Nel giungere verso la conclusione di questo lavoro è nata la necessità di dedicare spazio all'analisi della politica del governo italiano nell'ultimo decennio in materia di respingimenti che, dopo il quadro tracciato del diritto europeo relativo ai controlli di frontiera, non risulta in effetti così incomprensibile. Verranno analizzate le scelte che l'Italia ha adottato in questi anni e che l'hanno condotta alla condanna della Corte EDU presentata nel capitolo precedente. Il quadro internazionale relativo al diritto del mare e al diritto di prestare soccorso è stato delineato nel primo capitolo, dove sono state messe in evidenza le criticità relative alle operazioni di soccorso in mare. In merito gli Stati adottano interpretazioni molto divergenti: come visto nel caso Hirsi, il governo italiano sosteneva di aver compiuto un'operazione di salvataggio che non gli avrebbe imposto l'identificazione e la definizione dello status delle persone a bordo 155. Le stesse azioni marittime coordinate da Frontex, che per statuto non è un'agenzia SAR, diventano però operazioni di ricerca e salvataggio, sottraendole così all'ambito di applicazione del regolamento di Frontex e del diritto comunitario (Vassallo Paleologo 2010, p. 33). Riguardo alla Convenzione SAR non vi sono inoltre delle linee giuda ben determinate. Questo ha permesso a Stati come Malta di sottrarsi numerose volte all'obbligo di soccorso e salvataggio156, evitando così di farsi carico di potenziali rifugiati presenti sulle imbarcazioni. Ulteriore criticità che si pone nelle operazioni in alto mare chiama in causa il Protocollo 152 Ivi, art. 1(3). 153 Ivi, art. 1(13). 154 Dal libro DEL GRANDE G., Il Mare di Mezzo, al tempo dei respingimenti, Edizioni Infinito, Modena, 2010. 155 Questo viene esplicitato nella Risoluzione MSC.167 (78) Guidelines in the treatment of persons rescued at sea, del Comitato per la sicurezza marittima (MSC), del 20 maggio 2004. 156 Nel caso Hirsi l'Italia agì, come accaduto molte altre volte, nella zona di ricerca e salvataggio di Malta che puntualmente viene meno ai suoi obblighi, adducendo la scusa di possedere una SAR molto più ampia di quelle che sono le sue possibili capacità di controllo. 62 di Palermo del 2000 contro il traffico illegale di migranti157 che prescrive, al fine di raggiungere il proprio scopo, la cooperazione tra gli Stati parte e possibili interventi congiunti in alto mare (artt. 7-8). Il Protocollo afferma il rispetto degli obblighi internazionali tra cui quello di non-refoulement e non considera il traffico di migranti nei termini di crimine internazionale, a differenza dell'ordinamento italiano dove invece l'ingresso e il soggiorno irregolari sono considerati reati (art. 10-bis del Testo Unico sull'immigrazione). Emblematico in proposito è il famoso caso Cap Anamur. Il 20 giugno 2004 la suddetta nave appartenete all'omonima ONG tedesca che si occupa di interventi umanitari, recuperava 37 naufraghi in acque internazionali tra la Libia e Lampedusa. La nave restò fino al 12 luglio in acque internazionali perché, dopo una prima apparente concessione, il governo italiano revocò l'autorizzazione di attraccare a porto Empedocle che fu concessa solo il 12 luglio. I naufraghi soccorsi, che avevano già presentato domanda d'asilo sulla nave, dunque di competenza tedesca, vennero trasferiti in Centri di permanenza temporanea e il comandante e parte dell'equipaggio e il capo dell'ONG tedesca vennero accusati di favoreggiamento all'immigrazione irregolare (art. 12 del suddetto Testo Unico) (Annaloro 2006, p. 146). Al di là delle varie vicissitudini che riguardarono i migranti158, quello che interessa sottolineare è la completa sottrazione di ogni Stato coinvolto alle sue responsabilità: da un lato la Germania sosteneva che la competenza era di Malta perché avrebbe inizialmente acconsentito l'ingresso nelle sue acque territoriali, dall'altro lato l'Italia riteneva che la competenza fosse della Germania che aveva attuato l'operazione di soccorso e infine Malta dichiarava la sua completa estraneità al fatto (Annaloro 2006, p. 143). Inoltre, va posto l'accento sulla condanna dell'equipaggio che ha operato il salvataggio che dimostra ancora la confusione 157 Protocollo relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, ratificata dall'Italia nel febbraio 2006. 158 I migranti avevano già presentato la prima domanda d'asilo sulla nave che venne completamente misconosciuta. Ne presentarono poi una seconda sul territorio italiano che venne considerata incompleta. Per due giorni i migranti vennero sottoposti ad interrogatori senza assistenza legale e vennero visitati dal console sudanese. Avendo dichiarato di essere di tale nazionalità, le autorità italiane non avrebbero mai dovuto permettere la visita, in quanto le minacce delle autorità diplomatiche inducono molti profughi a ritirare le domande d'asilo. Solo in seguito, grazie all'UNHCR ed altri enti di tutela, le domande d'asilo vennero accolte e il 15 luglio la Commissione Territoriale dichiarò la concessione della protezione umanitaria (Annaloro 2006, p. 149). Il 21 luglio la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato revocò la protezione, in base alle dichiarazioni fatte del Ministro dell'Interno che, seguendo quando dichiarato dall'ambasciata sudanese, riteneva che i migranti in questione non fossero più sudanesi, ma ghanesi. L'ambasciata del Ghana confermò, compilando dei certificati le cui uniche voci riempite erano nome e cognome e i migranti furono trasferiti in Ghana (Annaloro 2006, pp. 150-1). 63 volontaria che viene fatta tra operazioni di contrasto all'immigrazione irregolare e quelle umanitarie di soccorso in mare. Dopo cinque anni di processo, tutti gli interessati vennero assolti con una sentenza del Tribunale di Agrigento159 che ha dichiarato che il soccorso assolutamente non può essere considerato reato; che il comandante è l'unica persona che può decidere il luogo sicuro per lo sbarco; e che i dinieghi dati alla nave prima del suo effettivo ingresso in acque territoriali non avevano alcun fondamento giuridico, ma erano il risultato solo di “scelte politiche” dell'allora Ministro dell'Interno Pisanu160. Il caso riportato è un esempio di come la politica, cosiddetta dei respingimenti, che ha caratterizzato l'Italia dell'ultimo decennio, affonda le sue radici nella retorica del contrasto all'immigrazione irregolare ed è una dimostrazione della volontaria confusione tra pratiche di soccorso e di controllo che viene rivendicata dagli Stati a giustificazione e discolpa delle loro condotte. Nel T.U. sull'immigrazione161 e nei famosi “pacchetti sicurezza” emanati nel primo decennio del 2000, l'attenzione alla tematica del contrasto dei flussi migratori irregolari, risulta prioritaria, rispetto ad ogni altra esigenza. Già nel decreto legislativo n. 268/98, prima legge organica in Italia sul tema, i tre pilastri individuati furono: la programmazione dei flussi, il contrasto all' “immigrazione clandestina” e l'integrazione dei cittadini stranieri regolari. Con la legge n. 189 del 30 luglio 2002, la tematica della sicurezza divenne prioritaria. In particolare va sottolineata la modifica relativa ai controlli delle frontiere marittime (art. 9) che sono resi legittimi anche oltre le acque territoriali, fino alla zona contigua162, nei casi in cui si individui una nave che si presume sia coinvolta nel traffico di migranti. Si precisa che il fermo, l'ispezione e il sequestro, nel caso in cui avvengano fuori dalle acque territoriali devono essere eseguiti rispettando il diritto internazionale e gli obblighi tra Stati 163. Infine ricordiamo il decreto legge n. 92 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, del 23 maggio 2008, poi convertito con modificazioni in legge n. 125/08, che introdusse all'art. 61 del codice penale il n° 11-bis che prevede una circostanza 159 Sentenza del Tribunale di Agrigento, sez. penale, dd. 15.02.2010 (Cap Anamur). 160 In http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=880&l=it (consultato il 03/01/14). 161 Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, ovvero decreto legge n. 286 del 25 luglio 1998 e successive modificazioni. 162 La zona contigua si estende massimo a 24 miglia nautiche dalla linea di base da cui si misura il mare territoriale (art. 33 della Convenzione di Montego Bay). La zona contigua va dichiarata dallo Stato costiero, l'Italia, nonostante applichi controlli al di fuori del suo mare territoriale, non ha mia dichiarato la sua zona contigua. 163 Rispettivamente agli artt. 9-bis, 9-ter e 9-quinquies della legge n° 189 del 30 luglio 2002. 64 aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole “mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale”. Inoltre la legge n. 94 del 15 luglio 2009 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, introdusse nel T.U. sull'immigrazione l'art. 10-bis, ovvero il reato di ingresso e soggiorno irregolare. Oltre alla tematica della sicurezza, anche quella della cooperazione con i Paesi terzi è stata sempre cardine, nel T.U. sull'immigrazione, della politica dei controlli delle frontiere. Ciò si evince sia dall'art. 11(4) in cui si afferma la promozione di “iniziative d'intesa” con i “Paesi interessati”, volte alla “reciproca collaborazione a fini di contrasto dell'immigrazione clandestina”, prevedendo la “cessione a titolo gratuito (...) di beni mobili ed apparecchiature specificamente individuate”. Al contrario, la non collaborazione da parte di Stati terzi, sarà penalizzata con la restrizione numerica delle quote d'ingresso per i lavoratori di tali Stati, o addirittura con la riammissione per coloro che sono destinatari di un provvedimento di rimpatrio (art. 21(1)). A livello europeo la presidenza italiana al Parlamento nella seconda metà del 2003 ha messo al centro dell'agenda europea la lotta all'immigrazione irregolare supportata dalla cooperazione con i Paesi Terzi, realizzata tramite gli accordi di riammissione e le intercettazioni in alto mare (di Pascale 2010, p. 289). Nel 2003, per raggiungere tali fini, l'Italia lanciò il piano Ulisse, coinvolgendo Spagna, Francia, Portogallo e Regno Unito e, l'anno successivo, il piano Nettuno, per il pattugliamento del Mediterraneo centrale e orientale. Nel novembre 2008 inoltre, l'Italia lanciò il “Quadro Group” insieme a Malta, Cipro e Grecia, con lo scopo di porre maggiore attenzione sulla questione dell'immigrazione irregolare coinvolgente il Sud Europa e dove nuovamente venne sponsorizzata la politica degli accordi bilaterali tra Paesi di origine e transito (di Pascale 2010, p. 291). Gli accordi con Paesi terzi rappresentano nel caso italiano lo strumento determinate per l'esternalizzazione dei controlli delle frontiere. Già negli anni Novanta gli Stati europei iniziarono ad adottare nei confronti di quelli africani, una politica basata da un lato, su accordi di riammissione e dell'altro, su accordi di cooperazione di polizia che, in assenza dei primi, spesso assolvono la stessa funzione. Inoltre, soprattutto i Paesi del Nord Africa, furono incentivati ad adottare politiche migratorie che si adeguassero agli standard europei, comportando così regimi molto più restrittivi rispetto a quelli precedentemente vigenti (Cuttitta 2006, p. 14). In cambio i 65 Paesi europei attuarono politiche di sostegno esplicite, quali contributi per costruire centri di detenzione per migranti irregolari, o per incrementare le forze di polizia locale, oppure mezzi meno espliciti, come ad esempio i sostegni alla cooperazione allo sviluppo. Nel caso italiano ad esempio, i cui Paesi prediletti per la collaborazione sono sempre stati Tunisia, Egitto, Algeria e Libia164, si assiste ad una precisa strategia che ha visto negli ultimi decenni un aumento considerevole dei finanziamenti per programmi di cooperazione e sviluppo destinati a questi Stati (Cuttitta 2006, p.23). Una breve analisi meritano le relazioni tra Italia e Libia emblematiche dell'opera di esternalizzazione e de-responsabilizzazione compiuta dal governo italiano. Nel caso libico la politica italiana non poteva basarsi, né su quote riservate nei decreti flussi ai cittadini libici, perché quest'ultimo non è mai stato un Paese d'emigrazione, né su una strategia di finanziamenti per la cooperazione e lo sviluppo, perché la Libia per anni è stata isolata nello scenario politico mondiale e soggetta ad embarghi165 (Cuttitta 2006, p. 30). Dunque la strategia che si decise di impiegare fu quella degli accordi bilaterali. Il primo venne siglato il 13 dicembre 2000 con l'obiettivo di collaborare contro il terrorismo, la criminalità organizzata e il traffico illegale di droghe e migranti; il secondo fu un accordo operativo tra le autorità di polizia firmato nel luglio 2003; il terzo, nel 2004, fu un accordo di riammissione il cui contenuto non venne mai rivelato. Nel dicembre 2007 venne poi siglato un protocollo di cooperazione che prevedeva l'aumento dei pattugliamenti congiunti, il dono da parte dell'Italia di sei navi, il cui personale a bordo sarebbe stato sia italiano che libico (di Pascale 2010, p. 297). Infine nell'agosto 2008 fu firmato il Trattato di amicizia, dove venne promosso un sistema di controllo delle frontiere libiche da parte di società italiane ed “operazioni di controllo, ricerca e salvataggio” nei luoghi di partenza e transito, dunque anche in alto mare (Malena 2011, p. 51). Di dubbia costituzionalità devono essere considerati questi accordi che, in base all'art. 10(2) della Costituzione che afferma che lo status dello straniero deve essere regolato dalla legge in conformità al diritto internazionale e in base all'art. 80 che esige la ratifica parlamentare, avrebbero dovuto avere l'autorizzazione del Parlamento prima di divenire operativi (di Pascale 2010, p. 299). 164 Si veda per gli accordi stipulati con questi Paesi il rapporto Accesso alla protezione: un diritto umano, da p. 26 a 30. 165 I rapporti tra Libia e Paesi occidentali sono ripresi alla fine del 2003, quando Mu'ammar al-Gheddafi annunciò che avrebbe smantellato il proprio programma di armi di distruzione di massa. Nel 2004, dopo 15 anni, Gheddafi fece visita alla Commissione Europea a Bruxelles e nel giro di breve tempo l'ultimo embargo stabilito dal'UE nel 1986 viene eliminato (Messineo 2006, p. 98). 66 3- Cattive prassi senza fine: i rinvii dai porti adriatici La politica italiana adottata nel Mediterraneo appena descritta e la recente condanna da parte delle Corte EDU, sono conferme della critica situazione che caratterizza le frontiere esterne meridionali dell'Unione Europea. Vi è però un altro mare, altrettanto ostico che presenta analoghe pratiche di respingimento. Si tratta della situazione che interessa i porti del Mare Adriatico che da anni vedono persone bisognose di protezione, rinviate, o meglio, “riammesse” verso la Grecia. Tale condotta affonda la sua “legittimità” nell'accordo di riammissione per le persone in situazione irregolare, firmato da Italia e Grecia nel 1999166. In base a quanto siglato, i due Stati si impegnano a riammettere un cittadino di un Paese terzo in situazione irregolare, nel territorio dell'altro, nel caso in cui egli vi abbia precedentemente transitato; tale azione viene fatta su richiesta della controparte e “senza formalità” (Malena 2011, p. 51). L'accordo prevede comunque il rispetto della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 ma, in realtà, dovrebbe essere considerato superato dal diritto comunitario, in modo particolare dal Regolamento Dublino, trattandosi infatti, di un accordo bilaterale tra due membri UE su cui dovrebbe prevalere il diritto comunitario, in quanto entità sovranazionale (Malena 2011, p. 52). Non è un caso che l'UNHCR abbia più volte raccomandato per le pratiche di riammissione tra Italia e Grecia l'applicazione dell'art. 3(2) del Regolamento Dublino che permette ad uno Stato membro di farsi carico della richiesta d'asilo, pur se non gli spetterebbe la competenza 167. È necessario comunque sottolineare che molte persone bisognose di protezione si sottraggono volontariamente a questa tutela, sempre perché, a causa del Regolamento Dublino, sarebbero costrette a restare in Italia, se formalizzassero qui la loro domanda di asilo. Preferiscono dunque omettere la loro necessità di protezione, nella speranza che alla prossima traversata possano varcare anche il confine italiano, dirigendosi verso i Paesi del Nord Europa. Nelle vicenda che stiamo analizzando, oltre all'accordo di riammissione, troviamo a giustificazione della prassi dei rinvii, la legislazione italiana in merito agli stranieri a bordo di vettori (art. 12(6) del T.U. sull'immigrazione): quest'ultimi prima della partenza hanno l'obbligo di controllare che non si siano imbarcati stranieri sprovvisti della giusta 166 Entrato in vigore il 01/02/01. 167 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, Rapporto a cura di ASGI, AICCRE, Caritas Italiana, CeSPI, Consorzio Communitas Onlus, 2012, in ww.asgi.it, p. 50. 67 documentazione per varcare i confini del Paese di destinazione. Nel caso in cui i vettori si accorgano solo durante il viaggio, o una volta raggiunta la destinazione, della presenza di stranieri in condizione irregolare, devono riferirlo immediatamente alle autorità del Paese di arrivo e devono ritrasportare lo straniero nel suo Paese di origine, o in quello che gli ha rilasciato il documento di viaggio (art. 10(3) del T.U. sull'immigrazione) 168. Analizziamo ora le critiche, provenienti dal terzo settore, in merito alla questione delle riammissioni. Prima fra tutte è la preoccupazione che l'accordo tra Italia e Grecia non contempli esplicitamente l'obbligo di non-refoulement, ma solo il rispetto della Convenzione di Ginevra su rifugiati del 1951169. Inoltre, più volte è stato fatto presente, che l'assenza di notificazione del rinvio, con l'esplicitazione delle motivazioni che lo hanno guidato, costituisce un primo grande problema, perché lascia l'atto in balia dell'arbitrarietà degli agenti di polizia. In merito, va ricordato, che il Codice delle frontiere Schengen, specifica all'art. 3, di applicarsi sia alle frontiere esterne che interne, dunque il rispetto dei diritti umani prescritto, dovrebbe trovare applicazione anche nel caso in questione. Ne consegue che la prassi del rinvio dovrebbe essere considerata, a tutti gli effetti, un provvedimento di respingimento: necessita quindi di una motivazione e deve essere consegnato al diretto interessato, non semplicemente registrato dalle autorità di polizia. A sostegno che la prassi delle riammissioni possa di fatto essere intesa nei termini di refoulement, troviamo l'opinione concordante del giudice Pinto de Albuquerque sulla sentenza Hirsi, dove egli specifica che è da intendersi come respingimento qualsiasi atto di “restituzione”, “trasferimento ufficioso”, o “rifiuto di ammissione”. Seguendo questa linea interpretativa, non si può fare a meno di individuare un'ulteriore violazione, quella del divieto di espulsione collettiva, così come sancita dalla CEDU; risulta infatti evidente che nessun caso sarà analizzato individualmente, nessuna persona identificata, prima di mettere in atto la procedura 170. Altra criticità delle pratiche dei rinvii, chiama in causa la legislazione italiana in merito ai valichi di frontiera: qui devono essere istituti, ove possibile, nell'area di transito, servizi per fornire informazioni ed assistenza agli stranieri che intendano presentare domanda di asilo (art.11(6) del T.U. sull'immigrazione)171. 168 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, Rapporto a cura del CIR, Imprinting, Roma, 2013, p. 21. 169 Ivi, p. 22. 170 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, p. 47. 171 Ricordiamo inoltre le tutele sopra elencate nel paragrafo 1.4, derivanti dalla Direttiva 2013/32/UE, all'art. 8. 68 “Il fatto che tale disposizione si rivolga esplicitamente a chi intende inoltrare la richiesta d’asilo è una chiara indicazione che il diritto di informazione debba essere assicurato ai migranti prescindendo da una formale istanza di asilo, in quanto ciò che deve essere scrupolosamente tutelato è tanto il principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra quanto il rispetto dell’articolo 3 della CEDU.”172. Inoltre si ricordi che la Circolare del 2 maggio 2001 del Ministero dell'Intero, prevede che tali servizi siano garantiti, non solo, a chi chiede asilo, ma anche a coloro che potrebbero ricevere una protezione a titolo umanitario e/o temporaneo 173. Nella prassi però, i servizi ai valichi di frontiera nei porti adriatici non riescono a garantire queste tutela. Ad eccezione di quello anconetano, negli altri porti la frontiera marittima è militarizzata, dunque le associazioni di tutela non hanno libero accesso alle navi e non possono rendersi conto di chi effettivamente arriva e spesso non ne vengono informate (Vassallo Paleologo 2010, p. 75). Inoltre, a partire dal 2007, le modalità di affidamento di tali servizi si sono basate su bandi di gara che hanno sempre premiato l'ente proponente la migliore offerta in termini economici, causando una diminuzione del numero di operatori e dell'orario di attività dei servizi, rendendo dunque sempre più difficile un effettivo accesso alle informazioni. Altro problema sorge in merito all'individuazione dell'area di transito: è difficile da delimitare nei porti, perché non vi sono disposizioni chiare in merito, dunque, spesso, non si sa se l'obbligo del contatto con i servizi di tutela debba essere reso effettivo primo o dopo il controllo della polizia 174. La prassi delle riammissioni tra Italia e Grecia è fortemente criticata anche per un altro motivo: gran parte dei migranti respinti verso il Paese ellenico, sono minori non accompagnati. In base al Rapporto dell'associazione Medici per i Diritti Umani, Porti insicuri, la maggior parte dei minori respinti dichiara di non aver avuto accesso alla procedura per stabilire la minor età. L'accordo tra Italia e Grecia non prevede alcuna garanzia per i minori non accompagnati, eludendo completamente la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, già ratificata quando l'accordo è stato siglato175. Viene completamente dimenticata anche la legislazione italiana che tutela il 172 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, p. 43. 173 Ibidem. 174 Ivi, p. 44. 175 AAVV, Porti insicuri. Le riammissioni dai porti italiani alla Grecia e le violazioni dei diritti fondamentali dei migranti, Rapporto a cura di MEDU, novembre 2013, p.19. 69 minore non accompagnato dall'espulsione, all'art. 19(2) del T.U. sull'immigrazione, considerando come unica eccezione solo il caso in cui il minore sia un pericolo per la sicurezza dello Stato e l'ordine pubblico. Ricordiamo inoltre, che in queste situazioni dovrebbe valere il “principio del beneficio del dubbio”, espressamente sancito dalla normativa italiana, che impedisce di allontanare un presunto minore straniero dal territorio, prima dell'accertamento della sua età176. Altra criticità risiede proprio nella pratica per stabilire l'età: in Italia non esiste una prassi omogenea in merito e viene solitamente utilizzato l'esame radiologico del polso, ovvero la misurazione del grado di maturazione delle ossa del polso-mano, che risulta però alquanto incerta, dato che ammette un margine di errore di due anni nella determinazione dell'età 177. Concludiamo infine, ricordando che recentemente, la prassi dei rinvii in Grecia ha chiamato in causa un'ulteriore violazione delle norme internazionali. Come viene più volte ribadito dalla Corte EDU, lo Stato che effettuata la misura di allontanamento, deve assicurarsi che il Paese nel quale la persona sarà riportata non violi gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, in particolare, il principio di non-refoulement e il divieto di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La già citata sentenza M.S.S. c. Belgique et Grèce, la cui presa di posizione è stata poi ufficializzata nel Regolamento Dublino III all'art. 3(2), impedisce di trasferire un richiedente asilo nello Stato membro competente ad analizzare la sua domanda, se sussistono fondati motivi di credere che in tale Paese vi siano “carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza”, tali da implicare il rischio di trattamento inumano e degradante. La Corte EDU è stata inoltre chiamata ad esprimersi sul caso Sharifi e altri c. Italia e Grecia, coinvolgente 32 persone, afgani, sudanesi, eritrei, tra cui minori, che denunciano di essere stati respinti dai porti adriatici verso la Grecia in momenti diversi, senza aver avuto possibilità di accedere alla procedura d'asilo ed entrare in contatto con avvocati e rivendicano inoltre maltrattamenti da parte delle autorità di polizia. Viene dunque chiamata in causa la violazione degli artt. 2, 3, 13 e 34 della CEDU e quella dell'art.4 del Protocollo addizionale n°4. Il 24 giugno 2009 la Corte EDU comunicò ad Italia e Grecia il ricorso in questione, n° 16649, presentato il 25 marzo dello stesso anno, con una previsione di pronuncia entro il 2012. Ad oggi la Corte non si è ancora espressa, rischiando probabilmente la dispersione e la perdita di contatto tra i ricorrenti e gli 176 Ibidem. 177 Ivi, p. 20. 70 avvocati che hanno impugnato la causa. Come messo in evidenza nel secondo capitolo, tali tempistiche rappresentano un punto debole della Corte e non è un caso che ne abbiano già fatto le spese i ricorrenti del caso Hirsi: dei 24 ricorrenti, nel momento in cui la sentenza è stata pronuncia, gli avvocati erano riusciti a rimanere in contatto solo con sei persone. Due sono deceduti dopo il respingimento verso Libia e di sedici ricorrenti sono stati persi i contatti dopo la crisi libica del 2011. Inoltre tra i sei ricorrenti rimasti, solo uno, Ermias Berhane riconosciuto rifugiato il 21 giugno 2011 dalla Commissione territoriale di Crotone, ha ottenuto il risarcimento in denaro che, in base alla sentenza, il governo italiano deve pagare ad ogni ricorrente. Le altre cinque persone che si trovano fuori dall'Italia178 non riescono per il momento ad avere il rimborso stabilito, in quanto il governo italiano chiede documentazioni quali un codice fiscale, un attestato di esistenza, un conto corrente, elementi che evidentemente non possono essere facilmente forniti da chi risiede in un altro Paese 179. Per concludere questa analisi delle politiche dei respingimenti che hanno caratterizzato l'ultimo decennio dell'atteggiamento italiano nei confronti delle migrazioni, ricordiamo misure simili adottate anche nei confronti di altre categorie di cittadini stranieri. Dimostrano numerosi rapporti internazionali e il giudizio di François Crépeau180, che egiziani e tunisini sono categorie di migranti estremamente a rischio di respingimento in Italia. Risulta infatti, che essi appena intercettati vengono identificati dalle loro rispettive autorità consolari e nel giro di 48 ore dall'ingresso rimpatriati. Nelle 48 ore vengono solitamente trattenuti presso i Centri di primo soccorso ed accoglienza e quelli di identificazione ed espulsione senza alcuna convalida giudiziaria181. I respingimenti nei confronti di tunisini ed egiziani sono condotti da molti anni e mai sono stati messi in discussione, né prima, né dopo la cosiddetta primavera araba, perché solitamente, Tunisia ed Egitto non sono Paesi dai quali provengono potenziali richiedenti asilo. È stato però messo in evidenza nel presente lavoro, che la protezione non è limita alla sola 178 All'epoca della sentenza il ricorrente Habtom Tsegay si trovava nel campo di Choucha, in Tunisia, Kiflom Tesfazion Kidan risiedeva a Malta; Hayelom Mogos Kidane e Waldu Habtemchael si trovavano in Svizzera, dove attendevano una risposta allo loro domanda di protezione internazionale; Roberl Abzighi Yohannes era in Benin. 179 Intervento dell'avvocato Lana che ha seguito il ricorso Hirsi, al convegno Access to protection: a human right, organizzato dal CIR a Roma, il 15 ottobre 2013. 180 Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti, che ha condotto una missione in Italia tra il 30 settembre e l'8 ottobre 2012, a seguito della quale ha espresso forti preoccupazioni in merito agli standard di tutela dei diritti dei migranti in Italia. 181 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, pp. 36. 71 sancita dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, quindi anche tra tunisini ed egiziani potrebbero esserci persone bisognose di tutela. Non prendendo in considerazione caso per caso le singole storie personali, questo non potrà mai essere accertato e di conseguenza come ha insegnato la sentenza Hirsi, ciò implica una violazione del non-refoulement. 4- Le ultime vicende nel Mar Mediterraneo Le questioni finora affrontate non trovano purtroppo facile risoluzione e sono dimostrazione di una volontà sovranazionale, quella europea, che difficilmente riesce a trovare un compromesso con gli Stati-nazione che non vogliono limitare i propri diritti di scelta in materia d'immigrazione, in particolare di accesso al loro territorio, ma che difficilmente riesce a coniugare anche le sue stesse esigenze di sicurezza, in base alle quali più volte è stata etichettata come “Fortezza Europea”. Dall'altro lato, si trova una volontà nazionale, soprattutto espressa dai Paesi che rappresentano le frontiere esterne dell'Unione, che richiedono a gran voce che l'Europa riservi loro un trattamento speciale e conceda loro supporto, anche economico, per il controllo delle frontiere. La situazione italiana è particolarmente critica in questo momento storico di grandi afflussi via mare di migranti, la cui maggior parte risulta provenire da Paesi quali l'Eritrea, la Somalia e la Siria, che notoriamente rappresentano Stati dai quali si fugge per chiedere protezione182. Lampedusa è oramai da anni una frontiera di estrema criticità e non a caso, nel 2006 il Ministero dell'Interno ha dato avvio al progetto Praesidium “Potenziamento dell'accoglienza dei flussi migratori che interessano Lampedusa”, in collaborazione con la CRI, l'OIM, l'UNHCR e Save the Children. Il Ministero dell'Interno fu sicuramente spronato da una risoluzione del Parlamento Europeo (aprile 2005) che criticava le espulsioni collettive che venivano costantemente attuate da Lampedusa verso la Libia, a seguito dell'accordo di riammissione siglato nel 2004183. Nel 2007 il progetto fu riproposto coinvolgendo altri punti strategici di sbarco in Sicilia, dove le autorità delle organizzazioni sopra citate avrebbero dovuto presidiare; e nel 2008 luoghi di interesse divennero anche Puglia, Calabria e Sardegna. Lo scopo degli operatori di Praesidium è fornire informazioni e consulenza a chi è appena arrivato, individuando i soggetti vulnerabili e dando supporto agli operatori dei centri in cui i migranti vengono sistemati 182 AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, pp. 11-12. 183 AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, p. 53. 72 subito dopo lo sbarco184. Di anno in anno il progetto si è ampliato coinvolgendo anche altre regioni come le Marche e la Campania ed è arrivato nel 2013 alla sua VIII edizione. Le ultime vicende di Lampedusa non smentiscono il quadro, purtroppo consolidato da anni. Lo scorso 3 ottobre si è parlato di strage, di tragedia, di lutto nazionale: centinaia di migranti, sono rimasti vittime di un incendio divampato sulla barca che li stava portando verso Lampedusa, a mezzo miglio dell'isola dei Conigli. 368 è stata la stima dei morti di quel giorno185, più della metà di coloro che erano a bordo, a cui ne sono seguiti altri nel successivo naufragio della notte dell'11 ottobre186. L'evento ha ottenuto una risonanza epocale, nonostante da tempo, oramai, le coste di Lampedusa e il mare che le circonda lasciano affiorare quotidianamente cadaveri di migranti 187. L'Italia si è indignata e dal 31 gennaio al 2 febbraio associazioni e movimenti di varia natura si sono incontrati sull'isola per stilare La Carta di Lampedusa, volta a proporre azioni comuni di sensibilizzazione che possano influenzare l'opinione politica sui repentini cambiamenti da attuare per evitare altre tragedie. Parallelamente si è creato il Comitato 3 ottobre, che ha l'obiettivo di istituire in quella data la Giornata nazionale della memoria e dell'accoglienza, che vede già in atto una proposta di legge presentata alla Camera. Dall'altro lato, è l'opinione politica che si è indigna, nei confronti dell'Europa, che costringe i Paesi che gestiscono le frontiere esterne ad atteggiamenti poco coerenti. È questa l'opinione del Prefetto Compagnucci, Vice Capo Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'Interno che sottolinea la confusione tra attività di soccorso e controllo prescritte dall'Unione Europea ed attacca i Paesi dell'Europa centro-settentrionale che percepiscono la condizione del Mediterraneo come un problema italiano e non europeo188. La retorica della condivisione delle responsabilità è quella che ha sempre guidato la difesa dell'Italia negli ultimi anni, non è un caso che dopo la “tragedia”, nel Consiglio dei Ministri del 9 ottobre scorso, il governo ha predisposto il decreto legislativo volto all'attuazione della Direttiva 184 Ivi, p. 54. 185 In http://www.meltingpot.org/La-Carta-di-Lampedusa-Dal-31-gennaio-al-2-febbraio 2014.html#.UvZDNCgW4Vp (consultato il 06/02/14). 186 In http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/10/12/news/lampedusa_barcone_rovesciato_recuperati_34_c orpi_206_superstiti-68420574/ (consultato il 06/02/14). 187 Si veda in proposito la meticolosa rassegna stampa proposta da Fortress Europe, osservatorio sulle vittime di frontiera (http://fortresseurope.blogspot.co.uk/). 188 Intervento del Prefetto Riccardo Compagnucci al convegno Access to protection: a human right, organizzato dal CIR a Roma, il 15 ottobre 2013. 73 2011/51/UE che consente il rilascio del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo anche ai rifugiati che finora ne erano esclusi, decreto che è stato approvato lo scorso 17 dicembre189. Lo stesso Ministro dell'Interno Alfano, al Consiglio di Giustizia e Affari Interni, tenutosi in Lussemburgo l' 8 ottobre 2013, ha parlato di Lampedusa come di una questione europea, non solo italiana. Ugualmente il Presidente del Consiglio Letta, in una comunicazione del 23 ottobre 2013 alle Camere, ha sottolineato che per troppi anni l'Unione è stata distante dall'Italia ed è ora arrivato il momento che faccia di più 190. Conseguenza di queste vicende è stata la repentina approvazione del Regolamento n° 1052/2013 che istituisce il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur), adottato lo scorso 10 ottobre. Dalla lettura del documento risulta evidente, a differenza del Regolamento che aveva istituito l'agenzia Frontex, la consapevolezza delle tragiche condizioni che caratterizzano le frontiere esterne del Mediterraneo: il controllo delle frontiere non è necessario solo per la sicurezza dello Stato-nazione, ma anche per garantire quella dei migranti. Infatti, al considerando 1 viene così definito lo scopo di Eurosur: “rafforzare” lo scambio di informazioni e la cooperazione tra gli Stati membri e con Frontex, al fine di combattere “l'immigrazione clandestina” e al fine di “contribuire a garantire la protezione e la salvezza della vita dei migranti” e, ovviamente, di coloro che necessitano di protezione191. Sempre con la consapevolezza delle ultime vicende che hanno interessato il Mediterraneo, il Regolamento raccomanda il rispetto del diritto internazionale, specificando le convenzioni riguardanti il diritto del mare (considerando 25) e, nei casi di cooperazione con Paesi terzi, viene puntualizzato che la gestione delle attività deve prevedere il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare dell'obbligo di non-refoulement (considerando 15). Infine, precisazione importate che non può non ricordare i famosi patti nascosti tra Italia e Libia, è quella che prevede la notificazione immediata alla Commissione degli accordi bilaterali stipulati con Stati terzi al fine della cooperazione per il controllo delle frontiere. Inoltre, sempre il Parlamento Europeo, il 23 ottobre scorso ha adottato una risoluzione nella quale è stato precisato che: gli Stati interni devono seriamente prendere in considerazione l'art. 3(2) del Regolamento Dublino III e mettere in atto progetti di 189 In http://www.integrazionemigranti.gov.it/newsletter/Documents/newsletter_11_novembre_2013.pdf (consultato il 30/11/13). 190 Ibidem. 191 Viene infatti specificato al considerando 3: “È riconosciuto nel presente regolamento che le rotte migratorie sono percorse anche da persone che necessitano di protezione internazionale”. 74 ricollocazione dei rifugiati, così da non sovraccaricare eccessivamente i sistemi di accoglienza dei Paesi esterni. Il Parlamento raccomanda l'attuazione di strategie di accesso sicuro per i migranti al sistema d'asilo europeo, vede negli accordi con i Paesi di transito un punto nevralgico della futura politica in materia di immigrazione, infine, puntualizza che mai l'azione di soccorso in mare costituisce un'azione sanzionabile 192. Dal canto suo l'Italia non è stata da meno. A seguito degli eventi del 3 ottobre, il governo italiano ha predisposto una serie di misure di “emergenza”, stanziando 210 milioni di euro per far fronte agli sbarchi193. Da un lato, sembra restare perennemente salda la retorica dell'emergenza, nonostante da diversi decenni l'Italia sia Paese d'immigrazione e di asilo, senza pensare a proposte di legge organiche in merito. Dall'altro, resta salda la retorica della sicurezza, sia a livello europeo che nazionale. Infatti, nel Consiglio di Giustizia e Affari Interni dell' 8 ottobre scorso, sopra richiamato, l'Italia ha chiesto una maggiore efficacia nell'azione di sorveglianza di Frontex, inoltre, a solo quattro giorni dall'approvazione di Eurosur, il governo ha dato inizio all'operazione Mare Nostrum. Operazione definita come una “missione militare ed umanitaria” che prevede un pattugliamento che si spinge fino alle coste Nord-africane, così da cogliere in flagranza di reato i trafficanti di uomini194. Inizialmente, la fine di Mare Nostrum era stata fissata per il 2 dicembre, invece, nella seconda metà di gennaio, è stato addirittura previsto l'utilizzato di altre due navi per l'operazione 195. Mare Nostrum ha subito scatenato una serie di perplessità da parte degli enti di tutela dei migranti: permane l'ambiguità tra il soccorso e il controllo, più volte messa in evidenza in questo lavoro, lo dimostra la stessa definizione dell'operazione, detta umanitaria e al tempo stesso militare. A conferma di quest'ultimo carattere piuttosto che del primo, troviamo l'impiego di mezzi, quali ad esempio le fregate lanciamissili. Preoccupa inoltre, il destino dei migranti salvati. È evidente che su navi militari del genere non ci sarà la possibilità, né tanto meno il personale adatto per un'identificazione ed una valutazione caso per caso della situazione dei naufraghi196. Inoltre, il Ministro dell'Interno Alfano, 192 In http://www.integrazionemigranti.gov.it/newsletter/Documents/newsletter_11_novembre_2013.pdf (consultato il 30/11/13). 193 In http://www.immigrazioneoggi.it/daily_news/notizia.php?id=005764#.UvZPFSgW4V (consultato il 06/02/14). 194 CAPRARA G., L'operazione Mare Nostrum, in Eurasia, in http://www.eurasia-rivista.org/loperazionemare-nostrum/20335/, 04/11/13 (consultato il 03/01/14). 195 In http://www.marina.difesa.it/attivita/operativa/Pagine/MareNostrum.aspx (consultato il 06/02/14). 196 VASSALLO PALEOLOGO F., Mare Nostrum – Luci ed ombre sulle modalità operativa, in http://www.meltingpot.org/Mare-Nostrum-Luci-ed-ombre-sulle-modalitaoperative.html#.UtUe6SgiIVp, 28/10/13 (consultato il 03/01/14). 75 nella conferenza stampa di presentazione dell'operazione, ha affermato che i migranti soccorsi saranno condotti in un porto sicuro, non necessariamente in Italia. L’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico, neo-presidente della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis) ha esplicitamente augurato una seria politica di collaborazione con la Libia, così da permettere ai droni (mezzi aerei) di arrivare ad effettuare il controllo fino alle coste libiche197. Entrambe queste dichiarazioni destano preoccupazione, perché si prefigura una situazione poco chiara, come quella che ha permesso fino a questo momento la pratica dei respingimenti. Va comunque riconosciuto che, dal suo inizio, Mare Nostrum ha salvato numerose vite in mare: la stima, al 25 gennaio 2014, è di 8020 persone 198. A seguito di un afflusso del genere, sono ovviamente scattate misure eccezionali di accoglienza: il 10 gennaio 2014 il Ministero dell'Interno ha inviato una circolare ai prefetti incitandoli ad individuare strutture adatte per l'accoglienza, in attesa dell'uscita delle graduatorie Sprar199. Il Ministero consiglia di non affidarsi a strutture alberghiere, reduce probabilmente della mala gestione che negli ultimi anni ha riguardato le strutture di “emergenza”, spesso attivate tramite la cosiddetta legge Puglia200. Quest'ultima, ai suoi esordi, venne concepita per la gestione dei flussi migratori provenienti dall'Est Europa, con particolare riferimento agli sbarchi albanesi sulle coste pugliesi. Però, con il successivo regolamento di attuazione n. 233 del 1996, venne data ai Prefetti la possibilità di attivare, su tutto il territorio nazionale, strutture provvisorie per stranieri irregolari, al fine di identificarli ed espellerli, o, nel caso ad esempio di richiedenti asilo, di regolarizzare la loro situazione201. Questo, a ben vedere comporta una situazione alquanto precaria e difficilmente controllabile: la neonata struttura potrebbe durate pochi giorni, o molti mesi, è faticoso il suo controllo a livello nazionale, proprio per l'arbitrarietà che viene lasciata al prefetto, non è ben chiara la “tipologia” del centro e 197 MAZZEO A., Riflessioni critiche sull'Operazione Mare Nostrum, in Scienza e Pace, in http://scienzaepace.unipi.it/index.php?option=com_content&view=article&catid=33:articoli-focus-n12013&id=154:guerra-ai-migranti-e-alle-migrazioni, 12/12/13(consultato il 03/01/14). 198 In http://www.cir-onlus.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1054:operazionemare-nostrum-salvati-finora-8-020-migranti&catid=13&Itemid=143&lang=it (consultato il 06/02/14). 199 Lo Sprar è il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che si pone come obiettivo un'accoglienza integrata, volta a realizzare un percorso di autonomia per i beneficiari. La Sprar è finanziato dal Ministero per l'Interno con bandi triennali e le graduatorie per il 2014-2016 sono state pubblicate il 29 gennaio scorso, acconsentendo ad un notevole aumento dei posti riservati ai beneficiari. 200 Decreto legge n° 451 del 30 ottobre 1995, convertito in legge n° 563 del 29 dicembre 1995. 201 In http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2005/luglio/decr-mininterno-2331996.html (consultato il 12/12/13). 76 dunque neanche le tutele che dovrebbero esservi garantire all'interno. Nel caso in questione, per la nuova emergenza scatenata dai soccorsi dell'operazione Mare Nostrum, il Ministero consiglia alle prefetture di affidarsi, nella scelta delle strutture, ad enti pubblici, o del privato sociale, prediligendo quelle realtà che hanno già gestito progetti all'interno del sistema Sprar202. Le persone così accolte dovranno avere diritto ad una accoglienza materiale di base, rispettosa delle loro abitudini culturali203, in più, alla mediazione linguistica, all'informazione e ad un primo orientamento per la formalizzazione della domanda di protezione 204. Concludiamo questo resoconto sull'attuale situazione italiana, con una puntualizzazione sul sistema di accoglienza nazionale. È inevitabile non pensare che, se in tre mesi, considerando tra l'altro che siamo in stagione invernale, sono state soccorse più di 8000 persone, i numeri non faranno che aumentare e parallelamente dovrebbero essere incrementati anche i posti di accoglienza. Il sistema italiano rischia dunque di scoppiare, visto che si trova, già per sua natura, sotto costante pressione. Ricordiamo infatti che, per la prossima triennalità, è stato confermato un aumento dei posti Sprar, da 3000 a 16000 unità, un numero sicuramente significativo, a cui però dovrebbe corrispondere un altrettanto incremento di qualità dei servizi. Infatti, nonostante lo Sprar abbia le giuste doti per proporre un'accoglienza integrata, finora i limitati posti concessi hanno lasciato la maggior parte dei potenziali beneficiari in una situazione di abbandono. Inoltre lo Sprar nel corso degli anni ha supplito alla mancanza di un sistema di asilo unico: questo ha fatto sì che durante le emergenze, come sta accadendo anche in questo momento, il sistema abbia accolto più persone di quelle per cui erano stanziate risorse 205. Allo stesso modo, anche in assenza di emergenze, lo Sprar è stato spesso chiamato a supplire alle carenze dei servizi socio-educativi-assistenziali, infatti certi beneficiari richiedono anche un intervento di tipo socio-sanitario che il Sistema per sua natura non dovrebbe fornire206. Considerato tutto questo, non stupisce che il 9 luglio 2013 una sentenza del Tribunale 202 Circolare del Ministero dell'Interno n° 104, dell' 8 gennaio 2014, in http://www.meltingpot.org/IMG/pdf/circolare_gennaio_2014.pdf (consultato il 06/02/14). 203 Vitto, alloggio, biancheria, abbigliamento adeguato alla stagione, prodotti per l'igiene, una tessera telefonica di 15 euro al momento dell'ingresso, 2,5 euro giornalieri di pocket money. (Circolare del Ministero dell'Interno n° 104, dell' 8 gennaio 2014). 204 Circolare del Ministero dell'Interno n° 104, dell' 8 gennaio 2014. 205 GIOVANETTI M., OLIVIERI M.S. (a cura di), Tessere l'inclusione: territori, operatori, rifugiati, Rapporto del Servizio Centrale, luglio 2012, pp. 40-41. 206 Ivi, pp. 42-43. 77 amministrativo di Francoforte abbia impedito, sulla base dell'art. 3(2) del nuovo Regolamento Dublino, il trasferimento verso l'Italia di un richiedente asilo che qui era stato inizialmente fotosegnalato. Il Tribunale afferma che l'accoglienza dei richiedenti asilo in Italia, in particolare dei cosiddetti “dublinati”, verte in condizioni alquanto penose, che rischiavano di esporre il ricorrente ad una situazione di abbandono tale da costituire un trattamento inumano e degradante. Il caso inoltre risulta emblematico perché il ricorrente ha subito un prelievo forzato delle impronte digitali, pratica, che aveva già caratterizzato un gruppo di eritrei trattenuti a Lampedusa nella primavera 2013 e, in seguito, intere famiglie siriane che sono state trattenute nei centri provvisori creati con la legge Puglia, finché non hanno acconsentito al prelievo. Il Tribunale di Francoforte in proposito ha espresso un'importante dichiarazione: la presenza delle impronte digitali all'interno del sistema EURODAC non è prova sufficiente che la persona abbia chiesto asilo nel primo Paese d'ingresso, è necessario che vi sia un atto formale e sottoscritto, dove il soggetto esprima la sua volontà di chiedere protezione207. Non si tratta della prima sentenza da parte di Tribunali tedeschi in merito alle condizioni del sistema d'accoglienza dei richiedenti asilo in Italia. Tutte hanno rilevato numerose criticità in merito: la sovente assenza di interpreti e mediatori nella fase subito successiva all'ingresso, la pessima condizione alloggiativa che costringe molti richiedenti asilo a divenire dei senzatetto, l'eccessiva durata della procedura che rappresenta un forte limite nei casi di ricongiungimento con familiari che non si trovano in condizioni di sicurezza. Nonostante l'ampliamento dei posti riservati allo Sprar, nonostante l'ingente finanziamento di 210 milioni di euro prima annunciato, di cui una parte riservata alla tutela dei minori stranieri, nonostante il controllo degli operatori di Praesidium, l'Italia sembra ancora un Paese non sicuro per i richiedenti asilo. Non può cadere nel dimenticatoio l'evento che ancora una volta ha messo in luce le carenze del sistema di accoglienza e che, per l'ennesima volta, ha portato Lampedusa sulle prime pagine della stampa nazionale. Ci riferiamo alle immagini del CPSA di Lampedusa, dello scorso dicembre, dove i migranti sono stati tenuti al freddo, bagnati e svestiti, mentre erano sottoposti al trattamento anti scabbia, malattia probabilmente contratta nel centro, dato che nessuno di loro al momento dell'arrivo era infetto. Immagini che hanno nuovamente 207 VASSALLO PALEOLOGO F., L'Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, in http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Commento_Vassallo.pdf, 07/10/13 (consultato il 05/11/13). 78 indignato l'Italia che dimostrano i molti passi ancora da fare nella direzione di un'effettiva accoglienza e tutela dei diritti. 5- Il diritto ad avere diritti Già nel 1951 quando scrisse Le origini del totalitarismo Hannah Arendt individuava la perdita del diritto di avere diritti, come una mancanza del diritto d'azione, anche politica, e della perdita della relazioni di un individuo all'interno della comunità. Nella piramide gerarchica dei diritti umani, il diritto ad avere diritti, dovrebbe essere all'apice della struttura, perché senza di esso nessun altro può essere goduto. Come ben rivendica il giudice Pinto de Albuquerque, il caso Hirsi non ha semplicemente chiamato in causa la compatibilità della protezione e delle politiche di controllo delle frontiere, ma ha posto una questione di fondamento, ovvero se “l'Europa debba riconoscere ai rifugiati 'il diritto di avere diritti'”208, diritto che deve infatti essere assicurato dalla comunità stessa, sia essa locale o globale, e che nulla ha di naturale e predeterminato. Nel corso dell'ultimo decennio è risultato evidente che le pratiche di esternalizzazione dei controlli delle frontiere abbiano impedito il godimento del diritto d'asilo, o meglio di accedere ad una procedura d'asilo. Per trovare soluzione a questa evidenza a livello istituzionale è stato incentivato il dibattito su procedure che potessero coniugare l'esigenza del controllo a quella del diritto. Nel 2003 la Gran Bretagna presentò la proposta alla Commissione Europea di creare delle “regional protection areas” in Paesi prossimi all'Europa, presumibilmente di transito, con l'obiettivo di esaminare lì le domande d'asilo e in caso concedere una protezione in loco e solo raramente dare accesso a programmi di reinsediamento in Europa. La seconda proposta riguardava la costruzione nei Paesi di transito di “transit processing centres” dove rinviare i richiedenti asilo giunti in Europa e lì esaminare le loro domande (Schiavone 2006, p. 155). La proposta britannica risulta ovviamente radicale, compiendo una vera e propria delocalizzazione delle procedure d'asilo. La contro-proposta fu subito sviluppata dall'UNHCR con l'obiettivo di creare un meccanismo che permettesse di distinguere coloro che necessitano di protezione da altre tipologie di migranti. Gli strumenti proposti per raggiungere tale fine sono stati: incentivare l'esame della domanda nei Paesi di primo asilo, definire accordi di riammissione specifici in merito, stabilire una lista di Paesi sicuri di origine così da poter 208 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. 79 facilmente individuare le domande manifestamente infondate, raccogliere tutti coloro che si trovano in questa situazione in centri chiusi appositamente adibiti vicino le frontiere esterne dell'UE (Schiavone 2006, p. 157). Nel 2004, a seguito di altre proposte di esternalizzazione della procedura d'asilo, il Parlamento Europeo rifiutò perentoriamente queste iniziative, ricordando che l'accoglienza di chi chiede asilo è un obbligo che non può essere eluso (Schiavone 2006, p. 165). Al contrario il Parlamento, adotterà da quel momento in poi una strategia volta a promuovere le “procedure di ingresso protetto” nel territorio dell'Unione. In un periodo di decisivo incremento della politica dei respingimenti, il Parlamento emise un'altra risoluzione (10 marzo 2009) sul futuro del sistema europeo comune di asilo, dove affermava di prendere “atto con grande interesse dell'idea di istituire 'procedure di entrata protetta' e incoraggia[va] fermamente la Commissione a farsi carico delle modalità concrete e delle implicazioni pratiche di questo tipo di misure” (par. 49). In seguito, nel caldo periodo tra 2011 e 2012, che ha caratterizzato la crisi libica, numerose ONG ed enti del Terzo settore hanno riproposto a gran voce l'istituzione di tali procedure, non ottenendo però risposte concrete. La “tragedia” di Lampedusa ha riportato all'attenzione del dibattito pubblico le “procedure di accesso protetto”. Infatti nella Risoluzione 2013/2827, dello scorso ottobre, il Parlamento Europeo mostra preoccupazione per “il crescente numero di persone che rischia la vita intraprendendo pericolose traversate del Mediterraneo verso l'UE; invita gli Stati membri ad adottare misure che consentano ai richiedenti asilo di accedere in maniera sicura ed equa al sistema di asilo dell'Unione; rileva che l'ingresso legale nell'UE è preferibile all'ingresso irregolare (…); incoraggia gli Stati membri a sopperire alle necessità impellenti attraverso il reinsediamento, in aggiunta alle quote nazionali esistenti, e l'ammissione per motivi umanitari;”209. Il reinsediamento di cui parla il Parlamento permette di trasferire il rifugiato dal Paese di primo asilo ad un altro che accetta di accoglierlo. Tale procedura garantirebbe un arrivo ordinato dei rifugiati, non più tramite flussi misti, e nonostante sia stato uno strumento molto proficuo in passato, risulta completamente in disuso oggi. Molti Stati infatti, obiettano che il reinsediamento non comporta un'effettiva diminuzione del traffico irregolare dei migranti, perché non si pone come unica alternativa all'accesso alla 209 Risoluzione n° 2013/2827 del Parlamento Europeo sui flussi migratori nel Mediterraneo, con particolare attenzione ai tragici eventi al largo di Lampedusa, 23/10/13, parr. 21-22. 80 procedura d'asilo, quindi molti rifugiati continuerebbero ad auspicare un arrivo diretto sul territorio europeo. Nell'ottica del bilanciamento dei valori andrebbe individuata una priorità: nel caso in specie l'accesso sicuro alla protezione. Ricordiamo infatti, che l’obbligo di non-refoulement ha due conseguenze procedurali: “il dovere di informare lo straniero sul suo diritto di ottenere una protezione internazionale ed il dovere di offrire una procedura individuale, equa ed effettiva che consenta di determinare e valutare la qualità di rifugiato”210. Tali garanzie nell'attuale sistema di asilo europeo, che non riconosce l'asilo diplomatico, sono realizzabili solo tramite un accesso sicuro alla protezione, dunque al territorio. La seconda alternativa per consentire un ingresso protetto sarebbe infatti quella di permettere ai rifugiati di ottenere un visto presso le ambasciate o le rappresentanze consolari dello Stato in cui vorrebbero espatriare; questo consentirebbe loro di viaggiare legalmente verso il Paese d'asilo. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati ha chiesto, alla vigilia del Consiglio Europeo del 23/24 ottobre scorso, per chi è bisognoso di protezione l'apertura di “canali di ingresso legale e protetto al territorio dell'Unione” 211. Allo stesso modo, Progetto Melting Pot Europa, associazione di tutela e promozione dei diritti, rivendica l'apertura di canali umanitari che permettano di richiedere asilo direttamente presso le autorità diplomatiche presenti nei Paesi terzi, senza costringere chi necessita di protezione ad imbarcarsi illegalmente ed alimentare il traffico e la tratta di esseri umani212. Luigi Maconi, Presidente della Commissione straordinaria dei diritti dell'uomo, preferisce parlare di “presidi”, piuttosto che di “canali umanitari”, perché l'esigenza è di organizzare una partenza sicura: la protezione non può iniziare a Lampedusa, ma prima, nei Paesi di origine e transito 213. Tutti restano inoltre convinti che pratiche del genere se fatte nel rispetto della normativa europea, non si tradurranno in una misura di delocalizzazione dell'asilo, tanto meno in una perdita di garanzie per la protezione. Purtroppo tale soluzione non risolve il problema di moltissime persone che come dimostrano le sentenze e le decisioni della Corte EDU, non chiedono asilo, ma 210 Parere concordante del giudice Pinto de Albuquerque, in Caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. 211 In http://www.cir-onlus.org/index.php?option=com_multicategories&view=article&id=913:cirappello-al-consiglio-europeo-per-aprire-canali-di-ingresso-protetto-ineuropa&catid=37&Itemid=142&lang=it (consultato il 06/02/14). 212 In http://www.meltingpot.org/Appello-per-l-apertura-di-un-canale-umanitario-finoall.html#.UvfEASgW4Vp (consultato il 06/02/14) 213 Intervento di Luigi Maconi al convegno Access to protection: a human right, organizzato dal CIR a Roma, il 15 ottobre 2013. 81 comunque dovrebbero essere tutelati rispetto ad ogni forma di refoulement (GoodwinGill, McAdam 2007, p. 376). Inoltre, non per tutti l'accesso ad organi governativi risulta così semplice: tanto dipende dal luogo dove si vive e dalle condizioni delle vie di comunicazione della zona, o addirittura del genere della persona che può, a seconda dei casi, limitare o agevolare il movimento e il contatto con organi statali. Attualmente dunque le due soluzioni che sembrano garantire un accesso sicuro alla protezione sono i programmi di reinsediamento e l'asilo diplomatico. Per quanto riguarda il primo, sembra una via difficile da percorrere, perché si fonda sullo spirito di solidarietà tra gli Stati dell'Unione che, quando si tratta di migrazione, sembrano tutt'altro che solidali. In proposito, basti ricordare quando la Francia minacciò nel 2011 di ristabilire la sua frontiera interna per bloccare la “fuga” dall'Italia di migliaia di tunisini, a cui il governo italiano aveva concesso dei permessi temporanei per circolare nell'area Schengen. Per quanto riguarda l'asilo diplomatico esso non ha ancora trovato spazio nel diritto comunitario. Infatti una definizione giuridica di questa tipologia di asilo esiste solo nel continente americano. Qui è stata praticata frequentemente, soprattutto in America Latina, e ha trovato codifica in trattati risalenti alle fine dell'Ottocento e nella più recente Convenzione di riferimento del 1954 adottata dall'organizzazione degli Stati Americani, che contempla però l'asilo diplomatico solo nei casi di persecuzione per motivi o reati politici. 82 Conclusione Nell'indagare le garanzie relative al principio di non-refoulement e il loro entrare in contrasto con l'esigenza di sicurezza nazionale degli Stati, la discussione si è conclusa riportando la rivendicazione da parte degli enti di tutela dei migranti del diritto all'accesso alla protezione, ovvero di un diritto ad avere diritti. Quest'ultimo termine nasce dalla riflessione di Hannah Arendt sui regimi totalitari che spogliano l'individuo dal diritto di appartenere all'umanità, diritto che dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa. Tale concetto oggi viene sempre più impiegato per descrivere la precaria condizione giuridica dei migranti, siano essi irregolari o potenziali richiedenti asilo. Chi non possiede uno status infatti, non ha la possibilità di godere dei diritti civili, politici e sociali, ma paradossalmente, nel mondo contemporaneo, neanche di quelli umani. Questa è la conclusione a cui molti accademici ed intellettuali sono giunti: si pensi al concetto di non-persone del sociologo Alessandro Dal Lago, a quello di nuda vita del filosofo Giorgio Agamben, ma anche a quello di doppia assenza del sociologo Abdelmalek Sayad. Ognuno di questi autori declina ovviamente con peculiarità diverse la riflessione in questione. Nel caso di Sayad si tratta di un'esclusione sociale, piuttosto che giuridica, che porta il migrante ad essere assente sia nella sua società d'origine, che in quella d'accoglienza, sperimentando la condizione di estraneazione da ogni relazione sociale che mette a dura prova il proprio riconoscimento identitario. Il concetto di nonpersone di Dal Lago chiama in causa invece le regole dello Stato-nazione, basate sul vincolo imprescindibile della cittadinanza e del godimento dei diritti che essa comporta. Dal Lago non può prescindere dalla riflessione della Arendt e definisce la persona come “l'insieme di attributi sufficienti a fare di un essere umano un uomo tra gli uomini”214. La storia, come ricorda Dal Lago, ci ha insegnato che tali attributi non sono riconosciuti a priori, ma dettati dall'appartenenza alla specie umana, quando questa appartenenza viene meno, si diventa non-persona. Infine la riflessione di Agamben richiama l'immagine dei campi profughi, dove i rifugiati vengono tenuti in una situazione di “nuda vita”, ovvero di privazione sostanziale di diritti. Tutte queste espressioni sono simbolo di una condizione dove il godimento dei diritti umani, che dovrebbero essere riconosciuti per loro definizione ad ogni persona, indipendente dall'appartenenza nazionale, è vincolato dal consenso di una società, locale o globale che sia. 214 DAL LAGO A., Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 208. 83 Nel caso in questione il diritto all'accesso alla protezione, che si realizza preliminarmente tramite l'obbligo di non-refoulement, è riconosciuto dal diritto comunitario, ma è subordinato all'arrivo nel territorio di uno Stato. Come mostrato in questo lavoro l'accesso dei cittadini stranieri all'Unione Europea ha subito sempre maggiori deroghe, portando gli enti di tutela dei migranti a rivendicare il diritto all'accesso come un diritto umano. L'assenza di questa prospettiva, dunque di un diritto ad avere diritti, comporta nell'ottica della Arendt e di coloro che odiernamente hanno sposato il suo pensiero, ad una perdita di agency, intesa in termini antropologici come la possibilità di agire e partecipare attivamente alla comunità, e ad una perdita delle relazioni sociali, da cui prescinde il proprio riconoscimento come membro della società/umanità. Le soluzioni proposte per la riconquista del diritto ad avere diritti abbiano visto essere due: una l'istituzione dell'asilo diplomatico, che spaventa molto gli Stati europei, perché potrebbe essere strumentalizzato come un mezzo legale di accesso al territorio anche per coloro che poi non avrebbero il diritto di permanervi. Dall'altro lato, troviamo invece la strategia del reinsediamento, che sembra però ancora più difficile da realizzare, perché in materia d'immigrazione risulta decisamente carente la solidarietà tra Stati, condizione preliminare per la sua attuazione. Le due proposte sono dunque percorribili, e si auspica diventino concrete, ma lasciano irrisolta la questione del bilanciamento tra rispetto dei diritti umani e prerogativa statale di decidere l'accesso al proprio territorio. Reduci delle ultime esperienze lampedusane è forse giunto il momento di scegliere quale sia la priorità tra i due valori in gioco. 84 Bibiliografia AAVV, Accesso alla protezione: un diritto umano, Rapporto a cura del CIR, Imprinting, Roma, 2013. AAVV, Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia; quale futuro?, Rapporto a cura di ASGI, AICCRE, Caritas Italiana, CeSPI, Consorzio Communitas Onlus, 2012, in ww.asgi.it. AAVV, La conscience des droits, Dalloz, Paris, 2011. 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