Il piombo e l`acciaio. Gli anni `70 in due delitti

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Il piombo e l`acciaio. Gli anni `70 in due delitti
Il piombo e l'acciaio. Gli anni ’70 in due delitti 18 marzo 1978. Milano. Da due giorni l’Italia è governata dal IV governo Andreotti, che aveva ricevuto la fiducia il 16, il giorno del rapimento di Aldo Moro. Dopo le elezioni del 1976, Moro e Fanfani, con la proposta di portare avanti il cosiddetto "compromesso storico", avevano stretto un patto che prevedeva la nascita di un governo di grande coalizione che comprendesse membri Democristiani e Comunisti. Andreotti fu chiamato a guidare il primo esperimento in questa direzione: il suo nuovo governo, formato nel luglio del 1976, includeva solo membri Democristiani ma ebbe l'appoggio indiretto di altri partiti, con l'eccezione del Movimento Sociale Italiano. Questo sostegno era basato sulla "non-­‐sfiducia", ossia sul fatto che questi partiti si sarebbero astenuti nelle votazioni parlamentari in caso di disaccordo. Il 16 marzo del 1978 anche il PCI votò la fiducia. La musica che si ascoltava in Italia era quella di Rino Gaetano, Anna Oxa e Alan Sorrenti; era arrivato anche da noi il fenomeno della disco music, con artisti come Bee Gees, Amanda Lear e Grace Jones. La nazionale di calcio si preparava per i mondiali del 1978, lo scudetto lo avrebbe vinto la Juventus e il Lane Rossi Vicenza, neopromossa, sarebbe arrivata seconda grazie alle 24 reti del suo capocannoniere, Paolo Rossi. La TV aveva solo due canali e solo l’anno precedente era diventata a colori. Raffaella Carrà conduceva il varietà “Ma che sera” e cantava “com’è bello far l’amore da Trieste in giù” proprio in quei giorni; Mike Bongiorno faceva 24 milioni di telespettatori con il suo “Scommettiamo”. Da poco erano nate le radio private, “libere”, come si diceva allora. Il 18 marzo 1978 è un sabato. Fausto Tinelli e Lorenzo “Jaio” Iannucci sono due ragazzi che vestono come una volta: jeans scampanati, camicione a quadretti, giubbotti con le frange, capelli lunghi. Come ogni sabato sera l’appuntamento è per il risotto della madre di Fausto, prima di uscire per la sera: c’è un concerto blues al centro sociale Leoncavallo. Poco prima delle 20 si incontrano e si incamminano verso casa di Fausto. C'è la testimonianza dell'edicolante all'angolo tra via Casoretto e via Mancinelli. Li sente parlottare. "Commentavano i titoli delle edizioni straordinarie dei giornali sul caso Moro"-­‐ dice con assoluta certezza. "Si sono fermati per pochi secondi poi sono andati verso il deposito dell'Atm". Sono le 19.55, qualcosa li attira dentro via Mancinelli. Ad attenderli ci sono i killer. All'altezza del portone dell'Anderson School Fausto e Jaio avvertono il pericolo, si voltano intorno per chiedere aiuto. Non c’è nessuno. Così due giovani dall'accento romano si avvicinano con fare sbrigativo. Li bloccano. Ora i quattro si trovano faccia a faccia. Si fa avanti uno con l'impermeabile bianco e il bavero alzato. "Siete del Centro Sociale Leoncavallo?” -­‐ dice con voce squillante. Lorenzo e Fausto non rispondono. Li colpiscono otto proiettili Winchester, 7,65, sparati da un professionista. Un'esecuzione. I corpi si accasciano a terra. Il primo a cadere è Fausto. Il proiettile lo colpisce all'addome; gli altri tre in rapida successione all'emitorace sinistro, al braccio destro e alla regione lombare sinistra. Un quinto proiettile lo raggiunge di striscio bucando gli indumenti. Poi tocca a Jaio. Tre colpi lo fanno crollare sul marciapiede: Fausto è riverso sul piano stradale mentre Jaio è a breve distanza, centrato più volte mentre tenta la fuga. Una testimone oculare, Marisa Biffi. Mette a verbale ciò che ha visto (agli atti delle inchieste dei giudici Spataro, Barazzetta, Mascarello e Salvini): "Tre ragazzi sono in piedi sul marciapiede e si trovano a 5-­‐6 metri da me. Contemporaneamente un altro giovane è leggermente piegato e si comprime lo stomaco con entrambe le mani. Odo tre colpi attutiti che lì per lì sembrano petardi tanto che penso che quel gruppo di quattro persone sta scherzando. Non vedo alcuna fiammata di arma da fuoco. I tre giovani sul marciapiede scappano velocemente mentre quello che è piegato su se stesso cade in terra. Noto che il giovane con l'impermeabile ha un sacchetto che sembra di cellophane bianco in mano. Mi pare che lo abbia diretto verso il killer che si contorce e che entrambe le mani stanno dentro il sacchetto. Il giovane sta sparando verso Jannucci.” I killer sono in tre. Due hanno l'impermeabile bianco con il bavero alzato. L'altro indossa un giubbotto marroncino chiaro, di finto cammello. Formano un capannello davanti al portone dell'Anderson School. Marisa Biffi, la testimone oculare, vede i cinque fronteggiarsi per pochissimi istanti. Fausto e Jaio, dunque, non conoscono i propri assassini. I tre assassini sono armati ma solo uno, il più grande del gruppo, quello più esperto estrae una Beretta 80 ed esplode otto colpi calibro 7,65, spara a freddo, prendendo accuratamente la mira, incurante del tempo che passa e dei testimoni che possono riconoscerlo mentre i due complici lo proteggono a breve distanza; il sacchetto di cellophane o di tela visto da Marisa Biffi è senza dubbio uno stratagemma per evitare l'espulsione dei bossoli. I primi poliziotti giunti sul posto mettono le mani avanti: può essere un regolamento di conti nell’ambiente della droga, ma chi conosce Fausto e Jaio sa che non può essere questo il motivo dell’esecuzione. Tutte le rivendicazioni registrate nei giorni successivi, infatti, apparterranno a sigle dell’universo neofascista. La più attendibile appare quella dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Appare subito chiaro che i killer vengono da fuori Milano, anche perché le indagini mostrano che dopo l’omicidio si sono mossi come persone che non conoscono le vie di fuga migliori, ma che sanno di potersi muovere senza pericolo. Perché? Il fatto che fossero di fuori lo si capiva anche da come si vestivano. Appartenevano ad un ceto diverso da quello di Fausto e Jaio. Usavano gli impermeabili chiari come una sorta di divisa. Magari anche per nascondere armi lunghe. Tra l’altro, poche ore prima, nella sala biliardo del centro sociale Leoncavallo, dove avevano passato parte del pomeriggio anche i due ragazzi, si era notata la presenza di tre persone mai viste prima, ma nessuno ci aveva fatto veramente caso. Una pista ci sarebbe: Fausto e Jaio stavano svolgendo un’indagine sullo spaccio di eroina nel loro quartiere, anche facendo interviste per strada. Avevano anche i nastri di quelle interviste, ma sono spariti misteriosamente dopo l’omicidio. Solo un giornalista de L’Unità indaga davvero sull’omicidio dei due ragazzi. Mauro Brutto ci lavora giorno e notte e ne scrive sul suo giornale. Mostra anche parte del suo lavoro ad un carabiniere. A metà novembre qualcuno gli spara tre colpi, ma non lo colpisce. Il 25 novembre, alle 20.45, dopo aver incontrato qualcuno, probabilmente una fonte, si ferma per comprare le sigarette in un tabaccaio. All’uscita attraversa la strada per tornare alla sua macchina. Supera la prima metà della strada e si ferma proprio sulla striscia bianca che divide le corsie. Guarda da una parte, c'è una Fiat 127 rossa, attende il passaggio ma nella direzione opposta appare una Simca 1100 bianca che viaggia a 70 chilometri all'ora. La macchina punta sul giornalista e lo travolge. Questa almeno rimane la versione ufficiale. Molti non credono alla tesi dell'incidente. Aldo Barbieri, l’uomo alla guida della 127, dichiara: "Stavo percorrendo via Murat in direzione di via Marche, quando all'altezza del numero civico 38 ho visto il pedone che attraversava la carreggiata proveniente da sinistra. Ho lampeggiato ripetutamente e lui si è fermato sulla linea di mezzeria. Nel senso opposto giungeva ad almeno 70 chilometri orari una Simca bianca che invadeva anche la mia corsia e che non ha affatto rallentato, sembrava puntare sul pedone". Ultimo particolare: Mauro Brutto aveva con sé un borsello in cui teneva i fogli con gli appunti sugli articoli su cui lavorava; nell’impatto era volato al centro della carreggiata , ma poi era sparito. Testimoni dichiarano di aver visto una Mini passarci sopra e trascinarlo via; viene ritrovato in una strada a poca distanza, ma vuoto. Le indagini su quello che venne ritenuto un incidente furono brevi e distratte, ma la dinamica di quell’investimento non convince. Troppi misteri intorno all’omicidio di Fausto e Jaio. La trafila del procedimento contro gli assassini dei ragazzi si chiude nel 2000, quando il Giudice delle Udienze Preliminari del Tribunale di Milano, Clementina Forleo, dichiara: "Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolari degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni". Quindi: nessun colpevole. La madre di Fausto, però, è di un altro parere e lo dice esplicitamente in una intervista del 2011 a Radio24. “Dopo l'omicidio di mio figlio ognuno offriva la sua versione. Chi parlò di regolamento di conti tra spacciatori di droga, oppure una faida tra gruppi della sinistra extraparlamentare. Negli anni ho riannodato i fili della memoria, i pezzi di un piccolo mosaico che mi ha permesso di raggiungere la vera verità che io conosco. Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell'ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all'appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana. […] Prima del rapimento Moro e dell'omicidio di mio figlio, tra la fine del '77 e l'inizio del '78, la famiglia che occupava l'appartamento al terzo piano del mio palazzo venne mandata via d'urgenza con uno sfratto esecutivo. La casa era rimasta vuota per qualche settimana. A un certo punto la portinaia dello stabile, mentre puliva al terzo piano, vide alcune persone entrare nell'appartamento, si agitò e me ne parlò. E da allora ho cominciato a sentire rumori sulle scale specie di notte, fino a vedere attraverso lo spioncino persone che andavano al terzo piano con strani congegni, apparecchi fotografici. Nessuno, oltre a me, si è domandato cosa stessero facendo quelle persone. Ho messo in relazione la presenza di quelle persone con alcuni fatti strani avvenuti prima dell'omicidio. Una ragazza venne a cercare mio figlio a casa mia. Quando la descrissi, mio figlio non la riconobbe come un'amica. Eravamo spiati, controllati, almeno due mesi prima. […] Nessuno mi ha mai interrogata. Fausto e Iaio sono come un segreto di Stato... un depistaggio. Hanno scelto mio figlio perché abitava in via Monte Nevoso dove era in corso un'operazione coperta dei servizi, qualcosa che non doveva emergere” (Corriere della Sera 22.02.2011) Tra le rivendicazioni dell’omicidio di Fausto e Jaio c’è n’è una che ci porta all’altra storia che raccontiamo oggi. Il 19 marzo 1978 alle ore 21,30. L’Ansa riceve una telefonata da una cabina di Milano, piazza Oberdan: “Sergio Ramelli piangeva vendetta, ieri è stato vendicato. Giustiziere d’Italia. Firmato: gruppo armato Ramelli”. Chi è Sergio Ramelli? Torniamo indietro fino al marzo del 1975. Qualche mese prima nella sede del MSI di Milano iniziava a girare un ragazzo con i capelli lunghi, che subito aveva suscitato diffidenza. Era il periodo in cui nelle sedi del MSI si viveva nella perenne fobia dell’infiltrato, del militante di sinistra sotto copertura. Il timore era reale: in quei mesi molte sedi del partito erano state incendiate o distrutte da bombe artigianali. Il ragazzo con i capelli lunghi era Sergio Ramelli e la sua storia inizia con un compito in classe, un tema di italiano fatto a scuola, nella sua classe, la 5J dell’Istituto Tecnico Molinari di Milano. Subito dopo le vacanze il professore, Giorgio Melitton, assegna, tra le altre, anche una traccia di attualità. Melitton è un simpatizzante della sinistra extraparlamentare, ma non è un esaltato come molti dei suoi colleghi e, probabilmente, quando assegna quel tema in cui chiede ai suoi alunni di parlare di attualità, non vuole fomentare l’odio fra i ragazzi. Forse, ha solo la curiosità di sapere come la pensano. Non può immaginare che, in pratica, sta firmando la condanna a morte di un ragazzo di 19 anni. Sergio scrive delle Brigate Rosse, del fatto che il loro primo delitto sia stato commesso contro due missini, che Mazzola e Giralucci sono ricordati come vittime solo dai loro compagni di partito, che le BR sono un pericolo per la democrazia, che non sono un gruppo di romantici rivoluzionari, ma un gruppo manovrato. Subito dopo la consegna degli elaborati un gruppo di membri del collettivo politico più forte dell’istituto, quello di Avanguardia Operaia, blocca nei corridoi il ragazzo incaricato di raccogliere i compiti. Leggono velocemente i temi e trovano quello di Sergio, che non sarà mai corretto dal professor Melitton. Poche ore dopo il tema è esposto in bacheca nell’atrio della scuola con sotto la scritta “Ecco il tema di un fascista” e con tutte le correzioni del collettivo in rosso. Quel tema darà inizio ad una catena di avvenimenti che si concluderà con la morte di Sergio Ramelli. A scuola, grazie anche ad un gruppo di docenti disinteressati, omertosi o conniventi, la persecuzione non è difficile. Gli insegnanti assistono passivamente ad una serie di episodi raccapriccianti. Durante una lezione, per esempio, Sergio Ramelli viene prelevato di forza dal suo banco, portato nel corridoio. Sputi, insulti. Gli urlano in faccia “sei un fascista! Vergognati!”. Nessuno interviene. Nessuno interrompe. “Ramelli, con te abbiamo appena iniziato”. È un avvertimento. E, infatti, a quell’episodio ne seguono molti altri. Una mattina, il 13 gennaio, lo aspettano sotto casa. Il gruppo è composto da ragazzi che sono tutti più grandi di lui. Sergio, molti di loro neppure li conosce. Non vanno al Molinari, ma lo obbligano comunque a cancellare con la vernice bianca alcune scritte fasciste apparse sui muri della scuola. Lo “sbiancamento” è uno dei riti dell’epoca, una sorta di gogna pubblica. Ancora una volta, tutti vedono, nessuno interviene. La cosa preoccupante è che, quel giorno, prima di dargli il pennello, Sergio viene anche immobilizzato e fotografato. Per non far preoccupare sua madre, Sergio non le racconta nulla. Tiene i genitori all’oscuro delle vessazioni continue cui lo sottopongono i membri del collettivo a scuola. Eppure, le minacce cominciano a non limitarsi solamente alle ore in cui Sergio sta a lezione. Poco prima dell’aggressione, cominciano le telefonate anonime a casa. Dall’altra parte della cornetta nessuno parla, si sente soltanto l’inequivocabile motivetto di Bandiera Rossa. Sergio dice alla madre che sono scherzi. Poi compaiono le scritte sotto casa: “Ramelli, fascista, sei il primo della lista”. Ancora una volta, tutti vedono, nessuno interviene. Il giorno più drammatico, prima del delitto, è il 3 febbraio. I genitori hanno deciso che Sergio deve lasciare il Molinari. A scuola il padre accompagna il figlio per le necessarie pratiche. Purtroppo li stanno aspettando: sono aggrediti, picchiati e costretti a passare tra due file di studenti. Il professor Melitton riporta la frase della preside che, dopo l’accaduto, aggredì il padre dicendogli: “Ma non vede che lei e suo figlio siete motivo di turbamento per la scuola?” Il professor Melitton, appunto. Proverà in tutti i modi ad opporsi alle violenze, solo, ma senza esito. Dopo la morte di Ramelli sarà costretto a chiedere il trasferimento. Provò anche ad intervenire durante un’assemblea studentesca, molto accesa, che si tenne al Molinari pochi giorni prima dell’aggressione finale. In quell’assemblea gli studenti ribadivano la necessità di condurre la lotta antifascista anche al Molinari. Melitton disse che questo modo di ragionare stava producendo un grave errore, la violenza contro Ramelli. L’assemblea fu presa alla sprovvista, ma una professoressa militante in Avanguardia Operaia replicò: “gli episodi che si sono verificati nella nostra scuola sono parte della mobilitazione antifascista che è in atto nel paese”. L’assemblea sottolineò queste parole con una ovazione. La mobilitazione, anche violenta, contro gli esponenti della destra italiana, in effetti, era davvero in atto. Un buon racconto del clima di quel periodo è nell’autobiografia di un calciatore militante, Paolo Sollier, Calci e sputi e colpi di testa (1976): “La sera gran casino sotto la sede del MSI, io finalmente in prima fila, a un metro dal portone. Ma naturalmente la prima fila è un’altra: qualche vicolo più sotto una decina di molotov si danno appuntamento nella sede del FUAN. Brucia tutto. E non è neppure un’azione illegale: abbiamo o no una Costituzione che proibisce la ricostituzione del partito fascista e affini?” Il giorno dopo l’assemblea sulla porta della sala docenti del Molinari appare un manifesto con questo titolo: “Ecco perché Sergio Ramelli è un picchiatore nero”. Resterà lì fino all’aggressione, come una fatwa. La verità è che queste farneticazioni isteriche non avevano nessun fondamento. Sergio Ramelli non era stato mai coinvolto in nessun fatto violento. Tutte le accuse che gli furono mosse non avevano alcun fondamento. La dimostrazione di questo è nel fatto che gli avvocati dei suoi assalitori, durante il processo seguito alla sua morte, non trovarono nulla da usare in difesa dei suoi assalitori. E arriviamo a quel giorno di marzo del 1975. Il 13 era un giovedì. Quella mattina Sergio va a scuola come tutti i giorni. Segue le lezioni. Aspetta come al solito il suono della campanella. È l’ora di pranzo quando riprende il suo vecchio motorino per tornare a casa. Qualche giorno prima Roberto Grassi, ex studente del Molinari ed esponente di spicco del servizio d’ordine di Avanguardia operaia aveva parlato con Marco Costa, numero due del servizio d’ordine di Medicina a Città Studi, per comunicargli che il suo gruppo avrebbe dovuto aggredire Ramelli. Una sorta di battesimo d’azione, la prima sprangatura del gruppo. Due parole sui gruppi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia: sono la milizia del gruppo, organizzata dopo molte sconfitte negli scontri di piazza. Li chiamano gli “idraulici”, perché hanno scelto come arma la Hazet 36, una chiave inglese lunga 40 cm e pesante quasi tre chili. Il massimo per chi voglia armarsi senza avere un porto d’armi. Uno slogan della sinistra extraparlamentare ancora oggi fa venire i brividi: “Hazet 36. Fascista dove sei”. Avanguardia Operaia usa le chiavi inglesi come strumento per il servizio d’ordine durante le manifestazioni, ma anche per molte aggressioni documentate. Il modus operandi è sempre lo stesso: si aspetta che la vittima sia isolata, la si circonda in gruppo e la si colpisce finché non perde conoscenza. È quello che accade a Sergio Ramelli. Quando parcheggia il suo “Ciao” sotto casa, lo aggrediscono in quattro. Uno resta a fare il palo. Lo colpiscono a ripetizione. Con una violenza inaudita. L’azione è brevissima. Sergio rimane a terra, in un lago di sangue. È ancora vivo. Per altri quarantasette giorni combatterà con la morte, in un letto dell’ospedale Maggiore di Milano. Poi, dopo un’agonia senza paragoni, morì. Il professor Melitton, nel libro che ha scritto qualche anno dopo, racconta una scena a cui assistette pochi giorni dopo la morte di Sergio Ramelli. Nel bar interno al Molinari, davanti ad una tazza di caffè, a voce alta perché tutti sentissero, la prof di lettere del triennio F, una madre di famiglia disse: “E che importa, se dunque era un fascista?”. La sua collega del corso M, che era stata docente di Sergio per un anno, che aveva pubblicamente incitato i ragazzi all’intolleranza verso i neri, si giustificò affermando: “A Roma sono più forti loro, a Milano noi”. Bibliografia Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio, Baldini Castoldi Dalai, 1996 Luca Telese, Cuori neri, Sperling & Kupfer, 2006 Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, 1989 Indro Montanelli -­‐ Mario Cervi, L’Italia degli anni di piombo, Rizzoli BUR, 1991 Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Compton, 2007 Concetto Vecchio, Vietato obbedire, Rizzoli BUR, 2005 Paolo Sollier, Calci e sputi e colpi di testa, Kaos, 1976 Giorgio Melitton, Per memoria di Sergio Ramelli