La cucina russa estratto

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La cucina russa estratto
cucine
Nella stessa collana:
Auguste Escoffier, Guida alla grande cucina
Salvatore Marchese, Benedetta patata
Jack Santa Maria, Cucina vegetariana indiana
Olindo Guerrini, L’arte di utilizzare gli avanzi
Nuova edizione aggiornata: novembre 2013
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Donatella Possamai
La cucina russa
tra storia, letteratura
e ricette
INTRODUZIONE
Lo stomaco di una persona illuminata
presenta le migliori qualità di un cuore
buono: sensibilità e gratitudine.
A. P UŠKIN, S entenze gastronomiche
La cucina russa, troppo spesso erroneamente ritenuta povera, si rivela a un conoscitore attento come ricchissima per la quantità e la
varietà dei prodotti impiegati. L’enorme vastità delle terre russe, caratterizzate dai frequenti e talvolta bruschi mutamenti di paesaggio,
ha fatto sì che, dalle epoche più remote, l’uomo potesse sfruttare i
prodotti dei boschi (funghi, bacche, noci, miele, galli cedroni, lepri)
e quelli dei fiumi e dei laghi (pesci, granchi, anatre). Inoltre i grandi prati favorirono l’allevamento del bestiame e quindi l’impiego
delle carni e di tutti i prodotti derivati dal latte. La possibilità di coltivare vaste estensioni a grano portò ben presto all’instaurarsi di una
grande tradizione del panificare; l’antica Rus’ era orgogliosissima
della varietà e qualità del suo pane, che insieme al sale veniva offerto in segno di ospitalità e amicizia agli stranieri o ai visitatori,
tanto che ancora oggi una persona ospitale viene definita chlebosol,
che per l’appunto significa ‘panesale’.
Che la coltivazione fosse usanza antichissima lo testimonia già Erodoto che, nel 450 a.C. circa, ci dà notizia degli “Sciti agricoltori”:
“...varcato il Boristene1, si trova, a partire dal mare, anzitutto l’Ilea.
E dopo, risalendo, abitano gli Sciti agricoltori... Questi Sciti agricoltori si estendono per tre giorni di strada verso oriente, giungendo
fino al fiume che ha nome Panticape2, e verso settentrione per undici giorni di navigazione sul Boristene”.
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Dobbiamo però fare un salto di più di mille anni e giungere cioè alle soglie del millennio per trovare testimonianze scritte sulle usanze
gastronomiche delle popolazioni slave orientali. Nel frattempo, dopo fusioni etniche con altri popoli, queste ultime si erano volontariamente assoggettate al dominio dei Variaghi a causa di dissidi interni alle diverse tribù – a dar credito alla Povest’ vremennych let
(Cronaca degli anni passati) il cui principale estensore fu il monaco Nestor agli inizi del XII secolo. Ed è proprio a proposito di Svjatoslav, il terzo discendente della dinastia variaga, o meglio rjurikide
dal nome del capostipite Rjurik, che la Cronaca ci narra come fosse di costumi semplici, tanto che durante le campagne non prendeva vettovagliamenti con sé, ma era solito mangiare carni (cavallo,
manzo o selvaggina) tagliate a fette e cotte alla brace. Nell’anno
6477 (969)3, sempre secondo la Cronaca, il principe Svjatoslav
avrebbe detto che la città di Perejaslavl’ si trovava in una posizione
favorevole poiché vi si incrociavano i cammini delle verdure e della frutta dalla Grecia e del miele dalla Russia, miele che a quel tempo, oltre a essere un alimento quotidiano, costituiva un ricercato articolo da esportazione.
Non molti anni più tardi ebbe luogo un avvenimento che avrebbe segnato una svolta e indirizzato tutto il corso della storia e anche della
culinaria della Russia. Narra il cronista che nel 6494 (986) si sarebbero presentati a Vladimir (detto poi il Santo) rappresentanti delle religioni maomettana, cattolica romana, ebraica e greco-ortodossa cercando ciascuno di guadagnare il principe alla propria fede. I rappresentanti della fede maomettana furono però ben presto congedati da
Vladimir poiché, come narra il cronista, non gli piacque la rinuncia
alla carne di maiale e al vino: “In Russia si beve forte […] e senza
bere noi non possiamo vivere”, avrebbe esclamato. E nel 988, quando, dopo un periodo di riflessione e altre peripezie, Vladimir abbracciò infine la fede greco-ortodossa e adottò il calendario religioso, introdusse in Russia la pratica di osservare i periodi di digiuno e le feste comandate, che con il tempo dette origine a un “calendario culinario” con vere e proprie prescrizioni alimentari: il pesce fresco, ad
esempio, era consigliato per l’Annunciazione e la Domenica delle
Palme e durante la settimana grassa si mangiavano pani senza con-
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dimento con caviale pressato, caviale di storione, uova di sterletto4,
uova di luccio con zafferano e bliny (frittelle).
Tornando alla Cronaca, nel 996 si accenna a un banchetto nel quale
venne servita molta carne e poiché la družina5 si lamentava di dover
mangiare con cucchiai di legno, Vladimir il Santo ordinò che ne venissero portati d’argento; da notare, e vi ritorneremo sopra anche
più avanti, che la carne si serviva con il cucchiaio, poiché le forchette in Russia non ebbero larga diffusione fino al secolo XVIII.
Durante questo stesso banchetto vennero distribuiti al popolo pane,
carne, pesce, verdure, bevande a base di miele e kvas6.
Negli anni 1237-40 le città russe caddero una a una sotto il gioco degli eredi di Chinggis Khaan. Prima Rjazan’ e poi Kiev vennero distrutte, e anche la Grande Novgorod fu costretta al pagamento di tributi. Il dominio dell’Orda d’oro esercitò la sua influenza anche sulla cucina russa: dai tatari si apprese come fare fermentare il latte e
ottenere il kefir, come conservare il cavolo in una soluzione salina
e, soprattutto, l’uso del tè ; sembra che persino il samovar, che potrebbe quasi essere considerato un emblema della Russia, trovi in
realtà le sue origini presso il popolo tataro.
Nel XV secolo, con la dissoluzione dei principati indipendenti a favore della formazione di uno stato nazionale unitario e l’abbattimento del giogo tataro, la città di Mosca venne a trovarsi in una posizione sempre più di primo piano. Verso la fine del secolo, Zoe, nipote dell’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo, sposò Ivan III. Da Roma arrivarono con lei a Mosca molti architetti, artisti e artigiani italiani. Probabilmente fu assieme a loro che giunsero in Russia il Falerno e altri antichi vini italiani, che divennero ben
presto usuali alle tavole principesche. Alla capitale cominciarono ad
affluire anche molti diplomatici europei, le cui testimonianze contribuirono notevolmente a diffondere le usanze locali oltre i confini
dello Stato russo. I banchetti andarono assumendo i connotati di ricevimenti diplomatici ufficiali e la ricchezza e la varietà dei cibi si
accrebbero sempre più per sottolineare la grandezza e la potenza
dello Stato.
Aleksej Tolstoj, nel suo romanzo storico Knjaz’ Serebrjanyj (Il principe Serebrjanyj), descrive dettagliatamente un banchetto offerto da
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Ivan IV il Terribile per settecento persone. Come prima portata vennero serviti su piatti d’oro circa duecento cigni arrostiti, seguiti da
trecento pavoni anch’essi arrosto accompagnati da kulebjaki (pasticci) ripieni di carne e formaggi e bliny di tutti i tipi. E poi gelatine di carne, cicogne alle spezie, galli cedroni, galletti e galline e ancora anatre con cetrioli. Si giunse così alle zuppe... E l’elenco dei
cibi continua con altre innumerevoli portate di primi e secondi piatti, alcuni in uso ancor oggi, mentre altri, come quelli summenzionati a base di cigni e pavoni, sono ormai estranei al gusto odierno.
Spiccano per la loro assenza le carni di vitello, scarsamente impiegate all’epoca, tanto che alcuni decenni più tardi, quando la zarina
Marina Mnišek7 tentò di introdurne l’uso a Corte, venne organizzata la cosiddetta “rivolta del vitello”.
Tornando al banchetto di Ivan il Terribile, alla tavola a cui egli stesso sedeva venne servito come dessert un Cremlino di zucchero di
circa cinque pud8, mentre altri, più piccoli, da tre pud, adornarono le
altre tavolate insieme a leoni, aquile e altri uccelli, sempre di zucchero fuso. A chiusura del banchetto nell’enorme sala vennero portati degli alberi dorati con appesi paste dolci e pan pepati. Tolstoj descrive anche i lussuosi abiti dei servi che, nell’intervallo tra una portata e l’altra, si andavano a cambiare per apparire in nuovi costumi
sempre più ricercati. Sulle tavole, prima dell’inizio del banchetto,
facevano bella mostra di sé soltanto pepaiole, saliere e ampolle con
l’aceto; gotti, coppe e tazze d’oro e d’argento erano ammucchiati su
una sola tavola al centro della sala. Queste stoviglie erano però più
comunemente di legno, argilla o stagno e solo verso la metà del
XVII secolo andò diffondendosi il vetro.
Spesso ogni porzione, anche se enorme, era comune a due o tre persone (cosa che non raramente faceva sorgere liti circa la spartizione
dei cibi), mentre nelle famiglie contadine si era soliti pescare con il
cucchiaio in un recipiente comune in centro tavola, oppure si usava
lo stavec, un recipiente formato da due scodelle uguali sovrapposte.
Il piatto, così come noi lo conosciamo, è entrato in uso soltanto nel
XVIII secolo, come pure le forchette e i tovaglioli, anche se delle
prime si conoscono esemplari ben più antichi in osso o legno, usati
comunque solo per ospiti di riguardo. Favorevole alla generale eu-
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ropeizzazione dei costumi della Russia, Pietro I fu grande sostenitore dell’uso di entrambi.
I coltelli e soprattutto i cucchiai hanno invece origini molto più antiche, dovute alla grande diffusione di innumerevoli tipi di zuppe.
Adam Ölschläger meglio conosciuto come Adam Olearius, membro
di diverse spedizioni commerciali in Russia negli anni 1634, 1636 e
1643, nel suo Ausführliche Beschreibung der kundbaren Reyse nach Moscow und Persien (Descrizione dettagliata del curioso viaggio a Mosca e in Persia) ci fornisce una fonte inesauribile di notizie
sugli usi e costumi della gente comune e, a proposito delle stoviglie,
ci narra: “...La maggior parte non possiede più di tre o quattro pentole di terraglia e cucchiai pure di terraglia o di legno. Si vedono poche stoviglie di stagno e ancora meno d’argento, all’infuori delle
tazze per l’acquavite e l’idromele. Essi non sono neanche abituati a
mettere molta cura nel lavare e pulire i loro recipienti...”. Che le stoviglie di stagno fossero una rarità lo conferma anche il Domostroj (Il
governo della casa), trattato elaborato probabilmente dall’arciprete
Sil’vestr ai tempi di Ivan il Terribile su modelli novgorodensi, che
ricorda il Cortegiano di Baldassarre Castiglione unicamente sul piano delle analogie generali; fissa infatti le norme di comportamento
familiare del buon suddito russo e lo istruisce su come governare la
famiglia, i servi, ad avere timore di Dio e dello zar. A proposito delle stoviglie di stagno nel Domostroj si consiglia di contarle prima e
dopo un banchetto, acciocché gli ospiti non le trafughino, tanto preziose venivano evidentemente considerate. Le prescrizioni riguardo
all’igiene sono molto severe per l’epoca: i cibi, ma anche le tovaglie
e tutto il vasellame, devono essere ben lavati e puliti; portando i cibi in tavola non si deve né tossire né starnutire né, tantomeno, sputare, e si deve far obbligo ai cuochi di indossare vesti pulite. Vista la
palese discordanza con la testimonianza di Olearius, se ne arguisce
che queste prescrizioni fossero ampiamente disattese.
A conferma di quanto affermato da Olearius e, più genericamente,
degli usi a tavola già descritti, giunge la testimonianza di un altro
viaggiatore straniero, questa volta un francese, Augustin de Mayerberg, contenuta nel suo Voyage en Moscovie (Viaggio in Moscovia)
del 1661: “Su un lungo e stretto tavolo, ricoperto di tela di lino gros-
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solana, si mette un’ampolla di aceto, un vasetto di sale e uno di pepe. Ognuno dei presenti riceve del pane e un cucchiaio, quest’ultimo non sempre. Soltanto a ospiti di particolare riguardo si danno
piatti, forchette, coltelli, salviette. E si portano i cibi. Le stoviglie
anche presso le persone importanti e ricche sono di stagno, e, per
trascuratezza dei domestici, nere da far nausea”. E ancora: “...Tutte
queste svariate bevande si prendono da speciali recipienti, bicchieri, calici, tazze, per lo più di stagno o di legno, raramente di argento: questi però sono molto neri e brutti perché i moscoviti non li fanno pulire”. Viene quindi da dubitare che i consigli contenuti nel Domostroj fossero seguiti dalle padrone di casa; erano proprio queste
ultime, infatti, a dover rispondere dell’andamento globale della casa: “La padrona, levatasi e dette le sue orazioni, deve assegnare alle serve il loro lavoro della giornata. Essa deve saper preparare ogni
cibo, carne o pesce, ogni pietanza per i giorni ordinari e per quelli di
digiuno, e deve intendersi di tutti i lavori manuali, per poter dare alle serve le relative istruzioni”. E a quel tempo non doveva essere impresa facile rispondere del governo della casa così come previsto
dal Domostroj; il concetto di preparazione dei cibi era infatti allora
molto più ampio di oggi e comprendeva la cottura del pane, la conservazione degli alimenti, la preparazione della birra e del kvas,
quella dei formaggi. La padrona di casa si occupava di tutto questo
e di ben poco altro, visto che, soprattutto nelle case dei boiari, le
donne conducevano vita ritiratissima nel terem9, da cui uscivano
quasi unicamente per andare in chiesa o rendere onore a qualche
ospite.
Sia Tolstoj che Mayerberg danno notizia di questo curioso omaggio
reso dalla padrona agli ospiti: “La padrona di casa, rivestita dei suoi
migliori abiti e coperta di ornamenti, entra insieme con numerose
donne di servizio nella sala e porge al più ragguardevole tra gli ospiti un bicchiere d’acquavite, dopo aver posto le labbra all’orlo del vetro. Mentre egli beve, la donna si ritira, muta abiti e poi si rivolge all’ospite più vicino. Dopo aver così provveduto a tutti, si colloca infine presso la parete a un’estremità del tavolo e con occhi bassi riceve un bacio da ciascuno dei presenti”. Mayerberg definisce questa usanza “il lato gradevole” delle feste russe.
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Sia durante i banchetti in presenza di ospiti che durante i pasti di tutti i giorni, i posti a tavola venivano severamente predeterminati in
base all’anzianità e al grado; il capofamiglia sedeva al posto d’onore a capotavola, dalla parte del krasnyj ugol, l’“angolo bello” dove
erano appese le icone. Prima di lui nessuno poteva cominciare a
mangiare. Dopo il pasto era antichissima usanza riposare almeno un
paio d’ore; si narra che Vladimir Monomach nell’XI secolo abbia
detto: “...non soltanto agli uomini, ma anche alle fiere e agli uccelli
ha ordinato Dio di riposare dopo pranzo”. Questa usanza era talmente diffusa da paralizzare ogni altra attività: “I russi, di condizione alta o bassa, hanno l’uso di riposare o di andare a dormire dopo
il pranzo di mezzogiorno. Perciò” – lamenta Olearius – “nel pomeriggio la maggior parte delle botteghe, e le migliori, sono chiuse, e
i commercianti o i loro commessi addormentati davanti alle botteghe. In questo lasso di tempo, a cagione del riposo pomeridiano, non
si riesce a parlare con nessuna persona di riguardo e con nessun
mercante”.
Secondo una leggendaria tradizione, sembra addirittura che a svelare l’origine straniera del secondo falso Demetrio10 sia stata la sua
abitudine di non riposare dopo pranzo.
“Nelle ore pomeridiane, allorché il corpo combatte pigramente col
cibo...” anche gli zar erano soliti riposare, come racconta Juryj
Tynjanov a proposito dello zar Pavel11 nel racconto storico Podporučik Kiže (Il sottotenente Summenzionato). E doveva essere un vero combattimento, e nemmeno tanto “pigro”, quello che il cibo ingaggiava con l’organismo, data l’abbondanza delle libagioni che accompagnavano il pasto. Abbiamo già visto come banchettasse Ivan
il Terribile, ma esiste un altro documento che ci indica quali fossero le pietanze in uso alla Corte moscovita: il Rospis’ carskim
kušan’jam (Elenco dei cibi degli zar, che occupa ben 12 pagine degli Akty istoričeskie nell’edizione del 1841), approntato dalla Corte
moscovita con lo scopo di metterne a conoscenza la Corte polacca;
infatti nel 1610, nel corso dei complicati avvenimenti storici che
contraddistinguono il periodo detto dei torbidi, Mosca aveva giurato fedeltà a Władysław Vasa, figlio del re polacco. Tra gli antipasti,
per nominare solamente i più ricorrenti, troviamo: latte di pesce con
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rafano, salmone all’aglio, caviale, teste di luccio all’aglio, lucci salati, fianchi di storione beluga, prosciutto in gelatina, galli cedroni
arrostiti e guarniti con prugne salate, francolini12 arrosto con limone,
spalla di montone, pollo arrosto tagliato a pezzi e guarnito con prugne, cetrioli salati, funghi, cavolo al kvas. Tutti i cibi erano molto
speziati, si faceva grande uso di pepe e di condimenti, mentre il pane non veniva salato. Con le minestre, di cui parleremo più avanti,
venivano serviti pasticci ripieni e frittelle. La selvaggina era molto
amata, come pure il pesce, che veniva preparato sia nei giorni di digiuno che in quelli di festa.
Non tutti questi cibi principeschi dovevano, ovviamente, essere presenti anche sulle mense della gente più comune, come testimonia
Olearius: “Essi non sono neanche abituati a cibi delicati o leccornie
e la loro spesa quotidiana si compone di orzo, rape, carbone, cetrioli, pesci grossolani freschi e salati, a Mosca per lo più salati, che talvolta per risparmio di sale puzzano assai, ma essi li mangiano volentieri... Hanno anche un mangiare molto comune, che chiamano
ikari13, che si prepara dalle uova di grossi pesci, particolarmente di
storione”. E anche quanto afferma Mayerberg non si discosta di
molto: “Si incomincia il pranzo con l’acquavite. La prima portata è
costituita da carne fredda con aceto e cipolle, cui fanno seguito brodo, arrosto ecc., il tutto condito con olio e cipolle, che i russi apprezzano molto. Non figura alcun manicaretto di cucina raffinata,
che a Mosca è ignota... Al dessert fanno poca attenzione, giacché
prima ch’esso compaia si sono già talmente riempiti lo stomaco, che
non vi resta più posto”.
È probabile che la novità e i forti contrasti con le gastronomie patrie
influenzassero negativamente le opinioni dei due viaggiatori; resta
comunque assodata la presenza di notevoli diversità, sia gastronomiche che di costume, tra le mense aristocratiche e quelle più povere, cosa che del resto non suscita alcuna meraviglia.
Anche in base al Domostroj, grazie soprattutto ad alcuni capitoli aggiunti successivamente alla prima redazione, si può tentare di ricostruire un pranzo alla russa nel XVII secolo. Questo constava di
quattro portate: gli antipasti, della cui ricchezza e varietà abbiamo
già parlato, le zuppe, i secondi piatti a base di carne o di pesce e i
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dolci. Le zuppe erano fondamentalmente di tre tipi: l’ucha, frequente sulle tavole più ricche, a base di pollo, carne o pesce, densa ma al
contempo trasparente e spesso condita con zafferano; gli šči e il
boršč, diffusi un po’ ovunque e diventati famosi anche al di là dei
confini delle terre slave. Gli šči venivano preparati in molti modi,
anche con le ortiche, ma il tipo più conosciuto era ed è senz’altro
quello a base di cavolo o crauti con l’aggiunta di carne o pesce, patate o funghi. Aleksandr Nevskij, il principe di Novgorod famoso
per aver sconfitto gli svedesi nella battaglia sulla Neva del 1240, nutriva una vera e propria passione per gli šči con pesce. Questa zuppa veniva accompagnata oltre che da pasticci ripieni – come del resto anche altri tipi di minestre – dalla njanja, stomaco di montone ripieno di kaša14 di grano saraceno e cervella, così come la mangia
Čičikov nelle Mertvye duši (Le anime morte) di Nikolaj Gogol’.
Il boršč, in realtà, non compare sotto questo nome né nel Domostroj
né nel Rospis’ e la sua origine è fonte a tutt’oggi di molte dispute tra
i vari paesi slavi che se ne contendono la paternità. Indubbiamente
si tratta di un piatto molto diffuso in tutto il territorio degli slavi, non
soltanto orientali, anche se oggi si è inclini a situarne la nascita in
Ucraina. Comunque, dato che l’uso della barbabietola come base
per le zuppe è molto antico ed essendo questa l’ingrediente principale nella preparazione del boršč, per semplificare l’esposizione abbiamo esteso questo nome ad altri tipi di minestre, che in tempi antichi erano chiamate diversamente. Il boršč veniva preparato con
funghi e prugne, fagioli e polpettine, con patate e senza, con salsicce, prosciutto e carne. Esistevano anche altri tipi di zuppe come ad
esempio la lapša, una specie di tagliolini in brodo, ma i tipi fondamentali e con maggior diffusione anche territoriale restano i tre
summenzionati.
Come seconda portata si serviva l’arrosto di carne o pesce, guarnito
con salse consistenti di cipolla, cavolo o mortella, e che veniva preparato a grossi pezzi e cotto nella stufa russa in padelle, allo spiedo
o nella latka, una pentola rotonda od ovale di metallo. In questo periodo la carne di cavallo è già quasi scomparsa.
Come dolci venivano serviti i levašniki, fatti di pasta di frutti di bosco, che talvolta veniva anche arrotolata su se stessa, la postila, a ba-
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se di mele, e anche un dolce a base di rafano grattugiato, lessato,
pressato e mescolato con melassa, pepe e altre spezie in modo tale
da perdere il gusto amaro, e poi abbrustolito. Insoliti come dessert
anche i cocomeri salati, molto apprezzati allora. Ai dolci si affiancava il kisel’, una gelatina di fecola e succhi di frutta, non molto
densa, diffusa ancor oggi e servita sia calda che fredda.
Pasteggiando, le bevande più usate erano quelle alcoliche a base di
miele, svariati tipi di birra e kvas, e poi, tra quelle non alcoliche, gli
šči (a quel tempo si chiamava così non solo la minestra ma anche
un tipo di kvas più piccante) e i rassoli, a base di cetrioli, prugne o
limoni, che venivano usati anche come condimento. Sulle tavole più
ricche si trovavano anche vini, per lo più stranieri. Non mancava,
naturalmente, la vodka, che “Nel secolo tredicesimo... era considerata un estratto della pietra filosofale e si prendeva solo a gocce”15.
Questa parca usanza non deve essere però durata molto a lungo; in
Russia si è sempre bevuto molto in tutte le epoche16, da Vladimir il
Santo fino ai giorni nostri. Dai tempi degli zar molti sono stati i tentativi di arginare la piaga dell’alcolismo per decreto – il suchoj
zakon, il proibizionismo – che mirava a limitare i consumi e la vendita di alcolici e soprattutto di vodka. Già nel 1551 il Sobor (Concilio) ecclesiastico fu costretto a proibire l’uso di bevande alcoliche
nei monasteri per riportarvi l’ordine; tale decreto venne poi incluso
nello Stoglav (Libro dei cento capitoli), che regolava la legge canonica e la vita ecclesiastica.
È sempre Olearius che ci racconta una gustosa storiella a questo proposito: “Allorché, nel 1643, avevo a Naugard [Novgorod] il mio albergo nella corte di Lubecca, non lungi da un kabak (osteria), vidi
di tali uomini uscirne, ubriachi e nudi, alcuni senza berretto, altri
senza né calze né scarpe, altri ancora con la sola camicia. Uno tra gli
altri, che già s’era bevuto l’abito ed era venuto fuori in camicia, incontrò un buon amico che si dirigeva verso l’osteria: tornò indietro
con lui e in alcune ore ne venne fuori anche senza camicia, portando solamente un paio di mutande. Quando gli feci chiedere dove
fosse andata a finire la camicia e chi lo avesse derubato, rispose: ‘È
stato l’oste. Ebbene, dove sono rimasti l’abito e la camicia, possono
rimanere anche le mutande’. Ritornò dentro e ne venne fuori com-
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pletamente nudo; prese una manciata di rose canine che crescevano
lì accanto, se le mise davanti alle vergogne e se ne andò allegro cantando a casa”.
Sempre in tema di digressioni, due parole a parte merita anche la cucina quale luogo dove avvenivano tutte le operazioni a cui abbiamo
accennato finora, dalla cottura dei cibi alla preparazione delle bevande, e dove si trovavano tutti gli strumenti a questo necessari:
pentole e padelle di rame o terraglia (caratteristico il goršok, recipiente di argilla a forma di vaso che si usa tutt’oggi), setacci, griglie,
capifuochi, ecc. Il cuore della cucina era però la stufa russa, che serviva veramente a tutto: a cucinare, naturalmente, ma anche a fare la
birra e il kvas, a essiccare alcuni alimenti e, d’inverno, a offrire ricovero a vecchi e bambini che vi dormivano sopra al calduccio. Alcune stufe erano così grandi che la loro fornace veniva usata persino per fare la sauna. All’interno dell’izba, la caratteristica abitazione contadina, la posizione della stufa era caratteristica e tradizionale a seconda delle regioni; le sue pareti venivano imbiancate e spesso anche decorate a colori vivaci. A Mosca cominciarono ad apparire le prime stufe con camino soltanto verso il XVI-XVII secolo, ma
nei villaggi le stufe a dorso convesso, senza camino, si sono conservate fino agli inizi del XX secolo, nonostante già alcune disposizioni di Pietro il Grande ne avessero proibito la costruzione.
Le riforme introdotte da Pietro, che aveva viaggiato a lungo a scopo d’istruzione in molti paesi europei e intendeva in breve tempo accorciare le distanze tra questi ultimi e la sua patria, sconvolsero radicalmente la vita dell’intero popolo russo; tutto venne modificato,
europeizzato, dall’amministrazione dello Stato alla foggia del vestiario, e le ripercussioni furono sensibili a tutti i livelli della vita sociale e del costume. A Corte cominciarono a tenersi delle assemblées a cui partecipavano sia uomini che donne, mentre l’imperatore girava per le sale offrendo dolci, confetti e tè a dame in décolleté,
vodka e birra a nobili vestiti all’ungherese e privati, dopo una secolare tradizione, dell’onor del mento. L’innovazione più importante
apportata in campo gastronomico da Pietro fu, senza dubbio, l’introduzione dell’uso dei fornelli. L’industriale Nikita Demidov ricevette l’ordine di approntarne gli stampi per la fusione nelle sue fab-
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briche nella regione degli Urali, dove già produceva le armi per lo
zar. Nuove cucine vennero progettate per le case della nuova capitale17. I fornelli aprirono nuovi orizzonti alla cucina russa: non si era
più costretti a cucinare la carne in grossi pezzi come nella stufa.
Questo favorì l’assimilazione di molti piatti stranieri, come le bistecche, i filetti, lo šnicel’18, che a loro volta richiesero nuovi tipi di
salse, di guarnizioni, di condimenti. Al contempo, nel generale afflusso di stranieri promosso dalle vantaggiose condizioni di soggiorno offerte da Pietro per ampliare il commercio con l’estero,
giunsero in Russia anche molti cuochi, soprattutto francesi e inglesi, che contribuirono molto al fiorire di una cucina che oggi definiremmo fusion, parallela a quella russa.
Con il tempo, ovviamente, gli elementi allogeni vennero russificati
e quindi non più percepiti come tali, ma all’epoca molti furono coloro che videro nell’invadenza delle cucine straniere un pericolo per
la sopravvivenza delle più pure tradizioni gastronomiche russe. Nell’Ottocento le querelles culinarie saranno parte integrante della più
ampia disputa tra slavofili e occidentalisti. Già nel 1795 Vasilij
Levšin, letterato e appassionato gastronomo, autore di alcuni tra i
primi libri di culinaria, affermava nel suo Slovar’ povarennyj, prispešničij, kanditorskij i distillatorskij (Dizionario di cucina, delle
preparazioni dei cibi, dei dolci e dei distillati...): “I semplici approntamenti dei cibi, consistenti di prodotti patri, hanno dovuto cedere il posto ad approntamenti stranieri, complicati, inventati con
grandi ambagi e svantaggiosi, colmi di condimenti per noi innaturali e perciò dannosi alla salute, tanto che la conoscenza dei piatti russi ne è stata quasi del tutto distrutta”.
Questa opinione doveva essere condivisa da molti se anche ne Le anime morte il proprietario terriero Sobakevič pronuncia una tirata di questi toni: “[...] Quella canaglia del cuoco, che ha imparato dai francesi,
compera un gatto, gli cava la pelle e lo serve in tavola come lepre”. E
più sotto, prendendo come termine di paragone il montone che era appena stato servito alla sua mensa: “Questa non è una di quelle fricassee che si fanno nelle cucine dei signori col montone rimasto per quattro giorni sul mercato. Ecco quel che hanno inventato i dottori, i francesi e i tedeschi; e io li farei impiccare per questo. Hanno inventato le
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diete, curano con la fame! [...] In casa mia non è così . Da me, quando c’è maiale si porta l’intero maiale in tavola, c’è montone? Si porta tutto il montone, l’oca? Tutta l’oca!”. Certo, Gogol’ ha voluto raffigurare in Sobakevič la grettezza e l’ostinata arretratezza dei costumi,
resta però il fatto che molte delle tradizioni legate alla tavola poterono
conservarsi proprio perché esisteva un ambiente, nelle campagne, lontano dalla corte e dalla capitale, che resisteva nel suo conservatorismo
a qualsiasi sollecitazione del progresso.
Anche nell’Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin si coglie questo divario:
E corre al Talon19 in gran fretta,
Kaverin certo già lo aspetta.
È entrato, un tappo al soffitto schizza,
Della Cometa il vino20 sprizza.
Roast-beef al sangue si fa portare,
Tartufi – scialo di gioventù
E dei cibi di Francia il bijou,
Di Strasburgo il pâ té immortale,
Fra un Limburgo21 ben fermentato
E un ananas dorato.
Un quadro ben diverso offre la vita dei piccoli possidenti campagnoli:
Le loro usanze erano quelle
Del buon tempo tradizionale;
Sempre si facevano i bliny
In quella casa a carnevale.
[…]
Come l’aria per loro era il kvas;
E se avevano ospiti a mensa
Per grado era la precedenza.22
Vladimir Giljarovskij23 narra che ancora alla fine del secolo scorso
un milionario, solito pranzare più che abbondantemente da “Te-
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LA CUCINA RUSSA TRA STORIA E LETTERATURA
stov”24, avrebbe esclamato: “Tutti quei foli-joli e fricassee non fanno per me. Alla russa mangiamo, e così la pancia non fa male, non
andiamo su e giù dai dottori, e non ci tocca andare in giro all’estero per risciacquarci25”. E l’autore maliziosamente soggiunge che, effettivamente, questo gourmand visse in buona salute fino a tarda età.
I suoi menu prediletti erano i seguenti: una porzione di storione o
storione beluga con cren, caviale, due piatti di zuppa di gamberi,
soljanka26 di pesce o di rognoni con due rasstegai27 e poi un porcellino arrosto, vitello o pesce a seconda della stagione. D’estate obbligatoriamente botvinj’a28 con storione, salmone bianco e pesce
rosso salato, seccato e grattugiato. Come terza portata immancabilmente kaša.
Una storia a parte meriterebbero le trattorie e i ristoranti della fine
del secolo scorso come lo “Slavjanskij Bazar”, il primo ristorante di
Mosca, dove era solita soggiornare la protagonista della Dama s sobačkoj (La signora col cagnolino) di Anton Čechov, famoso per la
sua cucina russa e il servizio all’occidentale; il “Lopašov”, dove
l’arredamento e il menu erano rigorosamente dei tempi di prima di
Pietro il Grande; il “Petergof”, che pubblicava i suoi menu sui giornali; il “Venezia”, dove si incontravano i nonni della rivoluzione, e
le trattorie dove si assisteva a combattimenti tra galli oppure dove si
andava ad ascoltare il canto degli usignoli o dove, infine, si ballava.
Siamo giunti così agli inizi del nostro secolo, che vedono il fiorire
dei cabaret letterari come il “Cane randagio”, per citare soltanto il
più famoso, teatro degli incontri-scontri tra futuristi e acmeisti, dove Vladimir Majakovskij e Velimir Chlebnikov si nutrivano di panini negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale.
La rivoluzione del 1917 – “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”29 – e la conseguente radicale trasformazione di un paese che era
ormai giunto, e non soltanto a causa della prima guerra mondiale,
sull’orlo dello sfacelo politico ed economico, avranno a breve forti
ripercussioni anche sulla culinaria. Con la rivoluzione, infatti, l’esigenza di fornire nutrimento a larghi strati della popolazione porta alla creazione, nella Piter30 rossa, dell’obščij kotel, letteralmente il
pentolone comune, cioè l’alimentazione collettiva. All’organizzazione di questa prese parte attiva Pelageja Aleksandrova-Ignat’eva,
INTRODUZIONE
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che già prima della rivoluzione era stata insegnante nella Prima
Scuola di culinaria e autrice di un libro, Praktičeskie osnovy kulinarnogo iskusstva (Le basi pratiche dell’arte culinaria, 1899). Questo manuale rappresentò il primo tentativo di creare una metodica
per l’insegnamento dell’arte gastronomica ed ebbe grandissima fortuna, fu ripubblicato in epoca sovietica ed è uscito anche nel 2013.
La scienza dell’alimentazione razionale compie i suoi primi passi in
Russia proprio in questi anni di enormi cambiamenti.
Negli anni Venti sorgono numerose le mense, anche quelle vegetariane all’insegna dell’“Io non mangio nessuno”, i cui menu provocano un’intima sofferenza al gastronomo nostalgico Toropulo, uno
dei personaggi di Bambočada (Bambocciata) di Konstantin Vaginov31 che non vi scorge “nessuna poesia, nessun costume di vita,
nessuna storia. Niente che ci innalzi”.
I timori di Toropulo per la scomparsa dell’arte culinaria si sono rivelati infondati; il piacere della buona tavola è sopravvissuto durante
l’epoca sovietica e gli innumerevoli periodi di carestia relativi. Certo,
non tutte le tavole erano all’altezza del ricevimento a base di caviale,
salmone affumicato e porcellini di latte, allestito nella sala San Giorgio del Cremlino32 e offerto dall’allora segretario del partito comunista Leonid Brežnev a Richard Nixon e al suo seguito a latere dei colloqui per la limitazione delle armi strategiche del 1974.
Comunque, le feste di famiglia e quelle civili e religiose, secondo la
migliore tradizione russa, hanno continuato a essere associate a un
pasto molto più complesso di quello degli altri giorni, anche durante le drammatiche crisi economiche durante e dopo la perestrojka di
Michail Gorbačev, quando vennero a mancare i generi alimentari di
prima necessità persino nei negozi delle grandi metropoli russe. Proprio durante gli anni della perestrojka ebbe però inizio timidamente
la rinascita dei ristoranti privati che oggi, a più di vent’anni dal crollo dell’Unione Sovietica, affollano le città russe declinando l’intera
gamma etno-gastronomica offerta da un mondo sempre più globalizzato.
Mentre in altri paesi europei, come ad esempio la Francia e la Germania, la cucina russa è molto apprezzata, in Italia non sono ancora molti quelli che possono affermare di conoscerla. Ed è veramen-
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LA CUCINA RUSSA TRA STORIA E LETTERATURA
te un peccato. Le ricette raccolte nella seconda parte di questo volume sono un invito a colmare, anche se parzialmente, questa lacuna.
Donatella Possamai
Non rimandare alla cena
ciò che puoi mangiare a pranzo.
A. P UŠKIN, S entenze gastronomiche
NOTE
1. L’attuale Dnepr. Per i testi citati vedi in bibliografia.
2. L’attuale Ingulec.
3. In Russia il conteggio degli anni a partire dal primo settembre 5509
a.C., anno della presunta creazione del mondo, restò in vigore fino al
1699, anno in cui Pietro il Grande adottò il calendario giuliano.
4. Lo sterletto (o sterleto) è un pesce d’acqua dolce appartenente alla famiglia degli storioni. Le sue carni e le sue uova sono molto pregiate.
5. Corpo di guardia del principe nell’antica Russia.
6. Bevanda fermentata di gusto amarognolo che si beve ancor oggi.
Anticamente, in base ai componenti, il kvas poteva essere di due tipi: il primo a base di farina di segala, malto e farina di frumento o
di grano saraceno e il secondo a base di pasta lievitata (di pane o di
frutta).
7. Di origine polacca, sposò il primo falso Demetrio; questi sostenne di essere il figlio dello zar Ivan il Terribile, scomparso misteriosamente nel 1591 a soli nove anni (probabilmente pugnalato) e ottenne così per breve tempo il trono alla morte di Boris Godunov.
8. Il pud è un’antica misura russa equivalente a kg 16,38.
9. Il terem (dal greco teremnon, abitazione) era il piano superiore
delle case dei boiari.
10. Di origine polacca, venne proclamato zar nel 1607, non riuscì
però a farsi incoronare a Mosca e venne ucciso nel 1610.
INTRODUZIONE
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11. Lo zar Paolo I, che regnò dal 1796 al 1801.
12. Il francolino è simile al fagiano e purtroppo ormai estinto in Europa.
13. Olearius fraintende il russo ikra, che significa caviale.
14. La kaša, usatissima ancor oggi, è una specie di polenta preparata con svariati tipi di farina, di frumento, di avena, di segala e altri
cereali.
15. Nel romanzo Ciniki (I cinici) di Anatolij Mariengof.
16. La vendita di alcolici costituiva una delle maggiori entrate per
l’impero russo, che dai tempi di Ivan il Terribile ne incoraggiò sempre la produzione.
17. Nel 1713 Pietro aveva spostato la capitale dall’antieuropea Mosca a Sankt Peterburg, città che egli stesso aveva fondato alle foci
della Neva per “aprire una finestra sull’Europa”. Nel 1914 la città
verrà ribattezzata Petrograd, nel 1924 Leningrad, per ritornare ad essere Sankt Peterburg nel 1991 al crollo dell’Unione Sovietica.
18. La cotoletta, dal tedesco Schnitzel.
19. 20. 21. 22. Il “Talon” era un ristorante di Pietroburgo molto famoso. Nell’anno 1811 era apparsa una cometa, da cui il nome del vino. Si tratta, a nostro avviso, del Limburger, formaggio tedesco dal
caratteristico odore. La traduzione proposta è di Giovanni Giudici.
23. Nel suo libro Moskva i moskviči (Mosca e i moscoviti), da cui
abbiamo anche attinto alcune informazioni sui ristoranti e le trattorie della fine del secolo scorso.
24. Trattoria di Mosca, famosa tra l’altro per i suoi porcellini arrosto e la sua kaša.
25. A fare le cure termali.
26. Si tratta di una zuppa di nascita relativamente recente, dal gusto
particolarmente piccante.
27. Pasticcio ripieno di carne o pesce con una caratteristica apertura superiore nella pasta che lascia intravedere il ripieno.
28. Zuppa a base di barbabietola (in alcune zone veniva chiamata
boršč) che si serve fredda. Un tempo molto diffusa, è oggi praticamente scomparsa.
29. Titolo del romanzo-reportage sulla rivoluzione russa dell’americano John Reed.
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LA CUCINA RUSSA TRA STORIA E LETTERATURA
30. Piter è il nomignolo comunemente usato dai russi per la città di
Pietroburgo.
31. Romanzo ambientato nella Leningrado del ’29.
32. Lo descrive Hedrick Smith, allora direttore dell’agenzia moscovita del “New York Times”, nel suo libro I russi.
NOTA PER LA LETTURA DEI NOMI RUSSI
Per la trascrizione dei nomi russi dai caratteri cirillici a quelli latini
abbiamo adottato il sistema scientifico ormai generalmente invalso.
c
z dura, come in tazza
č
c dolce, come in cera
g g gutturale, come in gara
ch suono aspirato, come nel tedesco doch
j
i breve, semivocalica
š
sc, come in scena
šč š + č
v
si legge f solo in fine di parola o davanti a consonante sorda
y
suono duro, intermedio tra la i e la u
z
s dolce, come in rosa
ž j francese, come in jour
’ “segno debole”, che indica l’addolcimento della consonante da
cui è preceduto
LA CUCINA RUSSA
PREPARAZIONI DI BASE
SMETANA (panna acida)
Di antichissima origine, la smetana è una delle componenti fondamentali per la preparazione di molti piatti. In Russia si compra già
pronta e viene consumata anche da sola, quasi come uno yoghurt, di
cui ricorda anche un po’ il gusto.
Ingredienti
80 g di mascarpone
200 g di panna da montare
2 limoni
Preparazione
Mettete il mascarpone in un recipiente e aggiungetevi la panna.
Sbattete il tutto per alcuni minuti con la frusta. Versate poi il succo
dei 2 limoni e fatelo amalgamare bene. Se avete più tempo a disposizione, potete anche preparare la smetana lasciando la panna del
latte per 3 giorni in un posto piuttosto caldo e mescolandovi poi 3 o
4 gocce di limone.
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LA CUCINA RUSSA TRA STORIA E LETTERATURA
TVOROG
Ingredienti
1 l di latte
Preparazione
Lasciate inacidire il latte in un posto tiepido, poi mettetelo in un sacchetto di tela leggera e lasciatelo sgocciolare. La parte densa che rimarrà nel sacchetto è il tvorog, che ricorda la nostra ricotta, da cui
può anche venir sostituito nella preparazione delle pietanze.
KVAS
Il kvas, come abbiamo visto nell’introduzione, vanta origini antichissime e ha mantenuto la sua popolarità fino ai giorni nostri, tanto che d’estate, i chioschi dove lo si vende sono sempre molto affollati. È una bevanda rinfrescante dal gusto amarognolo, che viene
usata anche come base per alcune minestre fredde, come la botvin’ja
e l’okroška. Dice il proverbio: “Anche un kvas cattivo è meglio di
una buona acqua”.
Ingredienti
3/4 di secchio (da 9 l) di pane di segala
1 noce di lievito
Preparazione
Tagliate a pezzi il pane di segala e fatelo asciugare in forno senza
però abbrustolirlo. Riempite di pane fino a 3/4 il secchio e aggiungete dell’acqua bollente in modo da coprire il pane. Lasciate riposare per 6 ore. Rimestate, aggiungete un po’ di lievito e lasciate riposare per 24 ore. Successivamente aggiungete un po’ di acqua fredda.
Senza togliere il pane, versate il kvas avendo cura di filtrarlo.