Istituto MEME: Un percorso integrato per l`assistenza ai pazienti

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Istituto MEME: Un percorso integrato per l`assistenza ai pazienti
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
“UN PERCORSO INTEGRATO PER
L’ASSISTENZA AI PAZIENTI AFFETTI DA
DEMENZA”.
ANALISI SOTTO UN PROFILO MEDICOGIURIDICO ”.
Scuola di Specializzazione:
Scienze Criminologiche
Relatore:
Dott. Marco De Bernardis
Correlatore:
Dott.ssa Roberta Frison
Contesto di Project Work:
Casa di cura “Villa Maria Luigia”
Tesista specializzando:
Dott.ssa Morena Conti
Dott.ssa Sara Rubini
Anno di corso:
Modena, 29 aprile 2008
Anno accademico 2007-2008
Secondo
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Morena Conti, Sara Rubini - SST in Scienze Criminologiche (secondo anno) A.A. 2007/2008
Indice dei Contenuti
Capitolo Primo: Comprendere e riconoscere la demenza
1.1 Che cos’è la demenza
1.2 Principali cause di demenza
1.3 Modificazioni del cervello e del comportamento
1.4 Anche altre forme di degenerative provocano la demenza
1.5 La malattia di Alzheimer
1.6 Quali forme di Alzheimer conosciamo
1.7 Quali sono le cause della malattia di Alzheimer
1.8 Come si ereditano le forme familiari
1.9 Quali sono i fattori di rischio
1.10 Fattori protettivi
1.11 Le demenze degenerative non Alzheimer
1.12 Le demenze da cause vascolari
1.13 Criteri diagnostici per la diagnosi di demenza secondo il DSM-IV
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Capitolo secondo: Modalità di intervento
2.1 I trattamenti non farmacologici
2.2 Gli interventi sul paziente
2.3 Le stimolazioni cognitive
2.4 Le stimolazioni non cognitive
2.5 Gli interventi sulla famiglia e sull’ambiente domestico
2.6 Gli interventi farmacologici
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Capitolo terzo: Tutela del malato di demenza:
aspetti amministrativi connessi con l’avanzamento della malattia
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3.5
3.6
3.7
3.8
L’accertamento delle minorazioni civili
Permessi lavorativi
Circolazione e sosta
Problemi legali
La procura
Interdizione e inabilitazione
Amministratore di sostegno
I contenuti ed il procedimento di nomina
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pag. 26
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Capitolo quarto: L’esperienza sul territorio.
Casa di cura “Villa Maria Luigia”
4.1 L’organizzazione del reparto neurogeriatrico
4.2 La valutazione neuropsicologica. Strumenti di indagine
4.3 Un aiuto alle famiglie: i gruppi con i familiari
4.5 I servizi presenti sul territorio
4.6 Alcuni casi clinici
Conclusioni
pag. 37
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pag. 41
pag. 54
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pag. 60
Bibliografia
pag. 61
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“Le rughe della vecchiaia formano
le più belle scritture della vita,
quelle sulle quali i bambini imparano
a leggere i loro sogni”.
(Marc Levy)
Salvador Dalì, “Ritratto di Laurence Oliver nel ruolo di Riccardo III”, (1955).
Ringraziamenti
La nostra riconoscenza va innanzitutto ai malati di demenza che, nonostante le difficoltà legate
alla patologia, hanno accettato con sensibilità la nostra presenza in reparto, offrendoci, talvolta,
parole affettuose a dimostrazione dell’amore che nonostante il logorio della sofferenza, resta
sempre vivo.
Ai familiari dei pazienti ed agli assistenti sociali per la loro cortese collaborazione.
Dobbiamo poi ringraziare le Drs. Elena De Bernardis per aver mostrato disponibilità e
gentilezza, ed la Drs. Sonia Spotti, per averci suggerito alcune indicazioni fondamentali.
Cogliamo questa occasione per ringraziare, inoltre, tutti i collaboratori che pazientemente ci
hanno aiutato a superare momenti di difficoltà, scusandoci se non li abbiamo citati.
Un ringraziamento particolare desideriamo rivolgerlo al Dr. Marco De Bernardis, responsabile
del reparto di neurogeriatria, che ha impreziosito questo lavoro dandoci utili consigli e risposte ai
nostri dubbi, attraverso i quali abbiamo realizzato tanti punti di arrivo.
Grazie per averci accompagnate in questo mondo per noi nuovo.
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CAPITOLO PRIMO
COMPRENDERE E RICONOSCERE LA DEMENZA
1.1 Che cos’è la demenza
Nel corso della storia il numero massimo di anni che un uomo può vivere non è aumentato in
modo significativo, ma ciò che è aumentata in maniera evidente, ed in particolare dagli inizio di
questo secolo, è l’aspettativa media di vita dell’uomo. Negli anni ‘90 l’aspettativa media in America
era di circa 50 anni. Oggi si aggira sui 76 anni per gli uomini e 80 per le donne. Questo aumento è
dovuto in gran parte ai progressi della medicina che hanno determinato una notevole riduzione della
mortalità infantile, hanno portato alla scoperta degli antibiotici e vaccini e a miglioramenti
sostanziali nella prevenzione e nella terapia delle malattie di cuore. Purtroppo questo aumento nelle
aspettative di vita ha avuto come conseguenza la comparsa di una nuova forma epidemica: la
demenza , che è caratterizzata dal deterioramento delle facoltà mentali. Anche se i soggetti affetti da
demenza costituiscono, per ora, una minoranza in senso assoluto, essi stanno diventando sempre più
una percentuale apprezzabile. Tutti concordano sul fatto che il prolungarsi della vita ha poco
significato se non vi è un altrettanto miglioramento della qualità della vita. Lo scopo ultimo delle
ricerche sull’invecchiamento (senescenza) non è, quindi, solo quello di prolungare la vita, ma anche
quello di mantenerne la qualità.
1.2 Principali cause di demenza
Parecchi dati sperimentali fanno pensare che l’invecchiamento sia la conseguenza di
modificazioni che intervengono sulle macromolecole che codificano l’informazione genetica. Sono
state proposte diverse ipotesi ma quelle che vantano di maggiore considerazione sono tre, le quali
mettono in relazione l’invecchiamento con alterazioni del DNA e dell’RNA. Secondo alcuni autori,
con l’avanzamento dell’età, le mutazioni e le anomalie si accumulano nei geni in attività; le
sequenze del DNA di riserva (di ridondanza), che contengono lo stesso tipo d’informazione, ne
prendono via via il posto finché tutta l’informazione ridondante è stata esaurita. A questo punto
intervengono i fenomeni della senescenza. Una teoria alternativa, sostenuta da molti esperti,
sostiene che l’apparato genetico non contiene un programma vero e proprio per l’invecchiamento
ma che gli errori che si verificano durante la duplicazione del DNA tendono ad aumentare con l’età
per via dei danni casuali o delle alterazioni che si verificano con l’andare del tempo (uso e
logoramento, effetto delle radiazioni ecc.). Quando il numero degli errori diviene significativo,
vengono a formarsi mRNA anormali e molecole proteiche alterate che non possono funzionare più
correttamente. Un numero elevato di questi errori determina la senescenza.
Una terza ipotesi, sostiene che l’invecchiamento faccia parte di una più vasta sequenza evolutiva.
Allo stesso modo con cui alcuni geni programmano le fasi dello sviluppo embrionale, altri geni
potrebbero programmare i processi dell’invecchiamento dell’organismo. Come conseguenza le
modificazioni che si osservano nell’età avanzata rappresenterebbero una normale espressione di un
programma che ha inizio con il concepimento e termina con la morte dell’organismo. Una variante
particolarmente interessante di questa teoria, afferma che le cellule posseggono un orologio
biologico che programma il loro ciclo vitale. Hayflick ha osservato che i fibroblasti umani normali,
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fatti crescere in coltura, si dividono regolarmente fino a coprire l’intera superficie del contenitore
della coltura stessa. Se a questo punto un ugual numero di cellule viene trasferito in altri due
contenitori, nei quali è presente liquido di coltura fresco, esse si dividono di nuovo fino a divenire
confluenti. Inoltre, i fibroblasti normali umani, in coltura possono moltiplicarsi soltanto un numero
limitato di volte (circa 50 volte) in un arco di tempo di 7-9 mesi. A partire dal 35° passaggio, la loro
capacità di dividersi comincia a diminuire; alla fine le cellule smettono di moltiplicarsi e muoiono. I
fibroblasti che provengono da donatori in età avanzata si moltiplicano un numero di volte
significativamente minore rispetto a quelli provenienti da embrioni umani. In altre parole il numero
di moltiplicazioni osservato è in rapporto all’età del donatore da cui provengono le cellule.
Anche la longevità della specie da cui provengono i fibroblasti rappresenta un fattore importante
che regola il numero delle duplicazioni possibili. I fibroblasti dell’embrione del topo (il cui arco
vitale si aggira sui 3 anni) si dividono all’incirca 15 volte prima di morire; i fibroblasti dell’uomo
(che ha un arco di vita fra i 70 e gli 80 anni) si dividono circa 50 volte, e quelli delle testuggini della
Galapagos (il cui arco di vita è all’incirca di 175 anni) si dividono circa 90 volte. Inoltre se i nuclei
dei fibroblasti vecchi vengono sostituiti con nuclei di fibroblasti giovani (tecnica possibile con l’uso
della citocalasina, e poi centrifugata), le cellule ibride che si formano si suddividono a seconda
dell’età del nucleo e non di quella del citoplasma. Perciò, l’orologio biologico sembra essere
localizzato nel nucleo dei fibroblasti.
Questi ed altri studi ancora indicano che almeno alcuni aspetti dell’invecchiamento sono
intrinseci o genetici.
1.3 Modificazioni del cervello e del comportamento
L’avanzare dell’età comporta delle modificazioni che in generale non compromettono
significativamente la qualità della vita.
Vi sono per esempio modificazione della coordinazione motoria, del sonno e delle funzioni
mentali. L’andatura di una persona anziana è più lenta, il passo più corto e la postura meno eretta di
quella di un giovane. I riflessi posturali sono anch’essi spesso rallentati e rendono perciò l’individuo
più suscettibile a perdere l’equilibrio e cadere. Anche l’andamento del sonno cambia. Le persone
anziane hanno risvegli più frequenti e dormono meno. Aumenta il periodo trascorso nello stadio 1
del sonno, mentre diminuisce la fase 3 e 4, nonché il sonno caratterizzato da movimenti rapidi
(REM).
Si osservano modificazioni delle funzioni mentali che variano tuttavia da individuo a individuo.
Vi è una diminuzione nella capacità di memorizzare per lungo tempo notevoli quantità di nozioni
nuove. Certe capacità semantiche, come quella di denominare rapidamente gli oggetti o di trovare
quante più parole possibili che iniziano con una certa lettera dell’alfabeto, diminuiscono con l’età.
Tuttavia, le prestazioni che si possono ottenere da soggetti ottantenni con il sottotest di vocaboli
secondo la WAIS sono di buon livello. I caratteri generali dell’intelligenza diminuiscono un po’
dopo i sessant’anni e questo processo si accentua con l’età. Perciò diversi aspetti delle funzioni
cognitive cambiano con gli anni, ma non alterano in maniera apprezzabile la qualità della vita.
Parecchie modificazioni cerebrali hanno luogo nell’età avanzata. Anzitutto vi sono modificazioni
vistose come una diminuzione del peso del cervello e una riduzione del suo contenuto proteico.
In secondo luogo sembra che il numero delle cellule nervose diminuisca con l’età anche in
molti nuclei sottocorticali. Inoltre, le conte cellulari eseguite sulla corteccia indicano una
diminuzione del numero dei neuroni nelle persone anziane, anche se non è ancora chiaro se si tratti
di una diminuzione numerica dei grandi neuroni cerebrali o semplicemente di una diminuzione
delle loro dimensioni. In terzo luogo si osserva una notevole riduzione dei livelli degli enzimi che
sintetizzano la dopamina e la norepinefrina e riduzioni più lievi del sistema colinergico.
Ciò è dovuto in particolar modo alla perdita dei neuroni sottocorticali che sintetizzano questi
trasmettitori. Alcune delle caratteristiche legate alla senescenza, come la modificazione della
struttura del sonno, dell’umore, dell’appetito e della memoria, potrebbero trovare la loro
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giustificazione proprio nell’alterazione della sintesi e della degenerazione di questi
neurotrasmettitori e dei loro recettori.
Queste modificazioni sinaptiche sembrano rientrare nella norma. Al contempo, certe malattie
come il morbo di Parkinson, la corea di Huntington e il morbo di Alzheimer insorgono
maggiormente con l’avanzare dell’età. Sappiamo già che la funzione dopaminergica è alterata nel
morbo di Parkinson. Nella malattia di Huntington si ha una profonda riduzione dell’attività della
decarbosillasi dell’acido glutamminico, mentre anche i livelli del GABA (acido y-aminobutirrico) e
di colin-acetiltransferarsi sono fortemente diminuite nello striato in via di degenerazione.
Sono alterazioni morfologiche che compaiono nel cervello in via di senescenza anche le placche
senili e le matasse neurofibrillari. Il numero di queste lesioni nel corso del normale processo
d’invecchiamento è tuttavia molto minore di quello che si osserva nella malattia di Alzheimer.
1.4 Anche altre forme degenerative provocano la demenza
La demenza riconosce varie cause, e non è provocata solo da malattie che colpiscono il cervello.
Le cause sono riconducibili sia a fattori intracerebrali che extracerebrali. Tra i primi fattori (intra)
sono compresi i traumi, le infiammazioni, le neoplasie e soprattutto le alterazioni vascolari
(demenza multifattoriale o MID) e degenerative (demenza di Alzheimer). Tra i secondi troviamo
fenomeni di tipo tossico, alterazioni del metabolismo e del sistema endocrino vedi tabella 1.
Le malattie che provocano demenza sono oltre 60, hanno esordio, durata e prognosi diverse, in
relazione alla causa che ne hanno provocato l’insorgenza.
Il 50-60% delle demenze è provocato dalla malattia dell’Alzheimer, 10-20% sono dovute a
malattie che provocano lesioni alle cellule cerebrali per cause vascolari (demenze vascolari); nel 1030% dei casi sono dovute a patologie di tipo degenerativo che danneggiano le cellule cerebrali
(come la demenza a corpi di Lewy) e la malattia di Pick); il 5-20% è secondario ad altre malattie a
carico del cervello o di altri organi, o sono dovute ad intossicazioni o disturbi metabolici e
potenzialmente reversibili.
Sono quindi molte le patologie che pur compromettendo inizialmente solo la funzione di altri
organi, possono poi provocare disturbi delle funzioni del cervello. Quando queste patologie
provocano alterazioni nelle strutture e nei circuiti che intervengono nelle funzioni cognitive ne
compromettono la funzione fino a portare alla demenza.
Queste forme sono indicate come secondarie per distinguerle dalle forme primarie cioè dovute a
malattie che colpiscono direttamente il tessuto cerebrale.
Le demenze vengono poi distinte in reversibili ed irreversibili, in relazione alla possibilità di
intervenire in modo risolutivo sulla causa che ne ha provocato l’insorgenza.
I dati della letteratura ci dicono che il 9% dei casi sono dovute a cause potenzialmente reversibili.
Una delle classificazioni più utilizzate per le demenze prende in considerazione le lesioni delle
strutture anatomiche del cervello.
In relazione a ciò, le demenze vengono distinte in corticali, quando le lesioni sono a carico della
corteccia cerebrale (vedi tabelle seguenti) e in sottocorticali, quando le lesioni si localizzano nelle
strutture al di sotto della corteccia. La presenza di lesioni corticali e sottocorticali configura quelle
forme di demenza definite “miste”.
Sebbene, come appena detto, il morbo di Alzheimer sia di gran lunga il tipo più comune di
demenza, esistono innumerevoli alterazioni che possono produrre demenza. Molte di queste forme
sono legate all’età e si manifestano con incidenza molto maggiore nelle persone anziane che nei
giovani. In generale si tratta di sindromi di tipo degenerativo caratterizzate dalla necrosi dei neuroni
di parti diverse del sistema nervoso con particolare riguardo alla corteccia cerebrale.
Esistono tuttavia alcune forme di demenza che comportano particolarmente la degenerazione del
talamo e della sostanza bianca immediatamente sottostante alla corteccia cerebrale. In questi casi le
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alterazioni della funzioni cognitive dipendono dall’isolamento delle aree corticali dovuto alla
degenerazione delle fibre efferenti ed afferenti.
Tab. 1 – Classificazione delle demenze
Demenze primarie o degenerative
A) Malattia di Alzheimer
B) Demenza a corpi di Lewy
C) Demenze fronto-temporali
D) Parkinson
E) Malattia di Huntington
F) Afasia progressiva
G) Demenza semantica
H) Atrofia corticale posteriore
I) Atrofia multisistemica
Demenze secondarie
A)
-
Lesioni Cerebrovascolari
Infarti multipli (demenza multifattoriale)
Stato Lacunare
Leucoencefalopatia aterosclerotica
B) Traumi cranici (Demenza Post-traumatica, Pugilistica)
C) Tumori cerebrali
D) Idrocefalo Normopressorio
E) Lesioni endocraniche occupanti spazio
F) Disturbi endocrini e metabolici
G) Malattie metaboliche ereditarie
H) Sostanze tossiche (alcool, farmaci, ecc.)
I) Condizioni di carenze vitaminiche
L) Infezioni e infiammazioni del SNC (compresa l’infezione da HIV)
1.5 La malattia di Alzheimer
La malattia prende il nome da un neurologo tedesco, Alois Alzheimer (1864-1915), che all’inizio
del secolo descrisse il primo caso capitato alla sua attenzione mentre era primario nella Clinica per
dementi ed epilettici di Francoforte. Ha un esordio compreso dai 40 ai 70 anni, spesso insidioso e
subdolo, tanto che nemmeno i familiari se ne accorgono. Ha una lenta evoluzione degenerativa che
porta alla morte, con disturbi del linguaggio (afasia), della memoria (amnesia), del movimento
(aprassia) e della percezione (agnosia), conosciuta per questo come la malattia delle “quattro A”.
Il processo degenerativo è irreversibile e comporta una progressiva perdita delle cellule di
strutture cerebrali deputate a svolgere le funzioni cognitive, la cui causa non è stata ancora
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completamente identificata. In questa patologia la perdita di cellule nervose si accompagna alla
progressiva riduzione di sostanze (neurotrasmettitori) che intervengono nelle attività cognitive e tra
queste risulta particolarmente ridotta l’acetilcolina; molecola fondamentale nei processi cognitivi.
La diagnosi di certezza è solo post-mortem, quando è possibile esaminare al microscopio il
tessuto cerebrale. Dagli esami clinici in vita, infatti, possiamo avere una diagnosi di probabilità,
dopo aver escluso altre forme di demenza. Tuttavia, nelle fasi terminali della malattia il progressivo
impoverimento cellulare si traduce in atrofia (rimpicciolimento del cervello), che viene messa in
evidenza con la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata)) dell’encefalo. La malattia colpisce
entrambi i sessi, con una lieve prevalenza per il sesso femminile. È una malattia tipicamente senile,
la cui frequenza aumenta con l’età. Vi sono però casi d’insorgenza veloce, prima dei cinquant’anni,
di solito particolarmente gravi e a decorso veloce. Al momento non esistono farmaci efficaci per la
guarigione di questa malattia anche se ci sono studi sperimentali.
1.6 Quali forme di malattia di Alzheimer conosciamo
In base all’età, viene distinta una forma ad esordio precoce o presenile se insorge prima dei 65
anni (25% dei casi) ed una forma ad esordio tardivo o senile quando si manifesta dopo i 65 anni
(75% dei casi).
In base alla familiarità si può fare una prima importante distinzione tra le forme di Alzheimer
sporadiche e quelle familiari.
Le forme sporadiche sono la maggioranza (circa il 75% dei casi): sporadico significa che la
malattia colpisce un solo membro di una famiglia.
Nelle forme familiari ((circa il 25%), quando cioè sono colpiti più membri della stessa famiglia,
solo nel 10% dei casi la malattia si trasmette come un carattere autosomico dominante, per il
restante 15% non è ancora chiara come viene trasmessa.
Le forme familiari trasmesse con carattere autosomico dominante si possono a loro volta
suddividere in:
- forma familiare tardiva (AD2) (Alzheimer Disease2): questa forma si diagnostica nelle
famiglie con più casi di malattia che si manifesta dopo i 65 anni;
- forme familiari precoci (AD1, AD3, AD4): queste forme si diagnosticano nelle famiglie
con più casi di malattia che si manifesta prima dei 65 anni. queste rappresentano meno del
5% dei casi totali di malattia. I sottotipi (AD1, AD2, AD3) si possono distinguere solo con
un test genetico. La forma più frequente è il sottotipo AD3 ed è ad esordio estremamente
precoce e con tratto più aggressivo.
1.7 Quali sono le cause della malattia di Alzheimer
Le conoscenze sui meccanismi che causano la degenerazione e la morte dei neuroni nella M. di
Alzheimer sono ancora poco chiare.
È noto che nel tessuto nervoso delle persone malate si può riscontrare un accumulo anomalo di
sostanze, solo in parte identificate, che provocano la formazione di placche e fibrille all’interno
stesso delle cellule.
Una di queste sostanze è la proteina amiloide, che a sua volta deriva da una proteina
normalmente presente nelle cellule cerebrali, chiamata APP (precursore della proteina amiloide).
I meccanismi che portano alla formazione di questi accumuli sono ancora poco conosciuti.
Informazioni importanti sono arrivati dallo studio delle forme familiari di Alzheimer, per le quali
sono stati identificati alcuni geni che, se mutati, possono causare la malattia:
- Il gene della proteina precursore dell’amiloide (APP), localizzato nel cromosoma 21
risulta alterato nella forma AD1. le mutazioni dell’APP sono rare (circa 20 famiglie
identificate nel mondo) e causano una malattia ad esordio precoce (35-50 anni);
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Il gene della presenilina 1 (PS1) localizzato nel cromosoma 14, risulta alterato nella forma
AD3. Finora, in pazienti con forme familiari ad esordio precoce, sono state identificate oltre
140 diverse mutazioni di questo gene. Queste mutazioni rappresentano la causa più comune
(circa il 50% dei casi) di origine genetica della malattia di Alzheimer familiare ad esordio
precoce (28-60 anni);
Il gene della presenilina 2 (PS2) localizzato nel cromosoma 1, risulta alterato nella forma
AD4. Fino ad oggi solo 3 mutazioni sono state identificate in pazienti appartenenti a famiglie
americane originarie dell’Europa dell’Est ed in una famiglia italiana nel Nord-Est. In queste
famiglie l’età di esordio può essere precoce (30 anni) ma anche molto tardiva (oltre 80).
Le preseniline sono proteine che hanno la funzione di tagliare la proteina amiloide, una ipotesi è
che il loro alterato funzionamento potrebbe portare all’accumulo di questa proteina. Il suo accumulo
ha, come risultato finale la morte delle cellule nervose.
1.8 Come si ereditano le forme familiari
Dallo studio delle famiglie affette da AD è stato possibile individuare le modalità di trasmissione
ereditaria delle diverse forme:
- Per le forme AD1, AD3 e AD4 (da mutazioni dei geni APP, PS1 e PS2), si è stabilito che si
ereditano con modalità autosomica dominante;
- Per la forma AD2 non si è ancora potuto stabilire con certezza quale sia la modalità di
trasmissione ereditaria, ma si ipotizza una trasmissione di tipo autosomico dominante.
1.9 Quali sono i fattori di rischio
Ognuno dei fattori di rischio non sono considerati singolarmente sufficienti ed indispensabili per
innescare la demenza, ma sommandosi tra loro o interagendo con componenti genetiche possono
facilitarne l’insorgenza. Vengono distinti in non modificabili e modificabili.
Fattori di rischio non modificabili
- La familiarità: è da tempo noto come la familiarità costituisca un fattore di rischio per
sviluppare la malattia. In diversi studi scientifici è emerso come la presenza in famiglia di un
parente di primo grado affetto dalla malattia di A. aumenterebbe il rischio di quattro volte
esiste poi una percentuale (5% circa) in cui la malattia viene trasmessa come carattere
monogenico autosomico dominante.
- L’età: è sicuramente il fattore di rischio non modificabile più importante per l’insorgenza di
questa forma di demenza. I dati della letteratura indicano un aumento della prevalenza con
l’aumentare dell’età, infatti essa raddoppia ogni cinque anni di età, a partire dai 60 anni fino
ai 95 non si è riusciti però ad individuare quale sia la causa indispensabile che innesca
l’insorgenza della malattia. Si può supporre che più fattori di rischio debbano interagire con
il fattore età per innescare le alterazioni biologiche alla base del processo patologico di
questa malattia.
- L’ApoE: l’apolipoproteinaE, è una proteina coinvolta nel trasporto del colesterole nel
sistema nervoso centrale, ed è in grado di legarsi all’amiloide ed ai grovigli neurofibrillari. Il
gene che produce questa proteina è stato individuato sul cromosoma 19 e nell’uomo presenta
tre varianti all’eliche (ε2, ε3, ε4) ; in particolare l’allele ε4 è stato trovato con frequenza tre
volte più alta nei pazienti con A. il genotipo ε2 svolgerebbe, invece, un ruolo protettivo nei
confronti della malattia. In eterozigoti la presenza di ε4 è associata ad un moderato aumento
di rischio della malattia; in monozigosi (cioè quando gli alleli sono entrambi ε4) il rischio è
elevato, soprattutto in età compresa tra i 60 ed i 70 anni. probabilmente il genotipi APoE- ε4
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favorirebbe il deposito di amiloide cerebrale. La sua presenza non predice sufficientemente
lo sviluppo di malattia né la sua assenza è protettiva nei confronti della demenza.
Il sesso: diversi studi hanno evidenziato che il sesso femminile rappresenta un fattore di
rischio per l’insorgenza della malattia di A. il rapporto della frequenza nei due sessi è di 2:1 a
favore delle femmine. Non è ancora ben chiaro il perché; si pensa ad influenze ormonali di
uno o più geni predisponenti sul cromosoma X. Un’altra ipotesi è legata alla maggiore
incidenza nelle donne di una proteina (ApoE) e di una sua forma in particolare ApoEε4.
queste proteine rivestono molta importanza nel mantenimento dell’integrità del tessuto
nervoso, nella forma ApoEε4 si avrebbe un maggior rischio di sviluppare la demenza di A.
facilitando la formazione di alterazioni a carico del tessuto cerebrale (placche amiloidi).
La sindrome di down: è causata da un’anomalia del cromosoma 21. Chi è affetto da questa
sindrome ha maggiori rischi di sviluppare questa malattia proprio in relazione al fatto che il
gene della proteina precursore dell’amiloide (APP) si trova sul braccio lungo di questo
cromosoma. La reale frequenza di demenza in questi pazienti non è stata però definita con
sicurezza.
Fattori di rischio modificabili
- La scolarità: un basso livello di istruzione è considerato un possibile fattore di rischio. Di
contro, un elevato grado di istruzione rappresenterebbe un fattore protettivo per lo sviluppo
di demenza.
- La depressione: il suo ruolo è ancora controverso. Da alcuni autori viene considerata come
una manifestazione precoce della malattia, mentre altri la considerano come fattore di rischio.
- Il trauma cranico: traumi ripetuti causano una demenza (demenza pugilistica) con aspetti
simili a quelli presenti nella malattia di Alzheimer. Se il trauma cranico si verifica in soggetti
“predisposti” (ad es. portatori dell’ApoEε4) aumenta il rischio di sviluppare demenze di 2-3
volte e può anticipare l’esordio della malattia di circa 6-7 anni.
- Metalli: alcuni metalli potrebbero amplificare i danni del metabolismo ossidativi (per
l’aumento di radicali liberi, dannosi per le cellule cerebrali) od interferire con l’attività di
proteine del tessuto cerebrale facilitando la formazione delle lesioni alla base di questa
malattia (placche senili e grovigli neurofibrillari). L’alluminio, il ferro e lo zinco sono i
metalli indiziati di svolgere queste azioni.
- Patologie vascolari: la presenza di una patologia vascolare (l’ipertensione e l’ipotensione
arteriosa, la fibrillazione striale, l’aterosclerosi) provoca sofferenza delle strutture vascolari
cerebrali ed aumenta il rischio di sviluppare una demenza A.
- Diabete mellito: non c’è ancora pieno accordo in letteratura sul suo ruolo, tuttavia da diversi
studi emerge che il diabete mellito deve essere considerato un fattore di rischio per
l’insorgenza di questa malattia.
- Fumo di sigaretta: il suo ruolo è ancora controverso. Considerato in passato un fattore
protettivo per la demenza di A. dati di letteratura di recente pubblicazione, lo hanno descritto
come fattore di rischio.
- Alcool: mentre l’abuso di alcool faciliterebbe l’insorgenza di demenza di A. (ma anche di
forme specifiche di demenza), il consumo di modiche quantità svolgerebbe un ruolo
protettivo.
1.10 Fattori protettivi
Farmaci antinfiammatori: alcuni farmaci antinfiammatori non steroidi (FANS) potrebbe
proteggere dal rischio di sviluppare questa malattia.
Questo dato è emerso dalla osservazione fatta su soggetti che hanno utilizzato per un lungo
periodo antinfiammatori e sono stati colpiti in minor misura dalla malattia di A.
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Estrogeni: il ruolo degli estrogeni è controverso. La letteratura ha riportato a favore di un ruolo
protettivo della terapia sostitutiva estrogenica sul rischio di sviluppare malattia, recenti lavori
hanno parzialmente confermato questo dato. In particolare sembra che i sia un ruolo protettivo
degli estrogeni solo in donne che presentano le varianti ε2 e ε3 del gene che codifica per l’ApoE.
Istruzione: il grado d’istruzione sembrerebbe inversamente proporzionale allo sviluppo della
malattia. L’ipotesi che l’istruzione riduca il rischio di essere colpiti da questa malattia si fonda
sull’ipotesi della cosiddetta “riserva funzionale” di cui sarebbe fornito chi ha un più alto grado di
istruzione. Il cervello avrebbe in pratica la possibilità di difendersi meglio dai vari fattori di
rischio ambientali proprio perché ha maggiori risorse funzionali.
Vitamine: l’uso di alimenti ricchi di vitamina C (agrumi, fragole, peperoni, pomodori, ortaggi a
foglie verdi), eserciterebbe un ruolo protettivo dovuto al loro potere di agire sui radicali liberi,
quindi per la loro attività antiossidante.
Sport: l’attività fisica svolta regolarmente favorisce la circolazione, abbassa il colesterolo e la
pressione sanguigna e riduce il rischio di essere colpiti dalla demenza di A. anzi un’attività fisica
regolare (tre volte a settimana) dimezza il rischio di sviluppare questa malattia.
1.11 Le demenze degenerative non Alzheimer
Demenza con corpi di Lewy
Dopo la malattia di Alzheimer la demenza con corpi di Lewy è la forma di demenza
degenerativa che la letteratura scientifica indica come più frequente, e rappresenta dal 5 al 25% dei
casi di tutte le forme di demenza. Più frequentemente esordisce tra i 65 ed i 75 anni, ha una durata
variabile da 1 a 5 anni e colpisce prevalentemente il sesso maschile. Le alterazioni del tessuto
nervoso sono dovute alla presenza all’interno delle cellule della corteccia di c.d. corpi di Lewy (che
li descrisse per primo nel 1912, in cervelli di pazienti affetti da malattia di Parkinson), che si
formerebbe per anomalie del metabolismo di una proteina (α-sinucleina). Così come nella malattia
di Alzheimer, anche in questa forma di demenza, ma in modo più marcato, c’è riduzione
dell’acetilcolina. I principali e più caratteristici disturbi causati da questa forma di demenza sono i
deliri e le allucinazioni visive ricorrenti, molto dettagliate; altra particolarità è rappresentata dai
disturbi fluttuanti delle funzioni cognitive. In pratica si possono avere improvvisi cambiamenti delle
performances nei test neuro-psicologici non correlati ad un peggioramento della malattia.
Le funzioni cognitive che risultano generalmente più compromesse sono quelle che richiedono
attenzione e l’esecuzione di compiti visuo-spaziali, mentre la memoria episodica è più conservata
rispetto alla malattia di Alzheimer. In questa forma di demenza sono frequenti le cadute, le sincopi,
i disturbi delle funzioni motorie di tipo parkinsoniano (disturbo della deambulazione), e il paziente
può passare in poche minuti da una condizione di allerta ad una piena coscienza fino ad uno stato
catatonico.
Malattia di Pick
La malattia prende il nome da chi la descrisse per la prima volta alla fine del XIX secolo; fa parte
delle demenze fronto-temporali. Il morbo di Pick ha generalmente inizio tra i 45 ed i 65 anni, ha una
durata media tra 6 e 8 anni; sembra essere più frequente tra le donne. È considerata una forma
generalmente sporadica, la letteratura scientifica descrive dei casi familiari, ma nella maggior parte
di queste forme, il danno genetico è sconosciuto e provoca alterazioni del metabolismo di una
proteina. Può essere facilmente confusa con l’Alzheimer. È una forma di demenza che colpisce
prevalentemente il tessuto cerebrale del neocortex dei lobi frontali e temporale anteriore, in cui si
accumula una proteina “difettosa” (proteina TAU); talvolta accompagnata dalla necrosi di neuroni
dello striato. I neuroni contengono un’inclusione caratteristica, il cosiddetto corpo di Pick, che è
costituito da filamenti lineari, anormali, bassamente aggregati. Anche se questi ammassi appaiono
diversi dalle matasse neurofibrillari (tipiche dell’Alzheimer), appaiono diverse analogie con i
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filamenti elicoidali accoppiati delle matasse delle matasse neurofibrillari, infatti entrambi queste
formazioni patologiche reagiscono con gli stessi anticorpi specifici per le proteine neuronali del
citoscheletro.
Poiché le lesioni si verificano in quella parte di cervello che controlla il comportamento, questa
forma di demenza è caratterizzata da evidenti cambiamenti comportamentali dell’individuo, che può
diventare molto sgarbato, facilmente irascibile, arrogante; iper-oralità e aumento di peso per
l’assunzione compulsava di alimenti sono tra le altre manifestazioni di questa forma di demenza.
Le prime manifestazioni della malattia sono rappresentate da mancanza di iniziativa (apatia,
disinteresse), somatizzazioni e indebolimento della memoria recente. Abbastanza presto si
manifesta il disorientamento spaziale. Tra i disturbi cognitivi, le alterazioni del linguaggio
(monotonia, perseverazione, ecolalia) sono le prime a comparire e peggiorano più rapidamente
rispetto a quanto avviene generalmente nella demenza di Alzheimer.
Diagnosi della demenza con corpi di Lewy e della demenza di Pick
La diagnosi differenziale è assai importante per un adeguata prognosi, anche se al momento non
esistono farmaci specifici e non esistono indicatori biologici che ad oggi ci permettono di fare una
diagnosi certa di queste forme di demenza mentre il paziente è vivente. La diagnosi di certezza è
possibile solo post mortem attraverso lo studio del tessuto cerebrale. Infatti, il ritrovamento nel
tessuto cerebrale delle specifiche alterazioni (corpi di Lewy, cellule di Pick, matasse neurofibrillari
nell’Alzheimer) del processo degenerativo che hanno causato la demenza, ci può dare la certezza
diagnostica. Una diagnosi di probabilità o di possibilità che si tratti di una delle due forme
degenerative è il massimo della certezza diagnostica mentre il paziente è vivente.
La storia, l’esordio dei deficit cognitivi e dei disturbi non cognitivi, nonché il tipo di disturbo
cognitivo e del comportamento diventano i criteri clinici per indirizzare verso una diagnosi di
probabilità o di possibilità. L’esecuzione di test per la valutazione dei disturbi cognitivi e non
cognitivi, effettuata con l’aiuto del familiare che meglio conosce il paziente, fornisce elementi di
fondamentale importanza per formulare una diagnosi molto vicina ad essere certa.
Soprattutto nelle fasi iniziali, allo scopo di escludere le forme secondarie, dovranno essere
eseguiti: un elettroencefalogramma, un esame radiografico del torace, esami emato-chimici per la
valutazione dei principali parametri che indicano eventuali alterazioni metaboliche, endocrinologhe,
flogistiche, elettrolitiche ed emocoagulative. L’esecuzione di accertamenti strumentali morfologici
(TAC e RMN cerebrale) e funzionali, come la tomografia a fotone singolo (SPECT) o la tomografia
ad emissione di positroni (PET), sono sicuramente di completamento ai dati clinici per migliorare
l’accuratezza diagnostica all’esordio dei disturbi e differenziare le varie forme di demenza. In alcuni
casi, per diagnosticare alcuni tipi di demenza, potrà essere necessaria l’esecuzione di un
elettroencefalogramma o l’esame del liquido cefalorachidiano.
Malattia di Huntington
Il morbo di Huntington comporta la degenerazione del nucleo caudato e del putamen (nuclei
della base interconnessi che originano dalle medesime strutture telencefaliche, di conseguenza sono
costituiti da tipi cellulari identici e sono fusi anteriormente). La malattia di Huntignton determina
deficit cognitivi che spesso peggiorano fino a diventare una demenza vera e propria.
La demenza consegue probabilmente alla degenerazione dei neuroni del neocortex.
Malattia di Parkinson
Anche il morbo di Parkinson interessa principalmente strutture sottocorticali, in particolare la
Substantia nigra ed il locus coeruleus (nucleo del tronco dell’encefalo, fibre di tipo noradrenergico
efferenti alla corteccia). Un notevole numero di pazienti affetti dal morbo di Parkinson presentano
deficit cognitivi. Alcuni sono anche affetti dal morbo di Alzheimer. In altri è possibile osservare la
presenza di inclusioni filamentose anormali nei neuroni dell’ippocampo e del neocortex, in
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particolare in aree corticali come quella del giro del cingolo che è in stretta relazione con il sistema
limbico.
Pseudo-demenze
Un cenno a parte meritano le cosiddette pseudo-demenze, per le quali, tra i sintomi principali si
annoverano segni di deterioramento cognitivo, di memoria, di attenzione, disorientamento,
riduzione del tono dell’umore, a volte con deliri e allucinazioni, associate, però, alla depressione
maggiore. La differenza con la vera demenza è che i sintomi progrediscono molto rapidamente e
con un adeguato trattamento a base di farmaci antidepressivi si hanno miglioramenti significativi.
1.12 Le demenze da cause vascolari
I lavori scientifici svolti in paesi del mondo occidentale indicano che le demenze vascolari
rappresentano fino al 30% di tutte le forme di demenza mentre, in paesi come la Cina e Giappone, i
dati della letteratura danno ai fattori vascolari la responsabilità di circa il 50% di tutte le forme di
demenza.
Queste forme di demenza aumentano con l’età. In particolare, nei soggetti ultra85enni, tendono
ad avere una frequenza paragonabile o superiore alla demenza di Alzheimer.
Questi disturbi variano per intensità e gravità ed in ogni malato sono diversi, così come diversi lo
sono in ogni fase della malattia. È comunque necessario, prima di considerarli espressivi della
demenza, escludere altre cause che li possano avere generati. Possono essere infatti scatenati da:
- fattori ambientali (luoghi affollati e rumorosi, improvvisi cambiamenti dell’ambiente di vita,
come un ricovero),
- effetti collaterali da farmaci,
- malattie a carico di altri organi (infezione, cardiopatia, disturbi alla vista o udito) o il
riacutizzarsi di una patologia già presente.
È importante riconoscere i motivi scatenanti per potere attuare un trattamento mirato che agendo
sulla causa, può divenire risolutivo.
Anche sono state elaborate varie scale per la loro valutazione, è sempre opportuno ricorrere
all’aiuto del caregiver per meglio individuare quali sono i disturbi che più si sono manifestati e per
poter fornire anche alcuni suggerimenti per gestirli, soprattutto se sono di lieve entità, prima di
ricorre ad un trattamento farmacologico.
Fattori di rischio
I principali fattori di rischio sono l’età, la familiarità, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito,
una storia di infarto miocardio, di fibrillazione striale, di pregressi episodi di ischemia cerebrale, il
fumo, l’elevato consumo di alcol, alti livelli di colesterolo.
Cause e forme più frequenti
La causa più frequente di demenza vascolare è un infarto cerebrale (80% dei casi), provocato da
una occlusione di un’arteria cerebrale (o per trombi dovuti a coaguli che si formano sulla parete dei
vasi danneggiati dall’aterosclerosi, o per emboli provenienti da un cuore fibrillante), e meno
frequentemente è provocata da una rottura di un vaso arterioso (emorragia subaracnoidea secondaria
ad un trauma cranico, emorragia intracerebrale da rottura di un aneurisma o di un angioma cerebrale
o dovuta ad ipertensione arteriosa).
L’infarto cerebrale provoca la morte delle cellule nervose che non vengono più irrorate dal
sangue. Nel caso delle emorragie si produce anche un aumento della pressione intracerebrale che
danneggia più diffusamente il tessuto cerebrale portando fino al coma o alla morte. Di conseguenza,
cessando le funzioni svolte dalle cellule nervose che sono morte, compaiono vari tipi di deficit sia
cognitivo, sia motorio (ad esempio paresi o paralisi di un arto o di un lato del corpo).
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I disturbi delle demenze da cause vascolari sono in relazione alla estensione ed alla sede in cui si
producono le lesioni a carico del tessuto nervoso. Non possono essere quindi considerate come
un’entità unitaria e omogenea.
Ci sono, poi, anche patologie su base genetica che possono causare occlusioni di arterie cerebrali
come la CADASIL (Cerebral Autosomal Dominant Arteriopathy with Subcortical Infarcts and
Leukoencephalopathy).
Le forme più frequenti di demenza vascolare, classificate in relazione al danno vascolare che ne
provoca l’insorgenza, sono:
- Demenza multi-infartuale (MID): è causata da infarti multipli, in genere provocati dalla
occlusione di vasi di grosso calibro, che colpiscono aree corticali e sottocorticali. Come
conseguenza della malattia, nel cervello colpito da MID si osservano numerose aree
necrotiche, risultato di una serie di infarti, ognuno dei quali blocca l’afflusso di sangue ad
un’area specifica distruggendone così le cellule. Ogni infarto può essere talmente piccolo da
risultare inapparente sul piano clinico, ma col procedere della malattia, la somma di queste
aree necrotiche nel cervello può essere abbastanza estesa da dare origine alla sintomatologia
caratteristica della demenza. Da l momento che dopo un infarto vi è spesso un certo grado di
recupero, questi pazienti possono mostrare un parziale miglioramento prima di peggiorare
nuovamente: vi è quindi un andamento più variabile rispetto all’AD, con un tipico
deterioramento a scalini. Si manifestano con disturbi cognitivi improvvisi, dovuti alla
compromissione sia di attività svolte dalle strutture corticali che sottocorticali. In
quest’ultimo caso i deficit cognitivi ed i disturbi non cognitivi consistono in un rallentamento
psicomotorio, instabilità della postura, difficoltà di concentrazione, labilità emotiva, (riso e
pianto spastico, comportamenti o risposte non correlate al contesto), disartria (disturbo
dell’articolazione della parola) e disfagia (difficoltà a deglutire sia cibi solidi che liquidi).
Questo quadro clinico viene indicato come “paralisi pseudobulbare”.
- Demenza da singoli infarti o “infarti strategici”: prodotta da lesioni localizzate in aree
funzionalmente strategiche per lo svolgimento di attività cognitive. Queste lesioni possono
provocare la rapida comparsa di specifici deficit cognitivi, propri dell’alterato funzionamento
dell’area colpita dall’evento ischemico (per esempio l’afasia, agnosia, sindrome frontale).
- Demenza dovuta ad uno stato lacunare (area di sofferenza vascolare): le ischemie
lacunari di alcune strutture cerebrali presenti all’interno della sostanza bianca degli emisferi
cerebrali (nuclei della base) si presentano generalmente con il quadro di una paralisi
pseudobulbare, mentre le lacune a carico dei lobi frontali provocano una demenza con
prevalenti segni di compromissione delle funzioni svolte da questi lobi.
- Demenza da ipoperfusione: questa forma può conseguire a una ridotta irrorazione di tutto il
tessuto cerebrale secondaria ad arresto cardiaco o a marcata ipotensione.
Diagnosi della demenza da cause vascolari
Per poter dire che la demenza è stata provocata da una sofferenza delle cellule nervose per cause
vascolari è necessario che oltre al disturbo di memoria ci sia una compromissione di almeno
un’altra funzione cognitiva (afasia, aprassia, agnosia, disturbi delle funzioni esecutive) prima
integra e che ad un esame strumentale cerebrale (TAC o RMN) siano presenti lesioni vascolari della
corteccia cerebrale o delle strutture sottocorticali o che siano evidenziati deficit neurologici delle
funzioni motorie in relazione alla sofferenza di strutture cerebrali (ad esempio emiparesi ossia
deficit di forza di un lato del corpo).
Infine, bisogna stabilire se c’è una relazione temporale tra l’evento che ha portato alla sofferenza
e l’insorgenza della demenza (i dati della letteratura scientifica indicano in tre mesi il limite tra il
riconoscimento della lesione vascolare cerebrale e l’insorgenza del disturbo cognitivo ad essa
attribuibile.
Per parlare di demenza i deficit cognitivi dovranno essere di gravità tale da provocare
compromissione significativa delle attività sociali e lavorative.
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Talvolta possono riscontrarsi sintomi che rendono la diagnosi di demenza vascolare incerta:
- Peggioramento dei disturbi in assenza di lesioni vascolari a carico del tessuto cerebrale.
- Mancanza di segni o sintomi neurologici per lesioni di aree cerebrali deputate a svolgere una
determinata funzione (ad esempio per lesioni dell’area della corteccia cerebrale motoria si
dovranno produrre segni o sintomi deficitari relativi a questa funzione).
- Mancato riscontro di lesioni vascolari alla TAC o alla RMN cerebrale.
La diagnosi differenziale tra demenza da cause vascolari e demenza di Alzheimer non è sempre
facile. Una attenta raccolta della storia del paziente (anamnesi) ed una visita accurata permettono,
generalmente, di distinguere le due patologie. Gli elementi dell’anamnesi e della visita che
devono essere considerati per arrivare a formulare una diagnosi abbastanza certa sono stati
raccolti in una scala di valutazione che è conosciuta come scala di HIS (Scala Ischemica di
Hachinski).
1.13 Criteri diagnostici per la diagnosi di demenza secondo il DSM-IV
Secondo il DSM-IV per poter fare una diagnosi di demenza occorre che siano presenti i seguenti
criteri diagnostici:
A) Dimostrazione obiettiva della compromissione della memoria a breve e lungo termine. Il deficit
della memoria a breve termine (incapacità di apprendere nuove informazioni) può essere indicato
dall’incapacità a ricordare tre oggetti dopo cinque minuti. Il difetto della memoria a lungo termine
Incapacità a ricordare informazioni conosciute in passato) può essere indicato dall’incapacità di
ricordare notizie personali passate (es: luogo di nascita, occupazione), o fatti di comune conoscenza
(es: ex presidenti, date storiche).
B) Almeno uno dei seguenti elementi:
- Deficit del pensiero astratto, riscontrabile nell’incapacità a cogliere somiglianze e differenze
tra parole correlate, nella difficoltà a definire parole e concetti, ed in altre prove simili;
- Deficit di giudizio critico, riscontrabile nell’incapacità di fare progetti ragionevoli per
affrontare problemi o questioni interpersonali, familiari, o collegate con il lavoro;
- Altre turbe delle funzioni corticali superiori come afasia (disturbo del linguaggio), agnosia
(incapacità di riconoscere o identificare oggetti nonostante l’integrità delle funzioni sensitive),
aprassia (incapacità a eseguire attività motorie nonostante l’integrità della comprensione e
della motricità), aprassia costruttiva (come incapacità a ricopiare figure tridimensionali e a
mettere insieme dei blocchi o a ordinare dei bastoncini secondo schemi prestabiliti);
- Modificazioni della personalità, come l’accentuazione o alterazione di tratti premorbosi.
C) Il disturbo in A e B interferisce significativamente con il lavoro, con le attività sociali usuali o
con le relazioni interpersonali.
D) Non si verifica esclusivamente nel corso di Delirium.
E) Uno dei seguenti elementi:
- Dimostrazione fondata sull’anamnesi, sull’esame clinico, di laboratorio, di un fattore
specifico eziologicamente correlato al disturbo
- Presunzione, in assenza di tale dimostrazione, di un fattore eziologico organico se il disturbo
non può essere attribuito ad alcun disturbo mentale non organico (esempio depressione
maggiore).
È inoltre importante differenziare la sindrome demenziale da un’altra condizione in cui si determina
una compromissione delle funzioni corticali superiori: lo stato confusionale acuto o delirium.
La caratteristica essenziale è un obnubilamento della coscienza che si sviluppa, a differenza
della demenza, in un breve arco di tempo; talvolta inizia bruscamente come nel caso di un trauma
cranico. Sono presenti spesso deliri di persecuzione o allucinazioni che, a differenza della demenza,
sono transitori e reversibili, in genere con andamento fluttuante. A volte, invece, un disturbo della
memoria può mascherare una depressione, che uno dei disturbi psichiatrici più diffusi in età
avanzata, anche a causa delle condizioni socio-economiche in cui vivono molti anziani.
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Nelle depressioni piuttosto gravi vi sono quindi dei deficit cognitivi e comportamentali che
somigliano al quadro di una demenza; le difficoltà diagnostiche sono complicate dal fatto che in
molti casi, nelle prime fasi della malattia, la demenza si associa alla depressione. Tuttavia, è
importante differenziare le due situazioni in quanto, una volta posta la diagnosi di depressione si
può avviare una terapia farmacologica adeguata.
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CAPITOLO SECONDO
MODALITÀ DI INTERVENTO
2.1 I trattamenti non farmacologici
L’obiettivo comune dei trattamenti non farmacologici è quello di ridurre l’impatto funzionale delle
disabilità derivanti dalla malattia e mantenere il più possibile le autonomie residue al fine di
migliorare la qualità di vita del paziente e della sua famiglia.
Con i trattamenti non farmacologici si intendono gli interventi:
1. sul paziente;
2. sulla famiglia;
3. sull’ambiente domestico.
2.2 Gli interventi sul paziente
Sono di tipo riabilitativo e incentrati sui deficit sia di tipo cognitivo, funzionale, che non
cognitivo ( disturbi affettivi, psicotici e del comportamento).
Fino a circa dieci anni fa, gli interventi riabilitativi hanno goduto di scarsa credibilità a causa delle
caratteristiche di progressione e cronicità di questa patologia e la mancanza di conoscenza di una
solida base teorico- biologica. Venivano perlopiù effettuati interventi di stimolazione globale che
miravano ad una riattivazione delle funzioni cognitive nel loro complesso, ed interventi di tipo
contenitivo o sostitutivo (modelli protesici) per il controllo dei disturbi del comportamento.
La maggiore comprensione di quali funzioni cognitive vengono colpite dal processo
degenerativo, ha permesso di meglio orientare gli interventi che, parlando di demenza, non hanno
certo la finalità della restitutio ad integrum del deficit, quanto un rallentamento della sua
progressione, attraverso specifiche stimolazioni (riabilitazione di mantenimento). Il tipo di
stimolazione deve essere correlato allo stadio della malattia e all’entità del danno biologico
correlato, per cui un intervento di riabilitazione cognitiva potrà essere adeguato nelle fasi lieve e
moderata, mentre interventi di stimolazione emozionale o sensoriale rivolti al controllo dei disturbi
non cognitivi, saranno più idonei nella fase moderatamente grave e grave. Perciò, fin tanto che è
possibile attingere alle risorse del paziente (fase lieve e moderata della malattia), si stimoleranno le
funzioni cognitive non ancora completamente compromesse, cercando di migliorarle e mantenerle
valide per garantire la maggiore autonomia funzionale nella vita quotidiana. Quando non sarà più
possibile attingere in modo diretto a queste risorse cognitive, si potranno attuare interventi di
stimolazione emotiva/sensoriale utilizzando tecniche comportamentali che, operando anche
sull’ambiente, si prefiggono di produrre effetti positivi sul paziente. L’intensità delle sollecitazioni
riabilitative deve essere, comunque, sempre calibrata al grado di abilità residua e di poco superiore
rispetto al livello funzionale nel quale la persona si trova, oltre che in linea con le attitudini e le sue
preferenze affinché l’intervento possa risultare efficace.
Gli interventi di stimolazione cognitivo/comportamentale possono essere svolti sia in gruppo (il
più possibile omogeneo per tipo e gravità di disturbo) che individualmente. Tali interventi avranno
una maggiore efficacia se integrati in un più completo piano terapeutico che comprenda anche:
• attività di riattivazione motoria;
• interventi educazionali e di sostegno alla famiglia;
• interventi sull’ambiente domestico;
• terapie sintomatiche (sui deficit cognitivi e non).
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2.3 Le stimolazioni cognitive
Per ciò che concerne gli interventi sulla persona, sappiamo che la demenza esordisce con un
disturbo della memoria, ma non tutte le sue componenti sono interessate nella stessa misura e
contemporaneamente. Tradizionalmente si distingue una memoria a breve termine e una a lungo
termine. Nelle fasi iniziali della malattia, viene prevalentemente compromessa quella a BT o
memoria di lavoro e solo in parte la MLT. Di quest’ultima viene danneggiata in particolar modo, la
componente dichiarativa (di cui fanno parte la memoria episodica e semantica), mentre quella
procedurale non viene, inizialmente, intaccata. Ciò provoca la comparsa di difficoltà ad apprendere
nuove informazioni ed a rievocare eventi recenti (memoria a breve termine e memoria episodica) e
difficoltà a parlare (memoria semantica). La componente procedurale, la quale nella fase iniziale è
conservata, permette di ricordare le sequenze motorie che ci permettono di svolgere attività
precedentemente apprese (camminare, andare in bicicletta, ecc..). Partendo da queste basi
biologiche, si sono sviluppate tecniche per stimolare specificatamente le funzioni cognitive
compromesse, per migliorare o rallentare i disturbi della memoria procedurale o di altre attività
cognitive (es:orientamento spazio/temporale, il linguaggio, ecc..) e per sollecitare il funzionamento
di quelle ancora relativamente conservate.
Esistono svariate tecniche di stimolazione cognitiva.
Le mnemotecniche
Sono rivolte a pazienti con un grado molto lieve di demenza. L’intervento consiste nell’insegnare
ad ordinare meglio le informazioni per migliorare le capacità mnestica e di apprendimento mediante
alcuni ausili quali:
• ausili esterni passivi: la segnalazione di luoghi domestici con l’uso di luci notturne;
• ausili esterni attivi: diari, calendari, liste per la spesa orologi;
• ausili interni: strategie mentali: metodo dei loci (individuare mentalmente una serie ordinata
di luoghi noti a cui andrà fatto corrispondere il materiale da ricordare. Ripercorrendo questi luoghi
il soggetto recupererà le immagini degli elementi da ricordare), o il formare dei nessi logici tra le
cose da memorizzare, la ripetizione per ridurre gli errori, l’utilizzo di cues, cioè l’apprendimento
mediante suggerimenti che verranno gradualmente ridotti, ecc..
Training cognitivi
Sono sempre rivolti a pazienti con un grado lieve di demenza. L’intervento ha come finalità la
stimolazione ed il rinforzo di funzioni cognitive specifiche come l’attenzione sostenuta e selettiva,
la memoria visuo-spaziale e associativa. Al paziente vengono proposti esercizi da tavolo come
puzzle, calcoli aritmetici, matrici attenzionali.
Procedural memory training
È rivolto a pazienti con demenza dei grado medio-lieve senza disturbi comportamentali associati.
L’intervento ha come scopo quello di stimolare e migliorare la memoria procedurale motoria
coinvolgendolo in attività funzionali alla vita quotidiana.questa tecnica potrà essere insegnata anche
ai familiari così che poi potranno fare esercitare il proprio caro. Durante una seduta di training
possono essere proposti esercizi di simulazione o esecuzione di: attività di cura e igiene personale,
attività di cucina (prepararsi un caffè, un dolce, ecc..), ecc..
Memory intervention
Si pone come fine la stimolazione della memoria semantica, autobiografica e procedurale. Il
paziente viene stimolato a ricordare e mantenere informazioni relative alla propria persona e legate
alla propria esperienza.
ROT (Reality Orientation Therapy)
È rivolta a pazienti dementi di grado moderato e lieve senza disturbi di comportamento o
sensoriali rilevanti e con linguaggio sufficientemente conservato. Può essere svolta in piccoli gruppi
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(5 –6 persone, omogenee per grado di deterioramento) o individualmente. Se ne distinguono di due
tipi: formale ed informale e le due modalità possono essere integrate.
La ROT formale viene effettuata, di norma, in sedute giornaliere della durata di circa 45 minuti.
Dopo avere accolto i pazienti e avere creato un clima cordiale ha inizio la seduta di riattivazione
cognitiva. Durante la seduta si impiega una metodologia di stimolazione standardizzata, finalizzata
a riorientare il paziente rispetto alla propria persona, al tempo, allo spazio (ad es. ricordare il
proprio indirizzo, il quartiere dove abita). Inoltre il gruppo facilità la creazione di relazioni sociali,
utili a ridurre la tendenza all’isolamento in cui versano spesso questi malati.
La ROT informale prevede, invece, un processo di stimolazione non standardizzato durante la
giornata e fatto da chi si prende cura del paziente. L’obiettivo è quello di ri-orientare il paziente
rispetto alla propria identità, allo spazio e al tempo, stimolandolo ad es. al ricordo della sua data di
nascita, l’ora e il luogo in cui trova, nel ricordo di argomenti legati alla sua storia personale. Per tali
aspetti la ROT viene definita anche una tecnica di riattivazione cognitivo- comportamentale in
quanto coinvolge anche aspetti affettivi collegati alla sua vita emozionale e come è noto gli aspetti
emotivi hanno una valenza positiva sulla stimolazione delle funzioni cognitive.
Terapia di reminescenza (life review)
Si stimola il paziente al recupero di esperienze positive di vita (memoria autobiografica),
assecondando la naturale tendenza del soggetto a rievocare il passato, utilizzando come facilitatori
fotografie, canzoni, ecc.. In tal modo il malato può ritrovare motivi di gratificazione che rafforzando
l’autostima, possono ridurre reazioni comportamentali inadeguate. L’intervento può essere formale
o informale e svolto sia individualmente che in gruppo.
3R Therapy
È un intervento di riattivazione cognitivo-comportamentale globale che si basa sull’uso
combinato di tre tecniche di stimolazione delle risorse residue del paziente (ROT, reminescenza e
rimotivazione). È rivolta a pazienti affetti da demenza di grado medio-lieve e si pone tre obiettivi:
• ROT : per aiutare il paziente a ritrovare punti di riferimento ambientali, mediante stimolazioni
legate allo spazio e al tempo;
• Reminescenza: tecnica che si prefigge di stimolare le risorse mnestiche residue favorendo il
ricordo di eventi piacevoli del passato;
• Rimotivazione: tecnica che stimola la memoria attraverso la discussione di tematiche legate
alla vita attuale del malato, allo scopo di farlo sentire ancora partecipe del suo contesto di vita.
Terapia occupazionale
È rivolta a pazienti con demenza di grado lieve- moderato e grave. Ha come obiettivi:
•
la stimolazione cognitiva (attenzione, apprendimento);
•
il potenziamento delle capacità funzionali residue;
•
la stimolazione della creatività espressiva (art therapy). Il paziente ha la possibilità di
saggiare le proprie capacità creative utilizzando vari tipi di materiale (cartoncini, plastica, ecc..)
manipolandoli e decorandoli. Sarà indispensabile individuare un’attività in cui il paziente aveva o
ha un’abilità per programmare un intervento al fine di potenziarla.
2.4 Stimolazioni non cognitive
Sono tecniche di sollecitazione sensoriale e affettiva per le gravi forme di demenza, per
modificare reazioni e comportamenti impropri. Il loro uso viene riportato in letteratura, anche se
non c’è alcuna evidenza scientifica della loro efficacia.
Rimotivazione
È un intervento di tipo cognitivo-comportamentale rivolto a quei pazienti che oltre al
deterioramento cognitivo (lieve-moderato) presentano disturbi depressivi non gravi. Si propone di:
•
rimotivare gli interessi verso gli stimoli ambientali;
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•
•
stimolare le relazioni interpersonali;
stimolare alla discussione di argomenti di attualità.
Musicoterapia
È rivolta a pazienti con demenza anche grave e problemi di linguaggio o disturbi del
comportamento. La metodologia impiegata è di tipo recettivo, basata sull’ascolto della musica che
favorisce l’evocazione dei ricordi, facilita le associazioni e permette una migliore comunicazione,
soprattutto non verbale, ponendosi la finalità di costruire un processo di relazione proprio
all’interno di quest’ultima, la cui comprensione è conservata anche nella fase più avanzata di
malattia. Tale tecnica può avere diversi fini, quali la riduzione dell’aggressività, favorire il
rilassamento, ridurre le vocalizzazioni e l’agitazione, stimolare la memoria remota mediante
l’ascolto di canzoni note al paziente, segnalare alcuni momenti della giornata (ad es.:l’ora del
pranzo).
Ci sono, poi, altre tipologie di intervento diversificate quali:
“Bright light therapy”: ossia l’uso della luce con intensità luminosa crescente., usata per
migliorare i ritmi sonno-veglia e la cosiddetta “sindrome del tramonto”(confusione ed agitazione
che aumenta nel tardo pomeriggio e nelle prime ore serali).
L’ortoterapia e garden terapeutici: è una forma di riattivazione cognitivo-comportamentale
multisensoriale, nata nei paesi asiatici, si è diffusa poi negli USA alla fine del secolo scorso e
sta iniziando ad essere conosciuta anche in Italia. È rivolta a pazienti nelle varie fasi della demenza.
Comprende attività di giardinaggio, coltivazione di piante ed ortaggi e si svolgono varie
attività:dalla coltivazione del terreno, sino alla raccolta . Il contatto con la terra e l’osservazione
delle forme, colori, odori, rinvia al paziente una stimolazione percettiva che può aiutare nel ridurre i
disturbi comportamentali. Il prendersi cura di un fiore, inoltre, stimola l’affettività, migliora
l’autostima ed il senso di controllo sull’ambiente; riprendendo il contatto con la terra, si favorisce il
senso dell’orientamento, la socializzazione e l’attività motoria, con ricadute positive sui disturbi
depressivi e sull’ansia.
“Pet Therapy”: nasce in America ad opera dello psichiatra Boris Levinson. È stata riconosciuta
con un decreto legislativo (6 febbraio 2003) all’interno del SSN. È una terapia comportamentale.
Il rapporto uomo-animale, affettivo, emozionale, è in grado di arrecare non solo benefici
psicologici, ma anche fisici, come l’abbassamento della pressione e il rallentamento del battito
cardiaco. Il paziente, grazie a questa tecnica di stimolazione sensoriale riesce ad ottenere anche
alcuni benefici sui disturbi del comportamento.
L’approccio protesico (Gentlecare): ha la finalità di compensare dall’esterno quanto è stato
irrimediabilmente perduto nel paziente mediante interventi protesici, mirando non a sostituire le
funzioni compromesse, quanto a garantirne l’esercizio con la massima sicurezza e il minor stress
possibile. E ciò attraverso interventi sia sull’ambiente domestico, che di chi si prende cura del
malato, affinché acquisiscano competenze professionali (appropriato atteggiamento di cura,
comunicazione verbale e non verbale).
Biodanza: “danza della vita” è una pratica ideata da uno psicologo cileno, Rolando Toro
Araneda negli anni ’60. Attraverso la combinazione del movimento, la musica, l’espressione delle
emozioni, si indurrebbe l’attivazione del nucleo affettivo umano.Nella demenza questa tecnica
sensoriale produrrebbe benefici giovandosi di alcuni aspetti coinvolti quali: il “therapeutic
touch”(che insegna attraverso il tocco delle mani a riportare equilibrio emotivo), il “feeling
dissolve”(per la gestione delle difficoltà affettive).
Aromaterapia: è una tecnica di cura che attraverso il massaggio o l’automassaggio con oli
essenziali (lavanda, balsamo di melissa, citronella) si prende cura del benessere psico-fisico,
traendo dall’azione fisica, benessere psicofisico. Sembra un intervento utile nel controllo di alcuni
disturbi del comportamento (agitazione), depressione, favorisce il rilassamento e il sonno.
Aptonomia: è definita la scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto. È nata circa
cinquanta anni fa dal medico olandese Frans Veldman, ed è stata impiegata per lungo tempo nel
rapporto genitori-figli nel periodo neonatale. Il termine aptonomia indica quindi un approccio
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all’essere umano nella sua interezza che esprimendo, attraverso il contatto aptonomico, interesse,
rispetto, considerazione, consente all’altro di acquisire una “sicurezza di base” che mette in moto
una serie di fenomeni psico-fisici positivi che possono modificare anche la capacità di rispondere
alle malattie.
2.5 Gli interventi sulla famiglia e sull’ambiente domestico
Gli interventi sulla famiglia sono indirizzati soprattutto alla persona (caregiver) che più si prende
cura del malato e comprendono interventi sia di tipo formativo, di sostegno psicologico, di tipo
sociale e medico-legale. Per quanto concerne quelli sull’ambiente sono di tipo protesico, finalizzati
a renderlo il più adatto possibile alla fase della malattia ed alle risorse residue. Infatti, se il paziente
viene a trovarsi in un ambiente con un eccesso di stimolazione, così come troppo scarsa, andrà più
facilmente incontro ad uno scompenso emotivo che può innescare l’insorgere di reazioni
maladattive.
Per un ulteriore approfondimento si rimanda al capitolo quarto.
2.6 Gli interventi farmacologici
A 101 anni dal primo caso di demenza di Alzheimer, non esiste tuttora una terapia che agisca
sulle cause della malattia e che ne permetta la guarigione. Gli obiettivi della terapia farmacologica
sono essenzialmente due:
1. rallentare la progressione del deterioramento cognitivo, permettendo di mantenere un livello
di autonomia maggiore;
2. controllare i sintomi non cognitivi più invalidanti e disturbanti come i deliri e le
allucinazioni, l’aggressività, l’agitazione psicomotoria, ecc…
Tale controllo permette quindi di migliorare la qualità di vita del malato e facilitarne
l’accudimento nella propria famiglia, ritardando il momento dell’istituzionalizzazione.
Il deficit di memoria rappresenta il sintomo principale ed anche quello che compare più
precocemente. Si ritiene che questo disturbo sia correlato alla carenza di un neurotrasmettitore,
l’acetilcolina, che permette la trasmissione dell’informazione lungo i circuiti della memoria.
Esistono numerose molecole e ciascuna di esse è impegnata in una data funzione nervosa.
Nell’Alzheimer il sistema maggiormente deficitario risulta essere proprio quello colinergico. Il
riscontro di un grave deficit colinergico, ha aperto la strada ad una serie di interventi terapeutici
(inibitori dell’acetilcolinesterasi – Ache-I), volti a ripristinare livelli normali di acetilcolina a livello
cerebrale, con lo scopo di ridurre la gravità del deterioramento cognitivo.
In alcuni lavori era già stato evidenziato che i pazienti affetti da artrite reumatoide e che per tale
motivo assumevano per lunghi periodi farmaci antinfiammatori (FANS) sviluppavano meno di
frequente la demenza. Questo dato ha fatto partire uno studio clinico con un antinfiammatorio
(Indometacina) che ha mostrato un miglioramento delle funzioni cognitive in coloro che hanno
assunto il farmaco rispetto ad un gruppo di controllo a cui non era stato dato. Si sono però verificati
gravi effetti gastointestinali, che ne limitano fortemente l’impiego. Sono attualmente in corso altri
studi che utilizzano anche FANS di nuova generazione, per testarne l’efficacia.
Si è visto anche che anche gli estrogeni possono influenzare positivamente le funzioni cognitive
e come un deficit estrogenico possa contribuire alla atrofia e morte neuronale. Mancano però ad
oggi, dati che consentano di trarre conclusioni definitive.
Sono in fase sperimentale anche terapie con agenti anti-amiloidogenici, ed agenti anti-taugenici.
Scopi di tali farmaci sarebbero quelli di prevenire, limitare, o rimuovere i depositi di sostanza
amiloide o proteina Tau, a livello delle cellule nervose, entrambi ritenuti responsabili del danno
neuronale della demenza.
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Negli ultimi anni sta emergendo interesse riguardo il possibile utilizzo di cellule staminali nella
cura delle malattie neurodegenerative. Sono stati ipotizzati l’impianto intracerebrale, al fine di
reintegrare i neuroni danneggiati; o l’induzione a far proliferare cellule staminali adulte, già presenti
a livello cerebrale, per differenziarsi in neuroni, mediante la somministrazione di fattori di crescita.
I disturbi cognitivi possono essere molto diversi nelle varie fasi della malattia e variare da un
disturbo dell’umore, a vere e proprie psicosi, con deliri, allucinazioni e turbe del comportamento.
Questi disturbi sono uno dei motivi di peggioramento della qualità di vita anche dei parenti del
malato e spesso, determinano l’istituzionalizzazione del demente.
Non tutti i disturbi non cognitivi sono sensibili ai farmaci e comunque nessun farmaco possiede
una indicazione specifica per il trattamento di tutte queste manifestazioni. Sono ad esempio poco
responsivi alla terapia disturbi come i comportamenti ripetitivi non aggressivi ed i vagabondaggio
afinalistico. Sono invece spesso sensibili ai farmaci: l’insonnia, i sintomi depressivi, l’ansia,
l’aggressività, i deliri paranoidei e le allucinazioni. Per il trattamento di questi ultimi si impiegano i
neurolettici. Tra questi, è bene dare la preferenza a quelli di ultima generazione, a più basso rischio
per la comparsa di effetti extra-piramidali.
Ovviamente, l’uso dei farmaci dovrà avvenire sotto stretto controllo medico e integrato
all’interno di un programma coordinato di interventi socio-assistenziali.
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CAPITOLO TERZO
TUTELA DEL MALATO DI DEMENZA: ASPETTI AMMINISTRATIVI
CONNESSI CON L’AVANZAMENTO DELLA MALATTIA
L’orientamento attuale è quello d’informare sempre più spesso la persona della diagnosi di
demenza che lo riguarda. Questo è forse dovuto ad una maggiore consapevolezza della malattia. Si
ritiene comunque che ogni persona debba vere il diritto di scegliere se e quando essere informata.
In molti casi, si arriva alla diagnosi in seguito a preoccupazioni espresse dai familiare, sovente
la persona malata non si rende conto di avere dei problemi e non condivide le osservazioni dei
familiari, perciò non ha alcun interesse a chiedere una diagnosi. In alcuni casi vi può essere una
reazione depressiva alla notizia, ma sapere di essere affetti da demenza e capire che cosa essa
comporti presenta, tuttavia, notevoli vantaggi; quando una persona sa, può programmare come
passare al meglio gli anni di relativo buon funzionamento mentale che gli rimangono, può anche
avere un ruolo attivo nel programmare la propria assistenza, stabilire chi dovrà prendersi cura di lei
e prendere importanti decisioni finanziarie.
Considerare l’aspetto familiare è indispensabile visto che la gran parte di malati vive per tutto il
decorso della malattia nella propria famiglia. Infatti, quest’ultima rappresenta il punto di riferimento
assistenziale sia per il supporto affettivo che quello economico. Sarebbe importante che il medico
fosse in grado di adeguare la spiegazione al grado di comprensione del malato e della sua famiglia,
come di prospettare eventuali soluzioni dei problemi, infatti, una volta informata, sia la persona
affetta da demenza che i familiari possono aver bisogno di aiuto per convivere con i propri
sentimenti di rabbia, paura, colpa, frustrazione e depressione. In alcuni casi può essere utile la
partecipazione a gruppi di supporto ed auto-aiuto.
Quando si è impegnati nell’assistenza, è importante essere consapevoli dei propri limiti. Anche
se ci impegniamo a fondo con tutta la nostra volontà a volte non riusciamo a garantire l’assistenza
che vorremmo, per motivi di salute, difficoltà organizzative e finanziarie. Alcuni di questi ostacoli
sono superabili se si riesce ad integrare l’assistenza a domicilio con quella fornita dai servizi esterni
poiché negli ultimi stadi della malattia è probabile che il paziente abbia bisogno di cure che soltanto
persone preparate professionalmente gli possono dare, all’interno di una clinica per lungo degenti o
in una casa di riposo. La decisione di affidare ad una struttura il malato è estremamente difficile da
prendere, tuttavia, se avremo discusso questo argomento con il paziente e la sua famiglia già
all’inizio della malattia, la decisione sarà molto più facile. Il malato potrebbe anche aiutarci in
questa decisione scrivendo, all’inizio della malattia, quando le sue capacità intellettive sono ancora
integre, una disposizione di volontà in cui specifica ogni suo desiderio circa le future cure mediche
a cui verrà sottoposto.
La demenza determina un notevole impatto sul sistema socio-economico delle famiglie colpite;
è importante sottolineare che ciò riguarda sia la persona che si ammala quando è ancora in un fase
produttiva della sua vita lavorativa ed è costretta ad un prepensionamento sia i componenti del
nucleo familiare.
Per fronteggiare tali problematiche è opportuno il coinvolgimento anche della rete istituzionale
dei servizi, ed in particolare la figura dell’assistente sociale, la quale opera in qualità di traitd’union tra le istituzioni e il paziente.
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3.1 L’accertamento delle minorazioni civili
Le persone affette da demenza possono ottenere alcuni benefici a condizione che abbiano
ottenuto il riconoscimento del loro handicap o della loro invalidità. L’invalidità è la difficoltà a
svolgere alcune funzioni tipiche della vita quotidiana o di relazione, a causa di una menomazione o
di un deficit psichico o intellettivo, della vista o dell’udito.
La famiglia del malato può rivolgersi al Comune per i benefici non sanitari (es: contrassegno
per il posto auto, ecc..) e alla ASL di riferimento per il riconoscimento di detta invalidità e per gli
ausili previsti dalla legge. Va sottolineato che il riconoscimento dell’invalidità civile è vincolante
per ottenere le agevolazioni previste in questi casi; infatti il verbale attestante l’invalidità deve
essere allegato a qualunque richiesta per l’ottenimento dei benefici.
In linea generale l’invalidità civile viene definita in percentuale e riconosciuta da una
commissione composta da un medico specialista in medicina legale che funge da presidente e da
due medici di cui uno esperto in medicina del lavoro. La richiesta di riconoscimento d’invalidità va
presenta dall’interessato o da chi lo rappresenta legalmente (tutore o curatore) alla commissione
dell’ASL di residenza dopo aver compilato un modulo specifico (vedi allegato).
Alla domanda bisogna allegare una certificazione medica che riporti la diagnosi e la tipologia
della menomazione. L’iter di riconoscimento deve concludersi entro nove mesi dalla presentazione
della domanda; entro tre mesi dalla presentazione la commissione deve fissare la data di
convocazione a visita. La commissione può, in corso di visita, richiedere ulteriori accertamenti
clinici specialistici.
In seguito alla visita, la commissione ASL trasmette l’esito alla commissione di Verifica che lo
convalida o meno. La commissione di verifica ha tempo sessanta giorni per richiedere la
sospensione della procedura, dopodiché vige il principio del silenzio assenso.
Rispetto all’iter di accertamento e all’erogazione dei relativi benefici economici, si possono
individuare tre fasi: quello dell’accertamento, quello della concessione della provvidenza ed infine
quello dell’erogazione della stessa (affidato all’INPS dall’anno 2000).
I benefici economici riconosciuti decorrono dal mese successivo alla data di presentazione della
domanda di accertamento all’ASL.
Nel caso la commissione medica non fissi la visita di accertamento entro tre mesi, l’interessato
può presentare una diffida all’assessorato regionale competente che provvederà a fissarla entro il
termine massimo di 270 giorni; se questo non accade si può ricorrere al giudice ordinario.
Chi ha ottenuto il riconoscimento dell’invalidità civile ma non ha ottenuto l’indennità di
accompagnamento, può presentare un’ulteriore richiesta di aggravamento dopo aver compilato un
modulo disponibile presso la propria ASL. A questo va allegato un certificato medico che precisi
che la disabilità è aggravata o che si sono presentate nuove menomazioni.
3.2 Permessi lavorativi
L’art. 33 della legge 5-02-1992 n. 104, legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate, prevede una serie di agevolazioni per i familiari di persone con
handicap in forma grave.
Ai sensi dell’art. 3 della legge si deve considerare handicappata la persona che presenta una
minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di
apprendimento, di relazione o d’integrazione lavorativa tale da determinare un processo di
svantaggio sociale o di emarginazione. Se la minorazione ha ridotto l’autonomia personale in modo
tale da rendere necessaria un’assistenza permanente, continuativa e globale, la situazione di
handicap si connota come grave.
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La valutazione dell’handicap viene effettuata dalla commissione medica di prima istanza per
l’accertamento degli stati d’invalidità civile presso l’ASL; alla commissione viene aggiunto un
operatore sociale ed un medico specialista nella patologia da esaminare.
L’agevolazione più importante prevista dalla legge è la possibilità per il lavoratore dipendente,
che sia coniuge o parente o affine entro il terzo grado ( es. cognato, suocero, ecc.), di fruire di 3
giorni mensili di permesso retribuito dal lavoro. Per poterne fruire non è più necessario, come lo era
precedentemente, il requisito della convivenza nello stesso nucleo familiare, è però necessario, che
il familiare in questione garantisca la continuità e l’esclusività dell’assistenza (circolare INPS n.
133/2000).
Ciò significa:
- che il familiare possa effettivamente prestare assistenza per le necessità quotidiane del parente
(non è quindi individuabile la continuità di assistenza nel caso di un oggettiva lontananza delle
abitazioni, che va valutata in termini temporali);
- che deve essere l’unico soggetto che presta l’assistenza (in altre parole se vi è altro convivente
non lavoratore ed in grado di fornire assistenza o lavoratore che goda di analogo permesso, il
permesso non spetta).
I motivi che rendono impossibile l’assistenza da parte del familiare convivente non lavoratore e che
quindi consentono la concessione dei permessi ad altro familiare sono:
- invalidità totale o superiore a due terzi;
- età inferiore a 18 anni;
- grave malattia valutata dal medico INPS;
- presenza in famiglia di un bambino con meno di sei anni;
- mancanza della patente di guida.
I permessi sono giornalieri, fruibili a scelta in maniera continuativa o frazionata anche in ore e non
cumulabili da un mese all’altro. Chi è interessato a fruire di detti permessi deve presentare all’INPS
e in copia al datore di lavoro, l’apposita domanda sul modulo già predisposto indicando i periodi
prescelti e le modalità allegando l’attestazione della commissione della situazione di grave handicap.
L’art. 32 della legge prevede anche agevolazioni fiscali per le spese mediche e di assistenza
deducibili dal reddito complessivo del contribuente.
Sono deducili le spese relative a:
- all’assistenza infermieristica e riabilitativa;
- all’assistenza di base o di operatore tecnico assistenziale dedicato all’assistenza della persona;
- al personale con qualifica di educatore professionale o di attività di animazione e terapia
occupazionale;
- prestazioni chirurgiche;
- prestazioni specialistiche;
- esami, indagini radioscopiche;
- acquisto di medicinali e importi dei ticket pagati se le spese sono state sostenute nell’ambito del
SSN.
La spesa per i ticket deve essere documentata dalla fotocopia della ricetta del medico corredata
dallo scontrino fiscale della farmacia; per i medicinali acquistabili senza prescrizione il contribuente
deve conservare comunque lo scontrino; in alternativa alla prescrizione medica, si può fare richiesta
di una autocertificazione attestante la necessità dell’avvenuto acquisto dei medicinali nel corso
dell’anno. Tale documentazione deve essere conservata o trasmessa a richiesta degli uffici
finanziari.
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3.3 Circolazione e sosta
Per le persone invalide con capacità di deambulazione ridotta è possibile ottenere, previa visita
medica che attesti tale condizione, il cosiddetto contrassegno invalidi o contrassegno arancione (art.
381 del DPR 16/12/1992 n. 495).
Per il rilascio l’interessato deve rivolgersi alla propria ASL e farsi rilasciare dall’ufficio medico
legale la certificazione medica che attesti la capacità di deambulare ridotta. Una volta ottenuto si
dovrà presentare richiesta al sindaco del comune per il rilascio allegando il certificato dell’ASL.
Il contrassegno ha validità quinquennale.
3.4 Problemi legali
La demenza pone il problema di garantire sia la salute del paziente, sia il sostegno quotidiano
alle attività che egli non può più compiere da solo; infatti chi è affetto da tale patologia non si trova
sempre nelle condizioni cognitive tali da poter esprimere un pieno consenso ad un atto sanitario (es.
inizio di una nuova terapia, accertamento diagnostico, intervento chirurgico, ecc.) e quindi di
provvedere adeguatamente in modo autonomo alla cura della propria persona e dei propri interessi.
Ciò coinvolge inoltre anche la capacità necessaria per il compimento di atti giuridici, a
cominciare dai più impegnativi (una compra-vendita) fino a quelli più semplici (un prelievo in
banca). Il malato e la sua famiglia dovranno quindi essere messi a conoscenza di questa eventualità
e sulla possibilità di nominare una persona che può intervenire in sua vece per tutelarlo.
Il soggetto viene così a trovarsi nel cosiddetto stato di incapacità d’intendere e o volere. La
capacità d’intendere è l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore morale e giuridico delle
proprie azioni; la capacità d volere è invece l’attitudine ad auto-determinarsi per il raggiungimento
di uno scopo. Questa situazione d’incapacità viene definita dall’ordinamento giuridico come
incapacità naturale, oppure come incapacità legale: questa ultima si distingue tra interdizione ed
inabilitazione.
In altre parole lo stesso soggetto, nella stessa posizione può trovarsi in uno stato di incapacità
naturale o legale, a seconda che il proprio stato d’incapacità sia stato riconosciuto o meno con una
sentenza di interdizione o di inabilitazione. La disciplina legale per queste due ipotesi è abbastanza
diversa. In campo di diritto penale, il soggetto che è incapace di intendere o di volere, se commette
reati, non è imputabile e quindi non può essere punito. Un malato di demenza giunto ad uno stadio
avanzato della patologia non ha né l’una né l’altra capacità, e quindi, penalmente, non sarà
imputabile. Non occorre che ci sia stata previamente l’interdizione o l’inabilitazione, poiché nel
momento in cui si svolgerà il processo penale, il giudice dovrà accertare che quando il fatto è stato
commesso, il soggetto non aveva né la capacità di intendere né di volere. In ambito di diritto civile,
cioè in materia di risarcimento di danno e di manifestazione della volontà, la situazione si presenta
più articolata. Per il risarcimento del danno provocato dall’incapace a terzi risponde colui che è
tenuto o per libera scelta o per vincolo giuridico, a sorvegliare l’incapace (es: il familiare,
l’infermiere), a meno che dimostri di non avere potuto impedire il fatto, pur avendo adottato tutte le
misure possibili. Ciò vuol dire che il malato affetto da demenza, in stato di incapacità naturale di
intendere e/o volere commette un fatto che lo obbligherebbe a risarcire un danno (es: poniamo che il
paziente si trovi su una terrazza con un vaso in mano e questo gli cada e vada a rompere un braccio
ad un passante di sotto), il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sua cura e sorveglianza; salvo
che questo provi di non avere potuto impedire il fatto. Quindi chi deve sorvegliare il soggetto
incapace risponde per il risarcimento del danno, sia il familiare, infermiere o maestro (è una norma
valida anche per i minorenni), salvo che riescano a dimostrare di non avere potuto impedire il fatto,
pur avendo svolto il loro compito di sorveglianza con la massima diligenza possibile. È previsto,
inoltre, che nel caso il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla
sorveglianza, il giudice, tenuto conto delle condizioni economiche delle parti, può condannare
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l’incapace stesso, autore del danno, ad un equo indennizzo, ossia, non lo condannerà a risarcire il
danno per intero, ma al versamento di un’indennità forfettaria commisurata alla situazione
patrimoniale del danneggiante e del danneggiato.
Quanto alla manifestazione della volontà, vige la regola che gli atti giuridici posti in essere
dall’incapace sono annullabili solo se si dimostra che il soggetto era effettivamente incapace di
intendere e/o volere quando ha compiuto l’atto, non rendendosi conto di quello che faceva e/o delle
conseguenze, ad es. nel caso della conclusione di un contratto, cioè di un accordo tra due parti,
occorre provare oltre all’incapacità, anche di avere subito un pregiudizio e che la controparte ha
approfittato in malafede, della situazione (Art.643 c.p. di Circonvenzione di persone incapaci).
Quindi se tale stato di incapacità naturale non è stato ancora accertato giudizialmente, vige una
generale presunzione di validità degli atti, che va ogni volta superata. Ciò non vale per gli atti
personalissimi come il testamento o il matrimonio che se compiuti in stato di incapacità sono
sempre nulli.
3.5 La procura
A fronte della disciplina esistente in materia, diviene opportuno fin dal momento della prima
diagnosi, anche in forma dubitativa, della demenza, approntare tutti gli strumenti atti a consentire ad
un’altra persona di agire in nome e per conto del malato, mettendolo in grado di effettuare in sua
vece pagamenti, riscossioni, ed altri atti di disposizione che egli potrà non riuscire ad effettuare. Ciò
sarà tanto più necessario se la malattia investe il soggetto economicamente attivo della famiglia.
Il mezzo tecnico con cui si interverrà sarà diverso a seconda della sussistenza o meno dello stato
di incapacità di intendere e/o volere del soggetto.
Fin tanto che la condizione mentale del paziente non è ancora compromessa dal decorso della
malattia, questi può attribuire ad altro/i il potere di farsi rappresentare, mediante un negozio
unilaterale denominato procura.
La procura non può venire rilasciata da un soggetto che si trovi in stato di incapacità di
intendere e/o volere poiché, in tal caso, la procura sarebbe invalida e, volendola formalizzare sotto
forma di atto pubblico, il notaio si rifiuterebbe doverosamente di stipularla. La procura può essere
speciale o generale. È speciale se concerne uno o più affari specificatamente determinati, anche se
nel caso di persone affette da demenza, diviene opportuno che la procura sia generale. È ovvio che
la persona debba avere il massimo della fiducia nel suo rappresentante, il quale diviene il suo
sostituto con poteri che possono essere anche molto estesi. Ovviamente, non basta una procura
generale perché il rappresentante possa fare tutto quello che avrebbe potuto fare il malato. Ci sono,
infatti, degli atti denominati genericamente di straordinaria amministrazione che sono compresi nel
potere di rappresentanza solo se specificati nel contenuto della procura. Solitamente i notai
dispongono di testi base in cui sono compresi tutti i poteri delegabili. Alcuni poteri, invece, sono
assolutamente indelegabili ad esempio: il rappresentante non può fare testamento in nome e per
conto del rappresentato. A tale proposito si noti che se il malato non è nel pieno delle sue facoltà
mentali, neanche egli può fare più testamento, per cui il testamento diviene un atto impossibile.
È opportuno che la procura venga formalizzata sotto forma di atto pubblico poiché, in tal modo,
consente di attribuire al rappresentante anche poteri di straordinaria amministrazione, come la
vendita di un immobile e da altresì maggiore tranquillità sulla sua validità nei confronti dei terzi
verso i quali è utilizzata.
La procura può essere data a una o più persone, in quest’ultimo caso il rappresentato dovrà
specificare se questi possano agire congiuntamente tra loro o anche operare in modo indipendente
tra loro.
Nel caso in cui il malato sia sposato in regime di comunione legale dei beni (ciò che si verifica
quando non vi sia stata una dichiarazione espressamente contraria), è opportuno che la procura
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generale non venga data all’altro coniuge, poiché è opinione diffusa che tale procura sarebbe nulla
in quanto elusiva delle norme inderogabili previste nel codice civile per l’amministrazione paritaria
dei beni comuni. A seguito di ciò, la procedura che viene adottata preferibilmente è quella di dare la
procura ad un altro soggetto di cui si abbia massima fiducia (ad es. un figlio) e sciogliere la
comunione legale adottando il regime di separazione dei beni e solo dopo conferire il potere di
rappresentanza al coniuge.
Una volta che la procura è stata data, essa rimane valida anche se il malato diviene incapace di
intendere e/o volere fino a quando, eventualmente, tale stato di incapacità naturale non venga
riconosciuto legalmente dall’Autorità Giudiziaria mediante un procedimento di interdizione o
inabilitazione. É in ogni caso sempre revocabile dal rappresentato e rinunciabile dal rappresentante.
Va notato che la procura consente di esercitare i diritti del malato in nome e per suo conto, ma
non impedisce che egli agisca per conto proprio e permane sempre il rischio che l’infermo compia
atti dissennati con eventuale grave pregiudizio economico per sé e la sua famiglia. A tale riguardo, è
opportuno sottolineare che in base al nostro codice civile non è facile fare annullare gli atti giuridici
compiuti da persona in stato di incapacità, se questo non viene accertato giudizialmente,
indipendentemente dal fatto che questa persona abbia conferito ad altri, mediante procura, il potere
di rappresentarla.
3.6 Interdizione e Inabilitazione
Se il malato ha già perso le proprie facoltà mentali e non è più in grado di provvedere ai propri
interessi, i familiari (dal coniuge non legalmente separato, ai cugini, suoceri, cognati) o il Pubblico
Ministero possono chiedere al Tribunale che dichiari l’interdizione della persona.
L’interdizione è una misura giudiziale prevista nell’interesse del soggetto incapace di intendere
e/o volere a causa di un’ infermità di mente (condizione in cui spesso viene a trovarsi un malato di
demenza con il progredire della patologia) e che lo priva della capacità giuridica, attribuendo ad
un’altra persona, definita tutore, il potere di agire in nome e per suo conto (Art.414 c.c.)
Il giudizio medico-legale in riferimento alle valutazioni in merito all’interdizione ed
inabilitazione deve basarsi sull’accertamento di tre requisiti base: il riscontro di un’infermità, il
carattere di abitualità ed attualità della stessa e la conseguente incapacità di provvedere ai propri
interessi. È opportuno specificare che nel campo della medicina, ed in particolare della
psicopatologia forense, il termine infermità assume una dimensione più ampia rispetto a quello di
malattia. Mentre la nozione di malattia è caratterizzata dalla presenza di disturbi funzionali
apprezzabili, dalla processualità e dalla possibilità di interventi terapeutici, l’infermità fa
riferimento a quei modi dell’essere psichico che non rappresentano semplici divergenze dalla norma
statistica ed ancora compatibili con lo stato di salute, ma che si ripercuotono negativamente
sull’economia vitale (Semerari, Citterio, 1974). Ai fini di una valutazione medico-legale
dell’infermità è opportuno utilizzare un approccio metodologico volto a rilevare non solo la
presenza di una malattia o di un’infermità, ma tendente a cogliere la soggettività ed i vissuti della
persona in relazione a sé stesso, agli altri, alla gestione dei propri interessi. Solo mediante tale
approccio sarà possibile valutare se l’incapacità di amministrare i propri interessi sia derivante da
inettitudine o da abitudini di vita (di per sé non rilevanti se non in specifiche fattispecie ai fini
dell’inabilitazione) o sia, al contrario, epifenomenica di una frattura nello stile di vita del soggetto,
conferendo “valore di malattia” all’incapacità. Una volta accertata la presenza di un’infermità è
necessario graduarne la gravità, poiché i provvedimenti saranno diversi. Come si evince dalla
norma, se l’infermità è talmente grave da dare luogo ad un’incapacità totale di provvedere ai propri
interessi, si rende doverosa una sentenza di interdizione, mentre se l’infermità non è così grave da
dare luogo ad una completa ablazione della capacità di agire, ma pur sempre incidente in qualche
misura sulla capacità di attendere ai propri interessi, si procederà all’inabilitazione. La difficoltà
della valutazione sta proprio nella necessità di considerare, ai fini della misura più idonea da
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applicare, non tanto la diversa gravità dell’infermità in sé stessa, quanto in relazione all’incidenza
negativa sulla capacità di amministrare i propri interessi, per cui, il confine tra le due procedure
diviene particolarmente sfumato poiché viene a dipendere sostanzialmente dall’estensione degli
interessi da tutelare. D’altra parte, non è detto che un soggetto perché affetto da un’infermità più o
meno grave, sia automaticamente incapace di amministrare i propri interessi e ciò rende opportuna
una valutazione integrata e multidimensionale.
Per quanto attiene l’abitualità, questa deve essere valutata sempre alla luce di un corretto
bilancio costi-benefici, secondo un criterio cronologico che si basa su dati storico-documentali,
anamnestici ed è volta ad accertare che l’infermità in atto non sia uno stati transitorio e come tale,
destinato ad una restitutio ad integrum anche grazie ad interventi terapeutici, ma sia una condizione
abituale del soggetto e dove il suo psichismo sia dominato da disturbi psicopatologici che incidono
negativamente sulla sua vita di relazione (Fornari et al, 1993). Questo non si identifica
necessariamente con i concetti di permanenza o di inguaribilità, né che debbano essere esclusi
periodi di “intervallo lucido”, ma che questi non debbano essere prevalenti rispetto ai momenti di
malattia.
Per l’accertamento dell’attualità, ci si dovrà basare solo sullo stato psichico attuale della persona
e non sull’eventualità di un peggioramento futuro, per cui non assumeranno alcuna rilevanza
precedenti valutazioni o certificazioni, pregressi ricoveri psichiatrici o terapie psico-farmacologiche,
se non ai fini di una migliore definizione delle misure da adottare e della verifica del requisito
dell’abitualità. Quanto al contestuale parametro di riferimento, ovvero all’incidenza sulla capacità
di provvedere ai propri interessi, la giurisprudenza ritiene che ai fini dell’interdizione sia sufficiente
l’esistenza di un pericolo attuale di danno desunto dalla natura del disturbo psichico e delle sue
conseguenti manifestazioni. Per quanto riguarda la tipologia di interessi, occorre rilevare che
attualmente, di contro ai precedenti orientamenti che davano esclusiva rilevanza agli interessi
patrimoniali, si è concordi nel conferire un significato più ampio al termine “interessi”,
comprendendovi non solo quelli economici, ma anche quelli che attengono alla cura della persona
ed all’adempimento dei doveri familiari e civili. Per cui, ai fini dell’attuazione di un provvedimento
giuridico, sarà doveroso valutare l’incidenza dell’infermità non solo relativamente alla capacità di
gestire i propri affari e patrimonio, ma considerare l’idoneità della persona a prendersi cura di sé
stesso (assumendo le necessarie terapie, nutrendosi adeguatamente, vivendo in ambienti non
pericolosi ed igienicamente idonei, ecc...) e ad assolvere agli obblighi di vita familiare e sociorelazionale.
É da sottolineare come la misura dell’interdizione tuteli l’incapace in modo estremamente rigido
e pressoché limitato, in pratica, alla gestione e conservazione del suo patrimonio e che non lascia a
questi la possibilità di agire in quegli spazi che eventuali capacità residue ancora gli possono
consentire. Essa priva di effetto qualsiasi atto giuridico compiuto dal malato che viene a trovarsi in
una situazione di incapacità legale identica a quella in cui versa un minorenne, di modo che tutti gli
atti compiuti dalla persona sono annullabili. Per suo conto ed in suo nome agisce un tutore, quale
rappresentante legale, nominato dal giudice ed autorizzato a compiere tutti gli atti necessari
nell’interesse dell’incapace, con necessità di autorizzazione del Tribunale solo per gli atti di
straordinaria amministrazione, cioè quelli più importanti (es: vendita di un immobile). Può invece
svolgere autonomamente tutti gli atti di ordinaria amministrazione. Alcuni atti, cosiddetti
personalissimi (fare testamento, matrimonio), non possono essere compiuti dal tutore, neanche se
autorizzato.
L’interdizione viene pronunciata in seguito ad una apposita procedura presso il Tribunale del
luogo di residenza o domicilio dell’infermo su istanza del coniuge, di un parente entro il quarto
grado o di un affine entro il secondo, oppure su iniziativa del PM che sia venuto a conoscenza di
una situazione di incapacità. Nel caso che non sia il PM a promuovere d’ufficio la domanda di
interdizione, essa va presentata con la necessaria presenza di un avvocato.
Momento essenziale del procedimento è l’esame personale dell’infermo che il giudice deve
obbligatoriamente compiere, tanto che se l’interdicendo non è in grado di recarsi o di essere
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trasportato in Tribunale, è il giudice che deve andare al suo domicilio, anche se si trova fuori dalla
sua circoscrizione.
Congiuntamente ad un tutore viene nominato un protutore che ha il compito di tutelare
l’incapace nel caso in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore. Il tutore
viene scelto discrezionalmente dal Tribunale, che tende a preferire, di norma, un familiare, primo
tra tutti il coniuge; se nessuno di questi sia disponibile o se vi siano motivi che sconsiglino la
nomina, verrà nominato un soggetto terzo. Il compito del tutore è di norma gratuito, solo in casi
particolari di difficoltà di amministrazione, il giudice tutelare può assegnare un’indennità, tenuto
conto dell’entità del patrimonio. Il tutore deve prestare giuramento avanti al giudice, di esercitare
l’ufficio con fedeltà e diligenza e procedere con il cancelliere della pretura o di un notaio,
all’inventario dei beni del malato. Nel corso dell’incarico deve annualmente presentare al giudice
un rendiconto delle entrate ed uscite del patrimonio. La sentenza di interdizione viene annotata in
un apposito registro pubblico e comunicata anche ad un ufficiale di stato civile perché venga
segnata a margine dell’atto di nascita con il fine di rendere conoscibile a chiunque tale
provvedimento.
Se lo stato di infermità non è così grave da dare luogo all’interdizione, il Tribunale dichiara la
sentenza di inabilitazione, che comporta un’incapacità legale relativa ai soli atti di straordinaria
amministrazione e che impone l’assistenza di un curatore, a pena in contrario di annullabilità. È
stato sottolineato come “gli istituti di protezione degli incapaci, tra cui rientra anche
l’inabilitazione, devono contemperare le esigenze di libertà del soggetto ed il rispetto della sua
dignità, con la necessità di protezione stessa”(Trib. di Catania – 5 giugno 1985 in Riv.it. Med. leg.,
9, 1987).
3.7 Amministratore di sostegno
Il 17 marzo 2004 è entrata in vigore la legge 9 gennaio 2004 n.6 la quale ha introdotto nel
codice civile un nuovo istituto di protezione civilistica degli infermi di mente, denominato
amministrazione di sostegno (artt.404-413cod.civ.) La finalità del provvedimento consiste “nella
tutela, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, delle persone prive in tutto o in
parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di
sostegno temporaneo o permanente” (Art.1).
Le misure, diventate tre, hanno effetti diversi sulla capacità di agire.
1. Nell’amministratore di sostegno la persona menomata o inferma viene sostituita nel
compimento di determinati atti e assistita nel compimento di altri da un amministratore, mentre
conserva la capacità di agire per tutti gli altri atti (art.405, comma 5, cod. civ.).
2. Nell’interdizione la persona abitualmente inferma di mente è sostituita da un tutore nel
compimento degli atti che la concernono, con l’eccezione degli atti di ordinaria amministrazione
che sia stata autorizzata a compiere senza l’intervento o con l’assistenza del tutore (art.427, comma
1, cod. civ.).
3. Nell’inabilitazione la persona soggetta non può compiere senza l’assistenza di un curatore
gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ma può essere autorizzata a compiere alcuni atti senza
tale assistenza (art.427, comma 1, cod. civ.).
Pertanto il beneficiario, nell’amministrazione di sostegno, conserva una generale capacità di
agire, meno che per gli atti per i quali un giudice ha deciso che debbano essere compiuti con la
rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore, mentre il beneficiario dell’interdizione
o dell’inabilitazione ha una capacità di agire annullata o ridotta, salvo per gli atti permessi da un
giudice.
È una legge molto attesa, poiché fino a tale momento, il nostro ordinamento prevedeva solo i
due istituti dell’interdizione ed inabilitazione (artt.414-433 cod. civ.), a tutela delle persone incapaci
di agire. Procedure, che oltre ad essere lunghe e dispendiose, si ponevano come sovradimensionate
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rispetto alle effettive esigenze di protezione e tutela della persona, determinando una situazione di
generale incapacità o semi-incapacità del soggetto. Del resto, tali istituti erano stati pensati per le
persone in condizione di abituale infermità di mente ed incapaci di provvedere ai propri interessi,
mentre nessun strumento di tutela era previsto per coloro che sono in grado di auto-determinarsi, ma
solo in difficoltà nel gestire i piccoli ostacoli della vita quotidiana, con la gravissima conseguenza
che le situazioni di menomazione meno precarie ricadevano, non senza forzature, o nel regime
dell’interdizione o dell’inabilitazione, o non ricevevano alcuna protezione giuridica. Inoltre, la
generale privazione della capacità di agire portata dall’interdizione, anche rispetto a quelle attività
che la persona poteva continuare a svolgere, non appariva rispondete alle nuove forme curative
trattamentali che puntano a recuperare e potenziare le capacità residue dell’infermo di mente.
Parallelamente queste misure venivano avvertite come dolorose e addirittura rifiutate per l’etichetta
che attribuivano agli interessati e che in qualche modo, ricadeva anche sulle loro famiglie.
Le linee della nuova disciplina rispondono alle moderne concezioni di trattamento delle persone
disabili. Dall’obiettivo della privazione dei diritti, riducendo l’interdetto ad una “non persona”,si
passa a dare alla persona un sostegno nelle sue disabilità e a riconoscere le sue capacità residue.
Tale legge, viene ad introdurre un sistema flessibile, fondato su un progetto personalizzato e
modificabile ogni qual volta l’interesse del beneficiario lo richieda e commisurata ai singoli casi di
incapacità. L’amministratore di sostegno ha la maggiore flessibilità perché consente di ritagliare un
vestito disegnato secondo le esigenza della singola persona, offrendole delle aree e dei momenti di
protezione, come e quando si rivela necessario, senza mai arrivare ad una totale esclusione della sua
capacità di agire. L’amministrazione di sostegno tende a spostare l’attenzione, quindi da ragioni di
conservazione del patrimonio della persona, alla tutela ed alla protezione di quest’ultima. Si allarga,
poi, l’area dei beneficiari. Essi non sono solo le persone in condizione abituale di infermità di mente,
ma anche tutti coloro che effetto di un’infermità, ovvero, di una menomazione fisica o psichica,
sono privi in tutto o in parte di autonomia nello svolgimento delle funzioni di vita quotidiana.
Tale legge, inoltre, introduce delle aperture anche nei confronti dei precedenti procedimenti che,
d’ora in poi, non sono più obbligatorie ed automatiche, seppur sempre pronunciabili, qualora non si
ritenga opportuno procedere con l’amministrazione di sostegno. Infatti, nella scelta delle misure e
nella determinazione dei contenuti, ci si deve prefiggere “la minore limitazione possibile della
capacità di agire”(art. 1 legge n.6/2004) assicurando una invasività limitata alle reali necessità della
persona. Esse si attivano quando sono necessarie per assicurare ad un disabile una protezione di
fronte ad un danno attuale o temuto, preferendo la misura più leggera e sufficiente a garantire tale
tutela. Perciò non si deve sottoporre ad una misura di protezione chi, affetto da una menomazione o
un’infermità che gli impedisce di provvedere a sé stesso, è già protetto perché è seguito e curato dai
suoi famigliari e non è necessario che a sia attivata una rappresentanza sostitutiva.
Significativo, a tal proposito, è il cambiamento della rubrica del Titolo XII del cod. civ. che
prima recitava “Dell’infermità di mente dell’interdizione e dell’inabilitazione”. Adesso la nuova
rubrica si intitola “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”.
In questo senso debbono essere lette le disposizioni che la persona può ( e non deve) essere
assistita da un amministratore di sostegno (art.404) e che le persone possono (e non devono) essere
interdette (art.414) o inabilitate (art.415), quando ciò è necessario per assicurare loro adeguata
protezione.
Inoltre, l’Art.427 c.c. -primo comma-, nella sua nuova formulazione, prevede che anche
l’interdetto possa oggi compiere alcuni atti di ordinaria amministrazione da solo o con l’assistenza
del tutore e l’inabilitato possa compiere alcuni atti di straordinaria amministrazione senza
l’assistenza del curatore. Si vuole evitare anche, con una nuova terminologia, che la soggezione alle
misure sia avvertita come un marchio negativo che produce sofferenza nei beneficiari e nei loro
famigliari. La rubrica del titolo XII del libro primo del cod. civ., che contiene la materia, parla,
infatti, di “misure di protezione” e di “persone prive in tutto o in parte di autonomia”; i nomi
“amministratore o amministrazione” hanno un significato neutro, che non definisce negativamente
il beneficiario mentre il termine “sostegno” evidenzia la finalità positiva di aiuto alla persona.
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Purtroppo sono rimasti i vocaboli: interdizione ed inabilitazione, che conservano un senso comune
di annullamento o limitazione della capacità di agire. Ciò, comunque, da un segno tangibile di
quanto sia cambiata l’immagine sociale e quindi giuridica delle persone con disabilità.
È importante fare alcune specifiche. Anche nel caso di persona che versi in condizione abituale
di infermità, se prima della riforma doveva essere interdetta, oggi invece si deve scegliere tra questa
e l’amministrazione di sostegno (che può applicarsi a chiunque si trovi in uno stato di infermità o di
menomazione psichica anche assoluta e grave), le cui aree risultano sovrapponibili. L’interdizione è
infatti necessaria non tanto quando la capacità del soggetto sia del tutto assente, ma quando di tali
capacità viziate il soggetto ne stia facendo un uso che possa essere gravemente pregiudizievole a sé
o ad altri. Quindi l’interdizione non si ravvisa quando il soggetto, ancorché privo del tutto di
capacità intellettive e volitive, mostri di adattarsi alle condizioni e alle modalità di vita consentite
dalla sua infermità, e proposte dai familiari o da chi lo assiste, non esponendosi mai all’esterno, se
non nel rispetto dei canali di protezione eretti intorno a lui. Infatti se non viene mai fuori questa
capacità di agire e se il soggetto non crea danni a sé o per gli altri, non sarà necessario
ufficializzarne l’inesistenza con una pronuncia di interdizione, perché potrà essere assistito anche
con questa nuova figura che agisca in nome e per suo conto. Probabilmente ora, l’amministratore di
sostegno andrà a coprire anche un ampio numero di casi che prima ricadevano all’interno
dell’inabilitazione. Ci si riferisce a tutte quelle situazioni in cui la malattia psichica incide solo in
parte sulle capacità intellettive e volitive del soggetto, con residui di autonomia gestionale più o
meno estesa. Probabilmente quindi, l’inabilitazione è destinata a scomparire perché quasi sempre si
potrà ricorrere alla più leggera figura dell’amministratore di sostegno. Potrebbe magari rimanere
tale misura per la condotta di prodigalità.
3.8 I contenuti ed il procedimento di nomina
Può giovarsi dell’amministratore di sostegno “la persona che, a causa di un’infermità o di una
menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di
provvedere alla cura dei propri interessi” (Art.3 Capo 1). I suoi presupposti sono due: la malattia o
la menomazione e l’impossibilità conseguente a tale stato, di provvedere ai propri interessi.
Ciascuno dei presupposti, da solo, non è sufficiente, e il primo deve essere causa del secondo.
L’infermità consiste in una compromissione del normale stato funzionale dell’organismo avente
la più varia natura (vi rientrano i disturbi psicotici e della personalità) e dovuta a diversi fattori
causali (origine genetica, congenita, agenti esterni, da malnutrizione, mancanza di cure, psicogena o
legata alla senescenza, ecc..), mentre la menomazione comprende mutilazioni, lesioni, handicap
fisico o psichico. È essenziale che l’infermità o la menomazione siano di natura e portata tale da
compromettere temporaneamente o in via definitiva, parzialmente o totalmente, l’autonomia della
persona nel provvedere ai propri interessi, rischiando per questo, di recare danno a se stesse o di
essere danneggiate da terzi. Vi rientra quindi un utenza di persone che non possono essere definite
come abituali inferme di mente secondo i criteri usuali di valutazione, ma sono affette da
menomazioni o infermità sul versante psichiatrico, o sono indebolite nella coscienza di sé dall’uso
di alcol o sostanze stupefacenti, con danno alla loro salute e/o i loro interessi. Alcuni esempi
possono indicare la potenzialità della misura, che può applicarsi a persone molto comuni:
- persone semplici che non sanno spendere bene le loro risorse e vengono raggirate;
- persone che vivono in condizioni di isolamento sociale e di deterioramento abitativo che
bisogna rimuovere,destinando delle loro risorse alle esigenze di cura;
- persone deboli che sono incapaci di fare valere i propri diritti (ottenimento di pensioni o
indennità di accompagnamento, riscossioni di affitti, accettazione di eredità, ecc..);
- persone deboli mentali o fragili psicologicamente che hanno bisogno di qualcuno che stia
loro accanto con funzioni terapeutiche o di aiuto a fare e a gestirsi;
- persone in condizioni di salute precarie per le quali appare necessario attribuire
responsabilità di cura ai parenti (ad es. uno dei figli);
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-
sofferenti psichici che hanno bisogno di un’organizzazione delle cure alla propria persona
attraverso una presenza integratrice che spesso è sufficiente per evitare
l’istituzionalizzazione;
- persone con disturbi di personalità, alcol-dipendenti che indirizzano le loro risorse al bere e
non sono capaci di gestirsi e conducono una vita disordinata, o barboni a cui nessuno pensa
e che quasi mai sono interdette.
L’età avanzata, di per sé, non è una menomazione, ma può comportare menomazioni che
incidono sull’autonomia, per cui l’anziano non è più in grado di provvedere a se stesso e ai propri
interessi. L’amministrazione di sostegno può essere, quindi, una protezione efficace per l’anziano
che non pensa alla salute, che si lascia andare (che non ritira la pensione, non si compra il
necessario per mangiare, non pulisce la casa, non paga il canone di locazione o le utenze o le tasse
con il conseguente sfratto per morosità o interruzione delle utenze, o rischia di fare saltare in aria
l’alloggio perché si dimentica il gas aperto, ecc…) o che ha bisogno di assistenza nella gestione del
patrimonio per non diventare vittima di raggiri. Seguendo questo criterio, l’amministrazione di
sostegno è largamente idonea ogni volta che una persona deve essere sostituita per pochi e
determinati atti o procedure burocratiche, mentre altri atti, quali l’inabilitazione o l’interdizione non
sono necessari quando è la stessa disabilità che funge da autotutela (es: impedire il matrimonio a chi
è in coma irreversibile o al demente senile in fase molto avanzata) o per designare nel tutore un
rappresentante per tutti gli affari, quando in realtà le attività specifiche e necessarie sono ridotte.
Quindi tale procedura è sufficiente quando in soccorso dell’infermo occorre provvedere alle
seguenti attività:
- riscossioni di pensioni o di assegni, prelievi dai risparmi per pagamenti della retta
dell’ospizio dell’anziano demente;
- lo svolgimento di pratiche per pensioni o assegni di accompagnamento (per fare domande e
compilare moduli specifici);
- la stipula di divisioni ereditarie o di vendite (il notaio si rifiuta di stipulare un atto perché la
persona non gli appare in grado di esprimere una volontà valida), ecc…
L’amministratore di sostegno viene nominato dal giudice tutelare del luogo in cui il beneficiario
risiede o ha domicilio (art. 404 cod. civ.) e qui si nota già una novità rispetto ai procedimenti di
interdizione ed inabilitazione, che sono invece di competenza del Tribunale. I giudici tutelari sono
maggiormente distribuiti sul territorio e quindi più vicini agli interessati.
Il ricorso può essere presentato dal beneficiario stesso in previsione della sua futura incapacità,
anche se interdetto o inabilitato, dal coniuge, dai parenti entro il quarto grado purché maggiorenni
ed affini entro il secondo (cognato) o dal PM (Art.406 c.c.) (vedi modulo allegato). Detto ricorso
deve contenere ai sensi dell’art.407 c.c. le indicazioni relative a:
- generalità del beneficiario;
- dimora abituale del beneficiario;
- ragioni per cui si richiede la nomina;
- nominativo e domicilio del coniuge, dei discendenti, ascendenti, fratelli, conviventi del
beneficiario.
Più in generale il ricorso dovrà contenere tutte le indicazioni utili a fornire al giudice una
fotografia della situazione del beneficiario. Le indicazioni dovranno riguardare l’infermità o la
menomazione, le sue capacità, la situazione familiare, lavorativa e sociale, il rapporto con i servizi,
l’indicazione del possibile amministratore e delle motivazioni alla base della possibile scelta, oltre
che precisazioni sugli atti che l’amministratore dovrà compiere insieme al beneficiario o in sua
rappresentanza. Quanto più il ricorso sarà formulato in modo chiaro e preciso, tanto più il giudice
tutelare riuscirà ad individuare subito quali eventuali accertamenti attivare (ad es. cosa chiedere ai
servizi sociali e sanitari, ai familiari o al beneficiario, quali accertamenti patrimoniali effettuare,
ecc..). Ovviamente, fondamentale è la parte del ricorso che spiega le ragioni per cui si richiede la
nomina, descrivendo puntualmente le condizioni, le esigenze e le necessità urgenti.
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Se il ricorso concerne persona interdetta o inabilitata, questo è presentato congiuntamente
all’istanza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione davanti al giudice competente per
quest’ultime. É possibile che la stessa persona beneficiaria, sapendo di essere affetta da una
patologia degenerativa come la demenza, in previsione della sua futura incapacità, può richiederne
la nomina facendo direttamente istanza al giudice mediante atto pubblico o scrittura privata
autenticata. È inoltre previsto che possano essere amministratori anche le fondazioni ed associazioni
sia dotate che non di personalità giuridica, come molte associazioni di volontariato.
Non possono ricoprire tale funzione gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura
o in carico il beneficiario, al fine di evitare il conflitto di interesse tra chi si prende cura e chi su di
esso deve vigilare. A tale proposito occorre osservare che possono presentarsi due prassi operative:
o escludere completamente la nomina dei servizi che hanno in cura o in carico la persona o
nominare all’interno del servizio, operatori diversi da quelli che stanno direttamente seguendo il
caso, ad esempio un responsabile del servizio deputato esclusivamente ad incarichi di tutele,
curatele, ecc.. Esiste, inoltre, presso i tribunali un apposito albo in cui sono inseriti i nominativi di
persone disponibili a ricevere tali incarichi. Per accedere a tale registro non è richiesta alcuna
professionalità specifica e generalmente sono persone in pensione e che hanno tempo a disposizione
da impiegare per tale tipo di attività, anche se il numero di presenze è attualmente piuttosto scarso.
A Parma l’albo conta di non più di dieci nominativi. Le motivazioni sono da addebitare,
probabilmente, al fatto che l’incarico è gratuito e spesso impegnativo, dovendo provvedere e
sostenere l’infermo nel soddisfacimento di svariati bisogni ed incombenze.
I responsabili dei servizi sociali e sanitari impegnati direttamente nella cura ed assistenza hanno,
peraltro, uno specifico dovere di proposta del ricorso al giudice tutelare, se a conoscenza di fatti tali
da rendere opportuna l’apertura del procedimento o fornire comunque informazione al PM (Art.406
c.c.), e questa legittimazione/dovere è una novità introdotta dalla legge. Per quanto la legge non
preveda una sanzione per la mancata proposizione del ricorso da parte di tali soggetti, è comunque
evidente la sussistenza di una potenziale responsabilità civile o penale dei responsabili delle
strutture di ricovero nel caso di persona non autonoma, sia in relazione all’obbligo di acquisire il
consenso informato1 in caso di cure mediche alla persona degente, sia in riferimento alla gestione di
pensioni o altri introiti o a conseguenza di fatti di circonvenzione di incapace effettuata da terzi ai
suoi danni.
Infatti, una delle problematiche con la quale la figura dell’amministratore di sostegno viene a
trovarsi è quella relativa all’accoglimento della persona anziana in strutture protette. Come è noto il
ricovero permanente in struttura protetta (con conseguente cambio di residenza) non può avvenire
senza il consenso della persona interessata o, quando questo manchi, del rappresentante delegato a
tale decisione. Nel nuovo contesto normativo dovrà essere l’amministratore di sostegno (qualora, è
ovvio, il beneficiario non appaia in grado di formulare autonomamente e consapevolmente la
volontà di essere inserito in modo permanente in struttura) autorizzato a decidere, con il
coinvolgimento, per quanto possibile, prima del malato, poi dei familiari e dei servizi, questa così
rilevante modifica esistenziale delle condizioni di vita. Quanto detto è confermato anche dalla
recente giurisprudenza secondo la quale “la decisione se mantenere o meno in istituto una persona
non in grado di provvedere ai propri interessi spetta all’amministratore di sostegno, che dovrà
decidere, interpretando la volontà dell’assistito per quanto concerne il rientro a casa, sentendo gli
specialisti del caso, anche al fine di valutare le esigenze di natura sanitaria, verificando l’idoneità
dell’alloggio e predisponendo l’organizzazione necessaria per un’adeguata sistemazione
1
L’articolo 32 della Costituzione afferma : “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività... nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione
di legge”. Un intervento senza il consenso dell’avente diritto, viola il principio di libertà della persona, configurandosi
come reato (violenza privata). Esistono patologie evolutive dove la capacità di autodeterminarsi è conservata nelle fasi
iniziali e perduta successivamente. Sarebbe opportuno che il paziente firmi una delega, finché è in grado di decidere,
nominando una persona che rappresenti gli interessi dell’incapace. Infatti, qualora, sia stato nominato un amministratore
di sostegno, il medico deve debitamente informarlo e tenere conto delle sue istanze (Art.37 Codice Deontologico).
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casalinga”(Giudice Tutelare Tribunale di Genova 01/03/2005). È da sottolineare come, in questi
casi, l’oggetto della procedura non sia tanto il rientro a casa della persona, quanto che sussistano i
presupposti per la nomina di un amministratore di sostegno. Perciò, in tali casi non sarà più
necessario procedere alle cosiddette interdizioni sanitarie, pronunciate affinché un tutore dia il
consenso informato al compimento di atti medici rifiutati dall’interessato, o alle interdizioni
assistenziali, rivolte ad obbligare una persona non autonoma a dimorare in ospizi. La liceità di tali
forme coatte di trattamento di un cittadino, anche se interdetto, che non voglia curarsi o rifiuti di
essere istituzionalizzato era ed è molto discutibile. Peraltro, poiché la residua capacità della persona
deve essere in qualche modo considerata, per scelte personalissime come appunto quelle relative
alla salute e alla domiciliarità, la misura più rispettosa ed appropriata in questi casi è la nomina di
un amministratore che informi il beneficiario circa gli atti da compiere, lo senta e tenga conto dei
suoi bisogni e richieste, con possibilità per il beneficiario, di ricorso al giudice tutelare.
Prima di assumere ogni decisione, il giudice tutelare dovrà sentire personalmente la persona
avendo l’obbligo di tenere conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione, dei
bisogni e delle richieste di questa.
Il giudice tutelare provvede entro sessanta giorni dalla data di presentazione della richiesta, alla
nomina dell’amministratore con decreto motivato immediatamente esecutivo (Art.405), dopo avere
sentito personalmente la persona cui il procedimento si riferisce. È importante sottolineare che
qualora se ne ravvisi necessità, anche prima dei sessanta giorni, il giudice tutelare adotterà d’ufficio
i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata, per la conservazione ed
amministrazione del patrimonio. Potrà, inoltre, procedere alla nomina di un amministratore
provvisorio indicando gli atti che è autorizzato a compiere.
Il decreto di nomina deve contenere, oltre alle generalità del beneficiario e dell’amministratore,
la durata dell’incarico, l’oggetto e gli atti che ha il potere di compiere, gli atti che beneficiario può
compiere solamente con l’assistenza dell’amministratore, i limiti periodici delle spese che
l’amministratore può sostenere con l’utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha disponibilità e la
periodicità con cui debba riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e
sociale del beneficiario (vedi allegato).
Tale decreto recante i dati personali dell’amministratore, del beneficiario e del progetto
personalizzato che lo accompagna, deve essere apposto in un registro specifico, di nuova istituzione,
tenuto dal cancelliere ed annotato entro dieci giorni presso i registri di stato civile al fine di
consentire a chiunque voglia contrattare con il beneficiario di conoscere quale sia l’ effettiva
capacità di compiere atti giuridici, sua e dell’amministratore. Ciò garantisce l’interesse alla
sicurezza dei terzi e la validità delle negoziazioni giuridiche. A tutela degli interessi del beneficiario,
l’Art. 412 c.c. stabilisce che gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di legge,
od in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice possono essere
annullati su istanza dell’amministratore stesso, del beneficiario o dei suoi eredi ed aventi causa.
Possono essere annullati, parimenti, gli atti compiuti personalmente dal beneficiario se in
violazione delle disposizioni definite nel decreto di nomina, entro il termine di prescrizione di
cinque anni.
L’Art. 409 è la chiave di svolta della legge, poiché stabilisce che il beneficiario, conserva la
capacità di agire per tutti gli atti che non sono riservati dal giudice, all’amministratore.
Questi interviene quale suo rappresentante per gli atti più pericolosi per il patrimonio (l’acquisto
di un bene, l’assunzione di un ipoteca, la promozione di un procedimento giudiziario). Per quelli di
ordinaria amministrazione, ad es. l’acquisto di beni mobili o la stipula di locazioni inferiori ai nove
anni, interviene nell’atto insieme al beneficiario. In ogni caso il beneficiario può compiere da solo
tutti gli atti “necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana” (Art.409 c.c.), con
evidente tutela della dignità dello stesso. Questa logica di maggiore libertà del beneficiario si
rinviene anche nell’Art.410 del c.c., secondo il quale “nello svolgimento dei suoi compiti,
l’amministratore di sostegno deve tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”,
informandolo sempre circa gli atti da compiere e comunicare con il giudice tutelare in caso di
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dissenso con il beneficiario. In caso di contrasto il giudice tutelare adotterà, con decreto motivato,
gli opportuni provvedimenti.
Il giudice tutelare può, in qualunque momento convocarlo allo scopo di chiedere chiarimenti e
notizie sulla gestione, e dare istruzioni inerenti agli interessi morali e patrimoniali del beneficiario
(Art.44), così come modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte con il decreto di
nomina o procedere alla revoca della misura stessa qualora lo ritenga necessario o procedere
all’interdizione o all’inabilitazione o viceversa. Il giudice tutelare può rigettare con decreto
motivato la richiesta di nomina decidendo altresì di rimettere il fascicolo al PM per la promozione
del giudizio di interdizione o di inabilitazione. In generale, va detto che il PM, di norma, non
interviene nel procedimento di nomina, salvo i casi in cui esista una precedente interdizione o
inabilitazione, per il cui annullamento occorra una sua sentenza.
L’incarico, a meno che non si tratti di un parente o del coniuge, dura dieci anni (Art.410 c.c.).
Va precisato, inoltre, che per attivare la procedura di nomina, non è necessario avvalersi di un
avvocato data la natura di volontaria giurisdizione (a differenza di quanto accade in tema di
interdizione ed inabilitazione).
L’amministratore di sostegno, quindi non agisce in piena autonomia, ma si rapporta
costantemente con il beneficiario, come un soggetto d’aiuto, quasi fosse un amico, al quale deve
assida informazione e dei cui bisogni e volontà non può prescindere, senza annullare l’identità e le
risorse ancora presenti.
Da quanto esposto, emerge quindi come la misura dell’interdizione sia da intendersi residuale ed
applicabile solo qualora appaia l’unica misura idonea ad assicurare una completa protezione del
soggetto.
Possiamo, quindi, affermare che il nuovo istituto giuridico introdotto, pur non essendo
rivoluzionario, può risolvere molti problemi pratici che comunemente complicano la vita alle
famiglie dedite all’assistenza di un parente con tipologie di malattie che impongono un assistenza
così gravosa quali le demenze. In tal modo si è allentato il rigore dell’obbligatoria pronuncia
dell’interdizione, con un sistema flessibile fondato su un progetto personalizzato di attività
giuridiche predisposto da un giudice tutelare e modificabile tutte le volte che l’interesse del
beneficiario lo richieda. È riuscito ad avvicinare al luogo di residenza del beneficiario, la sede
giurisdizionale competente riducendo le spese di procedimento, con l’intento ultimo di coniugare
l’interesse ad una vita più dignitosa e per quanto possibile autonoma del beneficiario, con quello
della tutela.
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CAPITOLO QUARTO
L’ESPERIENZA SUL TERRITORIO:
CASA DI CURA “VILLA MARIA LUIGIA”
4.1 L’organizzazione del reparto neurogeriatrico
Dall’ultima legge di riordino del SSN individuabile nel D.Lgs. 229/99 e dai successivi piani
sanitari nazionali e regionali, è emersa la volontà del legislatore di potenziare i servizi sanitari
territoriali mettendoli in rete ed iniziando un percorso di integrazione socio-sanitaria al fine di porre
l’utente al centro dei servizi a lui dedicati, superando la vecchia concezione a mosaico dei servizi,
offrendo una vera continuità assistenziale.
La Casa di Cura “Villa Maria Luigia”, grazie alla spiccata sensibilità della Direzione, ha saputo
cogliere questa emergenza socio-sanitaria silente, stimolando e fornendo una risposta appropriata ai
bisogni dell’utenza; infatti il reparto (IV e per i casi meno deteriorati anche il sottostante III) già
adibito alle cure delle malattie geriatriche, ha subito nel corso degli ultimi anni innumerevoli
modifiche non tanto sul piano strutturale, ma piuttosto sulle modalità di intervento e diagnosi. Il
ricovero in questo reparto ha finalità diagnostico-terapeutiche adatte a contenere i disturbi del
comportamento, a valorizzare le risorse funzionali residue e a garantire l’adeguata sicurezza a
ciascun ammalato. La diagnosi diventa, in effetti, il primo passo di un processo terapeutico, dove un
intervento precoce e interdisciplinare permette, oltre che rallentare la progressione dei deficit
cognitivi e funzionali, di migliorare la qualità di vita del paziente e della sua famiglia. Per quanto
concerne l’intervento si sono moltiplicate le risorse e le modalità terapeutiche, offrendo un servizio
all’avanguardia nella gestione delle problematiche legate alla demenza. Per la loro stessa natura,
(farmacologici, riattivazione cognitiva, psicosociale, ecc.), gli interventi necessitano del
coinvolgimento di diverse figure professionali per poter gestire i problemi che si presentano lungo il
decorso della malattia; per esempio l’Istituto prevede incontri con un’assistente sociale, saldamente
presente, tecnici della riabilitazione e fisioterapisti che si occupano sia della riattivazione
psicologica che motoria; medici, infermieri, ausiliari e psicologi. Questi ultimi si occupano in
particolare della somministrazione testistica (vedi paragrafo successivo), finalizzata alla valutazione
del grado del deterioramento cognitivo oltre che fornire un supporto emotivo ai familiari.
Quest’ultimo è di fondamentale importanza, infatti all’interno dell’Istituto è previsto un programma
d’incontri di gruppo sia con i familiari sia con chi si prende cura del malato, di cui si parlerà nello
specifico successivamente.
Inoltre, come previsto dall’orientamento generale, anche tale istituto ha predisposto misure e
adattato gli ambienti rendendoli più funzionali alle necessità dei pazienti, secondo l’approccio
“Gentle Care”, introdotto in Italia da Moyra Jones. Gli interventi sull’ambiente rappresentano il
primo passo per ridurre le disabilità dei malati che a causa dei disturbi di memoria, di orientamento
e delle capacità visuo-percettive, li rendono non autonomi nello svolgimento delle attività di vita
quotidiana, ed è quello che colpisce di primo acchito chi è nuovo del reparto.
Per esempio, per facilitare l’orientamento temporale sono stati posti sulle pareti calendari ed
orologi ben visibili e facili da leggere; per orientarsi e riconoscere le proprie stanze, sono state
appese sulle porte cartelloni colorati riportanti il nome personale di ciascun paziente. Per facilitare
lo spostamento nei vari ambienti, sono stati installati appositi corrimano sulle pareti ed in
particolare lungo i corridoi.
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Sempre per facilitare e mantenere le risorse cognitive dei pazienti, come detto in precedenza, è
stata focalizzata l’attenzione su un approccio terapeutico denominato ROT (reality orientation
therapy), che consiste in incontri di gruppo, suddivisi a seconda dello stadio e della gravità della
malattia; è una tecnica che ha lo scopo di migliorare l’orientamento spazio-temporale delle persone
con deficit cognitivo, rinforzando le competenze residue e migliorarne l’autonomia ( es: esercizi
sulla memoria a breve termine piuttosto che quella rievocativa, ecc.). Per ogni paziente viene tenuta
una scheda in cui si calcola un punteggio (0, ½, 1) sulla base delle risposte ottenute, sulle quali
vengono calcolate settimanalmente e mensilmente, delle percentuali indicative dell’andamento delle
abilità dei pazienti, in tal modo vengono monitorati per tutto il tempo della degenza. Tale schema
viene poi annesso alla cartella clinica.
Solitamente si distingue una ROT formale ed informale; la prima viene effettuata da un terapista
della riabilitazione, a tavolino, e cioè in un locale apposito e con un preciso programma terapeutico.
La ROT informale consiste invece, in quella serie di consigli ed indicazioni che viene data ai
pazienti con lieve deterioramento e quindi in grado di comprendere, ed ai familiari, dal personale
socio-sanitario. La ROT informale dovrebbe far parte del bagaglio culturale di tutti gli operatori
socio-sanitari e dei familiari ed essere il modo abituale di prestare assistenza ad un paziente con
deficit cognitivo.
La terapia riabilitativa comprende altresì attività sociali e d’incontro per consentire alla persona
di rimanere in contatto sociale e di confrontarsi con gli altri, con effetti di rimotivazione e
risocializzazione: giochi come le carte, la tombola, il disegno e altri lavori manuali per quanto meno
elaborati, possono comunque essere creativi e divertenti. La musica può avere un grandissimo
valore; ascoltare brani o canzoni può aiutare non solo la comunicazione verbale e non verbale, ma
favorire l’evocazione dei ricordi e ridurre i disturbi del comportamento.
Infine, per avere un quadro globale e il più particolareggiato possibile, relativamente alle
condizioni psicofisiche dei pazienti, viene utilizzato un registro degli interventi di protezionecontenzione e un diario di osservazione infermieristica. Per quanto concerne il primo, viene, per
esempio, registrato l’utilizzo delle spondine per il letto, oppure delle fasce di sicurezza applicate
alle poltrone, quando il paziente è seduto, onde evitare il rischio di caduta o quando sussistano
condizioni d’aggressività auto ed eterodiretta, stati confusionali o agitazione psicomotoria, tali da
costituire per il paziente un rischio per se stesso e per gli altri. Inoltre, vengono specificate anche la
durata e la cessazione dei provvedimenti. L’osservazione infermieristica consiste nella registrazione
giornaliera (del dì e della notte) delle condizioni cliniche e dei parametri vitali (pressione, diuresi,
frequenza cardiaca, ritmo sonno-veglia ecc.), lo stato psichico ed eventuali osservazioni mediche.
4.2 La valutazione neuropsicologica: strumenti di indagine
In Istituto, abbiamo potuto notare che i test più impiegati dall’equipe riguardano quelli per la
valutazione complessiva delle capacità cognitive, il cui scopo principale è di rilevare la gravità di
una patologia dementigena.
Tra questi vi sono il Mini- Mental State Examination (MMSE) ed il Milan Overall Dementia
Assessment (MODA). Sono in genere test veloci, di facile applicazione, anche se possono fornire
valutazioni un pò grossolane, soprattutto se usati per diagnosticare stati di demenza iniziale, a causa
della possibilità di valutare come dementi soggetti con un normale invecchiamento.
Il MMSE è un test di screening ideato per rilevare il deterioramento cognitivo, valutarne
quantitativamente la severità e documentarne le modificazioni nel tempo. È costituito da 12 item
tramite i quali vengono esplorate con 22 prove in parte verbali e in parte di performance, sette
funzioni cognitive quali: l’orientamento spazio-temporale, la memoria immediata (registrazione di
tre parole), attenzione e calcolo, memoria di richiamo (rievocazione di tre parole), linguaggio
(denominazione, ripetizione, comprensione ed esecuzione di comandi orali e scritti, capacità di
scrivere una frase), prassia visuo-costruttiva (copia di pentagoni). È una scala largamente diffusa in
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ambito clinico, e di rapido impiego;la sua somministrazione richiede un tempo variabile dai 5 a 15
minuti e tale brevità lo rende meno gravoso per le risorse attentive del soggetto, rispetto ad una
batteria completa di test neuropsicologici, così da potere essere usato anche nelle fasi avanzate di
demenza. I punteggi, comunque, non permettono da soli, di stabilire una diagnosi di demenza né di
determinarne l’eziologia, pertanto il MMSE dovrebbe essere impiegato come strumento in grado di
suggerire, in caso di punteggi bassi, il ricorso a ulteriori approfondimenti. Inoltre, non consentendo
una valutazione completa delle funzioni cognitive, non è sufficientemente sensibile alle fasi iniziali
di demenza, sottostimando tali casi. Il suo contenuto, inoltre, essendo prettamente verbale,
mancando sufficienti item per misurare adeguatamente le capacità visuo-spaziali e visuo-costruttive
è inadeguato per cogliere alcuni tipi di danni cognitivi, come quelli da lesioni focali dell’emisfero
destro. Il punteggio può andare da un minimo di 0 (massimo deficit cognitivo) ad un massimo di 30
(assenza di deficit). Il cut-off ai fini della diagnosi di un disturbo dell’efficienza intellettiva è 23 e la
maggior parte di anziani non dementi ottiene punteggi superiori a tale soglia. In uno studio di
revisione del MMSE sono stati proposti tre cut-score: 24-30 (assenza di decadimento cognitivo),
18-23 (decadimento cognitivo lieve-moderato), 0-17 (decadimento grave). Studi longitudinali, che
hanno usato intervalli test-retest variabili da un mese a tre anni, mostrano che i punteggi di soggetti
dementi, declinano in modo significativo nel tempo, presentando un tasso di decremento annuo c
compreso tra i 1.8 e 4.2 punti, indice utile del decorso della malattia e dell’eventuale risposta al
trattamento. Fattori come l’età, la scolarità, il livello culturale del soggetto contribuiscono
significativamente alle variazioni dei punteggi attesi nella popolazione normale, per cui ci sono
correzioni validate per età e scolarità.
Il MODA: è una batteria neuropsicologica, somministrata da uno psicologo clinico, al fine di
valutare il funzionamento di alcune capacità cognitive e l’eventuale deterioramento. È lo strumento
più raffinato tra quelli presi in considerazione. La sua affidabilità si basa su un ampia casistica
raccolta e sulle tecniche di standardizzazione impiegate, ed è orientato proprio a valutare le
demenze e non il normale invecchiamento. Solitamente si usa per avere una misura delle
potenzialità cognitive di un soggetto anziano quali: memoria, concentrazione, attenzione ed
apprendimento. Il MODA è stato concepito e modellato sul quadro cognitivo dei deficit della
malattia di Alzheimer, con lo scopo di completare in termini quantitativi, la descrizione
neuropsicologica di un paziente che viene esaminato per un sospetto di demenza. Lo strumento
possiede, inoltre, i requisiti di una rating scale e di uno strumento di screening cognitivo facilmente
utilizzabile nella quotidianità clinica, anche al letto del paziente. Dato l’alto carico verbale di molte
prove e la concezione teorica di demenza corticale su cui si basa, il MODA non è da utilizzarsi in
casi di presenza di una grave afasia o di demenza psicotica o normale a genesi sottocorticale (ad es.
con Chorea di Huntington o per pazienti con paralisi sopranucleare progressiva).
È formato da 14 prove raccolte in tre sezioni: orientamento, autonomia e testistica. Nella prima
vengono valutati l’orientamento spazio-temporale, personale e familiare. Ciascuna prova contiene
un numero diverso di domande per un totale di 28. La seconda consiste in una scala di autonomia
suddivisa in cinque sottoprove che valutano: deambulazione, capacità di vestirsi, di avere cura della
propria igiene personale, di alimentarsi autonomamente, controllo degli sfinteri. Per ognuno di
questi aspetti viene indagato il livello di autonomia raggiunto dal paziente nel momento in cui la
valutazione è fatta. Nell’ultima sezione viene presentata tutta una serie di test che si ispirano a
strumenti esistenti: apprendimento, test attenzionali, intelligenza verbale, test di produzione di
parole, prova di agnosia digitale, di aprassia costruttiva e Street’s Completion Test.
Ricordiamo inoltre, per completezza teorica, il Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), che
è uno dei test d’intelligenza più diffusi, anche se non sembra particolarmente adatto a una diagnosi
differenziale per soggetti mentalmente deteriorati. Infatti, non discrimina coloro che sono affetti da
demenza degenerativa primaria, da quelli affetti da demenza multi-infartuale, né i diversi gradi di
quest’ultima, ma è sensibile al grado di demenza degenerativa primaria. La prova è composta da 11
sub-test: informazione, comprensione, ragionamento aritmetico, analogie, memoria di cifre,
vocabolario, associazione di simboli a numeri, completamento di figure, disegno con cubi,
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riordinanento di storie, ricostruzione di figure. Le abilità misurate riguardano:la competenza
lessicale, la conoscenza generale, la capacità di astrazione, di giudizio, funzioni di attenzione e
concentrazione, coordinamento visuo-motorio, organizzazione visiva, progettazione ed
anticipazione.
Le matrici progressive di Raven, del quale esiste una versione (PM ’47 serie A, Ab, B)
colorata, per bambini ed anziani, percettivamente più adatta, più breve e facile. È un test culturefree e, quindi, particolarmente adatto alla popolazione anziana che, attualmente, ha per lo più un
basso livello di istruzione, anche se pazienti affetti da deterioramento mentale sono in grado di
portarlo a termine. Il soggetto deve completare una configurazione geometrica (matrice), scegliendo
tra 6-8 possibili alternative, attraverso la comprensione delle regole con cui la matrice stessa è
costruita. Le abilità misurate sono: il fattore G di intelligenza globale, poco legato ad aspetti
culturali e la capacità di cogliere analogie.
Per la valutazione delle capacità mnestiche abbiamo il Wechsler Memory Scale (WMS), che è
tra i test di memoria, quello più impiegato in ambito clinico. È di rapida applicazione, e la
possibilità di calcolare il quoziente mnestico, consente un confronto diretto con il quoziente
intellettivo ottenuto alla WAIS. In tal modo, è possibile stabilire, ad es., se un soggetto presenta un
deterioramento circoscritto all’ambito mnestico, o se le eventuali difficoltà di memoria sono
collegate ad un deficit cognitivo più generalizzato. È composto da sette prove: informazione,
orientamento, controllo mentale, memoria logica, ripetizione di cifre, riproduzione visiva,
associazioni. Le abilità che vengono misurate sono: la memoria a breve termine di materiale visivo
e verbale, orientamento spazio-temporale, informazione generale, velocità di recupero di materiale
noto. Il test consente il calcolo di un quoziente mnestico (QM), il valore del quale si ottiene
aggiungendo alla somma dei punteggi grezzi ottenuti nei singoli sub-test, un coefficiente di
correlazione che varia in base all’età del soggetto e poi trasformando il valore ottenuto in QM, sulla
base di apposite tabelle .
Pur essendo un test ampiamente utilizzato, la WMS presenta una serie di inconvenienti per
l’applicazione a soggetti anziani. Innanzitutto, tale test si fonda sul presupposto teorico che la
memoria sia una funzione unitaria che si manifesta in vario modo. Attualmente questo presupposto
sembra superato e la scelta di Wechsler di costruire un reattivo che misura essenzialmente la MBT
di materiale visivo e verbale e di usare il QM come indice di abilità mnestiche generali non trova
dati a sostegno; inoltre, dal lato applicativo, va sottolineato come le norme originali di Wechsler
sono incomplete e discutibili.
Particolarmente gradito agli anziani è il MLT ’88 (di Andreani, Amoretti, Baldi, 1990) per il
carattere ecologico degli stimoli impiegati. È un test che permette di valutare sia le capacità di
riconoscimento, che di rievocazione di materiale appreso molto tempo prima. È composto da 66
item suddivisi in tre sub test: verbale (domande), visivo (foto di personaggi famosi e avvenimenti),
sonoro (voci e canzoni), e a seconda dell’età, varia il numero di item da somministrare.
FCA – Batteria per le funzioni cognitive dell’anziano (Amoretti, 1994,2000). È costituito sia da
prove originali, che da test ampiamente collaudati e l’area più indagata è quella dei deficit mnestici,
infatti le abilità misurate riguardano: l’attenzione selettiva, span di memoria, memoria di eventi
remoti, memoria a breve e a lungo termine di materiale visivo e verbale strutturato e non,
ragionamento logico, produttività e accesso lessicale.
Ricordiamo inoltre, tra gli strumenti a disposizione, anche il Rapido Esame dello Stato Mentale
(RESM) di Florenzano (1989). Tale test deriva dal WAIS e dal MMSE, dei quali utilizza alcuni
item ritenuti importanti per la valutazione cognitiva dell’anziano, calcolando anche un “indice di
deterioramento”. Il reattivo misura varie abilità cognitive quali: l’attenzione, la memoria, le abilità
psico-motorie e logiche. Comprende otto sub-test: informazione, riconoscimento, apprendimento di
quattro parole, concentrazione, ricordo differito, attenzione e concentrazione, coordinamento
percettivo-motorio, logica.
Particolarmente impiegato in reparto è l’Indice di Barthel - ADL per la valutazione funzionale
delle attività di base. Tale valutazione si attua barrando per ogni tipo di attività (alimentazione,
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igiene personale, abbigliamento, continenza sfinterica) la casella corrispondente al livello
funzionale più rappresentativo dell’utente. In generale, per una raccolta dati di buona qualità, sono
importanti sia l’osservazione diretta con i test funzionali, che le informazioni anamnestiche raccolte
dai familiari o altro personale di assistenza. È fondamentale che nella raccolta di notizie
anamnestiche gli intervistati, in particolare i familiari, recepiscano l’importanza di fornire
un’informazione corretta e non vengano indotti a sovra-sotto valutare i deficit funzionali, nella
speranza o paura di guadagnare o di perdere vantaggi potenziali connessi con l’inserimento in
istituto o altro.
Per tutti i singoli item, il livello 0 definisce uno stato funzionale ritenuto di completa autonomia.
4.3 Un aiuto alle famiglie: i gruppi con i familiari
Considerare l’aspetto familiare è indispensabile poiché per molti pazienti rappresenta il punto di
riferimento assistenziale principale sia per il supporto affettivo che per quello economico. La
famiglia è quindi una risorsa nell’espletamento della cura e quando compare la malattia, deve
costituire una vera e propria “impresa familiare”, mettendo in campo le capacità per far fronte ai
pericoli e gestire la cronicità.
È necessario stabilire che l’end-point del trattamento di questa malattia, oltre alla qualità di vita
del paziente, deve puntare anche sul miglioramento della qualità di vita del caregiver. La presa in
carico di una persona affetta da demenza significa costruire una vera e propria relazione di aiuto
rivolta all’intero nucleo familiare.
La casa di cura “Villa Maria Luigia” ben consapevole di tali problematicità, propone la
costituzione di sedute di gruppo, condotte da un medico, sfruttando le dinamiche dei gruppi di autoaiuto anche se condotte in modo più direttivo. Uno degli obiettivi è quello di restituire ai familiari
un “rinforzo immunitario”, un training per riuscire a ritrovare le energie per l’assistenza, sia in
termini oggettivi (terapia farmacologica), sia soggettivi, relativamente ai loro vissuti, poiché stando
meglio ed alleggerendo il carico emotivo, si restituisce al paziente un “pilastro assistenziale” ed al
contempo, intervenendo sulla parte sana nel triangolo medico-paziente-famiglia, si aiuta anche il
medico nell’assistenza.
Vista la sempre maggiore richiesta di assistenza, l’ obiettivo dell’Istituto è rivolto non solo ai
familiari, ma anche a coloro che si trovano a dovere assistere pazienti affetti da demenza
(es:badanti). Viene, inoltre, data la disponibilità ai diversi caregiver di accedere al reparto per
osservare ed apprendere dagli operatori i comportamenti più adeguati nell’assistenza al malato e la
possibilità di partecipare alle riunioni gruppali, anche dopo le dimissioni del paziente.
Infatti, quando l’emotività è gestita e l’ambiente più ricettivo ed equilibrato, anche l’intervento
psicofarmacologico è facilitato ed il dosaggio è ridotto. È importante rendere consapevole il
familiare che al variare dei sintomi della malattia, anche il dosaggio farmacologico può essere
modificato. Diviene fondamentale riconoscere l’importanza dell’interdipendenza tra gli aspetti
farmacologici e gli interventi psicologici sull’ambiente familiare (ad esempio nel caso delle
allucinazioni è importante domandarsi come esse vengano percepite sia dal paziente che dal
familiare).
Nonostante l’importanza dello svolgimento dei gruppi, non sempre è stato possibile effettuarli; a
parere dei responsabili, la bassa motivazione e la conseguente scarsa affluenza, è riconducibile non
tanto alla falsa credenza della conoscenza della malattia, quanto, piuttosto ad un meccanismo di
difesa, di negazione o di rimozione del problema. In tal modo, si determina un circolo vizioso
caratterizzato da sentimenti di rabbia, frustrazione ed impotenza che derivano dai suddetti
meccanismi, generando un peggioramento dei sintomi della malattia ed il conseguente
allontanamento dei familiari.
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Spesso vi è anche un senso di colpa che viene proiettato sulla figura dell’operatore, percepito
come colui che gli ha “sottratto” l’oggetto d’amore, con il conseguente allontanamento dal
problema e dalla struttura stessa.
Attualmente i gruppi sono ripartititi, e condotti dal medico alla presenza di un operatore, a
differenza dei primi periodi durante i quali era prevista la presenza di uno psicologo. I conduttori
hanno preso tale decisione poiché sembra siano più efficaci, poiché spesso gli argomenti trattati
riguardano problemi pratici legati alla cura della persona, divenendo pertanto, un’occasione per
chiedere informazioni al medico sul quadro del proprio caro (tra le domande emerge la necessità di
avere spiegazioni e consigli inerenti la cura).
I gruppi vengono suddivisi in quattro aree tematiche, svolti con una frequenza settimanale e
della durata di un mese (la durata coincide con la degenza media di circa 30-40 giorni). Inoltre,
viene data la disponibilità di potervi accedere anche successivamente al periodo della degenza, nel
caso in cui i familiari necessitassero di un ulteriore supporto sia emotivo che comportamentale. In
tal modo si garantisce la continuità assistenziale all’utenza che, attraverso la presa in carico, viene
assistita finché perdurano le necessità socio-assistenziali, fornendo anche indicazioni su quali forme
di assistenza è opportuno adottare dopo la dimissione.
Le argomentazioni trattate riguardano:
- Quadro clinico (diagnosi, sintomatologia e terapia) delle patologie presenti all’interno
del reparto;
- L’impatto della patologia sul vissuto emotivo dei familiari;
- L’assistenza quotidiana al malato: problematiche ed interventi. Come ci si deve
comportare nella cura ed assistenza al malato;
- Aiuti esterni e territoriali (pubblici, privati, aspetti medico-legali).
1. Il primo tema trattato riguarda una panoramica generale delle varie patologie (sintomi
e terapie). In prima istanza i familiari vengono sensibilizzati verso la conoscenza delle forme più
diffuse di demenza, con particolare attenzione per quelle riscontrate nei propri cari, per apprendere
tutto ciò che riguarda i vari aspetti della malattia allo scopo di mettere coloro che si occupano del
malato nelle condizioni per non trovarsi impreparati di fronte alle molteplici situazioni, anche quelle
di emergenza. Allo stato contingente, le patologie più riscontrate in reparto, riguardano nel 70% dei
casi, forme di demenza primaria, con deficit cognitivi in cui si associano disturbi psichiatrici i quali
rappresentano la molla che fa scattare il ricovero (40-50% dei casi) presso le strutture. Nel 10-15%
dei casi troviamo diagnosi di depressione con deterioramento cognitivo. Il quadro clinico della
demenza è caratterizzato da molti segni che diversamente si intersecano e si combinano. Nessun
paziente avrà tutti i sintomi e non li avrà contemporaneamente, pertanto si è ritenuto utile fornire
una panoramica dei problemi che si potrebbero incontrare nell’assistenza a questi malati. I sintomi
clinici che caratterizzano la sindrome demenziale possono in sintesi essere classificati in tre gruppi:
disturbi della cognitività, sintomi psichici e disturbi del comportamento.
Nel primo gruppo (disturbi della cognitività) rileviamo:
- Disturbi della memoria o amnesia: è il sintomo di maggior spicco nella demenza. Sempre
precoce, interessa sia la memoria a breve termine (il che procura un incapacità ad apprendere nuove
informazioni e difficoltà di rievocazione dei dati di recente acquisizione), sia la memoria a lungo
termine (che implica incapacità a ricordare informazioni o fatti noti in passato). Viene interessata la
memoria autobiografica (data di nascita, età, indirizzo, persino il proprio nome), la memoria
personale (conoscenza degli avvenimenti relativi all’ambiente in cui si vive), la memoria verbale e
semantica (significato delle parole), la memoria visiva e spaziale (difficoltà a ricordare lo spazio
circostante) e la memoria procedurale (cioè la sequenza finalistica di eventi necessari a compiere
una certa azione). La perdita di memoria è il disturbo caratterizzante la demenza, in altre parole non
si può far diagnosi di demenza senza amnesia. Questa progressiva e irreversibile perdita di memoria
getta il malato lentamente in uno stato di isolamento, in cui vengono persi i legami non solo col
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mondo esterno, con il proprio lavoro, con i propri affetti, ma anche con se stesso, con la propria
storia personale di vita, con la propria identità. Nella maggior parte di casi la prima compromissione
della memoria si verifica nell’incapacità di ricordare gli appuntamenti, le cose da fare, gli impegni
immediati; il soggetto vuol fare qualcosa, poi non sa più che cosa, non riesce a ricordare dove ha
riposto gli oggetti di uso comune, necessita di sentire più volte le stesse informazioni oppure lascerà
incompiute determinate azioni perché si dimenticherà di riprenderle dopo un’interruzione (ad
esempio si dimenticherà di chiudere il rubinetto e lascerà scorrere l’acqua). Anche la capacità di
ricordare le cose che si stanno dicendo è precocemente compromessa: come conseguenza il
soggetto non riuscirà più a seguire una conversazione, vedere un film, leggere un articolo, poiché si
dimentica man mano quello che ha appena sentito, visto o letto, perdendo così il filo del discorso.
Un altro aspetto della memoria che viene interessato dalla malattia è la seriazione diacronica degli
eventi, cioè la capacità di ricordare cosa è successo prima e cosa è successo dopo. A causa delle
trasposizioni temporali degli eventi, il malato può ritenere attuali situazioni del passato e, ad
esempio, ritenere ancora in vita congiunti già deceduti o parlare di situazioni del passato come se
fossero attuali. Nei primi stadi della malattia, quando la demenza è lieve ed il soggetto ha una
qualche consapevolezza del deterioramento delle sue facoltà, sono possibili reazioni di ansia o di
depressione marcata. Sono molto comuni tentativi di dissimulare o compensare i deficit intellettivi
di cui il soggetto si rende conto. Ciò può portare ad una eccessiva tendenza all’ordine, al ritiro
sociale, a raccontare i fatti in modo eccessivamente dettagliato o in modo da dissimulare lacune di
memoria oppure il malato potrà assumere un atteggiamento di titubanza e di incertezza.
- Deficit del pensiero astratto: è un disturbo che può assumere varie forme. Si può
dimostrare questo deficit domandando al soggetto di interpretare proverbi oppure di trovare
somiglianza o differenze tra parole correlate: il paziente demente interpreterà i proverbi
letteralmente e avrà difficoltà a trovare somiglianze e differenze.
- Deficit del giudizio critico: il paziente diventa incapace di organizzarsi in modo adeguato
per far fronte alle domande che l’ambiente gli pone.
- Disturbi del linguaggio o afasia: s’intende il difetto o la perdita delle capacità di esprimersi
mediante la parola, la scrittura od i segni o di comprendere il linguaggio scritto o parlato, a causa
dei danni o di malattie dei centri nervosi, non per difetto della formazione o dell’articolazione dei
suoni. La persona afasica non riesce a tradurre in contenuto di pensiero quello che legge o che sente;
non riesce a tradurre in parole dette o scritte quello che pensa. Ci sono quindi due aspetti dell’afasia,
che non necessariamente coesistono nello stesso paziente: il malato non capisce, ma riesce ad
esprimersi oppure il malato capisce, ma non riesce ad esprimersi. Nel tentativo di far fronte a tale
incapacità, il paziente ricorrerà a “strategie inconsce” che vanno dall’anomia (come si dice?),
all’uso di parole chiave (cosa, coso, affare), a parafasie verbali (chiave per porta), a riduzione del
vocabolario, che trasformano le espressioni verbali in confabulazioni, proprio a causa della
difficoltà ad utilizzare le parole appropriate e della sostituzione con termini più semplici e di più
ricorrente utilizzo. Possono essere presenti anche fenomeni di iterazione verbale: ecolalia
(ripetizione senza senso di una frase), palilalia (ripetizione dell’ultima parola) o logoclonia
(ripetizione di una sillaba).
- Disturbi della prassi o aprassia: s’intende la perdita della capacità di realizzare un’attività
motoria specifica, finalizzata e coordinata, in assenza di paralisi della parte del corpo che
normalmente dovrebbe svolgere il movimento richiesto. Si tratta di un disturbo dovuto
generalmente a lesione dell’emisfero dominante (il sinistro per i destrimani). Il malato con aprassia
non riesce più ad eseguire azioni anche relativamente semplici e comunque ben noti
precedentemente, come tutti i gesti necessari nella vita quotu8diana (mangiare, vestirsi, ecc.); tanto
più il gesto è nuovo, tanto più numerosi saranno gli errori. Talvolta, tuttavia, può capitare che il
malato non più in grado di eseguire una certa azione se questa gli viene richiesta, riesca a compierla
correttamente in situazioni spontanee (ad esempio fare il segno della croce spontaneamente quando
entra in chiesa e non riuscire a farlo a richiesta). L’aprassia è causa di grave disabilità per il paziente,
in quanto rende difficile o impossibile l’esecuzione degli atti più semplici della vita quotidiana quali
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mangiare, vestirsi, lavarsi, ecc.. In particolare nel malato di demenza è precocemente compromessa
la capacità di vestirsi autonomamente; il paziente non riesce più a compiere nella giusta sequenza
tutti gli atti necessari per indossare i vestiti, non ricorda cosa siano i vari capi di vestiario, non ha
più la consapevolezza di ciò che è idoneo nel suo abbigliamento nelle varie stagioni o nelle diverse
circostanze.
- Agnosia: con questo termine s’intende la difficoltà a riconoscere ed identificare il
significato delle informazioni visive, uditive, tattili, malgrado l’intatto capacità di percepire e
registrare gli stimoli sensoriali. Il malato con agnosia uditiva non è un sordo, è in grado di sentire
perfettamente i diversi suoni e rumori ma non sa più attribuire loro il giusto significato, perché è
compromessa l’elaborazione cerebrale della sensazione percepita dell’apparato uditivo (per esempio
sente il trillo del telefono o del campanello di casa ma non è più in grado di riconoscerli come tali).
Il malato con agnosia visiva, pur non avendo alcun difetto agli occhi e quindi vedendo bene, non sa
denominare o spiegare l’utilizzo di oggetti che precedentemente gli erano familiari, ad esempio
vede una forchetta, la descrive nei dettagli ma non sa più dare un nome all’oggetto che vede né
spiegare a che serve. Poiché non tutte queste facoltà vengono compromesse nello stesso paziente o
nello stesso tempo, è possibile che ad esempio un oggetto non riconosciuto alla vista possa essere
invece identificato e denominato attraverso l’utilizzo di una via intatta, ad esempio la tattile.
L’agnosia spiega l’incapacità a riconoscere gli ambienti familiari e domestici o volti noti anche di
parenti e amici, frequente nei pazienti dementi.
Nel secondo gruppo di sintomi (sintomi psichici) troviamo:
- Alterazioni del tono dell’umore: sono disturbi molto frequenti, soprattutto nelle fasi
iniziali di malattia, in particolare tra il 30 e l’80% dei pazienti manifesta sintomi depressivi; meno
frequente è l’euforia (5%) e l’instabilità emotiva (40%); l’ansia può presentarsi nel 50% dei pazienti,
la manifestazione ansiosa più frequente è la cosiddetta facies ansiosa (70%) ed il senso di paura.
- Ansia: si verifica spesso questo stato di apprensione, di timore per un imminente pericolo
per sé o per gli altri, accompagnato da un senso di insicurezza e di impotenza. L’ansia di solito si
accompagna a manifestazioni fisiche di tensione motoria (quali tremori, sobbalzi, irrequietezza) e a
manifestazioni neurovegetative (quali sudore, palpitazioni, mani fredde, minzione frequente, bocca
asciutta, ecc.). Nella demenza, l’ansia può essere presente durante tutto il decorso della malattia, in
misura più o meno grave, ma di solito è presente nelle prime fasi, quando il paziente si rende conto
dei propri fallimenti ed incapacità, e delle difficoltà a gestire la propria vita, anche in situazioni che
precedentemente erano semplici e familiari. Nelle fasi più avanzate, quando diminuisce la
consapevolezza del proprio stato, l’ansia tende ad attenuarsi. L’ansia può essere contrastata con
l’uso di farmaci specifici (ansiolitici, es: benzodiazepine, ecc.), su prescrizione medica.
- Depressione: è presente in molti pazienti, soprattutto nelle prime fasi della malattia, perché,
come nel caso dei disturbi d’ansia, è probabilmente legata alle difficoltà e ai fallimenti causati dalla
malattia. Il malato può apparire rallentato nei movimenti e nel parlare, oppure avvilito e
visibilmente infelice. È auspicabile una grande vigilanza da parte dei familiari o di chi presta
assistenza, per un tempestivo intervento anche di sostegno emotivo o farmacologico sul malato.
Possono essere utilizzati, su prescrizione medica, farmaci antidepressivi, che spesso sono di grande
aiuto per alleviare i sintomi della depressione.
- Idee deliranti: sono di solito di tipo persecutorio, per esempio la convinzione di venire
derubati o spiati. Il malato può assumere comportamenti caratterizzati da sospetti e accuse, magari
nei confronti dei familiari , vicini, operatori che si occupano di lui. Tutto questo può essere fonte di
imbarazzo e di tensioni. Tuttavia, per quanto difficile sia, occorre sempre ricordare che la causa di
questi comportamenti è nel danno cerebrale che la malattia ha provocato e che, quindi, è illogico
attribuire colpe o punizioni al malato che esprime questi comportamenti.
- Disturbi della percezione (allucinazioni): sono percezioni sensoriali non correlate a
stimoli esterni, quindi false percezioni. Ad esempio il malato vede cose o persone che non ci sono,
sente voci o rumori inesistenti, si spaventa per la propria immagine allo specchio perché non si
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riconosce, ecc. Le allucinazioni possono essere un sintomo molto drammatico e determinare
comportamenti apparentemente incomprensibili del malato. Se ad esempio il paziente litiga, urla e
si arrabbia contro il vuoto, potrebbe essere la vittima di un’allucinazione sono senza dubbio sintomi
da riferire al medico, poiché le allucinazioni di solito rispondono bene al trattamento con farmaci
antiallucinatori (ad esempio neurolettici come aloperidolo). D’altro canto è bene sapere che in
alcuni casi possono essere prodotte, quali effetti collaterali, dall’assunzione di farmaci, peraltro
molto diffusi tra la popolazione anziana, come la l-dopa e la digitale, farmaci rispettivamente
utilizzati nei pazienti parkinsoniani e nei cardiopatici.
Nel terzo gruppo (disturbi del comportamento) vi sono disturbi che mettono molto alla prova i
familiari e il personale che si occupa dell’assistenza al malato. Questi disturbi possono comportare
sia un’alterazione sia un’accentuazione di tratti premortosi. Per esempio un soggetto
precedentemente attivo può diventare progressivamente apatico e ritirato; oppure persone che hanno
sempre curato il proprio aspetto ed erano persone pulite e meticolose possono diventare sciatte e
trasandate. I conoscenti diranno che “non è più la stessa persona”. Al contrario, a volte, la malattia
accentua dei tratti caratteriali precedenti, esasperando certi comportamenti in senso ossessivo,
paranoie o impulsivo. Anche l’irritabilità e la scontrosità sono caratteristiche comuni della demenza.
- Stato di agitazione: è un termine che comprende ansietà, irritabilità, stereotipie, ostilità
verbali. In realtà lo stato di agitazione del paziente demente deriva dal combinarsi di bisogni
inespressi. Spesso è presente una tendenza alla fuga che mette in pericolo la sicurezza del paziente e
a dura prova le persone che l’assistono e lo devono sorvegliare.
- Episodi di violenza su cose e persone: spesso l’ira espressa da una persona con un danno
cerebrale è esagerata, mal diretta, inaspettata e naturalmente genera sentimenti di sconcerto e di
preoccupazione. Per quanto sia difficile, occorre evitare di pensare a questa aggressività come se
provenisse da una persona sana e fosse effettivamente rivolta verso di noi. La strategia migliore è
provare a distrarlo, suggerendogli qualcosa che gli piace; raramente un atteggiamento punitivo o
coercitivo si dimostra efficace, la rabbia infatti, potrebbe anche aumentare e spesso discutere
scatenerà reazioni anche più accese.
- Insonnia, turbe ritmo sonno-veglia, confusione notturna: all’inizio della malattia può
verificarsi un aumento del tempo totale di sonno, ma con l’aggravarsi della demenza il sonno
peggiora quasi inevitabilmente, sia come durata che come qualità. Spesso l’ammalato ha difficoltà
di addormentamento, è irrequieto durante la notte, tende ad alzarsi, a girovagare per la casa o
l’Istituto ed anche ad uscire, può essere disturbato da incubi e allucinazioni.
- Wandering: è un termine anglosassone che definisce un disturbo molto tipico della
demenza e che potrebbe essere tradotto in “vagabondaggio”. Se infatti nelle ultime fasi della
malattia il demente può avere difficoltà nel camminare, tanto da essere costretto al letto o alla
carrozzella, in precedenza, spesso per mesi e anni, il demente presenta un aumento patologico del
cammino. È un girovagare afinalistico che potrebbe sottintendere la difficoltà del paziente a
ritrovare luoghi, volti, oggetti familiari; egli può camminare per ore e ore, ininterrottamente, in
modo compulsivo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Questa tendenza a
camminare incessantemente, caratteristica del malato di Alzheimer, più che di altri dementi, non
trova in genere una spiegazione. Alcune volte con una osservazione attenta si individuano le cause
scatenanti di questo comportamento, che possono essere problemi organici (ad es. stitichezza, dolori
di vario tipo, ecc.). Più frequentemente però non si riesce, nonostante tutti gli sforzi indagativi, a
trovarne la causa e probabilmente la spiegazione va ricercata sul piano psicologico.
- Disturbi del comportamento alimentare: talvolta si verifica un’alimentazione scarsa, con
la conseguenza di un rapido dimagramento; talvolta, più spesso, si tratta di un eccesso di
alimentazione (bulimia). Nei malati di demenza le abitudini alimentari si modificano a causa di una
serie di fattori. Oltre ai disturbi della sfera cognitiva che possono compromettere la capacità del
paziente di avere un’alimentazione corretta ed equilibrata, è probabile che esistano altri fattori che
contribuiscono a creare questi disturbi alimentari, come l’alterazione del gusto, dell’olfatto, dei
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centri cerebrali della fame e della sazietà, ecc. A questo punto si aggiungono i problemi legati alla
situazione psico-sociale, per esempio la difficoltà di acquistare il cibo o di cucinarlo, ecc.
- Disinibizione sessuale: una generale mancanza di riguardo per le convenzioni sociali
conferma la povertà di critica e lo scarso controllo degli impulsi. È possibile quindi che il malato
demente abbia atteggiamenti di disinibizione (per esempio spogliarsi o mostrarsi spogliati in
pubblico, toccarsi e toccare con intento sessuale, ecc…), che sconcertano e imbarazzano i familiari
e che spesso sono in netto contrasto con la personalità del soggetto precedente alla malattia. Questi
comportamenti sono particolarmente gravi quando, a causa della incapacità a riconoscere i volti e
della errata percezione dei rapporti temporali, si esprimono verso i familiari (ad esempio genitori
verso figli e nipoti).
- Incontinenza: spesso i pazienti affetti da demenza sono incontinenti. L’incontinenza può
essere urinaria e/o fecale. Si tratta peraltro di una condizione molto diffusa nella popolazione
anziana, raggiungendo il 12% negli ultra85enni. Le cause dell’incontinenza possono essere molte,
di natura urologia, neurologica, funzionale ed ambientale.
- Cadute: il paziente demente è a rischio di cadute per diversi motivi, tra cui l’assenza di
giudizio critico che lo porta ad esporsi facilmente a situazioni pericolose. Peraltro le cadute possono
essere anche un sintomo di patologie concomitanti (ad esempio disturbi della pressione arteriosa,
deficit di circolazione cerebrale, ecc.). È presente, quindi il rischio di fratture che condizionano
periodi più o meno lunghi di immobilizzazione ed allettamento, con conseguente caduta sul piano
clinico e funzionale. Si possono cioè determinare quelle complicanze che costituiscono la cosiddetta
“sindrome da immobilizzazione”, caratterizzata da piaghe da decubito, infezioni urinarie e
respiratorie, tromboflebiti, stipsi, malnutrizione, ecc. A causa di queste complicanze le cadute sono
un’importante fonte di mortalità nelle persone dementi.
2. Il secondo tema trattato è quello relativo ai vissuti emotivi e psicologici che coinvolgono
i familiari. La convivenza con un congiunto affetto da demenza comporta una serie di problemi e di
difficoltà, poiché il compito assistenziale coinvolge l’intera organizzazione familiare che si deve
adattare alla nuova situazione. Spesso le persone, pur desiderando prestare le cure necessarie, sono
sottoposte ad un intenso stress psicofisico. La demenza sconvolge i ritmi, i progetti: spesso chi
accudisce questi malati non ha più tempo di riposare, di farsi una vacanza, riduce le occasioni di
scambio sociale, è in ansia perché non sa come gestire la malattia e si chiede se il suo
comportamento è corretto o meno. La patologia viene, quindi, a definirsi come una crisi all’interno
delle dinamiche familiari, costituita da diversi momenti, tanti quante sono le fasi della malattia, ed
in ognuno di questi, gli aspetti psicologici ed emozionali, se non considerati, rischiano di
amplificare il vissuto di dolore ed impotenza. Si sottolinea che ansia e depressione sono molto
frequenti nei familiari, così come disturbi del sonno e stanchezza fisica, indicativi della difficoltà di
fronteggiare la situazione. E, proprio perché l’energia spesa dal lato psicologico è molto maggiore
di quella deputata alla cura in senso pratico, il sostegno psicologico della famiglia e del caregiver
principale, diviene un’occasione fondamentale per essere sostenuti nell’attenuare e gestire il
proprio dolore, con inevitabili ricadute positive anche nell’assistenza del malato.
Dal momento della diagnosi in poi, i rapporti all’interno della famiglia mutano. Dall’esperienza,
emerge come si possono individuare due modalità di reazioni opposte: la famiglia che si sgretola e
che va in crisi e quella che si chiude a muro intorno al paziente. Tra queste, vi sono poi, tutte le
sfaccettature possibili. Nel primo caso, si può affermare come non sia la patologia in sé a
determinare la crisi, piuttosto il fatto che questo evento slatentizza dei disagi preesistenti e fa
emergere una crisi già esistente. Nel caso delle famiglie che si paralizzano, può accadere che tutti i
programmi ed i progetti vengano annullati, ma in modo implicito, senza mai veramente riuscire a
comunicare ed a confrontarsi, anche dopo anni, con la realtà della malattia. In tal caso la chiusura è
disfunzionale, ci si isola progressivamente anche dal mondo esterno, per paura di critiche, di
umiliazioni, dello stigma della malattia; sospesi in un mondo che non appartiene più a loro e dove
non si riconoscono. Ma esiste anche una chiusura “sana” intorno al parente malato, per proteggerlo.
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Tutti cercano di smussare ogni ostilità evocata dai comportamenti disturbati e disturbanti del
paziente, si alternano tra loro, costituendosi come gruppo di mutua assistenza per non esporsi troppo
al logorio della cura.
Un aiuto a tali e complesse problematiche può essere fornito sia da un professionista in un
setting individuale, che di gruppo, oltre all’intervento delle istituzioni esterne territoriali quali i
servizi socio-sanitari.
Entrambe le modalità sono previste all’interno dell’organizzazione della Casa di Cura, anche se,
nella nostra esperienza, abbiamo potuto constatare come l’approccio gruppale rivesta un
grandissimo valore. Nel gruppo, infatti, si sfruttano le dinamiche dell’auto-aiuto, dell’ascolto
empatico e del sostegno reciproco di chi condivide la stessa esperienza dolorosa, le quali possono
contribuire ad aiutare le famiglie ad apprezzare, seppur nella drammaticità della situazione, quelle
esperienze positive, quei momenti di relazione che sono comunque possibili quando si vive accanto
ad una persona che soffre, e al contempo, uscire dall’isolamento di cui spesso sono loro stessi
vittime.
Non è raro, come ci è stato raccontato dal responsabile della struttura, che all’interno del
gruppo i familiari stringano delle amicizie tra loro, continuate poi anche all’esterno. Di certo,
nessuno ha la pretesa che la malattia e la morte del proprio caro vengano accettate ma, se non è
possibile “preparare” alla morte, lo è “preparare” alla vita, attraverso l’apprendimento di
comportamenti più adeguati ed umanamente validi.
Man mano che la malattia progredisce, proprio per il suo caratterizzarsi come “malattia delle
relazioni umane”, possono insinuarsi in modo più o meno consapevole sentimenti contrapposti:
tenerezza, amore, ma anche la stanchezza, l’irritazione ed il desiderio che tutto finisca presto, con
l’inevitabile senso di colpa che ciò comporta. Spesso, durante le sedute di gruppo, tali emozioni
sono emerse chiaramente, ed in modo pressoché unanime tra i familiari. Vissuti di impotenza e
frustrazione venivano esplicitati attraverso affermazioni quali: “Non riesco a fare quello che
vorrei”, “sto facendo abbastanza?, potrei fare di più?” ecc... È proprio sul senso di colpa che è
necessario lavorare, poiché questo permea la famiglia di un malato di demenza per una serie di
dinamiche: per l’irritazione che a volte fa perdere il controllo, per qualche sgridata, per qualche
bugia detta per rassicurarlo, ma vissuta come una presa in giro. Quando poi l’assistenza diventa
impossibile presso il domicilio, e si rende necessaria la decisione di affidare il proprio caro ad una
struttura protetta ove siano presenti operatori specializzati, questa scelta viene spesso vissuta in
modo doloroso e tormentato, lacerandosi per avere messo in atto modalità abbandoniche. Ciò che è
importante tenere presente è la consapevolezza della malattia e della nostra impotenza di fronte ad
essa. Inevitabilmente vi sono dei limiti, che non sono limiti personali del familiare, ma
dell’intervento stesso, trattando con patologie a carattere cronico e permanente. Le stesse difficoltà
riscontrate tra i familiari, sono rintracciabili anche tra gli operatori sanitari (medico, psicologo,
riabilitatore, ecc..) dove i risultati del loro intervento hanno un carattere del tutto transitorio
(“effetto Penelope”). Così come le preoccupazioni espresse da alcuni familiari per il passaggio del
proprio caro dall’ospedale a casa e la paura di non essere in grado di gestirlo al meglio o peggio, di
doverlo affidare ad altre persone non esperte (ad es. una badante). Anche in tal caso, è fondamentale
che si acquisisca la “capacità di delega”e al contempo si prenda coscienza del passaggio, inevitabile,
da un ruolo passivo ad attivo. L’assistenza al proprio caro non può essere di 24 ore, e il delegare si
impone come necessità. Ciò che è importante che il familiare assuma è il suo nuovo duplice ruolo:
quello di un datore di lavoro e di un organizzatore che, pur condividendo la responsabilità della
cura con qualcun altro, è comunque lui che manterrà le fila dell’assistenza. Non bisogna quindi
vergognarsi nel chiedere un aiuto, perché il sostegno di tutti è fondamentale ed avere l’opportunità
di darsi un cambio nell’assistenza può mitigare la stanchezza, ma anche il senso di impotenza e di
isolamento, e costituire un momento di “ricarica”.
Un’altra emozione che si può manifestare è la rabbia. Domande come: “perché ti sei ammalato,
perché proprio tu, ecc...”, tradiscono emozioni che indicano un disagio inespresso. Un altro
elemento che la può scatenare è il timore di potere ereditare la predisposizione alla malattia,
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soprattutto nelle forme di demenza pre-senili. Il timore, anche se nella maggioranza dei casi
infondato, di chi sente minacciato nella propria integrità fisica, può condizionare negativamente il
rapporto con il malato, a scapito di una minore vicinanza ed empatia.
È bene, quindi, interrogarsi circa le proprie reazioni, che sono normali di fronte ad eventi
stressanti e minacciosi, e mitigare il giudizio verso se stessi. Solo così sarà poi possibile dare spazio
ai propri bisogni, non avendo paura di mostrare le debolezze, ma dichiarandole a se stessi ed agli
altri, rinunciando all’idea di essere insostituibili. Ancora una volta diventa fondamentale lo scambio
e anche l’affidarsi all’altro, l’accettare posizioni diverse dalle proprie e non ostinarsi nel proprio
convincimento carico di eccessiva speranza o di svilimento.
È stato precedentemente detto che, anche se la demenza presenta caratteri di alta variabilità
individuale delle sue manifestazioni cognitive e comportamentali, si possono individuare
schematicamente quattro diversi gradi di gravità e per ognuno di questi, adottare quelle strategie più
idonee per stimolare le risorse interne del malato o adattare l’ambiente alle sue necessità, ma non
esistono interventi predefiniti per tutti. Ne deriva che i familiari non dovranno ancorarsi sulle
proprie posizioni, ma essere pronti a modificare le strategie, poiché il tipo di intervento che si sta
facendo attualmente, potrà non essere più valido quando la malattia peggiora. L’assistenza di questi
malati dovrà essere necessariamente caratterizzata da un grande adattamento, da flessibilità e
creatività. Anche nella fase terminale di malattia, quando il proprio caro è costretto a letto, privo di
autonomie e non riesce più a comunicare, è bene sottolineare come si mantenga la capacità di
percepire ciò che accade intorno lui; in questa fase assume ancor più importanza l’aspetto
relazionale, il rivolgersi a lui con grande dolcezza, favorire il contatto fisico e la comunicazione
attraverso gesti ed espressioni affettive, trasmettendogli serenità. Infatti, anche in stadi in cui la
cognitività è totalmente compromessa, pare che “ la decodificazione della prosodia affettiva, dei
gesti e delle espressioni facciali del suo interlocutore è ancora ben conservata” e il paziente
rimane sensibile a un clima sereno e rassicurante in cui l’attenzione e le parole gentili creano
un’atmosfera conveniente alla sua vulnerabilità”(Luc. P. De Vreese, “La comunicazione con il
malato di Alzheimer”, notiziario Alzheimer Italia, IV trimestre, 1998,n.15).
3. Il terzo tema trattato è relativo all’assistenza quotidiana al malato di demenza: le
problematiche e gli interventi più adeguati.
Come affrontare i disturbi comportamentali e cognitivi
Durante questo incontro è stato spiegato ai familiari come sia importante, oltre al confronto con
chi ha già avuto esperienza di questa malattia e con le associazioni dei familiari, anche l’utilità di
rivolgersi ai centri specializzati del territorio che oltre alle cure farmacologiche, svolgono attività
d’informazione, formazione e possono offrire servizi socio-assistenziali (vedi punto quattro:
assistenza domiciliare, centri diurni, ricoveri di sollievo ecc… ).
Un altro aspetto su cui viene focalizzata l’attenzione del gruppo, sempre durante questo terzo
incontro, riguarda le modalità comportamentali e verbali in risposta ai sintomi presentati dal
paziente e quindi sul come affrontare le difficoltà quotidiane che accompagnano o talvolta
precedono la demenza. Tali disturbi incidono notevolmente sul carico assistenziale di chi è deputato
all’assistenza del malato e spesso rappresentano la causa dell’istituzionalizzazione del paziente, in
quanto riducono notevolmente il suo livello di autonomia. Questi disturbi variano per intensità e
gravità ed in ogni malato sono diversi, così come diversi lo sono in ogni fase della malattia. Ora
vediamo come affrontarli:
- Non ricorda di ricordare: all’inizio della malattia, il malato può non rendersi conto che
dimentica o si accorge del suo problema ma cerca di nasconderlo, ha paura di affrontarlo.
Cosa fare... non sottolineare gli errori, per evitare reazioni emotive, stabilirgli una routine nelle
attività quotidiane, consigliare l’uso di artifici che aiutino la memoria (agende, liste della spesa,
ecc…).
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- Non fa quello che dice di avere fatto
Cosa fare... assisterlo nelle cose che deve fare, se dimentica come farle, aiutarlo con
suggerimenti, chiedergli le cose da fare nel momento in cui devono essere fatte.
- Fa sempre le stesse domande
Cosa fare...provare a rispondere lentamente ed accertarsi che abbia capito, distrarlo con attività
per lui piacevoli ed ignorare la domanda, scrivere la risposta su un foglio se in grado di leggere.
- Ha difficoltà ad usare il denaro
Cosa fare... lasciargli piccole quantità di denaro, trovare chi se ne occupa in sua vece (ad es. un
familiare, considerare la nomina di un curatore, tutore o amministratore di sostegno.
- Dice cose strane o poco credibili
A causa dei disturbi del linguaggio (afasia) che si manifestano man mano che la malattia avanza,
il vocabolario acquisito durante la vita si riduce. Il malato tenderà ad usare frasi sempre più
semplici, senza articoli e preposizioni, con espressioni generiche (“la cosa, “quello”, ecc..) per
definire un oggetto di cui non ricorda il nome, arrivando,così, a dire parole non comprensibili o per
colmare un vuoto di memoria, raccontare storie poco credibili di cui se ne convince.
Cosa fare... evitare di avere reazioni inadeguate, sforzarsi di capire il senso di ciò che vuole dire
il paziente, tranquillizzarlo anche con l’espressione non verbale, i gesti, che rimangono efficaci
anche nelle fasi più avanzate di malattia, distrarlo proponendogli qualcosa da fare.
- Ha difficoltà ad orientarsi: le prime difficoltà si possono manifestare quando deve
raggiungere un posto sconosciuto; poi anche su percorsi abituali, fino a smarrirsi anche nei dintorni
della propria casa o all’interno dell’ambiente domestico.
Cosa fare... evitare che il paziente usi la propria autovettura e convincerlo ad usare i mezzi
pubblici, poiché continuare a guidare diventa pericoloso anche per la compromissione delle capacità
di critica e giudizio, assicurarsi che abbia sempre con sé qualcosa che permetta a chi dovesse
soccorrerlo, di identificarlo e sapere chi informare, evitare che si allontani da solo senza avvisare,
facilitare l’orientamento nella propria abitazione con l’impiego di ausili
- Ha difficoltà a vestirsi: le prime difficoltà possono manifestarsi nell’abbottonarsi una
camicia o nell’organizzare in ordine i gesti con cui indossare i vestiti (aprassia) o indossare vestiti
inadeguati alla stagione.
Cosa fare... intervenire e correggerlo con dolcezza se commette errori, imitare i capi che deve
indossare, evitandogli più scelte, riporre su una sedia i capi da indossare nell’ordine in cui deve
metterli, usare capi semplici da indossare (ad es. tute da ginnastica, pullover, ecc..), e da sfilare,
senza chiusure complicate (sostituire le cerniere con il velcro), utilizzare calzature confortevoli e
facili da allacciare (scarpe con chiusura a strappo).
- Ha difficoltà a cucinare
Questa difficoltà può verificarsi già nella fase iniziale della malattia; può dimenticare il gas
acceso, dove sono gli ingredienti da usare e con il sopraggiungere dell’aprassia, si possono
verificare anche incidenti (tagli, scottature).
Cosa fare... supervisionare nella preparazione dei pasti, suggerire la preparazione di cibi
semplici e ben conosciuti, fornire, se necessario, pasti già pronti, installare dispositivi per la
sicurezza, soprattutto per il gas, eliminare oggetti taglienti.
- Ha difficoltà a curare la propria igiene personale: inizialmente può accadere che si
dimentichi di lavarsi o dice che lo ha già fatto; poi potrebbe non lavarsi perché non trova la toilette
(disturbi dell’orientamento) o perché non ricorda le azioni necessarie da compiere (aprassia) o
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ancora, perdere il significato di questa attività ed agitarsi o divenire aggressivo quando lo si aiuta a
svolgerla perché la vive come un’invasione priva di significato. Perciò un intervento assistenziale in
questa attività dovrà essere svolto con la massima delicatezza e teso a rispettarne la dignità.
Cosa fare... segnalare la toilette con disegni sulla porta, programmare i momenti da dedicare
all’igiene personale (possibilmente sempre gli stessi nelle diverse giornate), garantire la sicurezza
(tappetini antiscivolo, maniglioni alle pareti, ecc..), in un clima rilassante (uso della musica,
parlandogli), capire se ci sono timori o bisogni inespressi (acqua troppo calda, paura di cadere,
ecc..), se mostra imbarazzo, tenere coperte alcune parti del corpo. È opportuno, inoltre, che ad
aiutarlo a svolgere tale attività sia una persona del suo stesso sesso.
- Ha episodi di incontinenza: può accadere perché non riesce a raggiungere in tempo la
toilette, per difficoltà a trovarla, o perché non ricorda cosa deve fare. Nelle fasi avanzate della
malattia, può perdere, infatti, la capacità di riconoscere questo bisogno e non lo associa all’uso della
toilette. Queste difficoltà sono accentuate soprattutto la notte.
Cosa fare... lasciare aperta la porta della toilette, indicarla con un apposito contrassegno,
sollecitare il malato ad andare in bagno ogni 2-3 ore, e comunque al risveglio, prima di andare a
dormire e almeno 1 volta la notte, usare abiti facili da togliere, prevedere luci notturne per facilitare
l’orientamento, prevedere l’uso di contenitori e di una “comoda” da usare nelle ore notturne,
mostrarsi comprensivi di fronte ad un episodio di incontinenza, ritardare l’uso del pannolone e il
catetere come ultima risorsa.
- Rischia di cadere: il malato va incontro a disturbi dell’equilibrio, con conseguente
maggiore facilità a cadere a causa di malattie croniche dell’apparato locomotore ed al concomitante
uso di farmaci che possono compromettere la deambulazione. Una caduta con un’eventuale frattura
del femore potrebbe rivelarsi un evento fatale, perciò, uno degli obiettivi primari dell’intervento
assistenziale diventa proprio la riduzione del rischio di cadute. Si possono sperimentare le
modifiche degli ambienti già indicati in precedenza o utilizzare opportuni ausili per il malato.
- Ha convulsioni: la convulsione è scatenata da un’alterata attività “bioelettrica”delle cellule
nervose. Possono comparire nella fase avanzata della malattia e necessitano di un intervento
farmacologico. Si può manifestare con la comparsa di movimenti ripetitivi di flesso-estensione di
un arto, seguiti da rigidità diffusa e perdita di coscienza; il malato può perdere le urine e mordersi la
lingua.
Cosa fare...Se si assiste ad un episodio convulsivo bisogna cercare di adagiare il paziente sul
pavimento ed allontanare eventuali oggetti contro cui potrebbe ferirsi mentre ha i movimenti di
flesso-estensione; girargli il capo di lato per favorire la fuoriuscita di saliva e cercare di tenere libere
le vie aeree.
Diventa incapace di alzarsi dal letto: la fase terminale della demenza è associata alla
“sindrome da immobilizzazione”. Il malato non è più in grado di camminare, né di mantenere la
posizione seduta ed è costretto a letto. Per evitare le conseguenze di una prolungata permanenza a
letto sarà necessario effettuare una serie di interventi assistenziali finalizzati a mantenere il miglior
livello funzionale residuo. Infatti, la mobilizzazione assume un grande rilievo perché permette di
prevenire:
- la comparsa di piaghe da decubito, che sono lesioni della pelle e dei tessuti sottostanti,
dovuti ad una prolungata pressione sulle parti del corpo a contatto con il piano di appoggio. Tali
lesioni si sviluppano quando il malato allettato non è più in grado di compiere movimenti volontari
ed involontari per scaricare la pressione cui sono sottoposte le zone del corpo appoggiate sul piano
da letto. Per ridurre la pressione locale sono stati creati dei dispositivi “anti-decubito”(materasso ad
acqua, ad aria a pressione alternata o in materiale supersoft), che riducono il rischio, anche se non si
elimina il bisogno di cambiamento di posizione che deve essere effettuata ogni 2-3 ore.
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- i blocchi articolari e per mantenere il trofismo muscolare;
- le alterazioni vaso-motorie (brusco abbassamento della pressione se il malato viene alzato
dal letto e messo bruscamente in piedi);
- la trombosi venosa profonda agli arti inferiori con rischio di embolia polmonare.
Vi sono, poi, altri disturbi non cognitivi e del comportamento che possono comparire nelle
diverse fasi della malattia aggravando ulteriormente il carico assistenziale del caregiver. Tra i più
comuni disturbi riportati nei lavori scientifici ricordiamo:
Allucinazioni: sono errate percezioni della realtà. Il malato vede (persone) o sente (voci, odori,
sapori strani) cose che non esistono, ma è convinto della loro reale esistenza, e può essere impaurito
o agitato. Il disturbo può essere causato dalla presenza di stimoli ambientali che provocano false
percezioni visive (es. vedere la propria immagine allo specchio, ma che non viene riconosciuta
come tale, ma di una persona estranea) o uditive o dall’assunzione di alcuni farmaci. Il disturbo può
comparire anche in conseguenza di stati febbrili e disidratazione.
Cosa fare... Tali indicazioni pratiche potranno essere comunicate anche ai familiari che hanno
in carico il paziente, al fine di poter fornire un’assistenza più adeguata e migliorare la relazione
di cura:
- verificare se vi è in atto qualche patologia organica o farmaci che potrebbero ingenerare tale
effetto collaterale, ed in tal caso chiedere sempre al medico;
- rapportarsi al malato in modo calmo ed affettuoso, rassicurandolo;
- individuare ed eliminare cause ambientali che possono esserne la causa;
- cercare di spostare l’attenzione su cose che potrebbero interessarlo.
Cosa non fare... deridere il malato, contraddirlo, cercare di spiegargli che non sono cose reali.
Deliri
Sono false convinzioni, vissute dal malato in modo acritico ed assoluto. Ad es. il paziente crede
che si stiano verificando cose (come che qualcuno lo stia derubando, che i familiari lo vogliano
abbandonare) in realtà non vere.
Possono insorgere come conseguenza di bruschi cambiamenti ambientali (un ricovero, un
cambio di domicilio), in seguito all’assunzione di alcuni farmaci o per stati febbrili e disidratazione.
Possono associarsi ad allucinazioni e sulla base di tali errate percezioni, costruire storie, elaborare
pensieri e discorsi non attinenti con la realtà ed esserne, talvolta, molto spaventato.
Cosa fare... ignorare le accuse (di furto, tradimento, ecc…) infondate, confortare il malato con
tono di voce calmo, dimostrare di capirlo, assecondarlo e cercare con discrezione di riorientarlo,
cercare di distrarlo attirando la sua attenzione su cose che normalmente gli risultano piacevoli,
mantenere l’ambiente ordinato, tranquillo e rassicurante, riducendo la possibilità di “nascondigli”,
controllare eventuali deficit sensoriali.
Cosa non fare... Deriderlo, mettendo in discussione le sue convinzioni.
Apatia
Il malato può rimanere immobile su una sedia, senza fare nulla per molto tempo, completamente
disinteressato a ciò che lo circonda ed indifferente a tutti gli avvenimenti esterni. Ciò si può
verificare perché la graduale perdita delle funzioni cognitive si ripercuote negativamente sulle
capacità funzionali del malato e si esprime con la progressiva riduzione della capacità di partecipare
alle attività della vita quotidiana.
Cosa fare... stimolare il malato e cercare di attirare l’attenzione su qualcosa che lo coinvolga
emotivamente, potrebbe essere scosso dallo stato di inerzia con attività quali il canto, ballo,
ripetizione di filastrocche, congratularsi se riesce a fare qualcosa. Non bisogna dimenticare che il
rinforzo positivo è fondamentale e base per creare un circolo virtuoso all’interno di qualsiasi
relazione.
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Sintomi depressivi
Sono tra i disturbi che più frequentemente si manifestano sin dalle prime fasi della malattia e
che la accompagnano anche successivamente. Il malato appare più malinconico, triste, stanco, e
piangere. Può lamentarsi di dolori vaghi e diffusi. Potrà anche mostrarsi nervoso, irritabile ed
agitato. All’inizio della malattia, tali disturbi possono essere dovuti alla consapevolezza del paziente
delle sue difficoltà o perché si sente confuso e disorientato.
Cosa fare... avere un atteggiamento rassicurante, materno, accarezzarlo, abbracciarlo e trattarlo
con dolcezza, stimolarlo a svolgere un’attività che sia in grado di fare e che sia per lui fonte di
gratificazione, spostare la sua attenzione su qualcosa che lo rassicuri
Ansia
Come già è stato citato, è spesso presente nelle fasi iniziali della malattia. Può manifestarsi sotto
forma di preoccupazione, apprensione senza un reale motivo. Tale reazione può essere scatenata
dalla difficoltà a svolgere un compito che in precedenza riusciva a fare o se non riesce a ricordare
un fatto appena accaduto. In pratica il malato si rende conto che in lui sta cambiando qualcosa.
Può essere la risposta a difficoltà ambientali, alla perdita di riferimenti stabili, a rapidi
cambiamenti.
Così come per altri disturbi non cognitivi, si deve escludere che sussistano altre cause che la
possano generare ( ipertiroidismo, patologie cardiache, ecc..) o farmaci.
Cosa fare... confortare il malato con tono di voce calmo, dimostrare di capirlo, rassicurarlo con
il contato fisico, mantenere l’ambiente ordinato e tranquillo, stabilire una routine nelle attività
giornaliere.
Labilità emotiva
È caratterizzata da repentini cambiamenti d’umore, passando senza giustificato motivo da una
profonda tristezza ad un eccesso di felicità o rabbia.oppure reagisce in modo emotivamente
incoerente al contesto, ad es: ride senza motivo. Può essere la conseguenza di pensieri che il malato
ha ma che non riesce ad esprimere o essere una reazione all’ incapacità di rispondere a stimoli
esterni.
Cosa fare... restare calmi, non cercare di capirne il motivo e non sottolineare l’inadeguatezza
del comportamento, rassicuralo con modi affettuosi se spaventato dalla sua stessa reazione emotiva,
pur non avendola potuta evitare.
Agitazione
Si manifesta con ansia, tensione, inquietudine; il malato non riesce a stare fermo, chiede
continuamente di qualcuno che deve arrivare (“sindrome di Godot”) o qualcosa ( es: “che ora è,
quando usciamo”). Può provare paura per qualcosa che non sa indicare o reagire in modo esagerato
ad uno stimolo innocuo..
Si verifica quando la persona non riesce ad interagire in modo adeguato con l’ambiente, da cui
riceve stimoli che non è in grado di comprendere; o non riesce ad esprimere il suo disagio fisico in
altro modo (un dolore, se ha fame, se è stanco, ecc..).
Cosa fare... escludere cause fisiche, farmacologiche, alimentari (es: caffè), parlare con toni
pacati e rassicuranti, rispondere alle domande con dolcezza, creare condizioni ambientali che
possano facilitare il coinvolgimento del malato ed evitare sollecitazioni sensoriali inadeguate.
Cosa non fare... non intervenire in più persone per calmarlo, lasciarlo muovere liberamente
senza bloccarlo, evitare ambienti rumorosi, che aumentano, in genere l’agitazione e l’aggressività.
Aggressività
Di norma si esprime sotto forma di aggressività verbale (insulti, linguaggio scurrile) e più
raramente in senso fisico. Generalmente è una risposta di difesa ad una situazione percepita come
minacciosa o confusiva, che gli provoca frustrazione o ansia; non sempre, infatti, è in grado di
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capire cosa accade intorno a lui o cosa gli si dice, soprattutto se gli stimoli arrivano all’improvviso
ed inaspettati. Ad es. una reazione aggressiva si potrà avere anche quando gli si avvicina una
persona amica, se ciò avviene all’improvviso, senza averla vista arrivare e la reazione istintiva sarà
quella di difendersi da un’ipotetica minaccia, oppure anche quando il malato è aiutato nell’igiene
personale, vivendo tale aiuto come un’invasione della propria intimità perché, non avendo più cura
di sé, non ne comprende più nemmeno il significato. Con la malattia, inoltre, si accentuano gli
aspetti negativi del carattere, ma ne possono emergere anche di nuovi, per cui questo disturbo può
manifestarsi anche in soggetti un tempo tranquilli. Così come altri disturbi del comportamento,
anche in questo non vi è nessuna intenzionalità e la rabbia verbale non è rivolta a chi lo sta
assistendo, ma rappresenta l’unico modo per manifestare un disagio fisico o psichico che non riesce
ad esprimere in altro modo.
Cosa fare... non reagire ad un comportamento aggressivo, cercare di mantenere la calma e anzi,
parlargli con dolcezza e rassicurarlo tenendogli la mano o abbracciarlo, è buona norma mostrarsi
sereni, sicuri, autorevoli; ricordandosi che l’espressione del viso, i gesti, sono elementi non verbali
ben percepiti dal malato anche in stadi avanzati della malattia e sono importanti nel favorire il
passaggio delle informazioni. La sola espressione del viso può scatenare una reazione aggressiva se
il malato la confonde e la considera come appartenente a qualcuno a lui sgradito. Ridurre al minimo
le situazioni che possono creare ansia, come l’affrontare un compito che non è più in grado di
portare a termine.
Se insorgono difficoltà mentre lo si sta accudendo, sarà utile cercare di distrarlo su qualcosa di
piacevole (es: un ricordo che lo tiene concentrato, dargli da tenere qualcosa, un cibo che gli piace,
ecc..). senza insistere, o rinviare anche di poco ciò che determinato l’aggressività. Può accadere che
la stessa attività o la stessa domanda in un momento successivo venga accettata, perché riesce a
comprenderla solo la seconda volta.
Cosa non fare... non ha alcun senso e anzi, può accentuare la reazione aggressiva il mostrarsi
offesi, impauriti, discutere o usare la forza, rimproverarlo o chiedergli perché lo ha fatto, aspettarsi
delle scuse o farsi promettere che non lo farà.
In merito alla contenzione, in letteratura raramente viene considerata appropriata. Alcuni la
ritengono utili limitatamente alle spondine, o in caso di etero-aggressività e quando è in pericolo la
sua sicurezza (es: durante il trasporto in barella, cadute ad ogni tentativo del malato di stare in piedi).
Anche se la letteratura è discorde, riportando che l’uso sistematico della contenzione non previene
le cadute, anzi, malati che cadono mentre contenuti, subiscono danni ancora più gravi.Ciò vale
anche per l’utilizzo a scopo di ridurre il vagabondaggio, dove alcuni autori la ritengono più dannosa
che utile. Allo stesso modo impiegarla per mantenere il malato in poltrona con una postura corretta.
Non vi è, quindi, parere univoco, ma va valutato caso per caso, in base alle esigenze del malato.
4. Il quarto tema trattato riguarda gli aiuti esterni e territoriali (servizi pubblici, privati,
aspetti medico-legali).
L’obiettivo di questo incontro è quello di fornire ai familiari alcune indicazioni sui servizi
presenti sul territorio a cui potersi rivolgere sia per l’ottenimento dei benefici previsti dalla legge (es.
indennità di accompagnamento, invalidità, ecc…), che per ricevere aiuti nell’assistenza.
Spesso, infatti, i familiari, accanto al loro carico personale di preoccupazione, sentono di non
avere alcun riferimento istituzionale formalizzato e non trovano, a causa anche della scarsa
informazione che dispongono, un interlocutore con cui potere costruire percorsi di assistenza. Una
delle lamentale che sono emerse durante questo gruppo, è proprio il fatto che la famiglia si sente
abbandonata, che manca un aiuto sull’emergenza e una “guida”che li possa aiutare nella gestione
del paziente; anzi, talvolta questi ultimi vengono sballottati tra il pronto soccorso, un reparto e
l’altro, senza risolvere nulla. Infatti, il contenimento nei servizi di base è spesso carente, così come
la capacità di fare diagnosi. Spesso i disturbi cognitivi vengono sottostimati e scambiati come
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“paturnie”dei familiari, procrastinando l’intervento sia sul paziente che sui familiari. La formazione
del familiare sul come comportarsi nei confronti del malato, soprattutto nei casi di urgenza, è
fondamentale, perché permette, a chi si prende cura, di tollerare e vedere l’intervento anche da un
altro punto di vista. In altre parole, la consapevolezza della malattia e delle sue manifestazioni
sintomatiche, previene gli errori e ci aiuta ad adottare un comportamento più idoneo e funzionale al
superamento del momento critico.
La convivenza con malati affetti da demenza comporta, infatti, una serie di difficoltà: il
compito dell’assistenza coinvolge, infatti, l’intera famiglia che deve adattarsi alla nuova situazione.
Spesso le persone, pur desiderando prestare direttamente le cure necessarie al loro congiunto, si
trovano sottoposte ad intense condizioni di stress psicofisico che inficiano la loro capacità
d’iniziativa. Compito del servizio sociale è quello di potenziare le risorse della famiglia e renderla
capace di chiedere i benefici di legge alle istituzioni competenti.
Sulla base di quanto affermato, è possibile riconoscere alla famiglia la possibilità di essere
aiutata nel suo percorso con un intervento specifico del servizio sociale.
Dall’ultima legge di riordino del SSN, individuabile nel decreto 229/99, è emersa la volontà del
legislatore di potenziare i servizi sanitari territoriali attraverso un percorso in rete di integrazione
socio-sanitaria al fine di porre l’utente al centro dei servizi a lui dedicati. Tale necessità si fonda
sull’attuale evidenza del progressivo invecchiamento della popolazione e della crescita di patologia
croniche. Infatti una collocazione in rete delle attività assistenziali permette di offrire risposte
flessibili alle richieste dell’utenza e al contempo, di superare la vecchia concezione a mosaico dei
servizi offrendo maggiore continuità assistenziale. Il paziente viene così preso in carico in ogni fase
della malattia, con riguardo anche delle fasce più deboli della popolazione che in molto casi,
soprattutto se affetti da malattie difficilmente trattabili come la demenza, vivevano ai margini dei
servizi. Attraverso tale organizzazione, si riporta all’ospedale la funzione peculiare della cura di
patologie acute, riservando al territorio la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle patologie
croniche.
Figura di riferimento per la famiglia all’interno dei servizi è la professionalità dell’assistente
sociale che costituisce un trait d’union tra le istituzioni e la persona affetta da demenza, fornendo
alle famiglie tutte le informazioni necessarie in riferimento ai benefici previsti dalla legge e
semplificando le procedure utili all’ottenimento dei diritti sociali previsti. Tale professionalità, per
realizzare il proprio lavoro, si avvale soprattutto della comunicazione umana che permette di entrare
in contatto con le persone e, mediante colloqui, riunioni e documentazioni, arricchire la conoscenza
della situazione al fine di delineare il processo di aiuto. Certamente il colloquio è il mezzo
principale per instaurare una relazione costruttiva che ha come fine quella di favorire la
comprensione reciproca attraverso una riformulazione del linguaggio tecnico in un linguaggio più
comprensibile al senso comune, ed individuare le possibili soluzioni alle richieste.
4.4 I servizi presenti sul territorio
I punti di riferimento e fulcro della risposta ai bisogni socio-sanitari sono per tutta l’utenza i
Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) presenti sul territorio della AUSL, che forniscono
assistenza sanitaria a domicilio ai pazienti non autosufficienti, segnalati con apposito modulo dai
medici di medicina generale e che provvedono a:
- valutare i bisogni assistenziali sanitari e sociali;
- alla collocazione assistenziale del paziente nei vari servizi offerti dal territorio (es: centri
diurni, Residenze Sanitarie Assistite, ecc…);
- alla formulazione di un piano di intervento assistenziale adeguato.
Tra i servizi disponibili, ricordiamo, ad esempio, le RSA che sono strutture che offrono
assistenza sanitaria ed alberghiera per adulti non autosufficienti e non curabili a domicilio, le
lungodegenze post-acuzie, strutture dedicate a pazienti che necessitano di un prolungamento
dell’intervento assistenziale post-ospedaliero e che prevedono sia prestazioni sanitarie che un
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servizio di guardia medica interno sulle 24 ore ed i servizi di riabilitazione, già previsti dalla legge
833/78, che vengono erogati oltre che in forma ambulatoriale, domiciliare e residenziale, anche in
forma di ricovero per gli utenti che necessitano di un ambiente protetto.
In particolare per la demenza di Alzheimer, che è la forma più comune di demenza, esistono
centri diurni che accolgono pazienti con un grado di compromissione lieve e medio e in assenza di
marcata aggressività. In queste strutture si svolgono attività di stimolazione cognitiva e
neuromotoria calibrata alle condizioni del paziente, che vi sta dal mattino fino al pomeriggio.
Il centro diurno si rivolge anche ai familiari, fornendo supporto informativo, formativo e
sostegno psicologico. Per raggiungere questi centri esiste la possibilità di fare richiesta di un
servizio navetta a pagamento. La domanda deve essere presentata al CAD e corredata da un
certificato medico che attesti lo stato di malattia. Esistono anche in alcune regioni dei Nuclei di
Ricovero (NRA) a cui possono accedervi i pazienti affetti da demenza. Tale ricovero potrà essere
determinato da motivi di sollievo dal carico assistenziale per la famiglia, o di tipo ordinario, per
pazienti con disturbi cognitivi e comportamentali non assistibili al proprio domicilio.
L’intento di questi incontri modello è di fornire alle famiglie una continuità degli interventi, che
è ciò che più domandano, raccordando domiciliarità e residenzialità attraverso la realizzazione di un
percorso terapeutico realizzato dall’èquipe multidisciplinare.
Da quanto detto, risulta evidente il grande impegno profuso da tutte le figure professionali
coinvolte nella realizzazione di una mole di lavoro veramente rilevante e complessa.
Ultimo passaggio da considerare è la criticità rilevabile in molti ambiti comunali nel farsi carico
dell’utente in quelle fasi della malattia che non necessitano di particolari interventi sanitari, ma solo
di interventi psico-sociali; infatti si evidenzia come una quota consistente di richieste assistenziali
non venga soddisfatta, a testimonianza della difficoltà dei servizi nello svolgimento dei loro compiti,
a livello regionale oltre che nazionale. Dalla testimonianza raccolta da un assistente sociale nella
zona di Parma, emerge chiaramente la fatica nel portare a termine il lavoro sul territorio.
Ad esempio, la semplice richiesta per la nomina di un amministratore di sostegno, viene talvolta
complicata dalla burocrazia troppo pedante e farraginosa. Basti pensare come nel fascicolo di
richiesta vada allegata una serie di documentazione “infinita”e non sempre facilmente reperibile ( v.
documentazione sanitaria, anagrafica, stato di famiglia, di residenza, denunce varie da parte di
organi della polizia, ecc). Ancora il fatto che la legge imponga la presenza del paziente durante le
udienze in tribunale per la nomina stessa, nonostante sia impossibilitato per ovvi motivi, diventa un
ulteriore complicanza. In ultima analisi, anche se sia stata introdotta la nuova figura
dell’amministratore di sostegno, di fatto manca una strategia più snella da un punto di vista
burocratico e più attenta ai bisogni ed alle esigenze del malato; in altre parole c’è stata
un’evoluzione sul piano normativo a sostegno dell’aspetto più psicologico e non più solo della
tutela del patrimonio, oltre che un contenimento dei tempi e dei costi della procedura, ma ancora
una volta la “teoria” legislativa è destinata a scontrarsi con la pratica quotidiana. Del resto se da un
lato è innegabile l’impegno del legislatore nel far fronte all’adeguamento delle procedura al
progressivo invecchiamento della popolazione e quindi a garanzia del mantenimento della qualità
della vita nell’anziano, dall’altra parte occorre altro tempo affinché la nuova “cultura” della
demenza venga sedimentata, divenendo parte così di un patrimonio condiviso ed accettato.
Data la complessità della situazione, una soluzione potrebbe essere individuata nel
potenziamento della famiglia come risorsa. Diventa quindi necessari la sensibilizzazione e la
formazione per coloro (badanti e familiari) che si trovano a dover assistere pazienti affetti da
demenza. Questo intervento di educazione sanitaria, quindi, non solo alleggerisce la mole di lavoro
agli operatori, ma permette, altresì, di garantire una qualità di vita migliore all’interno del contesto
familiare, soprattutto nel momento del rientro e nelle fasi di riacutizzazione della malattia. In tal
modo la famiglia diventa “autosufficiente” ed una valida “interfaccia” con i servizi, in grado di farsi
carico in modo consapevole e sereno della gestione completa del paziente. L’importanza di ciò si
evidenzia da alcun progetti attivati a livello regionale (es: apertura di nuovi centri in regime semi55
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residenziale, centri di consulenza e di informazione, ecc...) che hanno reso possibile una maggiore
integrazione tra la rete e la famiglia, aumentando il gradimento degli utenti intervistati.
4.5 Alcuni casi clinici: le storie di Nando e di Italo
Nando ha 86 anni, è nato a Brescia e vive attualmente a Parma dove ha svolto la professione di
medico-chirurgo.
Le notizie anamnestiche, dato l’elevato grado di deterioramento cognitivo presente fin
dall’ingresso, sono scarse e raccolte da testimonianze di conoscenti, poiché il paziente è
completamente solo e privo di alcun riferimento familiare contattabile. Infatti, la presa in carico dei
servizi sociali è avvenuta dopo la segnalazione della portinaia, la quale indicava episodi gravi
commessi dallo stesso (es: si era perso, si era dimenticato i rubinetti aperti allagando il pianerottolo,
ecc.). L’assistente sociale, recatasi presso la palazzina, nota innanzitutto, una forte incongruenza tra
il comportamento verbale (sosteneva di sentirsi bene e tentava di non fare entrare l’operatore) e le
condizioni disastrose nelle quali viveva. Dai racconti, infatti, è emerso che si era trasferito presso
tale ubicazione, che un tempo era il suo studio medico, dopo avere ricevuto uno sfratto alcuni anni
prima. I vicini temevano di avvisare il Comune, perché lo conoscevano da circa quarant’anni e non
volevano prendere un provvedimento così “forte”, nonostante avessero notato la presenza di deficit
cognitivi e di comportamenti incoerenti.
Il graduale scompenso clinico è culminato, poi, con un TSO e il seguente ricovero in SPDC ma,
fino a quel momento, il paziente era riuscito a mantenere un discreto compenso, avvalendosi anche
di riferimenti esterni (i vicini di casa, il bottegaio) a cui comunicava i suoi deliri persecutori.
Nonostante la situazione si presentasse già grave, gli assistenti sociali incontrarono non poche
difficoltà nel cercare di ricoverarlo. Il ricovero coatto è stato possibile grazie al fatto che il paziente
si recasse spesso presso gli uffici postali, nel tentativo compulsivo di ritirare dei soldi che in realtà
non gli spettavano. All’ennesimo tentativo, la polizia postale ha colto l’occasione per avvisare il
Comune e quindi effettuare il ricovero.
Ha fatto ingresso in casa di cura nel novembre 2007, proveniente dal SPDC di Parma, dove un
mese prima aveva subito il TSO perché mostrava agitazione psicomotoria e gravi turbe del
comportamento. Era infatti agitato, confabulante ed acritico.Grazie alla terapia c’è stato un graduale
miglioramento con riduzione dell’agitazione, della disforia e dell’affaccendamento.
La diagnosi di ingresso è di: demenza senile tipo Alzheimer con grave deterioramento
cognitivo.
All’ingresso in “Villa Maria Luigia”, mostrava ancora un certo grado di agitazione ed
oppositività, per cui è stata proseguita la terapia farmacologica precedentemente stabilita dai medici
del SPDC, poi ridotta gradualmente per la comparsa di uno stato di sedazione, fino alla sospensione
totale della stessa per l’insorgere di un episodio infettivo trattato con terapia antibiotica. Ne è esitato
un peggioramento psico-fisico, cognitivo ed un iniziale deficit della deambulazione.
Durante la precedente degenza è stata effettuata anche una TAC all’encefalo, a cui poi ne è
seguita una seconda durante il nuovo ricovero, che ha rilevato “una sottile raccolta ematica extraassiale subdurale in sede fronto-temporale destra e parietale, ma senza effetto massa sui solchi e le
circonvoluzioni cerebrali soggiacenti. Assenza di modificazioni significative della densità del
parenchima cerebrale, ma modificazioni atrofiche del sistema ventricolare e calcificazioni
ateromasiche dei sifoni carotidei e del tratto intra-durale e dell’area vertebrale sinistra. Non fratture
del neurocranio”.
Altri accertamenti diagnostici sono stati compiuti durante il nuovo ricovero. La seconda TAC
evidenzia “fenomeni regressivi cortico-sottocorticali ad entrambi gli emisferi cerebrali in regione
silviana e nella fossa cranica posteriore specie di destra”.
Anche la valutazione neuro-psicologica confermava la presenza di un deterioramento cognitivo
grave (MODA 63.1/100).
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Vi è quindi stata, durante il ricovero, una repentina evoluzione del quadro clinico, con notevoli
problemi internistici ed assistenziali di dipendenza completa. Il paziente, infatti, è incontinente e
sono assenti le principali autonomie di base come il provvedere alla propria cura ed igiene
personale (Indice di Barthel 10). In virtù di ciò, durante il periodo di osservazione in casa di cura, si
è ritenuto opportuno contattare i servizi sociali al fine di delineare un progetto assistenziale idoneo,
quale l’opportunità di inserimento in una struttura protetta per anziani. È tutt’ora in corso la
procedura per la nomina di un’amministratore di sostegno. A tale scopo è stata effettuata una ricerca
anagrafica presso i comuni di nascita e nei luoghi dove ha abitato, per verificare la presenza di
parenti entro il quarto grado. Tale ricerca, con non poche difficoltà, ha portato all’individuazione di
una sola nipote indiretta, la quale è stata avvisata con notifica per la presentazione presso il
Tribunale e l’eventuale nomina da parte del Giudice, qual’ora decidesse di accettare l’incarico e di
rappresentarlo. Attualmente il paziente si trova presso una struttura protetta in provincia di Parma.
*****************
Italo nasce nel 1928. Ha conseguito il diploma di licenza media inferiore. Ha lavorato come
dipendente AMNU ed in ferrovia. Si coniuga all’età di circa 30 anni, da questa unione nasce un
figlio. Diventa nonno all’incirca 10 anni fa, ed insieme alla moglie si occuperanno del nipote, dando
un sostegno fondamentale e permettendo così ai coniugi di svolgere le loro attività lavorative.
Impegnato nell’assistenza pubblica, ed anche dopo il pensionamento resta una persona attiva, infatti
diviene membro del sindacato pensionale. Nell’anno 2005 alla moglie viene diagnosticato un
tumore al seno; in tutta la fase della malattia (conclusa in modo positivo), gli resta vicino
sostenendola in ogni suo bisogno. Fino all’età di 78 anni conduce quindi una vita alquanto attiva,
mostrandosi sempre in grado di provvedere non solo a se stesso ma anche ai familiari. Nonostante
la sua tenacia e determinazione nel voler continuare le sue attività, gli viene chiesto di allontanarsi.
Inspiegabilmente la famiglia non comprendendo le reali motivazioni, attribuisce la causa al
carattere che sebbene generoso ed altruista verso gli altri, ha sempre presentato tratti di irascibilità e
scatti d’ira. Infatti alle richieste d’allontanamento, non essendo in grado di spiegarsi in maniera
esaustiva le motivazioni, reagisce in modo aggressivo, dando origine ad un circolo vizioso di
ulteriore allontanamento, rabbia e incomprensione. Da qui si evince come l’esordio subdolo ed
insidioso della malattia non sia stato prontamente percepito dai familiari. Infatti, anche dopo il
primo grave episodio, durante il quale la moglie viene ricoverata d’urgenza per un attacco di cuore,
i familiari sottovalutano di nuovo la possibilità della presenza di un disturbo, anche se non ancora
specificabile. La nuora racconta di aver trovato il paziente solo il giorno dopo, sotto le scale di casa,
in stato confusionale, non riuscendo a spiegare l’accaduto. Infatti, ricostruendo l’episodio, nel
momento in cui la moglie si è sentita male, sembrerebbe che non sia stato in grado di dare l’allarme,
ma dovettero farlo i vicini, avvisati dalla moglie stessa. I familiari di fronte a tale comportamento,
ne attribuiscono erroneamente la causa al trauma subìto dal paziente, ricordando un parente quando
aveva reagito in modo analogo al malore del congiunto. In effetti, la non consapevolezza del
problema da parte dei familiari è riconducibile al meccanismo di difesa della negazione; spesso gli
esseri umani tendono a negare i problemi ed a pensare che non ci si ammalerà mai, ma una malattia
inguaribile di un congiunto scardina tali certezze. Le dinamiche che spingono a negare o a evitare di
pensare alla malattia vengono sopraffatte dalla paura e dai sentimenti di minaccia e vulnerabilità.
Tutto questo provoca emozioni, ancora una volta, contrastanti, fatte di dolore per la situazione
vissuta dal proprio familiare, la paura di subire la stessa sorte, la rabbia per la possibile ereditarietà
ed il disagio anche inespresso, legato al vissuto di tali sentimenti.
In seguito a tale episodio, nonostante il paziente riesca a superarlo, permane un certo grado di
disorientamento, aggravato dal manifestarsi di alcuni disturbi della memoria in seguito ai quali i
familiari interverranno. Accadde, infatti, che un giorno ritornò a casa molto arrabbiato perché
sosteneva di aver litigato con un vigile, il quale gli diede una multa anche se la motivazione non fu
mai chiarita. I familiari cogliendo l’occasione, sfruttarono tale episodio come pretesto per toglierli
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l’uso dell’auto, incolpando il vigile, e così evitando un ulteriore scontro ed allontanamento dal
padre. Dal racconto del figlio emerge in modo profondo il dolore ed il senso di colpa, infatti, la
decisione presa, viene vissuta come una prepotenza nei confronti del padre, il quale era molto legato
affettivamente al veicolo. Dalle parole emerge altresì la paura di avergli causato sofferenza e quindi
un ulteriore frattura nella relazione col padre. Tali processi potrebbero essere spiegati alla luce del
cosiddetto “carico sociale” che denuncia la percezione di un conflitto di ruolo. Spesso i figli devono
abbandonare il ruolo di accuditi, che nelle famiglie tende per questioni affettive, a rimanere anche
quando i figli crescono e devono assumere il ruolo di chi accudisce:da figli vedono in qualche modo
invertirsi i loro ruoli e diventare un po’ “padri” dei loro padri.
Successivamente accadono altri episodi che caratterizzano un aggravamento della patologia
non ancora diagnosticata. Ad esempio, i continui prelevamenti presso la banca, di soldi della
pensione, che non veniva spesa ma meticolosamente riposta all’interno di un portafogli e suddivisa
in mazzetti contrassegnati da etichette riportanti il relativo importo; il tutto custodito in un cassetto.
Il comportamento del paziente viene scoperto dalla nuora, che insospettita, insieme al marito si
rivolgono alla banca per avere spiegazioni ed un aiuto per controllare i prelevamenti, evitando al
contempo uno scontro diretto con il padre. A tale richiesta la banca risponde negativamente, non
ritenendosi autorizza, ma proponendogli il ricorso alla nomina di un amministratore di sostegno; il
figlio non prende in considerazione la proposta perché la ritiene troppo gravosa, lunga in termini di
tempo e troppo severa e rigida nei confronti del padre, verso il quale prova una grande e profonda
riconoscenza per l’aiuto ed il supporto che gli ha sempre offerto (in particolare per l’impegno e
l’amore verso la nipote). Anche in tale circostanza emergono i sensi di colpa e di frustrazione del
figlio; infatti le sue intenzioni, sebbene ovviamente a fin di bene, vengono vissute come bugie e
prese in giro.
A volte accade, infatti, che il coniuge o i parenti restino inerti e non prendano alcun
provvedimento per timore di ledere l’onore del malato. Un tal modo di pensare, è fondato su un
personale, quanto errato senso di protezione della dignità del malato, che si traduce in una
omissione delle azioni necessarie a garantire le posizioni soggettive di chi ha, invece, bisogno di
aiuto. Ciò è sbagliato e fonte di danno per il demente che ha diritto ad una piena tutela giuridica.
Altre volte, accade che i familiari non si rendano ben conto dell’insorgere della malattia, perché non
adeguatamente informati o consapevoli: non va dimenticato che la tutela giuridica è efficace se
tempestiva e quindi attuata fin dall’insorgere della malattia. L’omissione di un tempestivo
intervento giuridico è fonte di pregiudizio, non solo per il malato (che potrebbe compiere atti
dannosi di vario tipo), ma anche per i congiunti prossimi (ad es. il caso del demente che compie atti
di disposizione del proprio patrimonio senza rendersene conto). Quindi, oltre la conseguenza
dannosa per il malato di perdere il patrimonio, ve n’è un’altra spesso sottovalutata, ed è la
possibilità che il demente, divenuto non più autosufficiente sotto il profilo economico, debba
richiedere agli obbligati di versare un contributo alimentare per sé. Parimenti, dopo la morte senza
che vi sia promosso un procedimento di inabilitazione o interdizione, può affiorare un testamento
contenente disposizioni patrimoniali inaspettate e bizzarre, o che emerga l’esistenza di obbligazioni
patrimoniali sospette, ma vincolanti per chi è erede. Atti comunque validi, difficilmente annullabili
e idonei per dare via ad un contenzioso complesso.
Il figlio, molto riconoscente al padre e preso atto dell’impossibilità di essere supportato dalla
direzione dell’istituto bancario, ovvia la questione proponendo al padre l’apertura di un nuovo conto
co-intestato, grazie al quale lo avrebbe aiutato nel disbrigo di tali pratiche. Ovviamente il
suggerimento viene dettato dalla necessità di vigilare sul patrimonio del padre,
La difficoltà di ricorrere agli aiuti esterni, è dovuta anche al comportamento della moglie, la
quale ha sempre cercato di gestirlo da sola, rifiutando anche l’intervento ed i suggerimenti degli
assistenti sociali, come per esempio la frequentazione di un centro diurno. È noto che le mogli, in
tal modo, presentano spesso valori alti di stress, di carico obiettivo e più in dettaglio di carico
psicologico e fisico, ma anche elevati livelli di ansia e depressione. È evidente che il suo voler
continuare a rapportarsi col marito come se nulla fosse, cercando di avere un dialogo come prima
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della malattia, denota non solo la non consapevolezza e non conoscenza dei sintomi della malattia,
ma soprattutto la tendenza a sopravvalutare le capacità comunicative del proprio caro, caricando di
un enorme coloritura affettiva e comunicativa un semplice sguardo, una verbalizzazione o un gesto.
Non esistono reazioni giuste o sbagliate. Senz’altro sottovalutare le risorse del paziente
significa non essergli utile, con il rischio di mortificarlo, ma anche la tendenza a sopravvalutare il
proprio caro, seppure figlia di una grande empatia e di un processo di identificazione, è comunque
portatore di delusione, soprattutto quando le aspettative sono esagerate o caricate di un significato
che non c’è. Infatti, certi eventi (l’incontinenza del marito o l’aggressività spesso immotivata),
venivano interpretati non come indicativi della presenza di un eventuale disturbo, quanto di un
comportamento dispettoso e volontario verso la sua persona. Tale situazione perdura fino alla
caduta accidentale della moglie che si procura la frattura di un arto. L’evento precipitante, oltre che
l’aggravamento dei sintomi (va a letto vestito, cerca di uscire di notte, i vicini si lamentano per il
disturbo causato), determina un ulteriore crollo della compliance familiare rendendo impossibile
l’intervento supportivo della famiglia con il conseguente ricovero nel dicembre 2007.
Solo a questo punto i familiari si rendono conto della gravità della situazione, e per alleggerire il
carico assistenziale, in accordo anche con la moglie, la quale, nel periodo in cui il marito è stato
ricoverato, a detta dei familiari “è rinata”, maturano la decisione di collocarlo, per un periodo, in
una casa di riposo.
Già nel 2006 a seguito dei primi disturbi manifestati, viene sottoposto ad un accertamento
diagnostico (TAC) in cui si evidenzia un’ischemia focale in sede centrale del diametro di due
centimetri.
Diagnosi d’ingresso: cerebropatia con demenza senile di grado avanzato; deterioramento
cognitivo con disorientamento spazio-temporale. Deficit parziale della memoria di fissazione
dell’attenzione e della rievocazione differita, della comprensione verbale (grave afasia) e aprassia
costruttiva. Incontinenza sfinterica saltuaria. Moderatamente compromessa l’autonomia (indice di
Barthel 96), ma risultano significativi i disturbi comportamentali, ad eccezione dell’irritabilità già
preesistente al deficit.
Al colloquio manifesta logorrea, confabulazione ed un atteggiamento disinibito con aggressività
verbale, soprattutto se contraddetto.
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CONCLUSIONI
La demenza è stata considerata per molto tempo una normale ed ineluttabile evoluzione
dell’invecchiamento fisiologico.
Per questo motivo quelli che possono essere i primi sintomi di una demenza, quali i deficit di
memoria, sono stati erroneamente considerati come normale conseguenza dell’età e perciò non
suscettibili di alcun trattamento.
In realtà, se è vero che per effetto dell’età si possono avere rallentamenti nelle capacità di
apprendere nuove informazioni, queste difficoltà normalmente non hanno effetti sulla capacità
dell’anziano normale che riesce a compensarle in modo efficace.
Tuttavia, si è osservato anche che l’anziano che si lamenta di un disturbo di memoria può poi
sviluppare una demenza. Da qui diviene necessaria un’osservazione proprio per documentare cosa
accade nel tempo ed intervenire in modo tempestivo; infatti benché la demenza sia destinata ad una
progressione, si è visto che un intervento precoce continuativo ed interdisciplinare permette di
migliorare la qualità di vita del paziente e della sua famiglia e spesso, di rallentare e gestire i
disturbi non cognitivi e l’impatto dei deficit funzionali.
Si può quindi affermare che tutte le forme di demenze sono trattabili con interventi
farmacologici e non (riattivazione cognitiva, motoria, ambientale, psicologica, sociale, ecc.), e con
il coinvolgimento di figure professionali diverse in modo da poter gestire i problemi che si
presentano lungo il decorso della malattia.
Sostenere la famiglia e chi si occupa dell’assistenza del malato, permette di migliorare la qualità
di vita, di posticipare il momento del ricovero in strutture residenziali, o limitarlo a situazioni
particolari non gestibili in famiglia (ricoveri di sollievo).
La casa di cura “Villa Maria Luigia” ben consapevole della complessità di un intervento
multidisciplinare, si è attivata divenendo un punto di riferimento importante per le varie figure che
ruotano attorno al malato (assistenti sociali, operatori sanitari, familiari, ecc…), offrendo altresì un
servizio su misura alle molteplici situazioni che vengono a delinearsi. Il sostegno offerto ai familiari
e a chi è deputato all’assistenza (badanti, infermiere a servizio domiciliare, ecc…), rappresenta un
valido contributo nella gestione delle problematiche relative alla malattia. Tale supporto viene
fornito attraverso la partecipazione ad incontri di gruppo, nei quali vengono discusse le tematiche
più salienti che riguardano le caratteristiche delle patologie, l’impatto sul vissuto emotivo, le
modalità comportamentali più idonee nella cura e nell’assistenza ed infine uno sguardo sui servizi
territoriali a cui rivolgersi per l’ottenimento dei benefici previsti dalla legge e per ricevere aiuti
nell’assistenza.
L’esperienza effettuata presso questo istituto nell’arco di questi mesi è stata arricchente, in
quanto ci ha permesso di cogliere la sensibilità e la professionalità con cui gli operatori
giornalmente s’impegnano e con sempre rinnovato entusiasmo nel prendersi cura dei malati e delle
loro famiglie, ricordandoci come il farsi carico di queste persone sofferenti necessiti, e non solo a
parole, di particolari attitudini alla vicinanza e di intelligente ascolto.
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