Lezione 7 RITMO E MOVIMENTO NELL`USO DELLE PAROLE Nelle
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Lezione 7 RITMO E MOVIMENTO NELL`USO DELLE PAROLE Nelle
Lezione 7 RITMO E MOVIMENTO NELL’USO DELLE PAROLE Nelle scorse lezioni abbiamo viaggiato a lungo nelle grandi parti del corpo della narrazione (descrizione, dialogo, monologo, il genere, ecc.) e ora eccoci ad affrontare il ritmo e il movimento in qualcosa di estremamente piccolo e molto duttile e scivoloso: la singola parola di un’opera letteraria. Per dare la giusta importanza a ognuna delle parole che decidiamo di usare in un racconto o in un romanzo, proviamo per una volta a mettere in risalto il tessuto dato dall’insieme delle parole piuttosto che la trama o l’approfondimento drammatico dei personaggi. Prima di leggerci un bellissimo esempio di racconto in cui la parola regna sovrana su trama e personaggi, ascoltiamo le voci di diversi scrittori sulla lingua letteraria e sull’uso delle parole: Ingeborg Bachmann La letteratura, per quanto strettamente possa essere legata al tempo e alla sua brutta lingua, deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso l’utopia della lingua e solo così essa può dirsi vanto e speranza degli uomini. Elias Canetti Ogni parola pronunciata è falsa. Ogni parola scritta è falsa. Ogni parola è falsa. Ma cosa c’è senza la parola? Thomas Mann Le parole grosse, trite come sono, non si addicono molto a esprimere le cose straordinarie; vi si riesce meglio sublimando quelle piccole, portandole al culmine del loro significato. Giorgio Manganelli Credo che la lingua in cui uno scrittore scrive sia una lingua morta; ogni parola, una per una, va presa e uccisa prima di essere usata. (…) Il testo non ha tempo, non ha durata, come quelle apparizioni che stupivano i fisici, è un istante di luce, un’allucinazione, un fantasma. Per comprendere quanto il suono di un vocabolo, la sua lunghezza o brevità di scansione, la sua attualità o desuetudine semantica possano incidere sul ritmo e sul senso di un racconto proponiamo la lettura di un testo di altezza letteraria esemplare. Un passo letterario che sembra scritto in una specie di grammelot (cioè in una lingua inventata che riproduca solo l’imitazione fonetica delle parole di una vera lingua, come nei grandi esempi teatrali del Mistero Buffo di Dario Fo) e che invece è “semplicemente”, si fa per dire, scritto in un italiano composto quasi del tutto da parole cadute in disuso. Il racconto in questione è lo strepitoso, per musicalità, ironia e astrusa compiutezza La passeggiata di Tommaso Landolfi. Da questo breve racconto si possono imparare tante cose sugli aspetti del potenziale ritmico e significativo della narrativa. LA PASSEGGIATA (da Racconti impossibili, 1966) La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d'esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!... Basta. Uscii dunque, e m'imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene. - Dove le porti? - Agli aratori laggiù: vede, dov'è quell'essedo. C'è il crovello per loro. - E il mivolo, o il gobbello? - Bah, noialtri si fa senza. E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola. Che dirvi? Quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall'exoasco o dall'oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l'aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio... E c'era poi il popolo minore: le smicre, i lissi l'empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto! … Alla fodina l'acqua ormai da tant'anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di cara, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava. - O tu?... Beh, che si fa di bello al distendino? - Uhm, poco di bello: il padrone s'è dato piuttosto alla moatra. Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via... - Già, - riprese - da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine. - Bravo davvero il tuo padrone! - Mah, si sa bene, quando la s'infaona... - E qui ora che ci fai? - Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro. - Ah, ecco; e come... - Coi prostomi e colle molliche - rispose pronto. Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s'ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista. Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v'era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all'ipartia... Quanti pensieri, quante fantasie m'invasero allora!... Usava più il chenisco? Oh tempi d'una volta: - Inguala! - e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch'essa ormai perso la sua virtù?... Ah, s'era fatto tardi: sull'afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull'atropa l'atropo, sull'agrostide l'agrotide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria, s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai. Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l'anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenere ogni cosa per sé solo. Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima. Di questo racconto Italo Calvino scrive: Si prenda un testo emblematico come La passeggiata. Le frasi sono costruite a base di sostantivi e verbi incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta significanza d'un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll del Jabberwocky. Fosse così, sarebbe un divertimento non nuovo, e di poco sugo. Invece, basta che il lettore si prenda la briga di consultare un buon vecchio dizionario della lingua italiana (Landolfi usava lo Zingarelli) e scoprirà che le parole ci sono tutte. La passeggiata è un testo con un senso compiuto: solo che l'autore si è posto come regola d'usare il massimo numero possibile di vocaboli caduti in desuetudine. (Egli stesso, in un volume successivo, non seppe resistere alla tentazione di svelare il segreto, per sbeffeggiare quelli che non c'erano arrivati). Dove si vede che il «fumista» (“burlone”, nota del curatore) Landolfi è poi l'«antifumista» per eccellenza: ridà significato (il significato) alle voci che l'avevano perduto (e invece di lasciare il volgo letterato nell'errore, si prende la briga di spiegare pazientemente cos'ha fatto). (…) È come se Landolfi volesse annunciarci che, al di là dello humour paradossale del suo testo, il problema che gli sta a cuore è proprio quello della lingua come convenzione collettiva ed eredità storica e della parola individuale e mutevole. Un esempio letterario di vero e proprio grammelot è tratto dal capitolo 68 del romanzo di Julio Cortázar Rayuela, 1966, Il gioco del mondo, Einaudi, 2002, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, pag. 352. In spagnolo questo linguaggio musicale si chiama glíglico e serve a comunicare un significato per mezzo del suono delle sue sillabe e del ritmo della sua scansione, senza prescindere totalmente da un’organizzazione logica. Di cosa parlerà mai questo testo di Cortázar che pubblichiamo nelle sue prime righe nella versione originale in spagnolo e poi nella sua traduzione? Leggete con piacere e attenzione e provate a indovinare di cosa si sta narrando. Più tardi vi svelerò l’arcano. Apenas él le amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían en hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperantes. Cada vez que él procuraba relamar las incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso y tenía que envulsionarse de cara al nóvalo, sintiendo cómo poco a poco las arnillas se espejunaban, se iban apeltronando, reduplimiendo, hasta quedar tendido como el trimalciato de ergomanina al que se le han dejado caer unas fílulas de cariaconcia. Dal glíglico spagnolo al glíglico italiano con la traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimado lamentoso e doveva invulsinarsi di fronte al novelo, sentendo in qual modo a poco a poco le arniglie si specunnavano, peltronandosi, redduplinandosi, fino a restare come il trimalciato di ergomanina al quale sono state lasciate cadere delle fillule di cariconcia. Beh, non so cosa avete immaginato, ma è proprio quello di cui qui si parla: un amplesso pieno di difficoltà e di incomprensioni. Per dirla in glíglico: una cosa da lanciare un grimado lamentoso! Per chiudere il nostro libro sul ritmo e il movimento ci piace portare verso lidi più estremi il divertimento delle parole che giocano a infilarsi tra le maglie della retorica, tradendo il senso e il ritmo originale di un testo. È il caso del libro di Raymond Queneau Exercices de style, 1947, Esercizi di stile, Einaudi, 1984, nella traduzione di Umberto Eco. Nel libro di Queneau si parte da una misera notazione di un piccolo aneddoto, una scalettina appuntata che poi viene trasformata in 99 versioni tutte originate dallo stesso scarno testo iniziale. Si tratta di variazioni basate su figure retoriche. La parola è schiacciata nel ritmo e nel senso all’interno di schemi prefissati, fin dal titolo che battezza le regole della composizione: anagrammi, onomatopee, sincopi, ellenismi, ecc. La singola parola e poi i gruppi di parole si organizzano e trasformano la scaletta iniziale in varianti, legate ognuna in modo autonomo, ma complessivamente coeso, a un suo ritmo e a un suo senso. La notazione di partenza è questa Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa 26 anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: “Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché. Ecco ora una delle 99 variazioni di Queneau. Preferiamo mettere in vista anche il testo originale in francese perché nella citazione successiva presenteremo una traduzione di Eco, tutt’altro che rispettosa del testo di Queneau, che ugualmente avremo sotto gli occhi. E sarà lì che troveremo insieme un’ultima testimonianza di grande valore sulla felicità espressiva che possono dare il ritmo e il movimento se ben giocati, anche all’interno di schemi narrativi prestabiliti. Hésitations Je ne sais pas très bien où ça se passait… dans une église, une poubelle, un charnier? Un autobus peut-être? Il y avait là… mais qu’est-ce qu’il y avait donc là? Des œuf, des tapis, des radis? Des squelettes? Oui, mais avec ancore leur chair autour, et vivants. Je crois bien que c’est ça. Des gens dans un autobus. Mais il y en avait un (ou deux) qui se faisait remarquer, je ne sais plus très bien par quoi. Par sa mégalomanie? Par son adiposité? Par sa mélancolie? Mieux… plus exactement… par sa jeunesse ornée d’un long… nez? Menton? Pouce? Non: cou, et d’un chapeau étrange, étrange, étrange. Il se prit de querelle, oui c’est ça, avec sans doute un autre voyageur (homme ou femme? Enfant ou vieillard?). Cela se termina, cela finit bien par se terminer d’une façon quelconque, probablement par la fuite de l’un des deux adversaires. Je crois bien que c’est le même personnage que je rincontrai, mais où? Devant une église? Devant un charnier? Devant une poubelle? Avec un camarade qui devait lui parler de quelque chose, mais de quoi? De quoi? De quoi? Esitazioni Non so bene dove accadesse… in una chiesa, in una bara, in una cripta? Forse… su di un autobus. E c’era… Cosa diavolo c’era? Spade, omenòni, inchiostro simpatico? Forse… scheletri? Sì scheletri, ma ancora con la carne intorno, vivi e vegeti. Almeno, temo. Gente su di un autobus. Ma ce n’era uno (o erano due?) che si faceva notare, non vorrei dire per che cosa. Per la sua astuzia sorniona? Per la sua adipe sospetta? Per la sua malinconia? No, meglio – o più precisamente – a causa della sua imprecisa immaturità, ornata di un lungo… naso… mento… alluce? No: collo. E un cappello strano, strano, strano. Si mise a litigare (sì, è così) senza dubbio con un altro passeggero (uomo o donna? Bambino o vegliardo?). Poi finì – perché finì pure, in qualche modo o maniera – probabilmente perché uno dei due era scomparso… Credo sia proprio lo stesso individuo quello che ho rivisto… ma dove? Davanti a una chiesa, a una cripta, a una bara? Con un amico che doveva certo parlargli di qualcosa, ma di che, di che, di che? Il brano che più ci interessa sottolineare tra tutte le 99 variazioni de Gli esercizi di stile è il pezzo che segue. Un’eccezione alla regola tenuta per ben altre 98 volte. E da cosa è rappresentata questa unica eccezione? Sta tutta nella traduzione di Umberto Eco. Nel precedente esercizio di stile, Esitazioni, la traduzione di Eco da Queneau è, come abbiamo già segnalato, quasi letterale. Per quanto come lo stesso Eco scrive “Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che cosa significhi ‘dire la stessa cosa’. Il capolavoro di Eco, sulla resa di ritmo e movimento in un esercizio di stile, lo troviamo nel pezzo intitolato Vulgaire che in Eco diventa, correttamente tradotto in italiano, Volgare. Ma solo il titolo accomuna Queneau ed Eco stavolta. Poi il nostro grande scrittore e semiologo si produce in un exploit in romanesco. Exploit che non si limita a produrre pedissequamente le particolarità e le inflessioni di una pronuncia dialettale. Pronuncia dialettale ripresa nello sforzo di parlare la propria lingua nazionale. Questo è quello che fa un po’ banalmente Queneau nel suo brano. Eco invece si sbilancia in un divertentissimo pezzo di narrazione che conserva lo schema narrativo iniziale, ma lo scalda con le parole giuste, in un dialetto romanesco che viene elevato a lingua. Senza contentarsi di darcene solo gli eccessi o i difetti di dizione. E queste parole del romanesco di Eco rendono viva e spassosissima la voce narrante, trasformandola in un vero personaggio. C’è uno scarto linguistico tale che finalmente si preferisce tradire sul serio l’originale e andarsene per i fatti propri. E così ritmo e movimento trionfano sullo schema retorico imposto da Queneau. Anche alla faccia dell’amata semiologia di Eco. Vi diamo qui di seguito ancora l’originale francese di Queneau oltre alla versione di Eco, per meglio mostrare l’assoluta diversità del taglio ritmico e di movimento delle due prove. Vulgaire L’était un peu plus dmidi quand j’ai pu monter dans l’esse. Jmonte donc, jpaye ma place comme de bien entendu et voilàtipas qu’alors jremarque un zozo l’air pied, avec un cou qu’on aurait dit un télescope et une sorte de ficelle autour du galurin. Je lregarde passeque jlui trouve l’air pied quand le voilàtipas qu’ismet à interpeller son voisin. Dites donc, qu’il lui fait, vous puorriez pas faire attention, qu’il ajoute, on dirait, qu’i pleurniche, quvous lfaites essprais, qu’i bafuoille, deummarcher toutltemps sullé panards, qu’i dit. Là-dssus, tout fier de lui, i va s’asseoir. Comme un pied. Jrepasse plus tard Cour de Rome et jl’aperçois qui discute le bout de gras avec autre zozo de son espèce. Dis donc, qu’i lui faisait l’autre, tu dvrais, qu’i lui disait, mettre un ottbouton, qu’il ajoutait, à ton pardingue, qu’i concluait. Volgare Aho! Annavo a magnà e te monto su quer bidone de la Esse – e ‘an vedi? – nun me vado a incoccià co ‘no stronzo con un collo cche pareva un cacciavite, e ‘na trippa sur cappello? E quello nun se mette a baccajà con st’antro burino perché –dice – jé acciacca er ditone? Te possino! Ma cche vòi, ma cchi spinge? E certo che spinge! Chi, io? Ma va a magnà er sapone! ‘Nzomma, meno male che poi se va a sede. E bastasse! Sarà du’ ore dopo, chi s’arrivede? Lo stronzo, ar Colosseo, che sta a complottà co st’antro qua che se crede d’esse er Christian Dior, er Missoni, che so, er Mister Facis, de li mortacci sua! E metti un bottone de qua, e sposta un bottone de là, e acchittate così alla vitina, e ancora un po’ ce faceva lo spacchetto, che era tutta ‘na froceria che nun te dico. Ma vaffanculo! Bene, dopo avervi rispolverato e proposto questa chicca di Eco molto lontana nel tempo, ma davvero entusiasmante per ritmo e movimento, possiamo ringraziarvi per averci seguito fin qui e lasciarvi con l’ultimo vertiginoso esercizio del corso. Buon ritmo e movimento a tutti! Esercizio 11 L’ultimo esercizio del nostro corso è veramente funambolico e permette di lasciarsi andare a un rapporto molto fisico e primitivo giocando a briglie sciolte con la propria lingua. Infatti vi si chiede di descrivere una scena, possibilmente molto forte e visionaria (per aiutarsi si può attingere anche a scene prese dai film più popolari e d’azione), usando una lingua quasi del tutto inventata che riproduca “a orecchio” i suoni e il portamento dell’italiano o di un suo dialetto usando al 90 % parole inventate, neologismi, parole onomatopeiche, ecc. Prima, a scanso di equivoci, bisogna “dichiarare” quale scena si va a rappresentare. L’esercizio non deve superare le venti-trenta righe. È chiaro che a questo punto dovreste esser pronti a rileggere e a portare a lucido il vostro racconto finito. Noi intanto siamo pronti a riceverlo per la lettura e magari per la pubblicazione sulla nostra rivista web www.omero.it.