О In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano

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О In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano
 In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano
Ucraina e Bielorussia
di Federica Castellana…………………………………………………………………………………pag.2
 Balcani: un successo “made in UE”
di Maria Serra……………………………………………………………………………………………..pag.3
 Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la
rielezione di Obama
di Davide Borsani…………………………………………………………………………………………pag.6
 Unione Europea e Mediterraneo: un partenariato impossibile?
di Giuseppe Dentice…………………………………………………………………………………….pag.8
 L’Europa e l’immigrazione: norme, politiche e prospettive future
di Salvatore Denaro…………………………………………………………………………………….pag.11
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Research Paper
I chiaroscuri dell’Europa nel Mondo.
Mezzo secolo di politica estera UE a vignette
In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano Ucraina e Bielorussia
di Federica Castellana, 18 aprile 2013
A quasi un decennio dal grande allargamento ad Est, l’Unione Europea non è ancora riuscita a costruire dei
rapporti lineari con i nuovi vicini orientali (Russia, Bielorussia, Ucraina e Moldavia): nel tempo si sono alternati, in
entrambi i sensi, momenti di apertura ad altri di scontro o disinteresse. Restano complesse le relazioni di Bruxelles con
Mosca, capitale di uno Stato talmente esteso da comprendere – in termini di tessuto culturale e produttivo – una parte
più europea-occidentale ed una quanto mai opposta. Il dialogo sembra invece più intenso con i due “avamposti” Ucraina
e Bielorussia, ex repubbliche sovietiche di particolare strategicità.
Economie ormai dinamiche, competitive, business-friendly e in
crescita del 5% (dati 2011): basti pensare che il volume totale degli
scambi commerciali dell’UE raggiunge ogni anno circa 36 miliardi di
euro con l’Ucraina e oltre 12 miliardi di euro con la Bielorussia,
mentre gli stock di investimenti europei si attestano rispettivamente
a quota 23 miliardi di euro nella prima e circa 500 milioni di euro
nella seconda. Specialmente in tema di energia l’Ucraina e la
Bielorussia sono partner importanti: ai Paesi dell’UE rivendono
infatti quote rilevanti di petrolio e gas naturale provenienti dai
giacimenti russi e centroasiatici e trasportate nella Mitteleuropa dai
gasdotti Yamal e Transgas e dall’oleodotto dell’Amicizia (Druzhba),
che passano proprio attraverso il territorio ucraino-bielorusso.
Inoltre l’Ucraina è tra i Paesi europei dotati di una roccia poco permeabile e simile all’argilla, nota come roccia di scisti,
da cui è possibile estrarre mediante meccanismi idraulici lo shale gas: una nuova tipologia di gas naturale, al centro di
analisi e interesse a livello internazionale per diversificare l’approvvigionamento energetico europeo (e non solo) rispetto
ai fornitori storici – Russia, appunto, e Medio Oriente.
Da parte loro, l’Ucraina e la Bielorussia, situate in una speciale posizione geografica di cuscinetto tra Est ed Ovest,
hanno dato negli ultimi anni l’impressione di due giovani Paesi divisi tra il richiamo alla fedeltà per la grande Madre
Russia e le spinte verso una maggiore indipendenza nazionale sotto l’ombrello dell’UE e della NATO. Una precarietà
rintracciabile sinora nelle forti spaccature delle opinioni pubbliche e nelle scelte dei governi di Kiev e Minsk, dettate da un
chiaro pragmatismo e oscillanti tra le diverse avances offerte da Mosca e Bruxelles.
La strategia di Mosca - L’approccio della Russia nei confronti dell’Ucraina e della Bielorussia si inserisce nell’ambiziosa
politica estera perseguita dal team Putin-Medvedev volta a ridefinire la distribuzione globale del potere e recuperare un
ruolo di primo piano in un contesto internazionale sempre più interessato da fenomeni di aggregazione regionale (in
primis il blocco UE/NATO, l’America Latina, Cina e India). In particolare, è evidente che tale approccio rientra nell’intento
di consolidare l’influenza russa sugli ex satelliti sovietici ovvero di contenere la progressiva espansione euro-atlantica
verso Est, che peraltro è ormai irreversibile nei Paesi baltici e forse anche nell’inquieta Georgia in seguito al conflitto del
2008 in Ossezia del Sud. In questa prospettiva Mosca utilizza astutamente due importantissime leve, l’energia e il
commercio, offrendo ai suoi interlocutori vantaggi e rapporti privilegiati.
Malgrado gli attriti degli scorsi anni, Kiev e Minsk hanno infatti ottenuto dalle compagnie russe Gazprom e Transneft
degli sconti sulle forniture di gas e petrolio, che hanno permesso a entrambi i Paesi di incrementare la spesa pubblica,
ridurre le tariffe energetiche applicate agli acquirenti europei e di conseguenza rendere più competitivi i costi della
manifattura domestica sui mercati esteri. Nel frattempo, Gazprom continua ad aumentare la sua quota di controllo sul
corridoio di transito energetico: per modernizzare la rete dei gasdotti e renderla più efficiente ha già acquisito per intero il
gestore bielorusso (Beltransgaz) e sta facendo simili pressioni su quello ucraino (Naftogaz). Sul fronte commerciale,
invece, è in vigore dallo scorso anno l’Unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia (presto si aggiungeranno
Kirghizistan e Tagikistan), primo passo verso quella proposta di Unione Eurasiatica lanciata da Putin nell’ottobre 2011:
uno spazio economico comune collocato tra il Vecchio Continente e il Pacifico che unisca tutti i mercati degli ex Stati
sovietici, ispirato all’Unione Europea e aperto alla cooperazione con le altre organizzazioni regionali e internazionali.
L’adesione dell’Ucraina è fortemente auspicata dal Cremlino, disposto in cambio a ulteriori concessioni sul conto
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energetico. Lo stesso Putin assicura tuttavia che nel suo grande progetto non c’è spazio per eserciti o ideologie:
nessuna restaurazione quindi dell’Impero bolscevico ma di certo l’occasione per la Russia di riconquistare peso nel
sistema mondiale ponendosi come principale punto di riferimento per i Paesi dell’area e avvalendosi soltanto dell’arma
economica.
La politica di vicinato di Bruxelles - I recenti allargamenti dell’Unione Europea hanno reso più impellente la necessità
di una forte collaborazione con gli Stati confinanti, a Est e a Sud, per garantire sicurezza e stabilità e per prevenire la
rinascita di nuove divisioni in tutto il continente europeo. Avviata proprio nel 2004, l’ENP, l’European Neighbourhood
Policy, ha l’obiettivo principale di coinvolgere gli Stati vicini (dall’Europa orientale al Maghreb, passando per il Caucaso e
il Vicino Oriente) nei benefici politici, economici, sociali e strategici dell’integrazione comunitaria. Questo viene realizzato
mediante accordi bilaterali e piani di azione periodici, negoziati da Bruxelles con i singoli Paesi, che prevedono: la
partecipazione a programmi europei in materia di trasporti, energia, telecomunicazioni, ambiente, frontiere e giustizia;
diverse agevolazioni commerciali per l’avvicinamento al mercato unico europeo; l’assistenza tecnica e finanziaria fornita
dallo “Strumento europeo per il vicinato e partenariato” (ENPI) la cui dotazione per il periodo 2007-2013 è stata di circa
12 miliardi di euro e che ha contribuito, tra l’altro, all’adeguamento infrastrutturale dell’Ucraina in vista del Campionato
europeo di calcio 2012 ospitato insieme alla Polonia. In tipico stile europeo, si tratta di accordi condizionati al rispetto dei
valori fondamentali su cui si basa l’UE, anche se è opportuno ricordare che ad oggi per nessuno di questi Paesi ci sono
prospettive di adesione vera e propria.
Ucraina e Bielorussia fanno parte della suddivisione dell’ENP denominata “Partenariato Orientale”; ultimamente, però, le
loro relazioni con l’UE hanno subito una battuta d’arresto soprattutto per divergenze politiche e per gli effetti indiretti della
crisi mondiale. Le trattative sul nuovo Accordo di Associazione con Kiev sono state sospese da Bruxelles a causa della
vicenda Tymoshenko, tuttora irrisolta, e non riprenderanno finché l’Ucraina non avrà fatto progressi in tema di
trasparenza, giustizia e riforme elettorali. Anche un investimento dell’UE nel promettente shale gas appare a questo
punto difficile, considerati gli elevati costi economici e ambientali dell’estrazione e la mancanza di conoscenze e
attrezzature adeguate. La Bielorussia invece preme per un confronto nuovo, che abbandoni pretese, adeguamenti,
sacrifici e sanzioni, e si basi su un equilibrio di aspettative più rispettoso. La stessa Unione Europea, alle prese con i suoi
drammi interni economici e istituzionali, sembra meno convinta dalle politiche di vicinato (già limitate) e più interessata
all’allargamento ai Balcani e all’Islanda.
Il dualismo dell’Ucraina e della Bielorussia è quindi solo apparente. In realtà l’impasse a Ovest con Bruxelles sta
spostando la loro bussola decisamente verso Est: un riavvicinamento a Mosca che è sostenuto sia a Minsk dall’”ultimo
dittatore d’Europa”, Lukashenko, sia a Kiev dal presidente filo-russo Yanukovich. Per i due governi, l’Unione europea è
un partner strategico ma non così determinante e la vera priorità rimane la Russia. Insomma, per il momento Ucraina e
Bielorussia restano due finestre russe sull’Europa.
Balcani, un successo “made in UE”
di Maria Serra, 24 aprile 2013
«The union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and
reconciliation, democracy and human rights in Europe (…) Through well-aimed efforts and by building up
mutual confidence, historical enemies can become close partners (…) The fall of the Berlin Wall made EU
membership possible for several Central and Eastern European countries, thereby opening a new era in
European history. The division between East and West has to a large extent been brought to an end;
democracy has been strengthened; many ethnically-based national conflicts have been settled».
C’è una dimensione del processo di costruzione dell’Unione Europea – spesso offuscata dalla crisi economica e
finanziaria – che può essere considerata un autentico successo. Quella dimensione su cui essenzialmente si fonda il
conferimento del Premio Nobel per la Pace dello scorso mese di ottobre e che, pur con le molteplici difficoltà che
permangono in diversi aspetti strutturali, può rappresentare il punto di forza di un’Europa che non può – e non deve –
essere ripiegata solo su se stessa, ma che può guardare fiduciosa alla propria proiezione nel mondo: si tratta del
processo di integrazione dei Balcani, come messo in rilievo non solo dagli allargamenti del 2004 (Slovenia), del 2007
(Bulgaria e Romania) e da quello imminente (in luglio la Croazia diventerà il 28° Stato membro), ma anche da
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impensabili – fino a qualche anno fa – intese sul fronte della cooperazione bilaterale (si pensi a quelle tra Serbia e
Bosnia Erzegovina relative alla collaborazione e allo scambio di informazioni e di documentazione concernente i crimini
di guerra) e in un certo senso della reciproca legittimità (lì dove non si può parlare ancora di reale riconoscimento).
Anche l’ultimo dei conflitti latenti all’interno del nostro Continente, quello cioè tra Serbia e Kosovo (che resta de facto un
protettorato internazionale), sembra infatti essere giunto al giro di boa grazie al raggiungimento di un accordo sulla
gestione comune delle aree di confine mediato dall’Unione Europea, la quale, al di là degli obiettivi strategici ed
economici di breve e lungo periodo, ha saputo offrire i giusti incentivi per spingere le due parti a negoziare: l’avvio dei
negoziati di adesione per una, la possibilità di formalizzare un accordo di associazione per l’altra. A conti fatti, se solo 15
anni fa la Penisola balcanica era dilaniata da conflitti – non solo e non tanto etnici – generati e amplificati dall’implosione
dell’ex Jugoslavia – e a cui Bruxelles non era ancora culturalmente, politicamente e “tecnicamente” preparata – ad oggi,
pur restando ancora molti nodi irrisolti, può non essere più considerata la “polveriera d’Europa”.
Reciproci vantaggi e strumenti - Se è vero che da un lato nemmeno i Balcani (soprattutto quelli Occidentali) sono stati
negli ultimi anni immuni dal senso di sfiducia nei confronti delle Istituzioni europee (si pensi all’alto tasso di
astensionismo registrato in Croazia in gennaio 2012 in occasione del referendum relativo alla ratifica del trattato di
adesione e dell’elezione dei primi eurodeputati croati nei primi giorni di aprile o, ancora, alle manifestazioni di protesta
degli ultranazionalisti serbi all’indomani dell’arresto di Ratko Mladić e della sentenza di assoluzione da parte del
Tribunale Internazionale dell’Aja dei generali croati Ante Gotovina e Mladen Markač ), dall’altro è vero che i governi dei
vari Paesi, pur con fasi alterne, hanno inseguito e stanno inseguendo il “sogno europeo”: questi sanno infatti bene che
non vi sarà stabilità economica e sociale senza l’ingresso nell’UE e per raggiungere quest’obiettivo sono disponibili a
“sacrificare” anche aspetti per così dire “identitari”: la Slovenia ha restituito i beni appartenenti alla minoranza italiana, la
Croazia ha dovuto cedere all’istituzione di un arbitrato per la soluzione della controversia relativa alle delimitazione delle
acque territoriali nella Baia di Pirano, la Romania ha dovuto fare molte concessioni alla minoranza ungherese, la
Bulgaria è stata costretta fermare in parte la centrale nucleare di Kozlodouï, l’impianto più redditizio del Paese. Così
anche la Serbia è stata indotta a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti del Kosovo. Il flusso di finanziamenti in
termini di aiuti umanitari e di emergenza (si ricordino soprattutto i programmi ECHO e PHARE), di assistenza finanziaria
per lo sviluppo e per l’adeguamento all’acquis communautaire (l’ultimo dei quali è lo Strumento per l’Assistenza preaccesso, IPA) e che sono emanazione del Processo di Associazione e Stabilizzazione (PSA) – a tutt’oggi la cornice
principale dei rapporti tra UE e Balcani e schema per la cooperazione tra gli stessi Paesi balcanici –, è stato dal 2001 un
autentico fiume in piena: da Bruxelles sono giunti oltre 10 miliardi di euro, a cui va aggiunto il contributo di 5,5 miliardi da
parte della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), nella convinzione che l’intervento simultaneo in
settori fortemente interconnessi, quali la sicurezza, l’economia e lo sviluppo delle istituzioni democratiche – previa
naturalmente istituzione di adeguati meccanismi di condizionalità che, in ottica funzionalista, non costituiscono altro che
la griglia all’interno della quale i Paesi balcanici hanno dovuto progressivamente informarsi ai criteri europei [1] –,
avrebbe dato maggiore stabilità all’intero Continente.
Probabilmente in nessun’altra area dentro e fuori
i confini l’Unione Europea ha attivato l’intero
spettro delle sue politiche e degli strumenti creati
per la gestione delle relazioni esterne come fatto
nella regione balcanica. Un aspetto, questo, dal
profondo valore politico che ha permesso
ai leader comunitari
di
imprimere
alcuni
importanti sviluppi istituzionali (come il passaggio
di competenza del PSA dalla Direzione Generale Relazioni Esterne della Commissione europea alla Direzione Generale
Allargamento), allineando maggiormente le idee e i meccanismi alle base delle politiche con la prassi di integrazione, e
di concorrere, in estrema sintesi, ad acquistare credibilità come attore internazionale. Non a torto Javier Solana,
Segretario Generale della NATO tra il 1995 e il 1999 ed Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza
Comune nel decennio successivo, sosteneva che “Per essere un soggetto influente ed autorevole anche lontano dai
propri confini, l’UE deve dimostrare di poter fare la differenza anzitutto nel suo cortile di casa”.
Non solo democrazia. Gli obiettivi strategici – D’altra parte la cura del proprio cortile, che ha direttamente favorito la
costruzione e il rafforzamento dei collegamenti tra Occidente ed Oriente (non solo quello europeo) in una realtà
internazionale sempre più interconnessa, non ha fatto altro che rispondere ad alcuni più o meno espliciti obiettivi:
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1) contenere la possibile influenza di una Russia che, nonostante non si sia eccessivamente opposta – o perlomeno non
ha avuto i mezzi per farlo – al procedere del processo di integrazione comunitario e al crescente ruolo della NATO/Stati
Uniti nella regione, continua a guardare ai Paesi balcanici con grande interesse certamente in ottica di affinità culturale,
ma anche e soprattutto economica (e dunque di maggior accesso ai mercati mediterranei) e strategica. A ben vedere lo
storico accordo tra Belgrado e Pristina dello scorso 22 aprile sull’amministrazione del Kosovo settentrionale potrebbe
aprire una nuova stagione di relazioni russo-balcaniche e, dunque, russo-europee (e queste ultime non per forza in
senso positivo, specialmente se si considera l’atteggiamento più rampante di Mosca con il procedere della realizzazione
dell’Unione eurasiatica);
2) competere allo stesso tempo con il crescente ruolo che la Cina ha negli ultimi anni assunto nell’area: si pensi agli
enormi investimenti che Pechino indirizza nel settore degli impianti marittimi croati e montenegrini – controllando di fatto
il porto di Rejka –, all’ottenimento di appalti per la realizzazione di infrastrutture ferroviarie lungo il percorso del Corridoio
10 e sul Danubio serbo (tra cui il cosiddetto “ponte dell’amicizia serbo-cinese”), alla costruzione di centrali idroelettriche
in Macedonia o, infine, al supporto di alcuni dei Paesi in questione (come la Romania) che ha offerto di difendere le
posizioni della Cina a Bruxelles in cambio di più strette relazioni economiche e politiche;
3) garantire il controllo e il trasporto
delle fonti di approvvigionamento
energetico che provengono proprio
dalla Russia e dall’Asia Centrale, dove
la competizione con Mosca lascia il
passo alla
proprio
collaborazione se non
ad
un’esigenza
strutturale. Tramontato l’ambizioso progetto di diversificazione (il gasdotto Nabucco) che avrebbe convogliato 31 miliardi
di metri cubi di metano azero, iracheno e iraniano attraverso la Turchia e buona parte dei Paesi balcanici allentando la
morsa russa, avanzano i negoziati per la realizzazione di South Stream, i cui primi lavori dovrebbero iniziare nel
prossimo mese di dicembre secondo quanto annunciato lo scorso 10 aprile dal Premier serbo Ivica Dačić, correndo
lungo la Penisola balcanica e giungendo da un lato in Austria, dall’altro in Italia passando per la Grecia. Anche se di
portata minore, resta in piedi il progetto del Gasdotto Trans-Adriatico (TAP) per il trasporto del gas dell’Asia Centrale
attraverso Turchia-Grecia-Albania-Italia e il cui ultimo degli accordi per la definizione degli aspetti operativi è stato firmato
a Roma lo scorso 22 aprile. Non solo gas da Russia e Azerbaijan: l’allargamento ai Paesi balcanici permette l’estrazione
lo sfruttamento delle risorse già presenti nella regione – e non sufficientemente valorizzate durante gli anni
dell’integrazione nel sistema economico del COMECON – come il petrolio e il gas rumeno, il carbon fossile bulgaro, la
lignite albanese, nonché il potenziamento di quel reticolo idrico che farebbe della Penisola uno dei maggiori produttori di
energia idroelettrica;
4) sviluppare una vera e propria “hard security policy” per garantire sia il mantenimento della pace “al di qua” dei Balcani,
sia la sicurezza dei propri confini, giunti, al di là dei rapporti con la Russia, ormai a ridosso di aree – quelle mediorientali
e caucasiche – caratterizzate da instabilità. Ben si vedrà non solo che gli allargamenti comunitari sono andati di pari
passo con quelli dell’Alleanza Atlantica e che ulteriori adesioni a quest’ultime sono in corso di negoziazione (eccetto con
la Serbia, con cui i meccanismi di dialogo sono ancora molto lenti), ma anche che si è proceduto con una certa rapidità
nell’allargamento della NATO a Bulgaria e Romania (sede peraltro del sistema di difesa anti-missile fortemente voluto
dall’Amministrazione Bush prima e da quella Obama poi) e, nonostante le numerose questioni aperte sul piano politicoistituzionale-amministrativo-giudiziario, a quello dell’UE. Sintomo, questo, che, com’è stato fatto notare, nei primi anni
2000 si sono forse prese decisioni che hanno tenuto conto di giudizi “generosi” sul livello di attuazione delle riforme
previste, confidando in quelle condizionalità cui si accennava pocanzi come stimolo per un cambiamento.
Completamento e approfondimento, ma non solo. Le sfide – Sebbene i punti messi a segno siano molti, l’impegno
dell’UE e dei Paesi balcanici non può in effetti ritenersi ancora concluso. Restano ancora numerose le zone d’ombra che
non permettono una completa integrazione e che in questa sede è possibile delineare in maniera solo generica. Al di là
del caso estremo della Bosnia Erzegovina all’interno della quale continuano a sussistere profonde fratture politiche e
sociali (cosa che da un certo punto di vista ha sollecitato la firma dell’accordo di associazione), o, ancora della
Macedonia (FYROM) con cui i negoziati di adesione sono fermi dal 2005 a causa sia delle dispute ancora aperte con
Grecia e Bulgaria sia delle limitazioni alle libertà di espressione e al dialogo interetnico, emblematica è la situazione di
Bulgaria e Romania: a queste è di fatto ancora inibito – soprattutto per volontà di Germania e Olanda – di accedere
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all’area di Schengen, cosa inizialmente prevista per marzo 2011. Il Consiglio dei Ministri dell’Interno e della Giustizia UE
dello scorso 7 marzo ha nuovamente rimandato la questione alla fine del 2013. L’adozione di misure più efficaci – ancor
più se attuate in presenza di una sostanziale stabilità politica che nessuno dei due Paesi in questo momento può vantare
– per la lotta alla corruzione in ogni settore dell’amministrazione pubblica e, in particolare, in quello delle dogane al fine
di prevenire e affrontare forme gravi di criminalità (quali il traffico di immigrati clandestini, tratta degli esseri umani e
traffico di droga) è ancora un requisito imprescindibile.
Allo stesso tempo non si possono sottovalutare le paure e i disagi che l’allargamento proprio a questi due Paesi – se non
anche agli altri dell’Europa Centrale e Orientale – ha prodotto all’interno dei cittadini della stessa Unione Europea.
Mantenere lo slancio all’allargamento, garantendo l’approfondimento delle riforme specialmente in un momento di
importanti cambiamenti di governance economica (e si auspica politica) e promuovendo il senso di cittadinanza europea,
sono aspetti di uno stesso contesto e fondamentali per il proseguimento dell’azione politica ed internazionale dell’UE.
Ciò che emerge è, in effetti, non solo la naturale difficoltà – o quanto meno lentezza – da parte dei Paesi balcanici ad
adeguarsi alle oltre 130mila pagine di acquis, ma anche la capacità stessa dell’Unione Europea di difendere e rafforzare
i traguardi raggiunti. Quelli che vengono definiti “enlargement fatigue” e “capacità di assorbimento”, ossia la capacità di
funzionare incorporando nuovi membri (e dunque con le relative necessità di riformare le Istituzioni e di adeguare gli
strumenti di integrazione) sono due concetti che – anche in relazione alla crisi economica a cui inizialmente si
accennava, nonché alle difficoltà di trovare un compromesso alle questioni di bilancio – hanno negli ultimi tempi hanno
preso sempre più forma. L’evidente necessità di aggiornare la strategia di allargamento per superare le divisioni interne
rimanenti, infine, non può non collegarsi al quadro della politica internazionale e al quadro di generale stabilità cui
dovrebbe aspirare tutto il contesto mediterraneo, anche e soprattutto la sponda sud. Laddove un processo di
allargamento alla Turchia dovesse richiedere ancora molti anni, è indubbio che proprio quest’ultima può rappresentare
quanto meno un partner fondamentale per la riuscita di una completa integrazione (non solo e non tanto politica) del
nostro cortile di casa. E che permetta poi di guardare oltre.
[1] Gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione (il cui nucleo originale è rappresentato dal CEFTA Agreement a cui aderirono nel 1992
i primi Paesi dell’Europa Centrale e Orientale e che hanno trovato definitiva consacrazione con il Consiglio europeo di Salonicco del
2003) impegnano i firmatari a completare in un periodo di transizione definito all’interno dell’accordo stesso, un’associazione formale
con l’UE imperniata sulla graduale attuazione di un’area di libero scambio e sull’adozione di riforme che, basate sul rispetto dei principi
democratici e sugli elementi centrali del mercato comune interno (dialogo politico, cooperazione regionale, libera circolazione di
persone-merci-servizi-capitali, etc.), facilitino il raggiungimento degli standard europei.
Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la rielezione di Obama
di Davide Borsani, 2 maggio 2013
Per tutta la durata della Guerra Fredda, l’Europa giocò l’importante ruolo di principale alleato strategico degli
Stati Uniti. Caduto il Muro di Berlino, l’asse transatlantico perse tali connotati per essere investito del ruolo di perno
economico di un ordine liberale in estensione globale. Nel XXI secolo l’Europa è però progressivamente diventata sia
strategicamente sia economicamente tanto un partner ed alleato quanto una sfida per gli Stati Uniti [1]. Se la crisi
sull’Iraq del 2003 ha mostrato crepe strategiche non certo irrilevanti, quella finanziaria del 2007 – con le sue
conseguenze – ha ulteriormente indebolito i rapporti, ponendo in potenza su due sentieri autonomi le due sponde
dell’Atlantico. Oggi l’amministrazione Obama, dopo la “benevola disattenzione” del primo mandato, ha iniziato il secondo
quadriennio proponendo all’Europa di siglare un «nuovo patto transatlantico» [2].
L’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 suscitò grandi aspettative nell’opinione pubblica e
negli establishment europei. Se la popolarità del predecessore, George W. Bush, al momento della chiamata alle urne si
attestava al 19%, quella di Obama al momento del giuramento era superiore di quasi sessanta punti percentuali (77%)
[3]. Eppure, il nuovo Presidente non contraccambiò tale ammirazione, negando anzi al Vecchio Continente la
propria leadership e settando le priorità del suo mandato su questioni interne, a cominciare dal risollevamento di
un’economia in pericoloso dissesto, sul riavvicinamento al mondo musulmano e sul celebre pivot Asia. L’Europa, in
breve, avrebbe dovuto badare a se stessa. Nemmeno l’estensione all’Eurozona della crisi finanziaria causò una
revisione di tale direttrice. Solo nel 2011 Washington prese coscienza della reale posta in gioco, che coinvolgeva ormai
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l’economia globale, e decise quindi di prendere contatto, nelle parole del portavoce della Casa Bianca Jay Carney, «a
livello presidenziale e ministeriale per sollecitare un’azione vigorosa» dell’Unione Europea [4]. Che la “benevola
disattenzione” non fosse solo a livello economico ma anche strategico, fu chiaro nello stesso 2011 in occasione della
guerra in Libia. Fu responsabilità degli Europei portare a conclusione l’operazione NATO Unified Protector e guidare
“dall’alto” la rivolta libica, mentre gli Stati Uniti – non riconoscendo vi fossero propri interessi vitali in gioco – si limitarono
ad una funzione di sostegno logistico, che comunque si rivelò quanto mai necessaria per l’esito della campagna.
Nonostante l’indebolimento dei rapporti, il sostegno dell’opinione pubblica europea ad Obama al momento delle recenti
elezioni presidenziali restava saldo. Da un lato, l’approvazione europea della gestione degli affari internazionali da parte
statunitense era calata dal 2009 al 2012 di una dozzina di punti percentuali (da 83% a 71%). Dall’altro, però, ben il 75%
degli Europei avrebbe votato per la rielezione di Obama, rispetto all’8% che sosteneva l’alternativa, il candidato
repubblicano Mitt Romney [5]. Il secondo giuramento è giunto quindi in un clima transatlantico tutto sommato favorevole
ed è stato accompagnato, da parte di Washington, da una nuova presa di coscienza della centralità dell’asse con
l’Europa. Come già fece la seconda amministrazione Bush Jr., il primo viaggio all’estero del nuovo Segretario di Stato
John Kerry è stato infatti in Europa. Nel corso dell’ultima settimana di febbraio, Kerry si è recato in visita ufficiale nel
Regno Unito, in Germania, in Francia ed in Italia, riconoscendo di fatto la pluralità delle anime che contraddistinguono
l’Unione Europea. Dalla special relationship all’asse franco-tedesco, passando infine per il Mediterraneo, il Dipartimento
di Stato ha voluto lanciare un segnale: ricominciamo a lavorare insieme. Due settimane prima, lo stesso Obama aveva
già avviato il processo di riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico annunciando, nel corso del Discorso sullo Stato
dell’Unione, l’avvio di «negoziati per un’ampia Transatlantic Trade and Investment Partnership con l’Unione Europea»
[6].
Dopo il fallimento del 1998, Stati Uniti ed Europa sono dunque tornati a discutere della creazione di un’area di libero
scambio che, secondo la Commissione Europea, potrebbe incrementare il commercio transatlantico di oltre il 50%. Se
da un lato è vero che le tariffe protezionistiche sono già basse (5,2% per l’UE, 3,5% per gli USA), tuttavia l’accordo – in
particolare se comprendesse gli investimenti – costituirebbe un passo avanti per cui, ad opinione di The Economist,
«vale la pena combattere» [7]. Non solo integrerebbe ulteriormente le due economie rafforzandone il legame politico, ma
ribilancerebbe la direttrice del commercio globale che punta ormai verso l’Asia. La Camera di Commercio degli Stati Uniti
stima che l’eliminazione delle tariffe doganali incrementerebbe il PIL combinato di USA ed UE di circa 180 miliardi di
dollari nell’arco di cinque anni, mentre l’abbattimento delle barriere non tariffarie lo aumenterebbe per entrambi i partner
del 3% su base annua; parallelamente, 7 milioni di nuovi posti di lavoro verrebbero creati [8]. In tempi di crisi economica,
la TTIP consentirebbe insomma all’Europa di tornare a respirare e agli Stati Uniti di velocizzare la propria crescita
economica.
La dimensione strategica delle relazioni transatlantiche non sembra essere, però, altrettanto rosea. Certamente, nel
Grande Medio Oriente – il teatro dove la somma degli interessi euro-atlantici è maggiormente in gioco – le grand
strategy di Europa e Stati Uniti tendono a convergere. Nella scorsa estate entrambi hanno adottato nuove sanzioni
economiche nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare, benché queste abbiano un impatto superiore sugli
interessi nazionali dei Paesi europei rispetto a quello sugli Stati Uniti. In Afghanistan, tanto Washington quanto le capitali
europee sono ansiose di disimpegnarsi da un teatro strategico fattosi estremamente complicato e scomodo, la cui
prospettiva di “pace senza vittoria” – nonostante gli enormi progressi fatti dal Paese nel corso degli ultimi dodici anni [9] –
è ormai molto più che allettante. In Siria, il supporto politico ai ribelli contro il regime è parimenti condiviso, benché
l’Europa si sia dimostrata ben più intraprendente degli Stati Uniti nell’ampliarlo a livello militare e comunque consapevole
che, in caso di intervento diretto, sarebbero gli americani a dover assumere i maggiori oneri.
Ed è proprio qui, nella dimensione strettamente militare, che si manifestano le maggiori incertezze: l’Europa costituisce
tutt’oggi l’anello debole dell’Alleanza Atlantica, fatto che infastidisce non poco gli Stati Uniti. Di fronte all’annosa
questione del burden sharing, la NATO ha recentemente proclamato la volontà di “spendere in modo intelligente”,
lanciando la Smart Defence, ovvero un «nuovo modo di pensare [...] una rinnovata cultura di cooperazione [...] che
significa mettere in comune le capacità, decidere le priorità e coordinare meglio gli sforzi», in particolare tra Europei, per
«generare [insieme]le capacità difensive che l’Alleanza necessita» [10]. Eppure, nonostante le buone intenzioni, la realtà
racconta che l’Europa sta proseguendo il cammino dei tagli ai budget militari; forse non in termini relativi, dato che
grosso modo le percentuali del PIL restano immutate da alcuni anni, ma certamente in termini assoluti. Non è dunque
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casuale che i diplomatici statunitensi abbiano fin qui etichettato il pooling&sharing europeo come una «cortina di fumo
per mascherare i tagli alla difesa» [11].
Per concludere, il secondo mandato di Obama è iniziato sotto nuove luci e solite ombre nel rapporto con gli Europei. Gli
Stati Uniti sembrano intenzionati a rimettere al centro della propria politica estera un’Europa che da oltre sessant’anni
appare sì stabile nelle fondamenta, ma che non riesce ancora a dimostrare una piena maturità né nel risolvere le crisi
interne né nel giocare un ruolo di primo piano negli affari internazionali, a partire da quelli che maggiormente la
coinvolgono. Eppure, come un refrain che si ripete incessantemente dal Secondo dopoguerra, è compito anzitutto dei
Paesi europei trovare quella volontà di lavorare insieme, che permetta loro di esercitare responsabilmente il ruolo di
partner ed alleato al fianco di Washington. Gli Stati Uniti stanno (ri)chiamando l’Europa alla costruzione di un nuovo
ponte transatlantico in un momento in cui l’ordine occidentocentrico appare in forte bilico di fronte all’ascesa dell’Asia.
Che sia l’ultima chiamata per la rilevanza del Vecchio Continente nel mondo?
[1] Bertelsmann Foundation, Field Manual to Europe. Ten Memos for the New US Administration, Washington, 2013, p. 4
[2] G. Pastori, Obama reduxed. L’Europa e le sfide della presidenza 2.0, ISPI Commentary, gennaio 2013
[3] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2009
[4] Corriere della Sera, Crisi, affondo di Obama sull’Europa: «Non la affronta in modo efficace», 28 settembre 2011
[5] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2012
[6] B. Obama, State of the Union Address, WashingtonDC, 12 febbraio 2013
[7] The Economist, Hope and no change, 10 novembre 2012; cfr. anche Il Sole 24ore, Usa e Ue verso un’area di libero scambio, 14
febbraio 2013
[8] US Chamber of Commerce, Transatlantic Economic and Trade Pact, 2012, p. 2; IAI, A Deeper and Wider Atlantic, Documenti IAI
1301, febbraio 2013
[9] M. Guillot, Welcome to Kabul. La strana storia di una ripresa che non si conosce, Bloglobal – Osservatorio di Politica Internazionale,
11 aprile 2013
[10] http://www.nato.int/cps/en/natolive/78125.htm
[11] G. Robertson – T. Valasek, Conclusion, in T. Valasek (a cura di), All alone? What US retrenchment means for Europe and NATO,
Centre for European Reform, febbraio 2012, p. 62
Unione Europa e Mediterraneo: un partenariato impossibile?
di Giuseppe Dentice, 7 maggio 2013
Il Mediterraneo o Mare Nostrum è stato per secoli un crogiolo di differenti razze, religioni, etnie, lingue e popoli,
tutti uniti dall’unicità di uno spazio geografico definito, che bagna 25 Paesi e costituisce una risorsa eccezionale e uno
spazio vitale per tre continenti. Per decenni i rapporti tra i Paesi del Mediterraneo sono stati rivolti quasi unicamente allo
sviluppo di forti interconnessioni economiche ed energetiche tralasciando, invece, la possibilità di creare uno spazio
unico comune di sicurezza e di stabilità politica. Il sopraggiungere della crisi economico-finanziaria prima e della
Primavera Araba poi, ha mostrato tutti i limiti di un’Unione Europea che solo poco tempo prima, con il Trattato di Lisbona
(2009), sembrava essersi dotata di più efficaci strumenti di gestione delle relazioni esterne (tra le novità in ambito PESC
l’istituzione della figura di Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza e la creazione del
Servizio Europeo per l’Azione Esterna) anche per ovviare a quei problemi di preparazione già messi in luce in occasione
delle crisi nei Balcani negli anni Novanta e, non da ultimo, della guerra in Iraq nel 2003. A fronte di una rinnovata
impossibilità di procedere con un’unica voce sugli avvenimenti che si sono susseguiti nei Paesi del Nord Africa e del
Medio Oriente, Bruxelles ha provato a rafforzare i propri legami con i Paesi della regione in questione quanto meno dal
punto di vista economico e sul piano della cooperazione bilaterale: la task force lanciata lo scorso mese di novembre con
l’Egitto nell’ambito del quale l’UE dovrà erogare al Cairo circa un miliardo di euro per il biennio 2012-2013 al fine di
stimolare la crescita e la stabilità politica, nonché la recente decisione di stabilire un partenariato privilegiato con la
Tunisia (pur specificando che entrambi i programmi sono legati ad un più vasto programma di aiuti internazionali che
vede questi due Paesi in trattative con il Fondo Monetario Internazionale), sono gli ultimi esempi di come Bruxelles sia
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stata spinta a rivedere e a rimodulare le proprie politiche di cooperazione con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo
attraverso lo strumento del partenariato.
Nonostante i progressi compiuti nell’ambito della Politica Europea di Vicinato in tutte le sue rivisitazioni e declinazioni,
Bruxelles si trova ancora oggi di fronte alla difficoltà di esprimere una politica mediterranea, lì dove non si può definire
ancora completamente euro-mediterranea, di ampio respiro come nei progetti sorti all’indomani della caduta del Muro di
Berlino, della riunificazione tedesca e del Trattato di Maastricht quando, “incassato” il mercato unico, Bruxelles iniziava a
guardare in maniera rinnovata al resto del mondo e, soprattutto, al proprio “cortile di casa”.
In principio fu il Partenariato euro-mediterraneo (PEM) – Sorto nel novembre 1995 con la Conferenza di Barcellona
tra i 15 membri dell’allora Unione Europea e 10 paesi del Mediterraneo – inclusa la Turchia – questo prevedeva la
creazione di un’area di libera scambio finalizzata alla creazione di una cooperazione di natura politica, economica e
sociale. L’obiettivo era quello di proporre una struttura multilaterale in cui collocare una serie di accordi di associazione
che l’Unione Europea avrebbe dovuto stipulare in via bilaterale con i singoli Paesi. Alcuni di tali accordi hanno
effettivamente aperto la strada a rapporti commerciali più solidi (come nel caso di Marocco, Egitto e Tunisia appunto),
mentre in altri casi (Siria) questi non hanno portato a nulla. L’iniziativa è proceduta piuttosto lentamente, senza risultati
molto soddisfacenti. Parallelamente all’istituzione del PEM, sono nate nello stesso periodo altre due iniziative informali di
natura sub-regionale come il Forum per il Mediterraneo e il Dialogo 5+5, volti ad instaurare dei contenitori di idee e
proposte per un rafforzamento delle politiche socio-economiche tra le due sponde. Tuttavia, le tensioni croniche nel
Mediterraneo orientale dovute allo stallo nel processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, nonostante gli Accordi di Oslo,
hanno contribuito notevolmente a ridimensionare se non proprio bloccare sul nascere il processo politico che era stato
ideato a Barcellona.
Il 2003 è l’anno del rilancio euro-mediterraneo attraverso un nuovo strumento che si fonda su accordi di partenariato e
cooperazione su base bilaterale, la Politica Europea di Vicinato (PEV): programma avvertito come una necessità non
solo per ovviare ai problemi di coordinamento e realizzazione riscontrati nel corso degli anni Novanta, ma anche perché
l’UE era sul punto di compiere il grande allargamento verso Est (2004) senza dimenticare, appunto, la sponda Sud.
Coinvolgendo Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia (mentre ad Est, come
discusso in altra sede, Bielorussia, Moldova e Ucraina), l’obiettivo era quello di costruire una zona di stabilità, di
sicurezza e di benessere per i popoli, attuando riforme di ampio respiro attraverso l’erogazione di assistenza tecnica e
finanziaria per la realizzazione di singoli Piani d’Azione (basati su singoli documenti di natura strategica) definiti con ogni
singolo Paese e che coprono un ampio spettro di temi: dialogo politico, riforme politico-economiche, commercio estero e
altre misure di avvicinamento al mercato interno europeo, così come energia, ambiente, trasporti e politica sociale. Il
tutto, dunque, per rendere estremamente flessibile il processo di avvicinamento ed integrazione con il mercato comune,
evitando che singole criticità (come appunto il conflitto israelo-palestinese) intervenissero a bloccare la più complessa
macchina della cooperazione multilaterale, e per creare quell’“anello di amici” di cui parlava l’allora Presidente della
Commissione europea, Romano Prodi.
Pur avendo ottenuti buoni risultati con alcuni Paesi come Marocco, Tunisia o Giordania, questa politica non ha in realtà
decretato quel salto di qualità necessario da strumento di cooperazione economico bilaterale ad uno vero e proprio
partenariato euro-mediterraneo politico e multilaterale.
Unione per il Mediterraneo, l’illusione? - Nel 2008, il Partenariato conosce un nuovo sussulto sotto il semestre di
presidenza francese e l’allora neo-insediato Sarkozy. A rinnovata testimonianza dell’interesse di Parigi nei confronti del
bacino mediterraneo (e, più in profondità, del territorio africano) e sotto i buoni auspici della stretta di mano ad Annapolis
tra l’ex Premier israeliano Ehud Olmert e Abu Mazen che avrebbe dovuto portare ad una rapida realizzazione di
una road map per la soluzione al conflitto mediorientale così come delle trattative tra le stessa Israele e la Siria circa la
restituzione delle Alture del Golan, il 13 luglio 2008 nasceva durante il Vertice di Parigi l’Unione per il Mediterraneo
(UPM) che aveva l’obiettivo di sostituirsi all’agonizzante PEV e aprire 44 Paesi – dai Balcani al Marocco, passando per
Israele – alla cooperazione economica e politica a 360° con l’obiettivo di “costruire insieme un futuro di pace,
democrazia, prosperità”. Fu un fuoco di paglia, perché già alla fine dello stesso anno Israele lanciò la nuova offensiva
sulla Striscia di Gaza. Lo scoppio della crisi economica e, poco dopo, l’accendersi delle proteste nei Paesi arabi – con la
caduta di alcuni dei regimi con cui lo stesso Sarkozy e i leader comunitari avevano fino a quel momento trattato,
Mubarak in primis – tagliarono le ali al progetto di mediterraneo integrato.
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“More for More”, il rilancio degli aiuti finanziari - Nonostante l’impegno e le risorse profuse negli anni (circa 12
miliardi di euro nel periodo di riferimento 2007-2013), Bruxelles è riuscita di fatto solo parzialmente a promuovere
prosperità, stabilità e sicurezza nel Mediterraneo. Così, in coincidenza delle proteste arabe, il 25 maggio 2011 la
Commissione Europea e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza hanno lanciato una proposta
di revisione della PEV improntata lungo 4 direttrici principali:
• Garantire processi riformatori e democratici;
• Migliorare la mobilità delle persone e garantire una buona gestione dei flussi migratori;
• Promuovere uno sviluppo economico inclusivo;
• Favorire il commercio e gli investimenti;
Questo nuovo approccio comunitario, denominato “more for more”, offre ai Paesi in transizione un maggiore accesso agli
aiuti economici e al mercato unico europeo in cambio di maggiori riforme in senso democratico e del rispetto dei diritti
umani e delle libertà di espressione. Ovviamente il ritmo di completamento delle riforme condiziona lo sblocco degli aiuti
finanziari e la possibilità di accedere a uno status avanzato di associazione.
L’Unione Europea ha stanziato per il triennio 2011-2013 5 miliardi di euro nelle politiche di vicinato, così ripartiti:
• 600 milioni di EUR attraverso “more for more”;
• 670 milioni EUR del bilancio UE vengono riorientati tramite due programmi ombrello: i programmi di assistenza
SPRING (per il vicinato meridionale – 540 milioni di EUR) e EaPIC (per il vicinato orientale – 130 milioni di EUR);
• 79,2 milioni EUR l’anno per la promozione di riforme politiche e responsabilità pubblica nei Paesi toccati dalla
transizione democratica;
L’UE ha, inoltre, offerto prestiti nei confronti di Egitto e Tunisia rispettivamente per un valore di 449 milioni EUR e 160
milioni EUR tramite lo Strumento eu¬ropeo di vicinato e partenariato (ENPI). Grazie al programma internazionale ISMED
(sicurezza degli investimenti nella regione del Mediterraneo), Bruxelles ha finanziato, sempre nel triennio 2011-2013,
investimenti e prestiti attraverso la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e la Banca Europea per la Ricostruzione
(BERS):
• 1,15 miliardi EUR l’anno per la promozione degli investimenti attraverso la BEI;
• 2,5 miliardi EUR l’anno per finanziare progetti infrastrutturali attraverso la BERS;
Il rovescio della medaglia: se la crisi economica genera instabilità - I tentativi di integrazione dal 1995 ad oggi
hanno dimostrato come la sola cooperazione economica, finanziaria ed energetica – sebbene questa di gran lunga la più
sviluppata avendo infatti creato una dipendenza europea dagli approvvigionamenti nordafricani, come evidenziato dalla
guerra in Libia – non abbia contribuito a rendere maggiormente coeso e politicamente stabile il bacino mediterraneo. A
decretare la debolezza di qualsiasi progetto di regione politica euro-mediterranea è soprattutto l’assenza di un quadro
politico coerente ed effettivamente condiviso sul piano della cooperazione e della realizzazione di robuste istituzioni che
agiscano in merito. Le cosiddette Primavere Arabe e la crisi economico-finanziaria non hanno fatto altro che far venire a
galla tali criticità rimaste tutto sommato sommerse negli anni in cui nel bacino mediterraneo vigeva un sostanziale status
quo. Soprattutto la crisi interna all’UE – che a conti fatti ha una profonda radice politica oltre che culturale –, la
contrazione economica e la crisi del debito hanno non di meno costituito un ostacolo per i Paesi della sponda
nordafricana, che sono dipendenti dall’Europa in termini di export, di entrate del turismo, di rimesse e di afflussi di
investimenti. Questi fattori hanno da un lato concorso ad indebolire ulteriormente le economie dei Paesi della sponda
sud, alimentando in parte i focolai sociali che sono stati alla base delle rivolte scoppiate nel 2011, dall’altro stanno
spingendo a rivedere i termini e la sostanza delle strategie di integrazione politica, economica e sociale sinora in atto.
Sarà pertanto importante trasformare le criticità interne in una grande opportunità di cambiamento e di rilancio delle
relazioni euro-mediterranee snellendo, riformulando e definendo un’agenda politica regionale chiara e non
necessariamente ambiziosa. E’ importante, quindi, che l’UE punti a delineare precisi e comuni obiettivi politico-strategici
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di medio-lungo periodo, eventualmente con attori più direttamente coinvolti nello scenario (come ad esempio la Turchia,
piuttosto che gli Stati Uniti, il cui baricentro delle politiche si è spostato più ad Est) al fine di evitare che altri attori
internazionali o regionali (Russia, India, Cina e Paesi del Golfo), sempre più interessati ad assumere una leadershipforte
in un’area dalle potenzialità enormi, possano definire la futura agenda politica della sub-regione scalzandola da quel
bacino che per secoli è stata la culla della sua potenza civile e militare.
Per approfondire
Chiara Albanese, Enrica Bucciarelli, Verso un Mediterraneo integrato, Cemiss, 2009;
Cathrine Ashton, Antonio Tajani e Werner Hoyer, Task force europea per il Cairo, 15 novembre 2012, Il Sole 24 Ore;
Riccardo Alcaro, Roberto Aliboni, La Politica di Vicinato dell’Unione Europea e il Mediterraneo. Orientamenti, strumenti operativi,
prospettive, IAI paper;
Commissione Europea, Il riesame della politica di vicinato rivela risultati contrastanti, 22 marzo 2013;
Commissione Europea, Politica europea di Vicinato;
ISPI Dossier, Economia ed energia per il rilancio Euro-med, in ISPI, novembre 2012;
Roberto Aliboni, Silvia Colombo, Bilancio e prospettive della cooperazione euro-mediterranea, in Osservatorio di Politica Internazionale,
giugno 2010;
L’Europa e l’immigrazione: norme, politiche e prospettive future
di Salvatore Denaro, 10 maggio 2013
Per svolgere un’analisi sulle azioni svolte in ambito comunitario sul tema dell’immigrazione, occorre partire da
alcune valutazioni sul piano storico, strettamente collegate a necessità demografiche, cambiamenti delle origini
geografiche dei flussi e delle caratteristiche socio-economiche dei migranti. Seguendo questo schema, è possibile fare
una suddivisione in tre grandi fasi delle migrazioni in Europa nell’ultimo secolo.
La prima fase riguarda il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Erano gli anni in cui
l’immigrazione veniva intesa come un’opportunità di rilancio demografico, necessaria per la ricostruzione e per la
crescita dopo le devastazioni della guerra. Questo periodo fu altresì caratterizzato dalle migrazioni dai Paesi
decolonizzati e da quelli devastati dalle sanguinose guerre di indipendenza come Uganda, Tanzania e Kenya, ma anche
dall’India e dal Pakistan. Le ondate migratorie, pertanto, sfuggivano dal controllo delle autorità politiche e venivano
affrontate attraverso politiche del tipo laissez-faire.
La seconda fase si apre con l’inizio degli anni ‘70, ovvero quando la crisi economica e sociale ha evidenziato
l’impossibilità di far fronte ad ondate migratorie su larga scala. Ecco che le grandi migrazioni avvenute nella fase
precedente subirono un brusco stop e le forti implicazioni sociali causate dagli altissimi livelli di disoccupazione portarono
a misure drastiche nel contenimento del fenomeno migratorio. La recessione economica conseguente alla crisi
petrolifera produsse una forte contrazione della domanda di manodopera determinando l’adozione di misure restrittive,
soprattutto da parte dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale. Infatti, l’emigrazione si spostò verso i Paesi europei
meridionali come Italia, Spagna e Grecia dove si diressero flussi provenienti soprattutto da Nord Africa e Mediterraneo
Orientale.
La terza fase parte a ridosso degli anni ‘90 fino ai giorni nostri. L’evoluzione del fenomeno migratorio è stata
caratterizzata da eventi epocali come la caduta del muro di Berlino, la Guerra del Golfo, le instabilità politico-sociali del
Medio Oriente, la crisi dei Balcani, l’11 Settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq ed infine la cosiddetta “Primavera
Araba”. Trasformazioni di carattere economico, politico e culturale si sono racchiusi nel termine “globalizzazione”,
allargando il concetto di migrazione a livello mondiale. Detto ciò, è apparso evidente a tutti gli Stati la necessità di
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affrontare tematiche simili non più in modo isolato ed autonomo. Nel corso degli anni ‘90 abbiamo assistito ad un lento e
graduale trasferimento delle tematiche migratorie all’interno dell’agenda delle Istituzioni comunitarie: l’Europa ha preso
atto del fatto che una materia come quella migratoria non può continuare ad essere gestita in modo indipendente dagli
Stati, proprio in ragione degli evidenti limiti dell’approccio intergovernativo. Il metodo “comunitario” è apparso, quindi, più
idoneo per affrontare un tema tanto globale quanto legato ad una serie di dinamiche prettamente nazionali di carattere
economico, sociale e culturale (ed elettorali…).
Dal Trattato di Maastricht a Lisbona: il difficile tentativo di “comunitarizzare” le politiche migratorie
Come accennato in precedenza, a partire dagli anni ’90 le Istituzioni comunitarie iniziarono a considerare le politiche
migratorie strategiche nel difficile percorso di integrazione della Comunità Europea. Nella Conferenza Intergovernativa
(CIG) che ha preceduto il Trattato di Maastricht, il governo tedesco e, in un secondo momento, il governo italiano e belga
proposero una completa “comunitarizzazione” della materia migratoria. Ma il “no” del governo britannico condusse
ancora una volta ad affrontare la politica migratoria esclusivamente a carattere intergovernativo. Tuttavia il Trattato di
Maastricht la definì come una questione di interesse comune nell’ambito del terzo pilastro dedicato alla giustizia e agli
affari interni (Titolo VI, art. K1 del TUE), ovvero le condizioni di ingresso e permanenza dei cittadini di Paesi terzi, le
politiche di asilo e il contrasto all’immigrazione irregolare.
Con il Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la
comunitarizzazione, diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e Stati membri. I temi
immigrazione e asilo confluiscono dal terzo pilastro di Maastricht al primo, sancendo la fine della sgradevole
associazione della politica migratoria con le disposizioni del terzo pilastro riguardanti il contrasto alla criminalità. Venne
superata la cooperazione intergovernativa del precedente Trattato anche se i limiti imposti dal principio di sussidiarietà
(art. 5 TCE) e dell’art. 63 [1] limitarono de facto il processo di comunitarizzazione della materia. Occorre inoltre
aggiungere che per la completa realizzazione di tale processo è stato disposto un periodo transitorio di cinque anni, dal
1999 al 2004, in cui per le approvazioni delle delibere era necessaria l’unanimità del Consiglio europeo. Inoltre, ad
Amsterdam è stato introdotto un meccanismo che ha reso possibile il processo di comunitarizzazione di alcune materie
come ad esempio quelle del Titolo IV, oggetto della nostra analisi (Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse
con la libera circolazione delle persone). Infatti, grazie alla cooperazione rafforzata, una maggioranza di Stati poteva
aumentare il livello di integrazione e non essere bloccata da un gruppo di Stati che su alcune tematiche, come quella in
questione, voleva mantenere un approccio nazionale. Questa flessibilità ha portato all’introduzione di meccanismi di
opting-out (vie d’uscita) rispetto ad alcune parti del Trattato, che se da un lato aumentavano il processo di
comunitarizzazione, dall’altra hanno aperto la strada ad un’Europa a due velocità.
Tra il 2000 ed il 2001 le iniziative della Commissione hanno riguardato i ricongiungimenti familiari, l’accoglimento dei
rifugiati, l’attuazione del principio di parità di trattamento e lo status dello straniero residente. A cavallo tra il 2001 e il
2002 le proposte che giungevano dalla Commissione e dai governi erano sempre più legati ad aspetti giuridico-penali
dell’immigrazione irregolare mettendo in secondo piano l’effettiva fruizione dei diritti umani da parte dei migranti
irregolari. Andarono in questa direzione la Comunicazione del Piano d’azione su una politica comune sull’immigrazione
illegale (COM 2001-672) e la Comunicazione su una politica comune di rimpatrio dei residenti illegali (COM 2002-564). Il
vertice di Siviglia del 2002, sull’onda emotiva dei fatti dell’11 settembre, non ha fatto altro che dare priorità al contrasto
all’immigrazione irregolare anche attraverso un piano per la gestione e il controllo delle frontiere esterne [2].
Il primo gennaio 2003 è entrato in vigore il Trattato di Nizza. Direttamente connessa al Trattato, pur essendo un allegato
a carattere non vincolante, è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Proclamata a Nizza il 7 Dicembre 2000
da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, contiene alcune disposizioni che si applicano anche nei confronti
degli stranieri [3]. In virtù dello spirito della Carta di Nizza, la Direttiva 109 del 2003 ha disposto il diritto al riconoscimento
dello status di residente di lungo periodo allo straniero che abbia soggiornato regolarmente in qualunque Stato membro e
quindi le limitazioni alle ipotesi di allontanamento, la parificazione ai cittadini comunitari riguardo l’accesso ad alcuni
servizi, il diritto di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro per un periodo superiore a tre mesi.
Nel 2005 la Commissione europea ha elaborato il “Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della
migrazione economica” ovvero uno strumento che mira ad avviare un dibattito approfondito, con la partecipazione delle
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Istituzioni dell’UE, degli Stati membri e della società civile, sulle novità da introdurre a livello comunitario in materia di
ammissione dei migranti per motivi economici e sul valore aggiunto dell’adozione di questa disciplina comune.
L’impasse a cui è andata incontro l’Unione Europea dopo il fallimento della Costituzione ad opera dei referendum
negativi di Francia e Olanda è stata superata nel 2009 dal Trattato di Lisbona, il quale oltre a confermare l’impegno
dell’Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali attraverso lo
strumento del rinvio recettizio contenuto nell’art. 6 par.1 del Trattato sull’Unione Europea. Nella sostanza il Trattato di
Lisbona non cambia le impostazioni strutturali stabilite nei trattati precedenti e mantiene inalterata la prerogativa statale
nella gestione dei flussi d’ingresso. Meritano di essere citate la Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 2004 relativa alle
condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, la Direttiva 2004/81/CE del 2004 riguardante il
titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un'azione di
favoreggiamento dell'immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti, la direttiva 2005/71/CE per
l'ammissione di cittadini di Paesi terzi a fini di ricerca scientifica, la direttiva 2008/115/CE relativa al rimpatrio di cittadini
di Paesi terzi irregolarmente soggiornanti. Infine, particolarmente importante e significativa è stata l’emanazione della
Direttiva 52/CE [4] del 2009 in cui Consiglio e Parlamento europeo hanno introdotto norme relative a sanzioni e
provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
Le recenti azioni dell’Unione Europea sull’immigrazione: inversione di tendenza?
La “Primavera Araba” del 2011 ha drammaticamente riportato all’interno delle Istituzioni europee il tema
dell’immigrazione. La necessità di aprire una nuova fase di politiche migratorie comunitarie non è solamente dettata da
freddi rilievi statistici del fenomeno migratorio nel vecchio continente ma da nuove dinamiche economiche, sociali e
politiche che riguardano non solo i Paesi geograficamente più vicini all’Europa. Dagli ultimi interventi della Commissione
emerge proprio il tentativo di riportare il tema dell’immigrazione su un piano che non sia solamente quello della
sicurezza, ma anche e soprattutto sul piano dei diritti umani, dell’integrazione, della gestione dei flussi regolari, di una
nuova politica di vicinato che miri a promuovere lo sviluppo economico dei Paesi in questione.
Strettamente legata a quanto accaduto in Nord-Africa nei primi mesi del 2011 è la Comunicazione della Commissione
europea del marzo 2011 dal titolo: “Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il mediterraneo
meridionale”. Qui l’Europa rivendica un ruolo da protagonista nell’azione di sostegno a tutti i Paesi che manifestano il loro
impegno per la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, il buon governo e lo Stato di diritto.
Oltre ad istaurare una nuova partnership di vicinato occorre sviluppare una concezione più moderna di integrazione. Per
questo motivo la Commissione, spinta dai risultati di un sondaggio di Eurobarometro [5] sulla qualità dell’integrazione
degli immigrati dei Paesi terzi nella società europea, ha individuato alcuni punti cardine delle future azioni che l’Europa
dovrà impostare attraverso l’agenda europea per l'integrazione del 2011: interazione sul luogo di lavoro e nelle scuole e
contributo dei migranti alla cultura locale. Secondo quanto ribadito dalla Commissione, appare assolutamente
fondamentale eliminare le barriere che ostacolano l’accesso dei migranti all’occupazione, anche in ragione del fatto che
l’Europa si troverà ad avere una forza lavoro nettamente inferiore a quella attuale (circa 50 milioni di lavoratori europei in
meno entro il 2060). Altro aspetto necessario ai fini di una maggiore integrazione sarebbe quello riuscire a fornire ai
migranti gli stessi diritti degli Europei. Infatti, il mancato riconoscimento dell’istruzione e delle esperienze maturate al di
fuori dell’Europa, oltre ad essere fattori discriminatori, espongono i migranti al rischio di disoccupazione, sottoccupazione
e sfruttamento. Infine, come più volte dichiarato da Cecilia Malmström, Commissaria europea per gli Affari Interni, “per la
riuscita dell’integrazione occorre che i migranti abbiano la possibilità di partecipare pienamente alle loro nuove
comunità”. Per raggiungere questo obiettivo, oltre a promuovere la creazione di organismi consultivi locali, regionali e
nazionali, all’interno della Commissione europea è emersa la necessità di agevolare il voto degli stranieri residenti nelle
elezioni locali. Anche perché sono oltre 20,5 milioni gli stranieri residenti in Europa, un numero in costante crescita
secondo recenti proiezioni statistiche: “in prospettiva – ha affermato Cecilia Malmström – l’Unione Europea ospiterà il
20% degli emigranti mondiali, che rappresenteranno il 13% della popolazione europea”.
Il 18 novembre 2011 la Commissione europea ha pubblicato una Comunicazione sul nuovo Approccio Globale in materia
di Migrazione e Mobilità (GAMM) aggiornando di fatto il documento precedente del 2005. Bruxelles oltre a ribadire gli
strumenti giuridici e operativi sui tre pilastri base (migrazione regolare, migrazione irregolare, migrazione e sviluppo) ne
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aggiunge un altro: la protezione internazionale e la dimensione esterna della politica europea in materia di asilo.
All’interno di quest’ultimo pilastro, i nuovi Programmi di Protezione Regionale (PPR) [6] rappresentano lo strumento
principale per rafforzare i sistemi di asilo delle regioni e dei Paesi partner.
Lo scorso 19 giugno la Commissione attraverso la comunicazione della “Strategia per l’eradicazione della tratta degli
esseri umani” ha posto delle linee guida per contrastare le moderne forme di schiavitù che coinvolgono sempre più i
migranti del vecchio continente. La legislazione dell’Unione Europea ha più volte affrontato la questione della tratta degli
esseri umani nelle sue numerose specificità, ad esempio in relazione allo sfruttamento sessuale dei minori e alle
sanzioni nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Si tratta di un
tema che è oggetto di molteplici azioni a carattere nazionale, interregionale e di accordi bilaterali di Paesi membri con
alcuni Paesi terzi. Per questo motivo, la Commissione con tale strategia intende offrire un quadro coerente dove
ricondurre le iniziative esistenti e programmate e soprattutto fornire da supporto alla direttiva 2011/36/UE [7] concernente
la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.
Da questi esempi appare evidente come le priorità dell’Unione Europea riguardo i migranti abbiano registrato un
sostanziale cambiamento degli orientamenti rispetto ai programmi ed alle azioni della stessa UE fino ai primi anni del
nuovo millennio. Ma nonostante lo sforzo di Bruxelles per scardinare il muro della diffidenza nei confronti degli immigrati,
gli strumenti normativi, il deficit democratico all’interno delle Istituzioni europee e soprattutto l’estremo tentativo degli Stati
di mantenere le prerogative sulle politiche migratorie, rendono le azioni dell’Unione Europea piuttosto lente, complesse,
farraginose e quindi in ritardo con la necessità di decisioni rapide che il mondo d’oggi richiede.
[1] L’articolo 63 stabilisce che le misure riguardanti l’immigrazione “non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei
settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali”.
[2] Si veda: Capo III “Asilo e Immigrazione” delle Conclusioni della Presidenza sul Vertice di Siviglia del 21 e 22 Giugno 2002
consultabili su questo link.
[3] Ad esempio le norme che contemplano il diritto alla vita (art.2), all’integrità fisica e psichica (art.3), alla libertà e sicurezza (art.6), al
rispetto della vita privata e familiare (art.7), all‟istruzione (art.14), alla prevenzione sanitaria (art.35), ad un ricorso giurisdizionale
effettivo ed imparziale (art.47) e il divieto della schiavitù e del lavoro forzato, della tortura o dei trattamenti inumani e degradanti (art.4), il
diritto alla parità di trattamento dei lavoratori stranieri con quelli comunitari (art.15), divieto di espulsione verso uno Stato in cui c’è il
rischio di essere sottoposto a pena di morte o a trattamenti inumani o degradanti (art. 19).
[4] Questa direttiva è stata recepita dall’Italia solamente il 6 luglio 2012 attraverso un decreto legislativo. Nonostante ciò l’ASGI
(Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha evidenziato alcune gravi lacune nell’attuazione delle disposizioni della direttiva
stessa.
[5] Sondaggio consultabile online a questo link.
[6] Per approfondire il contenuto degli PPR consultare questo link:
[7] Documento consultabile su questo link.
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BloGlobal – Osservatorio di Politica Internazionale
Research Paper
Coordinamento editoriale a cura di
Maria Serra e Giuseppe Dentice
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