Cicerone - In C. Verrem - Actio Prima - stralci

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Cicerone - In C. Verrem - Actio Prima - stralci
IN C. VERREM ACTIO PRIMA
I,1
Ho trascinato infatti davanti a voi un uomo che vi offrirà il mezzo di riguadagnare al potere
giudiziario la stima perduta, di riconquistare la simpatia del popolo romano e di dare
soddisfazione ai popoli stranieri; un uomo che ha dilapidato l’erario, ha sottoposto a vessazioni
l’Asia e la Panfilia, ha amministrato da pretore urbano la giustizia come un brigante, ha ridotto
la provincia di Sicilia alla totale rovina. Se perciò il vostro verdetto su di lui sarà emesso con
rigorosa scrupolosità, resterà intatta quell’autorità che deve rimanere in voi; se invece le
immense ricchezze dell’imputato riusciranno ad annullare quel sacro rispetto della verità che è
proprio dei tribunali, da parte mia raggiungerò per lo meno lo scopo di rendere evidente che non
è già mancato un imputato ai giudici né un accusatore all’imputato, ma è stato piuttosto un vero
tribunale quello che è mancato al nostro stato.
I, 2
[…] io in 50 giorni ho percorso l’intera Sicilia prendendo conoscenza dei documenti pubblici e
privati comprovanti le illegalità compiute a danno sia delle comunità che dei privati; ecco di
conseguenza chiaro per chiunque che costui è andato in cerca non di uno che trascinasse in
tribunale il suo accusato, ma che bloccasse me togliendomi del tempo prezioso.
I, 3
[…] è tanta la disistima che egli nutre per tutte le persone oneste, ritiene giunta a tali estremi la
corruzione dei tribunali senatorii, che va apertamente proclamando che egli ha avuto tutti i
motivi per essere avido di denaro, in quanto l’esperienza gli insegna che il vero aiuto si trova
solo nel denaro; è col denaro che egli ha comprato la cosa più difficile, cioè addirittura la data
del suo processo, per poter in seguito, comprare più facilmente il resto.
I, 4
[…] Delle vergogne che macchiano la sua giovinezza non voglio parlare; ebbene, la sua
questura, che è il primo gradino della scala delle cariche pubbliche, ecco quello che ci presenta:
Gn. Carbone derubato dal suo questore del pubblico denaro, il console lasciato senza risorse e
tradito, l’esercito piantato in asso, la provincia abbandonata, i sacri legami della sorte violati. Il
suo incarico di legato costituì la rovina per l’intera provincia d’Asia e di Panfilia, dove egli
saccheggiò molte case, moltissime città e spogliò tutti i templi; fu allora che ripeté ai danni di
Gn. Dolabella l’infame azione che aveva compiuta già una volta quando era questore, rendendo
odioso a tutti con i suoi misfatti colui che lo aveva voluto suo legato e poi proquestore, e non
solo abbandonandolo proprio durante lo svolgimento del processo, ma addirittura attaccandolo e
tradendolo. La sua pretura urbana fu tutta una spogliazione di templi e di edifici pubblici e,
contemporaneamente, nell’amministrazione della giustizia, fu tutta rivolta ad aggiudicare e
donare beni e proprietà in contrasto con le norme fissate da tutti i pretori precedenti. Però, le
testimonianze e le prove più numerose e notevoli di tutti i suoi vizi è nella provincia di Sicilia
che egli le ha date, dove durante i tre anni del suo governo ha provocato una rovina così grave
con le sue vessazioni, che è impossibile che quell’isola ritorni alle sue condizioni di prima, e
dovranno passare molti anni sotto il governo di propretori onesti perché posa alla fine e a
malapena rimettersi a posto, sia pure in parte. Sotto il suo governo i siciliani non hanno potuto
ottenere il rispetto né delle loro leggi né dei decreti del nostro senato né dei diritti comuni a tutte
le genti; in Sicilia ognuno possiede solo quel tanto che si è riusciti a sottrarre a questo campione
di avidità e di dissolutezza o perché ne ignorava l’esistenza o perché gli pareva superfluo tanto
ne era sazio.
I, 5
Durante questi tre anni non c’è stata causa che non fosse giudicata secondo il capriccio di
costui, e non c’è stata proprietà, fosse essa ereditata dal padre o da un avo, di cui il padrone non
venisse privato dall’autorità di costui in forza di un’ingiusta sentenza. Somme incalcolabili di
denaro sono state riscosse sulle proprietà agricole in base a un nuovo e criminoso sistema di
tassazione, alleati fedelissimi sono stati considerati alla stregua di nemici, cittadini romani
torturati e giustiziati come schiavi, il fior fiore dei delinquenti assolti dietro versamento di
denaro, il fior fiore dei galantuomini messi in stato d’accusa mentre erano assenti e condannati
all’esilio senza regolare processo, porti fortificatissimi e grandissime e sicurissime città aperte ai
pirati e ai predoni, marinai e soldati siciliani, nostri alleati e amici, fatti morire di fame, ottime e
utilissime flotte irreparabilmente perdute con gran disonore del popolo romano. E’ sempre lui, il
nostro pretore, che ha spogliato dal primo all’ultimo, lasciandoli come nudi, gli antichissimi
monumenti fatti costruire parte dai ricchissimi sovrani, che vollero così abbellire le loro città, e
parte anche dai nostri generali che, dopo il conseguimento della vittoria, li orffirono o li
restituirono alle città siciliane. E non si è comportato così soltanto con le statue e le altre opere
d’arte appartenenti alle comunità, ma addirittura ha spogliato tutti i santuari più venerati non
lasciando, per concludere, ai siciliani nessuna immagine sacra che egli ritenesse di discreto
pregio per l’arte e per l’antichità. Per quanto poi riguarda le sue vergognose dissolutezze, il
pudore mi vieta di fare cenno dei suoi mostruosi eccessi, e contemporaneamente non voglio
accrescere, appunto dicendolo, la sventura di chi non ebbe la possibilità di sottrarre i figli e la
moglie alla imprudente bramosia di costui. «Ma - si dirà - tutti questi misfatti sono stati
commessi senza che per questo siano divenuti di dominio pubblico». Ora, secondo me, non c’è
persona che, al sentir nominare l’imputato, non sia in grado di richiamare alla mente anche le
sue malefatte; di conseguenza, ho più paura che si pensi che io trascuri molte imputazioni,
piuttosto che ne inventi qualcuna ai danni di costui. D’altra parte, sono dell’avviso che la folla
che s’è radunata qui in tribunale, non è già venuta perché spinta dal desiderio di conoscere da
me i fatti che sono alla base della causa, ma piuttosto di richiamare insieme con me alla mente
fatti già ben conosciuti.
I, 13
[…] Saprà da me il popolo romano il motivo che ha impedito nel corso di quasi 50 anni
ininterrotti, durante i quali il potere giudiziario l’hanno tenuto i cavalieri (Lex Sempronia
iudiciaria, 122 a. C.), che sorgesse nei confronti di un cavaliere romano incaricato di giudicare
nemmeno l’ombra, signori giudici, di un sospetto di corruzione.
[…] Haec omnia me diligenter severeque acturum esse polliceor.
Di tutti questi scandali vi parlerò minutamente e severamente: è una promessa!