Booklet d`Avalos - Soprintendenza BSAE Abruzzo

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Booklet d`Avalos - Soprintendenza BSAE Abruzzo
Fasti d’Avalos
dagli Arazzi della Battaglia di Pavia
alle Selle da parata
Musei฀Civici฀di฀Palazzo฀d’Avalos
Piazza฀Lucio฀Valerio฀Pudente฀5,฀Vasto฀(CH)
info฀e฀prenotazioni:฀฀tel.฀0873/367773฀o฀334/3407240
www.museipalazzodavalos.it฀฀•฀฀[email protected]
Comune di Vasto
Booklet a cura di Lucia Arbace
Testi
Lucia Arbace, Cecilia Bartoli,
Maria Giuseppa Dipersia, Maria Taboga
Referenze fotografiche:
Giovanni Bernardi: p. 6; Aurelio Ciotti: pp. 22-23, 42
Archivio dell'Arte, Luciano Pedicini: copertina e pp. 11-12; 15-16;
19-20, 25-26,29
Archivio Bartoli Restauro e Ricerche: pp. 32-40
Si ringraziano per la collaborazione:
Fabrizio Vona, Umberto Bile, Brigitte Daprà, Paola Giusti, Antonio
Tosini, Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed
Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli
Progetto grafico:
Clifford Harbinson
La nostra città è lieta di riaprire le sale del nobile palazzo nel segno
proprio dei d’Avalos con l’esposizione delle sontuose selle da parata
dei Marchesi del Vasto, sottratte all’oblio e ai vecchi meandri in cui
giacevano impolverate e restituite ai fasti del passato.
Questo percorso a ritroso, questa emersione alla memoria dei tratti di
una nobile storia ci offre una straordinaria chiave di lettura della
presenza dei d’Avalos a Vasto, legata indissolubilmente alla loro
sontuosa dimora.
Il Palazzo, attraverso il ritorno delle preziose selle da parata, ricorda
prepotentemente alla sua città che prima ancora che sede del Museo
Archeologico, prima ancora che casa dei dipinti dei Palizzi, prima
ancora di essere un eccezionale contenitore di bellezza che solo l’arte
sa offrirci, è stata la dimora dei Marchesi d’Avalos.
Costoro scelsero con cura questo luogo, la bellissima quinta sul mare
unica nel suo genere che domina con austerità il golfo, progettando
un complesso straordinariamente armonizzato nel contesto
ambientale, fuso al centro medioevale e impreziosito dal giardino
napoletano.
Ringraziamo la Soprintendenza ai Beni Storico Artistici che negli
anni ha creduto a questo progetto e in particolare il Soprintendente
Dott.ssa Lucia Arbace che attraverso un’originale realizzazione
riesce a far dialogare questi manufatti con il resto del palazzo in un
gioco evocativo di rimandi storici. Un occasione di conoscenza e
approfondimento della storia del nobile casato, uno spaccato di vita
militare e di fasti di corte che si disvela oggi attraverso il suggestivo
allestimento della sala delle selle.
Per molti vastesi si tratterà di una sorpresa e di una novità che,
attraverso le numerose iniziative della gestione dei servizi del palazzo
a cura delle Cooperative Archeologia e Zoe, arricchiranno di spunti
di storia, arte e cultura i giorni del Natale.
Il Sindaco Luciano Lapenna
L’Assessore alla Cultura Anna Suriani
Città del Vasto, dicembre 2012
Elementi di armatura da bambino
Napoli, Museo di Capodimonte
Vedete duo marchesi, ambi terrore
di nostre genti, ambi d’Italia onore;
ambi d’un sangue, ambi in un nido nati,
di quel marchese Alfonso il primo è figlio,
… L’altro di si benigno e lieto aspetto,
il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.
(L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIII, 46-47)
Marchese del Vasto dal 1504 al 1546, condottiero alla testa
delle truppe imperiali di Carlo V, vincenti contro le armate di
Francesco I nella Battaglia di Pavia, Alfonso d’Avalos è stato
anch’egli un poeta, nonché un fine committente d’opere d’arte,
versato nella letteratura, sedotto dalla straordinaria creatività di
Ludovico Ariosto, cui accordò una pensione di cento ducati
d’oro l’anno.
Dei tanti personaggi che hanno abitato gli ambienti del
maestoso palazzo d’Avalos – un tempo lussuosamente arredati
– proprio ad Alfonso II del Vasto, fregiato dell’onoreficenza del
Toson d’Oro, ho subito pensato come un buon punto di
partenza per riannodare le fila di fasti smarriti, per ripercorre
pagine di storia che hanno inciso profondamente sulle sorti di
una cittadina affacciata sull’Adriatico, autostrada del mare.
Il forte potere evocativo dei manufatti artistici ancora una volta
è stato determinante per delineare un percorso, un progetto, che
ha già compiuto primi passi ma ha davanti a sé una strada che
può rivelarsi lunga ed entusiasmante.
Ma per amore di chiarezza occorre fare un piccolo passo
indietro e narrare i fatti. Nell’aprile del 2010 - c’eravamo
appena insediati nei nuovi uffici della Soprintendenza dopo i
lunghi mesi nei containers collocati nel parco del castello a
L’Aquila, - ho incontrato un responsabile della ditta
SICURMAX che da oltre un anno, un mese prima del
terremoto, si era aggiudicata la gara per la realizzazione delle
quattro vetrine destinate a ospitare le selle da parata in Palazzo
d’Avalos. Mi sollecitava a far partire il lavoro, fermo da tanto
tempo. Intanto gli stessi manufatti avevano trovato ricovero
temporaneo presso il Museo della Preistoria di Celano-Paludi
dove venivano effettuate le verifiche conservative per
determinare eventuali danni provocati dal sisma. Nel 2003
queste sontuose selle, ricche di ornati, erano state ritrovate
assieme ad altri oggetti in condizioni di fatiscenza nelle cantine
di Palazzo d’Avalos, ritirate dalla Soprintendenza e sottoposte
ad accurati restauri a cura di Cecilia Bartoli sotto la direzione
di Giovanna Di Matteo, grazie ai fondi del programma
ordinario dei lavori pubblici, erogati dal Ministero per i Beni e
le Attività Culturali. Naturalmente alla fine del complesso
intervento era prevista la restituzione alla sede di provenienza e
la realizzazione dell’allestimento in situ. Dovendo riprendere le
fila di questa pratica, da affidarsi ad altri collaboratori a causa
del pensionamento della funzionaria che se n’era occupata fino
a quel momento, ho compreso subito che le quattro selle da
parata, pur magnifiche, non potevano essere proposte al
pubblico come opere d’arte a se stanti, in vetrine individuali.
Anzi la loro ricollocazione poteva trasformarsi in un’occasione
preziosa per rievocare i fasti di un’epopea familiare, all’interno
di un palazzo straordinario dal punto di vista ambientale e
architettonico, caratterizzato da spazi dalle cubature maestose,
ma purtroppo oggi desolatamente privi di atmosfera.
Occorreva quindi migliorare l’allestimento per favorire una
inversione di tendenza, con l’auspicio che nel prossimo futuro
possa tornare in queste sale, magari sotto forma di deposito
temporaneo, una parte dell’imponente quadreria, oggi
conservata al Museo di Capodimonte assieme agli arazzi, ai
ricami e ai pezzi di armature, da collocarsi accanto a qualche
elemento d’arredo ancora in possesso degli ultimi discendenti,
come ad esempio lo scenografico letto con baldacchino che
incantò i visitatori della mostra Civiltà del Seicento a Napoli,
nel 1984.
Individuata la collocazione più idonea per le selle nella sala del
piano nobile da cui si diparte la scala a chiocciola che
raggiunge le scuderie, ha preso forma l’idea di coniugare questi
rari oggetti alle gesta cavalleresche e militari dei due marchesi
– onore dell’Italia - riproducendo le rutilanti scene immortalate
nella serie di arazzi dedicati alla Battaglia di Pavia del 1525,
donata al Real Museo nel 1862. Malgrado si tratti di eventi
avvenuti quasi un secolo prima rispetto alle selle databili
all’inoltrato Seicento, queste immagini risultano di grande
aiuto per agevolare una corretta comunicazione: viceversa
senza cavalli e cavalieri sarebbe stato arduo per il grande
Staffe
Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos
pubblico comprendere il clima di riferimento e l’imponenza
delle parate principesche. Riprogettata la vetrina, ampi dettagli
dei prestigiosi arazzi cinquecenteschi tessuti a Bruxelles sono
stati riprodotti su lastre dall’azienda Veneto Vetro, con il
medium degli scatti fotografici a risoluzione altissima di Luciano
Pedicini i quali permettono di percepire la trama della tessitura e
le sfumature dei fili colorati intrecciati con l’oro e l’argento.
Un plauso va quindi al gruppo di lavoro che ha seguito e attuato
tutte le fasi, in primis al RUP, l’arch. Carlo Alberto Natalizia
della soprintendenza BAP dell’Abruzzo, ai nostri Ivana di
Nardo, Aurelio Ciotti, Mario Salomone, Roberto Pezzopane e
Giovanni Bernardi, ai collaboratori amministrativi e al servizio
audiovisivi della Soprintendenza stessa, che ha elaborato le
immagini per la proiezione delle fasi del restauro.
Infine occorre rimarcare la positiva collaborazione stabilitasi da
tempo con l’amministrazione comunale di Vasto, in particolare
con il Sindaco Luciano La Penna e l’Assessore alla Cultura
Anna Suriani, e con lo staff che oggi gestisce con competenza
i Musei di Palazzo d’Avalos, coordinato da Antonella Marsico.
Con questi interlocutori si dovranno ora definire meglio i
termini del cammino futuro per un completo rilancio di questo
magnifico complesso monumentale.
Lucia Arbace
Soprintendente per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici dell’Abruzzo
Rendering della Vetrina,
Ditta SICURMAX
Fasti d’Avalos:
gli arazzi della “Battaglia di Pavia”
di Maria Taboga
“Lego al Museo Nazionale di Napoli i miei arazzi e quadri, da
riporsi in una sala apposita, con la mia leggenda, e vieto di
potersi portare via da Napoli sotto pena di decadenza dal
legato”: così il 18 agosto 1862 il nobile Don Alfonso d’Avalos
d’Aquino d’Aragona (1796-1862), discendente di una antica
stirpe di lontane origini castigliane e ultimo custode della
collezione avita lasciò alla Pinacoteca Nazionale di Napoli i
sette magnifici panni istoriati noti come gli arazzi della
Battaglia di Pavia, una serie completa e preziosissima,
connessa alle vicende della tormentata storia d’Europa del XVI
secolo, “piena di atrocissimi accidenti” come scriveva lo
storico fiorentino Francesco Guicciardini nella sua Storia
d’Italia pubblicata postuma nel 1561.
I monumentali tessuti figurati, ciascuno alto circa quattro metri
per quasi otto di lunghezza, vanno annoverati fra i capolavori
dell’arte dell’arazzeria del XVI secolo; realizzati a Bruxelles
nel 1529-31 con una tecnica raffinatissima e profusione di filati
preziosi – seta, argento e argento dorato filati – nell’atelier
degli imprenditori Jan e Guillaume Dermoyen (o van der
Moyen) le cui “marche” sono tessute sulle cimose di tre
esemplari. La paternità dei modelli per le scene degli arazzi (i
disegni si conservano al Louvre), sgomberato il campo da
ipotesi fantasiose (Tiziano, Tintoretto e Giulio Romano), è stata
universalmente riconosciuta al celebre artista fiammingo
Bernard van Orley (1491 circa – 1542) - pittore di corte delle
Reggenti dei Paesi Bassi Margherita d’Asburgo (1480-1530) e
Maria d’Ungheria (1505-1558) - il progettista di molte,
straordinarie serie intessute del XVI secolo.
Negli arazzi, dispiegati su una superficie complessiva di più di
trecento metri quadrati, sono illustrati in sequenza diversi
episodi relativi all’importante fatto d’armi svoltosi alle porte di
Pavia nella notte fra il 23 e il 24 febbraio 1525 che vide
fronteggiarsi le truppe dell’imperatore Carlo V e l’esercito
transalpino guidato dal re Francesco I di Valois nell’ambito del
lunghissimo conflitto che oppose per decenni i due stati,
Spagna (Impero) e Francia, e i loro alleati.
La battaglia ebbe immediata eco anche nelle arti figurative,
ricordata in dipinti, stampe e rilievi scultorei; ma lo scontro fu
importante soprattutto per le conseguenze sugli equilibri fra le
grandi potenze perché segnò la fine del dominio francese sul
Ducato di Milano e della politica espansionistica della Francia
sulla nostra penisola. Oltre al re Francesco I, fatto prigioniero,
tradotto a Madrid e liberato dopo un anno su pagamento di un
forte riscatto, parteciparono alla battaglia (trovandovi in molti
casi la morte) i rampolli dei casati più nobili d’Europa, spesso
combattenti su fronti opposti anche se originari delle stesse
terre, a testimonianza di un momento storico confuso, dei
rovesciamenti continui delle alleanze e dei giochi politici e
militari in atto fra i vari potentati italiani e stranieri, delle
enormi tensioni che caratterizzarono quegli anni.
Paesaggi ben riconoscibili per la fedeltà topografica ai luoghi
dove si svolse realmente lo scontro fanno da cornice, nei panni,
alle scene della battaglia nel momento in cui le truppe imperiali
prendono il sopravvento: ogni arazzo raggruppa più episodi
disposti su vari piani, come in istantanee fotografiche,
mostrando cavalieri racchiusi in splendide armature, cinti di
elmi piumati, armati di lance e montati su possenti destrieri,
che si affrontano a duello; e ancora fanti abbigliati con
giubboni dagli intensi colori, equipaggiati con spade e
archibugi, soldati che manovrano a fatica alcuni dei primi
esemplari di artiglierie da campo, insieme a torme di
La Battaglia di Pavia
Avanzata dell’esercito imperiale e attacco
della gendarmeria francese guidata da Francesco I
(particolare: l’ammiraglio di Francia Guillaume Gouffier)
Napoli, Museo di Capodimonte
Lanzichenecchi che combattono ferocemente, in una
confusione di carriaggi e salmerie rovesciate e imprigionate nel
fango che vengono travolte nel parapiglia generale.
Le sette scene sono state identificate come segue:
1) Avanzata dell’esercito imperiale e attacco della
gendarmeria francese guidata da Francesco I.
2) Sconfitta della cavalleria francese. Le fanterie imperiali si
impadroniscono delle artiglierie nemiche.
3) Cattura del re di Francia Francesco I.
4) Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili
al seguito dell’esercito di Francesco I.
5) Fuga dei civili dal campo francese. Gli Svizzeri si rifiutano
di avanzare nonostante gli incitamenti dei loro capi.
6) Fuga dell’esercito francese e ritirata del duca d’Alençon
oltre il Ticino.
7) Sortita degli assediati e rotta degli Svizzeri che annegano in
gran numero nel Ticino.
Fra gli episodi immortalati dagli arazzi il secondo in particolare
toccava l’immaginario della nobile famiglia d’Avalos, tra le più
cospicue dell’Italia meridionale per ricchezza e rilievo politicosociale: un casato da sempre al servizio dei re di Spagna - gli
Aragonesi prima, gli Asburgo poi -, che, dal XVI secolo, poteva
fregiarsi, fra altri, anche del titolo di marchesi di Pescara e del
Vasto. I d’Avalos d’Aquino e d’Aragona erano parte di un ceto
aristocratico che attribuiva grande valore alla virtù militare
ispirata dagli antichi e a un rapporto particolare con il sovrano,
ed erano esponenti di una classe divenuta interlocutrice
privilegiata del potere imperiale, dal quale aveva ottenuto molti
benefici.
La scena di quell’arazzo infatti mostra l’attacco degli imperiali
sulla cavalleria e sugli artiglieri francesi da parte dei
La Battaglia di Pavia
Sconfitta della cavalleria francese
(particolare: Ferdinando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara)
Napoli, Museo di Capodimonte
lanzichenecchi di Georg von Frundsberg: sulla sinistra del
panno la scritta “MARQ.is DU-VASTE” identifica Alfonso
d’Avalos (1502-1546), guida degli archibugieri imperiali, poi
celebrato anche da Tiziano in un noto ritratto, mentre poco
lontano è raffigurato il cugino Ferrante Francesco (1496-1525),
identificato dall’iscrizione “MAR.sc DI PES.” (marchese di
Pescara) il quale, insieme al Viceré di Napoli - il fiammingo
Charles de Lannoy - e al Conestabile Carlo di Borbone, era uno
dei comandanti in capo delle truppe dell’imperatore. Don
Alfonso d’Avalos, che lasciò gli arazzi in eredità alla città di
Napoli, era un lontano discendente dei due combattenti
immortalati nel panno.
Ma come giunsero gli arazzi, dalle Fiandre, dove furono tessuti,
alla Spagna, poi in Italia e Austria e, da ultimo, definitivamente
a Napoli?
L’opinione fondata su una tradizione familiare che vedeva nei
panni della battaglia di Pavia un dono dell’imperatore Carlo V
al marchese di Pescara per le azioni eroiche compiute durante
lo scontro è stata smentita da palesi incongruenze storiche:
Ferrante d’Avalos morì negli ultimi mesi del 1525, per le ferite
riportate in battaglia, o secondo altre fonti di tisi, ed è
impossibile legare il suo nome all’origine degli arazzi
(Wouters, 1878). Invece, se si pospone il dono di circa
cinquant’anni rispetto ai fatti narrati (negli arazzi e dalla
tradizione familiare) e se i protagonisti vengono individuati in
Don Carlos (1545-1568), figlio del re Filippo II di Spagna e
nipote di Carlo V, e in Francesco Ferrante d’Avalos (15301571), marchese di Pescara e del Vasto, figlio del cugino del
condottiero trionfatore a Pavia, l’opinione tradizionale si
riconcilia, in parte, con la ricostruzione storica e con le
evidenze archivistiche.
La Battaglia di Pavia
Sconfitta della cavalleria francese
(particolare: Georg von Frundsberg, capo dei lanzichenecchi)
Napoli, Museo di Capodimonte
La Battaglia di Pavia
Cattura del re di Francia Francesco I
(particolare: Carlo di Borbone)
Napoli, Museo di Capodimonte
I documenti attestano che la serie fu offerta a Carlo V
dall’Assemblea degli Stati Generali tenutasi a Bruxelles nel
palazzo imperiale nel 1531 durante un consesso che aveva
sancito l’investitura della sorella Maria d’Ungheria a nuova
Reggente dei Paesi Bassi; ma circostanze e persone legate alla
commissione rimangono misteriose. Il ciclo fu poi allestito nel
1549 nel castello di Binche, residenza della governatrice, che in
quel momento ne aveva evidentemente la disponibilità, per
celebrare un altro incontro “familiare” degli Asburgo, fra Carlo
V e il figlio Filippo, Maria d’Ungheria ed Eleonora, la sorella
maggiore dell’imperatore da poco divenuta regina di Francia; e
ancora gli arazzi sono menzionati nel 1556 quando a Bruxelles,
nuovamente nel palazzo imperiale, fecero da cornice (in realtà
poco opportuna…) alla firma del trattato di Vaucelles,
ennesima pace fra Spagna e Francia. In proposito le fonti
ricordano che l’ammiraglio Coligny, rappresentante del nuovo
re Enrico II aveva vivacemente protestato e che l’incidente
diplomatico era stato superato grazie alla burla di un buffone
francese il quale era riuscito a stemperare gli animi da
entrambe le parti.
Maria d’Ungheria, che rientrò in Spagna a fine mandato
proprio nel tardo 1566, aveva disposto che gli arazzi fossero
destinati al bisnipote allora tredicenne, Don Carlos che ne
venne in possesso nel 1558, come si evince dalle ultime volontà
della Reggente. Nel 1564 a sua volta il principe ereditario aveva
deciso di lasciare la serie al suo tutore, Honorato Jaun, vescovo
di Burgos e Osma (che era stato precettore anche di Filippo II),
il quale però premorì a Don Carlos, nel 1566.
Quest’ultimo passaggio –cioè la decisione di alienare,
donandola a “estranei” una serie pur così preziosa - è un
segnale che getta una nuova luce sul perché il set non sembri
avere mai incontrato il favore della corte, primo fra tutti di
Carlo V al quale era stato donato. Negli ultimi studi (Buchanan,
2002) è stato enfatizzato come il ciclo di Pavia non venga mai
citato nell’inventario dei beni personali dell’imperatore.
D’altro canto, non sapendo né da parte di chi né perché gli
arazzi vennero donati si può solo osservare che nel 1531 le
scene della serie erano già state sacrificate dalla “Storia”
sull’altare della ragione di stato: le alleanze erano mutate e gli
arazzi non solo non erano più attuali, ma addirittura erano
divenuti imbarazzanti e inusabili nelle cerimonie ufficiali:
Francesco I di Francia, umiliato nello scontro e così
“fotografato” negli arazzi, dal 1530, in ottemperanza alle
clausole del trattato di Madrid, era divenuto cognato
dell’imperatore Carlo V!
In questa ottica, a maggior ragione il ciclo continuava a
rappresentare un problema per la dinastia degli Asburgo dopo
che Filippo II, nel 1559, in seguito alla pace di Cateau
Cambresis aveva sposato in terze nozze Elisabetta di Valois
(1545-1568), nipote proprio del sovrano così poco
onorevolmente ritratto negli arazzi. Gli episodi legati alla
cattura del re di Francia erano divenuti in tal modo ancora più
scomodi e forse proprio per tale ragione la serie, alla morte di
Maria d’Ungheria, non era stata inclusa nei beni di Filippo II
ma era passata direttamente a Don Carlos, “parcheggiata” fra i
suoi beni. Morendo quest’ultimo nell’agosto del 1568, solo
pochi mesi prima della matrigna Elisabetta che si spense di
parto nell’ottobre dello stesso anno - ma questo Filippo
ovviamente non poteva saperlo - il problema della gestione dei
panni si ripropose in tutta la sua delicatezza.
Si può allora ipotizzare che il re, valutando per la seconda volta
nel giro di pochi anni l’impossibilità di incamerare fra i propri
beni la Battaglia di Pavia, nell’arco dei tre mesi che separano
le morti di Don Carlos e di Elisabetta, abbia destinato la serie a
una personalità a lui molto vicina che aveva un legame intimo
e fortissimo con gli arazzi. Costui era Francesco Ferrante
d’Avalos il quale ritrovava negli arazzi il ricordo del padre,
La Battaglia di Pavia
Cattura del re di Francia Francesco I
(particolare: tre cavaliere alzano la spada in segno di vittoria)
Napoli, Museo di Capodimonte
Alfonso d’Avalos marchese del Vasto e dell’altro suo celebre
avo, quasi suo omonimo, Ferrante Francesco d’Avalos,
marchese di Pescara. E così “i sette pezi di tapezaria di figure
co’ oro con l’impresa di Pavia” donatigli nel 1568, vengono
citati per la prima volta nelle mani dei d’Avalos il 13 luglio
1571, nell’atto del notaio palermitano al quale Francesco
Ferrante aveva affidato le sue ultime volontà.
In questo modo Filippo II si era “liberato” di arredi inservibili,
gratificando al contempo, con un dono magnifico, un nobile
che lo aveva servito per anni con totale abnegazione. Per un
curioso scherzo della storia gli arazzi arrivarono quindi ai
d’Avalos due generazioni dopo i fatti di Pavia, quando il
legame che univa i discendenti della dinastia asburgica ai
rampolli dei nobili marchesi di Pescara e del Vasto si era fatto,
se possibile, addirittura più saldo e, a ben leggere le fonti, la
loro frequentazione, basata su una totale fiducia, divenne
intima e continuativa. Il giovane Francesco Ferrante era stato
ammesso a corte, grazie ai buoni uffici della madre Maria
d’Aragona già nel 1548, ed era rimasto per qualche tempo
proprio al servizio del principe Filippo, seguendolo in
Inghilterra nel 1554, in occasione delle nozze con la regina
inglese Maria Tudor. Fu poi capitano militare e governatore di
Milano dal 1560 al 1563. Durante quest’ultimo incarico il
d’Avalos era stato anche nominato da Filippo suo
rappresentante personale al Concilio di Trento e aveva difeso
Malta da una minaccia turca nel 1566. Tutta la sua vita si
dipanò a stretto contatto con il principe ereditario e poi re
Filippo II, per il quale Francesco Ferrante aveva svolto delicati
incarichi che culminarono nella nomina a Viceré di Sicilia l’11
aprile 1568. Fu quindi un dignitario di corte potentissimo e
fedele al suo re, interessato a tutto ciò che riguardava la
La Battaglia di Pavia
Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili
al seguito dell’esercito di Francesco I
(particolare: gruppo di soldati e di civili)
Napoli, Museo di Capodimonte
La vetrina con le selle, le staffe e due portapistola
Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos
tradizione di famiglia, come dimostra anche l’elenco dei dipinti
della sua collezione che si può leggere nel testamento del 1571,
dove un posto preponderante avevano i ritratti degli antenati.
Il patrimonio di Francesco Ferrante – che nel 1552, con un
matrimonio che ampliava la rete d’illustri parentele e
accresceva le sue prospettive di carriera, aveva sposato Isabella
Gonzaga, figlia del duca di Mantova Federico II, nipote del
cardinale Ercole e di Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato
di Milano -, compresi verosimilmente i preziosi arazzi
fiamminghi, nel 1571 passò all’unico figlio Alfonso Felice, di
soli sette anni, affidato alle cure dello zio paterno, il cardinale
Innico d’Avalos. Uscito di tutela, il giovane marchese si era
maritato, a sua volta, con l’esponente di un’altra
importantissima e nobile schiatta, Lavinia Feltria della Rovere
(1558-1632), sorella del Duca di Urbino. Alfonso Felice morì
giovanissimo nel 1593, a soli ventinove anni, dopo una vita
dissoluta trascorsa fra la Spagna e le Fiandre, lasciando debiti
per 600.000 scudi che costrinsero la vedova a vendere e
alienare oggetti preziosi e rendite.
Il titolo nobiliare, in mancanza di eredi maschi, fu trasferito alla
figlia maggiore Isabella, ultima discendente della linea
principale della famiglia che, nel 1597, si unì in matrimonio
con Innico d’Avalos proveniente da un ramo cadetto della
famiglia, perpetuando nome e patrimonio e trasferendosi a Vasto.
La storia familiare dei d’Avalos tramandava che gli arazzi
sarebbero rimasti sempre nella disponibilità della stirpe,
passando di generazione in generazione, ma ciò non
corrisponde al vero, almeno nella seconda metà del XVIII
secolo. Nel primo Settecento la Battaglia di Pavia si incontra
infatti a Venezia, in possesso della famiglia Grassi, per tre
generazioni (Paolo, il figlio Angelo e i nipoti Bortolo, Paolo e
Giovanni), probabilmente in seguito a un acquisto.
Di sicuro sappiamo che, nel 1706, gli arazzi di Pavia non si
trovavano nella residenza viennese del capo del casato di allora,
il marchese Cesare Michelangelo d’Avalos (1667-1729), esule
La Battaglia di Pavia
Cattura del re di Francia Francesco I
(particolare: Carlo di Lannoy vicerè di Napoli)
Napoli, Museo di Capodimonte
La Battaglia di Pavia
Fuga dell’esercito francese e ritirata del duca d’Alençon oltre il Ticino
(particolare: uomo caduto in acqua)
Napoli, Museo di Capodimonte
in seguito alla partecipazione alla congiura del Principe di
Macchia contro Filippo V di Spagna. Un inventario dei beni
trasportati a Vienna - che elenca molti arazzi, anche assai
preziosi, ma non la serie di Pavia - dà un’idea dei tesori d’arte
posseduti dalla famiglia negli anni della signoria su Vasto, città
che i d’Avalos avevano abbellito con la costruzione di nuovi
edifici e residenze suburbane e dove spesso soggiornavano, nel
palazzo avito riportato agli antichi fasti. Il marchese potrebbe
non avere portato con sé la serie, per le enormi dimensioni dei
panni; oppure, prestando fede a una tradizione orale, si può
pensare che li avesse impegnati a Venezia per sostenere gli
oneri dell’esilio.
Da Vienna, il munifico Cesare Michelangelo - che nel 1704,
dall’imperatore Leopoldo I aveva ottenuto anche il titolo di
principe e il diritto di battere moneta - rientrò in Abruzzo con
la moglie nel 1713 e per anni, fino alla morte, condusse una vita
di sfarzi.
In proposito, nella cronaca dell’incontro avvenuto il 23 ottobre
1723 con il conestabile Fabrizio Colonna, giunto a Vasto per
essere insignito dell’ordine del Toson d’oro conferitogli
dall’imperatore Carlo II per tramite del marchese d’Avalos, si
legge la descrizione dettagliata del luogo in cui avvenne la
fastosa cerimonia (“i padiglioni presi nelle guerre contro i
turchi e la gran tenda che l’imperatore Carlo V aveva donato a
Ferdinando Francesco d’Avalos in memoria d’essersi a questi
reso Francesco I nella giornata di Pavia”); come è evidente, non
si parla dei panni, a meno di non volere interpretare “tenda”
come gli arazzi, ma con una forzatura evidente.
Morendo, Cesare Michelangelo lasciò una quantità enorme di
debiti, tanto che, nel 1735, la Regia Camera decretò il sequestro
dei suoi beni feudali. Un altro inventario del 13 ottobre 1736,
riferito ai soli cespiti del palazzo di Vasto, ancora una volta non
cita gli arazzi di Pavia. Sembrerebbe invece che il set sia stato
presente a Vasto, nel palazzo, nel 1742, secondo quanto si dice
riporti un “Apprezzo” riferito a quella data, ma la notizia,
sempre riproposta negli studi ma mai ricontrollata, andrebbe
verificata in quanto in contrasto con la certa presenza degli
arazzi a Venezia più o meno nello stesso torno d’anni.
Nel 1771, nella città lagunare, i panni passarono di mano,
venendo venduti dai Grassi al patrizio veneziano Daniele I
Delfino (Dolfin) che li acquistò tramite un intermediario, un
certo “Monsieur Dublin”.
Nel 1774 viene stampato un raro opuscolo “Breve notizia degli
Arazzi posseduti dalla Eccellentissima Casa Delfino”, un
pamphlet promozionale collegato con il documentato tentativo
di vendere i panni alla corte austriaca di Milano, attraverso
l’Ambasciatore veneziano Vignola, tentativo che non ebbe esito
positivo” (Forti Grazzini, 2000). Gli stralci della
corrispondenza fra il Principe Von Kaunitz e gli intermediari
per declinare l’offerta di acquisto sono il manifesto del
mutamento del gusto: nel clima rococò imperante non si
apprezzavano più i panni cinquecenteschi, buoni ormai, si
affermava, “solo per l’addobbo della chiesa di corte, perché
troppo tetri e malinconici”.
E’ possibile che proprio in quella circostanza gli arazzi siano
stati decurtati delle bordure inferiori (“Un Bordo superbissimo
di Frutta, Fiori, Uccelli ed Animali; il tutto nei colori più vivi,
animati e perfettamente conservati con in fondo un Basamento
di Gruppi di Tritoni a chiaro scuro lumeggiati d’oro, sul
disegno di Giulio Romano”) identiche nella descrizione a
quelle che corredano un’altra importantissima serie fiamminga
del XVI secolo, le “Cacce di Massimiliano” oggi al Louvre,
forse per tentare un’ultima disperata manovra che li adattasse,
nelle dimensioni verticali almeno, a un possibile allestimento
negli ambienti del Palazzo Reale di Milano.
Solo successivamente, in una data imprecisata entro il 1815, un
altro discendente dei d’Avalos, il principe Tommaso riacquistò
la serie, che rimase esposta nel palazzo napoletano della
famiglia, fino al loro lascito, da parte di Don Alfonso al Museo
Nazionale di Napoli, nel 1862.
La Battaglia di Pavia
Sortita degli assediati
(particolare: soldati che tentano di fuggire)
Napoli, Museo di Capodimonte
A Napoli i panni vennero molto lodati e continuarono a essere
oggetto di pubblicazioni ma anche di invenzioni fantasiose. Ne
parlano Morelli, nel 1899, che li chiama “arazzi del Vasto” e
che si rifà all’opera dell’abate Domenico Romanelli, del 1815,
come anche Catalani nel 1845 e Chiarini nel 1856. Nel 1896
era stato pubblicato da Luca Beltrami l’opuscolo “La battaglia
di Pavia illustrata negli arazzi del Marchese del Vasto, al Museo
Nazionale di Napoli” in tiratura limitata che prendeva ancora
per buona l’attribuzione dei disegni a Tiziano per le figure e al
Tintoretto per gli ornati dei bordi. Scrissero sugli arazzi anche
il direttore dell’Arazzeria Vaticana del San Michele, il cavalier
Pietro Gentili nel 1874 e nel 1878 (il padre Eraclito li aveva
restaurati nel 1853, quando erano ancora in possesso della
famiglia d’Avalos), e Salvatore di Giacomo sulla rivista
“Emporium”, nel 1897.
Anche nel Novecento sono stati moltissimi i contributi che si
sono occupati degli arazzi della Battaglia di Pavia, in Italia e
all’estero; il saggio di Casali, Fraccaro e Prina del 1993 ha
riassunto in modo completo le maggiori questioni aperte, sia
per quanto riguarda gli aspetti storico artistici che quelli
militari, con uno studio accurato delle ambientazioni reali delle
scene nel territorio pavese. Le scoperte archivistiche di
Buchanan, nel 2000 e nel 2002 hanno aggiunto nuovi tasselli
alla ricostruzione storica.
La possibilità che ci è data oggi, di ammirare la serie completa
al Museo di Capodimonte, in buono stato di conservazione
soprattutto dopo un restauro concluso nel 1999, ha del
miracoloso: le complesse vicissitudini di questi panni, in buona
parte ricostruite, pur con periodi ancora avvolti nel mistero, ci
hanno consegnato un capolavoro dell’arte dell’arazzo, frutto di
un periodo glorioso e difficile, un capolavoro giunto a noi
anche grazie all’orgoglio dinastico di un potente e celebre
lignaggio che ha saputo conservare il suo patrimonio artistico
come testimonianza di un’importante storia familiare,
donandolo infine, con grande generosità, all’Italia tutta.
Intervento di restauro
delle selle d’Avalos
di Cecilia Bartoli
Breve descrizione dei manufatti
Le quattro selle da parata dei Principi d’Avalos sono rarissimi
manufatti polimaterici costituiti da un telaio di supporto in
legno, finiture e cinghie in cuoio, 1 cm di spessore di “cartone”
come intercapedine tra legno e tessuto, uno strato di canapa ed
il tessuto a vista in gros de tour, impreziosito con filati
metallici, oro e argento, in seta applicati a ricamo. Il gros copre
anche l’imbottitura, che interessa quasi interamente le selle,
costituita da bambagia e cotone. Questo livello di imbottitura
sembrerebbe piuttosto un vecchio intervento di restauro. La
seta è rifinita perimetralmente da frange in filato metallico e
filati di seta.
Misure:
Lunghezza cm. 70; larghezza cm. 80; altezza (anteriore) cm.
46; altezza (posteriore) cm. 38.
Epoca: Sec. XVII
Stato di conservazione
Le selle si trovavavano in un pessimo stato di conservazione.
Tutta la superficie era ricoperta da uno spessissimo strato di
sporco di varia natura che offuscava completamente il tessuto.
Muffe e funghi avevano colonizzato il tessuto in gros de tour e
ne avevano accelerato il degrado. Le fibre erano estremamente
consunte e lasciavano scoperta l’imbottitura sottostante che, in
alcuni casi, era fuoriuscita. Questo fenomeno di degrado era
presente su circa il 75% della superficie. Dove il tessuto si era
conservato, appariva con le fibre molto allentate ed i fili della
trama spesso erano sollevati. Nelle parti più protette si era
conservata la decorazione floreale a ricamo, che comunque si
trovava anch’essa in pessime condizioni di conservazione. I
filati di seta erano allentati, ed in più punti i fili apparivano
sollevati. Il ricamo era scucito dai suoi alloggiamenti originali,
ed in più punti era in un precario stato di adesione al supporto.
Il cuoio sottostante, fissato al telaio in legno, era in un pessimo
stato di conservazione. Interessato da fenditure, tagli e da una
disidratazione diffusa su tutta la superficie.
Intervento di restauro
Parti in tessuto
Pulitura meccanica con pennelli morbidi.
Protezione di tutta la superficie attraverso un rivestimento di
tulle fermato con punti in filato di organzino (adeguatamente
tinto).
Messa in forma di tutte le zone interessate da deformazioni.
Microaspirazione di tutto il manufatto, del supporto e della
superficie decorata.
Smontaggio del tulle al fine di procedere con la fase di
consolidamento.
Test di solidità dei filati e dei colori al lavaggio eseguiti con
acqua deionizzata alcool.
Posizionamento delle fibre del tessuto di rivestimento in gros
de tour e successiva fermatura delle stesse con filato di
organzino (adeguatamente tinto).
Fissaggio a cucito su supporti locali, delle zone lacunose e
delle parti fessurate con velo di Lione adeguatamente tinto,
trattato, ove necessario, con resina termoplastica (80% acqua –
20% resina termoplastica).
Fissaggio a cucito, dei fili del ricamo sollevati.
Fissaggio a cucito di tutta la superficie della sella con maline
adeguatamente tinta.
Parti in cuoio
Pulitura meccanica con spugne assorbenti con acqua
deionizzata.
Test di tenuta del cuoio e misurazione del pH.
Pulitura chimica a tampone con Beva.
Posizionamento delle parti in cuoio.
Ammorbidimento della superficie con olio di pelo di bue
passato a pennello.
Rifinitura della superficie con olio di pelo di bue.
Decorazioni e guarnizioni metalliche
Pulitura meccanica per abrasione (microtrapano, fibre di vetro).
Ammorbidimento delle frange con acqua ed alcool denaturato.
Messa in forma delle stesse.
Fermatura ove necessario, a cucito con filo di organzino (tinto
adeguatamente)
Pulitura delle frange con alcool.
Fissaggio a cucito dei fili dei ricami rialzati e scomposti.
Le selle d’Avalos
di Maria Giuseppa Dipersia
Databili tra il XVI ed il XVII secolo, le selle d’Avalos sono
composte da una struttura di legno rinforzata da lamine di ferro,
da diversi supporti (cuoio, cartone, canapa), da imbottiture di
bambagia, da tessuti di rivestimento esterno, tutti fissati da
chiodi, e infine da una frangia di rifinitura. Tre selle presentano
la seduta in seta avorio e le parti esterne ricamate con filati
d’oro, d’argento e rame a titolo basso in punto posato o steso, i
cui fili risultano legati due a due al tessuto di fondo con piccoli
punti di fermatura in filato di seta non ritorta e distribuiti in
maniera non regolare. Il motivo decorativo fitomorfo si svolge
ad andamento ondulante, i rami e le foglie sono profilate da
cordoncino. Una di esse è caratterizzata dal fondo ricoperto da
filati d’argento legati due a due al tessuto sottostante con
piccoli punti di fermatura e dal ricamo applicato costituito da
foglie accartocciate in filato e lamina d’argento, oro e rame che
ne determinano il rilievo. Quest’ultima particolarità è ottenuta
con impregnatura di colla derivante dalla tradizione tedesca del
secolo XVI. La sella presenta, inoltre, sferette metalliche che
contornano la corolla al cui centro, come è visibile in alcuni
punti, si trovava una semisfera sicuramente contenente una
pietra dura. La quarta sella ha la seduta in velluto cremisi e le
parti esterne in cuoio ricamato a motivi di gigli e margherite in
punto scritto e reale, molto diffuso nel XVI secolo; elementi
metallici fitomorfi contornano lo schienale.
Rinvenute nelle cantine di Palazzo d’Avalos a Vasto nel 2003
dove erano conservate in pessime condizioni a causa
dell’umidità e della polvere, le selle sono tornate a risplendere
grazie al premuroso interessamento della collega, già
funzionaria della Soprintendenza, Giovanna Di Matteo che,
dopo il ritrovamento, le ha segnalate per la richiesta di
finanziamento al Ministero per i Beni e le Attività Culturali,
procedendo poi all’affidamento al laboratorio di restauro e
ricerca Bartoli s.r.l. di Roma che ne ha eseguito un
soddisfacente intervento conservativo.
La restauratrice si è trovata di fronte a una situazione
complessa e alquanto difficile da gestire data proprio dalla
composizione polimaterica delle selle e dalle alterazioni fisicochimiche causate dall’accumulo di sovrapposti strati di sporco
di varia natura, dall’attacco di muffe e funghi alle parti tessili e
dalle ossidazioni su quelle metalliche. Come precisato nella
scheda precedente, le selle sono state completamente smontate;
ogni parte è stata trattata singolarmente tenendo conto delle
problematiche intrinseche dei materiali, i quali hanno richiesto
puliture meccaniche o chimiche con prodotti diversificati,
prestando grande cura soprattutto per le parti tessili di lino, di
seta intrecciati con fili di argento, di rame e di oro. Le parti in
cuoio sono state ammorbidite con olio di pelo di bue, quelle in
tessuto sono state sottoposte a lavaggio con acqua deionizzata
e alcool e si è provveduto al riposizionamento dei fili del
ricamo e del tessuto. Le parti della seduta e quelle più
deteriorate, infine, sono state protette da crepeline (tulle)
opportunamente tinto nella stessa tonalità della stoffa originale
per non interferire con la visione d’insieme.
La struttura interna delle selle in legno rinforzata da lamine di
ferro era ampiamente utilizzata tra la fine del Cinquecento e la
metà del Seicento, periodo della presunta fabbricazione, come
lo era anche la tecnica del ricamo ad applicazione. La foggia è
di tipologia orientale diffusasi in Italia sin dal Medioevo. I
materiali impiegati più o meno preziosi e soprattutto meno
costosi erano richiesti dai proprietari che, divenuti meno
esigenti rispetto ai secoli precedenti sia per le continue guerre
da sostenere e sia per rispondere all’austerità dei costumi
imposta dagli Spagnoli e dalla Chiesa, non richiedevano più
agli oggetti lo status symbol, ma soprattutto la funzionalità e
l’apparenza. I ricami, eseguiti con la tecnica ad applicazione di
facile esecuzione e di grande effetto, erano prodotti in tutta
Europa e pertanto risulta difficile stabilirne la provenienza, ma
l’eleganza e l’espressività dei motivi decorativi fanno
propendere per una fattura italiana e l’appartenenza alla
famiglia d’Avalos suggerisce un auto riferimento di questi rari
manufatti ad ambito milanese. L’importanza della famiglia è
ampiamente documentata, infatti Alfonso II, marchese di
Pescara, fu governatore di Milano al tempo di Carlo V (15381546), carica conquistata con i successi militari alla guida
dell’esercito imperiale nelle battaglie contro i francesi e così
anche il figlio Francesco Ferrante ebbe tale carica dal 1559 al
1563. Non trascurabile nella città è la presenza di numerosi
laboratori tessili, di ricamo, di produzione di filati metallici, di
armi, di armature e di selle, tra i quali si ricordano quelli di
Scipione Delfinone e Pompeo Berluscone.
Le tonalità di colore differenti sono determinate dalla diversa
percentuale dei metalli: il rossiccio con prevalenza di rame, il
verdognolo di argento e il giallo di oro. I motivi decorativi
utilizzati per questi preziosi manufatti si ritrovano nelle
realizzazioni dei merletti ad ago e fuselli, nei lavori di
oreficeria, tra le decorazioni dipinte o scolpite degli edifici, dei
mobili e pubblicati nei numerosi libretti di disegni per
oreficeria, merletti e tessuti a partire dalla seconda metà del
Cinquecento e diffusi in tutta Europa.
Bibliografia di riferimento
L. Brenni, L’arte del battiloro ed i fili d’oro e d’argento,
Milano, 1930;
M. Schuette, S. Cristensen Muller, Il ricamo nella storia e
nell’arte, Roma, 1963;
Il Libro del sarto, Modena, 1987;
Il Paliotto di Sisto IV ad Assisi, Indagini e intervento
conservativo, Assisi, 1991;
T. Boccherini, P. Marabelli, Atlante di storia del tessuto,
Firenze, 1995.
Portantina, secolo XVII,
Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos
RESTAURO DELLE SELLE E DELLA PORTANTINA
Ditta BARTOLI RESTAURO E RICERCA s.r.l., Roma
Progetto e Direzione lavori: Giovanna Di Matteo
Assistenza tecnico scientifica e direzione operativa: Roberto Pezzopane
Fondi del Programma Ordinario 2004 del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
ALLESTIMENTO
Realizzazione della vetrina: SICURMAX di Polisini Pierino, Montorio al
Vomano (TE)
Direzione di cantiere: Antonio Foglia
Immagini degli arazzi: ARCHIVIO DELL'ARTE, Luciano Pedicini, Napoli
Stampa su vetro: VENETO VETRO s.r.l., Montebelluna (TV)
Plexiglass: IMMAGINE LUCE, Treglio (CH); ECOCEL s.p.a., Rosciano (PE)
Televisore: SAMSUNG, acquisto tramite Consip
Lampade Perroquet, design Gae Aulenti e Castiglione, iGUZZINI, Recanati
Tinteggiatura: Impresa CHIARI SIRIO, Vasto (CH)
Pellicole schermanti: QBIX, Vasto (CH)
Apparati didattici: Litografia BOTOLINI, Lanciano (CH)
Responsabile del Procedimento: Arch. Carlo Alberto Natalizia
Progetto e Direzione Lavori: Ivana Di Nardo
Assistenza alla progettazione e allestimento: Aurelio Ciotti
Assistenza alla progettazione e direzione operativa: Roberto Pezzopane
Collaborazione tecnico scientifica: Mario Salomone
Direttore amministrativo: Mauro De Angelis
Fondi del Programma Ordinario 2007 del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
HANNO COLLABORATO:
Segreteria del Soprintendente: Graziella Mucciante, Sofia Cucchiella Vittorini
Servizio Audiovisivi: Mauro De Angelis, Leonardo De Sanctis, Almerigo De Angelis
Manutenzione delle selle e della portantina: Mario Salomone, Giovanni Bernardi
Ufficio di Lanciano: Ivana Di Nardo, Maria Gaetani, Consiglio Martelli, Carlo
Percario
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Tutti i diritti riservati.
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012
dalla Litografia Botolini srl