Il silenzio e la dignità: una lettura del racconto “Ai figli” (Gianfranco

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Il silenzio e la dignità: una lettura del racconto “Ai figli” (Gianfranco
Il silenzio e la dignità: una lettura del racconto “Ai figli” (Gianfranco Rossi, La maldicenza e
altri racconti, Diabasis 2001)
di Eleonora Rossi (Sez. E - maggiorenni)
Motivazione: Il profilo critico tratteggiato evidenzia dimestichezza di lunga data con i testi,
rigore nel metodo di indagine, competenza nell’istituire confronti.
Approfondito con felice lettura risulta il rapporto fra tecnica cinematografica ed esercizio
della scrittura, tratto giustamente perspicuo dell’Autore cui il premio è dedicato.
Entra in scena da subito, soffocante nella “mattina incendiata dall’afa”, l’ambiguo
protagonista del racconto “Ai figli”: il silenzio.
Imbarazzante ed opprimente, quel silenzio si infila nel “bianco cangiante” degli abiti di
Basilio, il primo dei due figli di Medarda Bastoni. Fino ad insinuarsi, pagina dopo pagina,
nei pensieri del lettore.
E non si tratta solo della parola chiave “silenzio” (essa ricorre ventuno volte nel testo) ma
di un sentimento dominante: di vuoto, di prigionia, di immobilità.
“Condannato per sempre al silenzio”, ossessionato dalla “cura delle apparenze”, Basilio si
materializza un giorno d’estate in una stazione di provincia; il suo è un viaggio di ritorno. In
un’atmosfera rarefatta, di “visione”, il narratore dissemina tenui indizi: “Basilio, la tua
lettera (…) nostra madre, il passato”. L’incontro con il fratello Espedito non svela, ma
rende più torbida la vicenda che segna i personaggi. La narrazione è lenta, tortuosa,
carica di attesa e di ‘non detto’. Un appuntamento cruciale attende i due figli: con il
passato, con la loro stessa esistenza, ma, prima ancora, con la propria madre.
Abbandonata dal marito, sola a crescere i figli, Medarda è schiava di un tempo
ripetitivamente trascorso a “ricamare cucire rammendare, spolverare spazzare lucidare”,
novella Penelope ammanettata ad un vano telaio. “Creatura passiva e compatita” dalla
gente, ella conduce un’esistenza da reclusa (“seduta accanto alla finestra con le
inferriate”). Non più giovane ma nemmeno vecchia, Medarda riceve la visita imprevista di
un tale, Vodisio Mastrorilli, che riaccende in lei un bruciante desiderio; da quel giorno la
donna matura la rabbiosa consapevolezza dell’odio per il suo “vivere claustrale”.
Medarda decide allora di fare a pezzi quel silenzio, di “capovolgere il destino e fregarlo di
santa ragione trasformandosi in un’altra donna”: crea un doppio di se stessa e si butta fra
le braccia della notte, prostituendosi. Randagia e sensuale, quella sua segreta esistenza è
una fuga dalla “rassegnazione di tanti domani tutti uguali”e dal (pre)giudizio della gente,
poiché la notte la accoglie come un’amica.
Ma l’incantesimo di quella “fiaba di sinistra bellezza” si infrange quando Espedito
sorprende Medarda, goffamente travestita, al ritorno da una delle sue notti. La donna si
ritrova inchiodata da un altro, irrimediabile silenzio: “rimase ad ascoltare il proprio silenzio,
il silenzio del figlio, ad osservare in lui uno sconosciuto, irridente delirio”.
“Ai figli”: quel titolo che suona come una dedica sembra, a questo punto, stridere con la
vicenda narrata. “Ai figli” di Medarda è destinata infatti un’eredità di infamia (raggelati in un
latente, disonorevole “figli di…”) e di speculare schiavitù: “nel silenzio di una ferita che
credeva di non meritare”, Basilio si chiude in una volontaria prigione, sposando la vecchia
e ricchissima Lazzarella - prostituendosi a sua volta - e cambiando città. L’unione
conflittuale con quella donna tanto più grande di lui cela un’inconfessata nostalgia della
madre: Basilio “imparò a temerla e a odiarla, ma anche a desiderare che le sue ali di
rapace protettivo lo avvolgessero sempre di più, come in un nido, in un guscio, in un
caldissimo utero”. Anche Espedito fugge da casa per andare a vivere con l’irresponsabile
e vanitosa Drusilla, che presto si rivela una ragazza di facili costumi; l’attesa di una figlia
che porterà lo stesso nome di Medarda (“l’oroscopo diceva che era una femmina e
avrebbe ricalcato il glorioso destino della nonna paterna”) sembra ironicamente perpetuare
la sordida circolarità degli eventi. La malattia di Lazzarella spinge però Basilio a squarciare
il silenzio degli anni, scrivendo al fratello per chiedergli un incontro con la madre, “per
parlare, ricordare, dimenticare”.
Il racconto è confezionato ad arte, sia a livello stilistico, sia per quanto riguarda la
costruzione dell’intreccio: ogni elemento testuale partecipa alla significazione.
La scelta di nomi propri ricercati racchiude già la connotazione dell’indole dei personaggi,
poiché nell’opera di Gianfranco Rossi, è risaputo, l’onomastica è fondante. Se nel nome
Medarda sembra rimbombare la vita “bastarda” di una donna randellata dagli eventi
(anche il cognome “Bastoni” è indicativo), l’etimologia descrive invece un significato assai
più nobile, “forte del suo onore”. Scegliendo questo nome, l’autore si schiera dalla parte
del suo personaggio fin dalle prime pagine: “Più che un nome (…) una bandiera, uno
stendardo, un vessillo”.
Basilio (“degno di un re”), signorile nei modi e nel portamento, paga a caro prezzo la sua
vita “regale”; Espedito (“risoluto”), si rivela “precocemente adulto”, irruente in ogni sua
azione. Vi è poi Lazzarella, il cui nome, affine a “lazzaretto”, evoca la malattia (o
addirittura l’evangelico Lazzaro, il morto risuscitato); il nome anticipa una descrizione
impietosa, crudelmente insistita nei particolari. Ancora, la scelta dei due nomignoli Vodisio
Mastrorilli e Drusilla sminuisce questi due personaggi che si distinguono per frivolezza e
vanità.
Gli ambienti, poi, sono la proiezione di un paesaggio interiore: basti pensare alla casa di
Medarda (“la luce che filtrava era l’unico segnale di vita”), al misero giardino pubblico (“di
poche aiuole, poco fiorito, disordinatamente verde”), oppure alla città afosa (“il vuoto delle
strade nell’estate, gli spazi di luce che scioglievano l’asfalto”).
L’asse paradigmatico si gioca nell’equilibrio inquieto e dialettico tra temi opposti:
dentro/fuori, prigionia/libertà, dovere/piacere, giorno/notte, silenzio/rumore, morte/vita.
Questo dualismo tematico risulta particolarmente interessante, poiché, per un peculiare
effetto di straniamento, il giorno si connota come spazio della reclusione, del dovere, del
silenzio. Della morte. La notte, invece, è il teatro della leggerezza, del rumore, della libertà
e del piacere, dunque della vita.
La sessualità istintiva incarna per Medarda la giovinezza, la sua “battaglia contro il tempo”,
il sentirsi ancora corpo e natura. Quello che può apparire uno scadimento nell’immoralità,
per lei rappresenta il risarcimento della sua “non vita”, l’irrefrenabile impulso a correre
fuori: a cogliere, prima che sfiorisca, la rosa.
Medarda si prostituisce non per un facile guadagno, né per una perversione, ma per il
disperato bisogno di sentirsi vivere.
Padrone della tecnica cinematografica, Rossi la trasfonde nella sua scrittura: il montaggio
delle dieci sequenze narrative non rispetta l’ordine cronologico della vicenda, ma si
alternano le storie dei diversi personaggi. I fili della narrazione sono interrotti e poi ripresi –
inserendo anticipazioni ed “esche” – creando un effetto di suspense. Il racconto si apre e
si chiude con una sensazione fastidiosa di torpore, di sonnolenza: il tempo è l’imperfetto,
la forma verbale del sogno. L’autore rappresenta la prima e l’ultima sequenza attraverso la
“scena” in presa diretta; nelle sequenze tra la seconda e la nona, invece, privilegia l’uso
dell’analessi, inserendo un lungo flashback ( “e fu il silenzio che si caricava di ricordo”).
L’intreccio è di per sé scarno, ciò che conta è il lavoro di scavo interiore che il narratore
compie. L’incipit “Indossava…”, che si ripete ben quattro volte all’inizio del racconto e di
altre sequenze salienti, descrive con minuzia gli abiti di altrettanti personaggi,
sottolineando un movimento di spoglio della soggettività: dall’esteriorità delle vesti alla
nudità dell’anima. Ma se l’ultima sequenza inizia proprio con “Indos-sava…”, quell’incipit è
presto scardinato da un “Già, che cosa indossava?”: il meccanismo narrativo s’inceppa,
perché le apparenze sono diventate irrilevanti. Il lettore si aspetterebbe a questo punto un
incontro chiarificatore, ma, nello scioglimento, le attese sono disilluse: i figli si sono dovuti
arrendere di fronte ad una porta chiusa, segno di un amore inespresso, “disperato”.
Medarda non ha voluto incontrarli: è sfuggita a quell’appuntamento che “nient’altro
avrebbe potuto ottenere se non ferirla”. A costo di rinunciare agli affetti, la donna si è tirata
fuori dall’avvilente, colpevole concetto di “errore” (“Senza volerlo, Medarda aveva preso ad
esaminare la propria storia di donna e di moglie, di madre e di puttana. Ma nemmeno si
domandava dove fosse l’errore”). Rintanata in una zona franca, ella sceglie un nuovo,
agognato silenzio.
Riafferrando le redini della sua vita, anche Medarda entra così nella schiera di quelli che
Gian Pietro Testa ha definito “mitici silenziosi antieroi di un mondo sbagliato”, “accorati
attori di una silenziosa rivoluzione dei mansueti contro la prepotenza”.
Rossi sa esprimerlo con un’immagine delicata, poetica: “Medarda desiderò per sé un
bicchiere di cristallo, pieno d’acqua, e sperò che nell’acqua galleggiasse per lei, per lei
sola, un cubetto di ghiaccio e le parve di sentir tintinnare il cristallo”.
In quel bicchiere d’acqua, in quel sublime tintinnìo, riluce un inconfessato desiderio di
purezza, di umana dignità.
“Ai figli” Medarda consegna infine la sua spinosa lezione: la pienezza, la libertà, la
caparbietà del suo vivere. O, perlomeno, del suo sopravvivere.