PowerPoint Presentation - Sviluppo Sostenibile (1)
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Università degli Studi Roma Tre Facoltà di Architettura Corso PROGETTAZIONE E PIANIFICAZIONE SOSTENIBILE a.a. 2009/2010 Prof. Alessandro Giangrande LA NATURA DELL’ORDINE Premessa In The Nature of Order [1] C. Alexander introduce alcuni concetti e principi che potranno essere utilizzati per migliorare la procedura di pianificazione / progettazione descritta in altri lavori [2] Questa presentazione non ha l’ambizione di sintetizzare l’intero contenuto della nuova opera di Alexander, ma intende soltanto illustrare e discutere criticamente alcuni concetti chiave in esso contenuti. In particolare, non tratterà alcuni argomenti importanti come sequenza, ordine geometrico, linguaggio della forma e stile, per i quali si rimanda alla lettura dei capitoli 11, 15 e 16 del secondo volume di The Nature of Order che li illustrano in dettaglio. Una buona conoscenza delle precedenti opere dell’autore [3] è un requisito necessario per poter comprendere a fondo la materia che è l’oggetto di questa presentazione. [1] C. Alexander, The Nature of Order (4 voll.), CES, Berkeley, 2002-2005. [2] Cfr. ad es. A. Giangrande, E. Mortola, Combining Strategic Choice with other design methods (in J. Freind and A. Hickling, ‘Planning under pressure. The Strategic Choice approach’, Elsevier, London, 2005, p. 322-326). I miglioramenti da apportare alla procedura saranno illustrati in un lavoro successivo. [3] In particolare è necessario conoscere il libro di C. Alexander, S. Ishikawa, M. Silverstein: A Pattern Language. Town, Building ,Construction, Oxford University Press, New York, 1977. A. Concetti, principi e processi A1. Le definizioni di centro e wholeness Tra i concetti introdotti da Alexander in The Nature of Order assumono particolare importanza i concetti di centro (vivente) (living center) e di wholeness. “Quando uso la parola centro mi riferisco ad un sistema fisico distinto, che occupa un certo volume nello spazio e possiede una speciale, rilevante coerenza” (C. Alexander, The Nature of Order, vol. I, p. 84). L’aggettivo living (vivente) va oltre il significato tradizionale che identifica come vivente ogni sistema costituito da atomi di carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto che sia capace di riprodursi, restando stabile per un certo tempo. Alexander ne estende il significato attribuendo ad ogni cosa, qualunque cosa, un certo grado di vita. “Ogni pietra, ogni trave e ogni pezzo di cemento possiede un certo grado di vita (…). In generale, ogni singola parte del continuum spazio-temporale ha un certo grado di vita, con alcune parti che ne hanno molto di più, altre di meno. Non è difficile vedere come tale concezione – se accettata – possa facilitare la progettazione di edifici, città e territori. Il concetto di vita, così generalizzato, potrà essere applicato agli oggetti della natura (ad esempio, ai fini della salvaguardia e conservazione della bellezza degli alberi), alla commistione di oggetti naturali e manufatti (strade, giardini, campi coltivati, ecc.) e infine agli edifici stessi (pareti, finestre, stanze, ecc.). In quest’ottica è più facile comprendere il significato dell’architettura, poiché possiamo concepire il nostro compito come qualcosa che ha a che vedere con la creazione della vita e che tale compito, in ogni progetto particolare, consiste nel rendere vitale lo spazio costruito nella massima misura possibile.” (ibidem pp. 31-32). Wholelness (letteralmente: interezza, totalità) è un modo particolare di concepire la realtà fisica. “In ogni data regione dello spazio alcune sub-regioni hanno un’intensità maggiore come centri, altre meno (…). La configurazione complessiva dei centri, in parte inclusi gli uni negli altri, con le loro relative intensità, costituisce una singola struttura. Definisco questa struttura la wholeness di quella regione” (ibidem p. 96). La wholeness è una struttura molto sottile che viene indotta ‘nel tutto’. Essa non può essere predeterminata a partire dalle parti ed è sbagliato pensare ad essa come ad una relazione tra le parti. La wholeness è una struttura autonoma e globale, che viene indotta dai dettagli della configurazione. Si tratta di una reale struttura fisica e matematica dello spazio che è creata implicitamente dalle simmetrie e da altre proprietà che hanno origine nella geometria. “Per comprendere pienamente la natura di questa struttura sottile dobbiamo evitare il pericolo di vedere i centri come fatti di parti. Il pensiero contemporaneo, d’origine cartesiana e meccanicistica, ci dice che ogni cosa è fatta di parti. In particolare, le persone oggi pensano che un ‘tutto’ sia fatto di parti. Alla base di questa convinzione sta l’idea che le parti vengono prima del ‘tutto’: in breve, che le parti esistano come entità di un certo tipo, che sono poi messe in relazione tra loro o combinate, e che un centro sia il risultato di queste relazioni o combinazioni.” (ibidem p. 86). Un centro non può dunque essere una parte di un ‘tutto’, ma è un’entità che può essere definita soltanto in termini di altri centri. I centri sono costruiti sempre da altri centri [definizione ricorsiva di centro]. Un centro non è un punto e nemmeno un centro di gravità. Esso è piuttosto un campo di forza organizzato [1], presente in un oggetto o in una parte di un oggetto, che fa sì che l’oggetto stesso (o una sua parte) presenti un carattere chiaramente riconoscibile. Questa concetto di centralità, assimilata a quello di campo, è fondamentale per l’idea di wholeness. Dal punto di vista fisico-geometrico (che qui soprattutto c’interessa) non si tratta dunque di costruire centri separati da assemblare poi secondo certe regole ai fini di realizzare la wholeness, quanto piuttosto di imparare a costruire ogni centro come un campo, capace di creare “un senso spaziale di centralità”. [1] Il concetto di campo deriva dalla fisica: si dice campo una regione di spazio nella quale una data grandezza (temperatura, forza, ecc.) è definita in ogni punto appartenente alla regione stessa. La costruzione della wholeness è un processo dinamico. Il termine unfolding, che spesso accompagna quello di wholeness, significa ‘crescita che mantiene la struttura’: nella campo della progettazione denota quelle modalità di trasformazione di un contesto costruito che sono idonee a conservare o potenziare la sua wholeness. Secondo Alexander, ogni progetto finalizzato a trasformare lo spazio della città e del territorio dovrebbe essere attuato tramite un processo di unfolding. In seguito sarà illustrato il processo fondamentale che aiuta a realizzare questo particolare processo di crescita. Per definire in modo operativo il concetto di centro, Alexander scrive quanto segue: “1. I centri si producono nello spazio. 2. Ogni centro viene creato dalla configurazione [1] di altri centri. 3. Ogni centro ha una certa vita o intensità (…). Occorre osservare che la vita di ogni centro dipende da quella di altri centri. Questa vita o intensità non è inerente al centro, ma è una funzione dell’intera configurazione di cui il centro stesso fa parte. 4. La vita o intensità di un centro cresce o diminuisce in funzione della posizione e dell’intensità di altri centri vicini. In particolare, i centri diventano più intensi quando i centri che li costituiscono si ‘aiutano’ vicendevolmente (…). 5. I centri sono gli elementi essenziali della wholeness, e il grado di vita di ogni data regione dello spazio dipende interamente dalla presenza e dalla struttura dei suoi centri.” (ibidem p. 122). [1] Forma, dimensione ecc. Secondo Alexander centro non è solo un’entità fisica caratterizzata da una particolare struttura geometrica, ma è anche e soprattutto il luogo dove è possibile svolgere una specifica (o alcune specifiche) attività. Alexander, in diverse parti di The Nature of Order mette tuttavia in guardia contro un’interpretazione riduttiva di centro che tenderebbe ad identificarlo con una funzione [1]. Con riferimento ad un esempio di definizione del centro principale di una specifica abitazione, Alexander scrive quanto segue. “E’ essenziale rendersi conto che in questo caso non si trattava di ‘ridefinire una funzione’ (una locuzione, questa, spesso usata dagli architetti). Il processo è stato efficace poiché ha portato a definire un nuovo centro, il centro di una nuova attività (…). Questo esempio non vale solo per le abitazioni, ma per tutti i tipi di edifici. Per rendere fruibile un edificio occorre talvolta creare o riconfigurare i centri che, nello spazio costruito, realizzano le funzioni. Non si tratta dunque di scegliere determinate funzioni e adattarle alla geometria. Ciò che importa veramente è piuttosto il modo in cui esse sono ridefinite nella loro natura e ricombinate tra loro: un modo che dischiude la porta che conduce ad una nuova vita di benessere. In questo caso noi iniziammo a vedere i centri non soltanto come nodi o elementi centrali di una composizione fisica, ma come nodi o centri di attività, di spazi di vita (…).” [1] Anche se poi Alexander utilizza spesso il termine ‘funzione’ in luogo di ‘attività’. A2. Centro è meglio di ‘tutto’ L’utilità del concetto di centro risulta evidente nell’esempio che segue. “Supponiamo che parlando di una peschiera – o laghetto di pesca – la definisca come un ‘tutto’. Per essere più preciso, dovrò essere in grado di disegnare un confine preciso di questo ‘tutto’ e stabilire per ogni punto dello spazio se esso appartiene o non appartiene all’insieme dei punti della peschiera. Questo è molto difficile. Ovviamente l’acqua fa parte della peschiera. Ma che dire del cemento di cui è fatta e del fango sottostante? fanno entrambi parte del ‘tutto’ che chiamiamo ‘la peschiera’? quanto si estende quest’ultima in profondità? devo includere anche l’aria che le sta sopra? e che dire dei tubi che l’alimentano? Si tratta di domande scomode, ma non banali. Non esiste un modo ‘naturale’ di disegnare un confine attorno alla peschiera che tenga dentro le cose che è giusto includere e lasci fuori quelle che è giusto escludere. Secondo un modo di pensare molto rigido, può dunque sembrare che la peschiera, considerata come un ‘tutto’, non esista. Ovviamente questa conclusione sarebbe sbagliata: la peschiera esiste. Il fastidio che proviamo è perché non sappiamo come definirla in modo preciso. Tale fastidio deriva dal fatto che ho voluto riferirmi ad essa come a un ‘tutto’. Questo tipo di terminologia mi costringe a disegnare un confine preciso che includa proprio tutte le cose che fanno parte della peschiera e lasci fuori tutte quelle che non ne fanno parte. Questo è l’errore. Quando definisco la peschiera come centro la situazione cambia. Posso riconoscere che la peschiera ha una sua esistenza in quanto centro locale di attività (...). Il fatto che i suoi confini siano sfumati appare adesso meno problematico. Il motivo è che la peschiera, come entità, è focalizzata sul suo centro. Essa crea un campo di ‘centralità’ (centeredness). Ovviamente, questo effetto si attenua progressivamente. Gli oggetti periferici giocano un loro ruolo nella peschiera, ma non sono costretto a definire con precisione un confine, e nemmeno ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, poiché non è questo il punto. Ciò che più interessa ai fini dell’esistenza della peschiera come entità coerente è la sua organizzazione, creata da un effetto di campo dove i diversi elementi collaborano per produrre questo fenomeno, questo centro. Ciò vale per il sistema reale, fisico della peschiera, dove tutto – acqua, bordi, superfici, pendenze, piante acquatiche, ecc. – contribuisce a fare della peschiera un centro. Questo è vero anche a livello mentale, nella mia percezione della peschiera. Perciò è più utile e corretto definire la peschiera come centro piuttosto che come ‘tutto’. (…) C’è un altro motivo per preferire il termine ‘centro’ al termine ‘tutto’. Le entità alle quali siamo interessati, ad esempio, in un edificio, comprendono parti od oggetti come scala, tubature, porta, acquaio di cucina, stanza, soffitto, ingresso, finestra, tenda e spazio di cottura. Quando progettiamo dobbiamo chiederci: qual’è la giusta relazione tra di essi? Ecco dunque una ragione importante per utilizzare il termine centro. Dal punto di vista delle relazioni che si manifestano nel progetto è più utile chiamare l’acquaio centro, piuttosto che ‘tutto’. Se lo chiamerò ‘tutto’, esso esisterà nella mia mente come oggetto isolato. Ma se lo chiamerò centro, esso mi apparirà come qualcos’altro: emergerà nella mia mente un ‘sentire’ circa il modo in cui l’acquaio potrà funzionare nello spazio della cucina. Questo modo di concepire l’acquaio mi renderà consapevole dell’esistenza del più vasto repertorio degli altri elementi, del modo in cui questo elemento particolare – l’acquaio – si potrà relazionare a questo repertorio e del ruolo che esso dovrà svolgere al suo interno. L’acquaio sarà sentito più come un elemento che pervade l’intorno, che espande i propri confini e svolge un proprio ruolo specifico nella cucina, considerata nella sua totalità” (ibidem pp. 84-85). A3. Le quindici proprietà dei centri La definizione di centro come ‘campo di forza organizzato’ non basta per fornire al progettista gli strumenti necessari per realizzare nello spazio fisico dei centri che abbiano le caratteristiche sopra descritte. Alexander individua quindici proprietà fondamentali che i centri devono possedere affinché possano determinarsi quei campi di forza necessari perché i centri stessi si rafforzino mutuamente, diventino centri viventi e realizzino di conseguenza uno spazio caratterizzato da wholeness. In questa sede basterà illustrare queste proprietà in sintesi: per maggiori dettagli ed esempi si rimanda al testo di Alexander (ibidem pp. 143-242). 1. Livelli di scala Un centro è reso più forte in parte dai centri forti più piccoli in esso contenuti, in parte dai centri forti più grandi che lo contengono. 2. Centri forti L’effetto di campo, realizzato da altri centri, è alla base della forza di un centro. 3. Confini Un confine è un centro a forma di anello, fatto di centri più piccoli che circondano un altro centro e lo intensificano. 4. Ripetizione alternata I centri sono rafforzati quando sono ripetuti ed alternati ad altri centri. 5. Spazio positivo Le modalità attraverso le quali un centro trae in parte la sua forza da quella dei centri adiacenti. 6. Forma buona Modo in cui la forza di un dato centro dipende dalla sua forma geometrica, da quella dei suoi bordi e dello spazio circostante. 7. Simmetrie locali La disposizione simmetrica dei centri più piccoli inclusi accresce l’intensità di un centro. 8.Tutte Interconnessione ambiguità spesso il desiderio dell’urbanista di controllare queste formeprofonda di pianoe dissimulano L’intensità centroe aumenta esso è legato a centri forti tramite rigida un altro totalmentedi launforma l’assetto quando funzionale della città attraverso unavicini procedura e insieme di centri forti che, ambiguamente, appartengono ad entrambi i sistemi (in altri sostanzialmente regolamentativa. termini, al centro stesso e ai centri forti vicini). (Esse non vanno confuse con le visioni e i concetti spaziali socialmente condivisi che vengono 9. Contrasto elaborati in certi contesti. Queste visioni e questi concetti assumono spesso la forma di Un centrometafore si rafforza quando verbali, il suo carattere nettamente distinto da quello dei centri (espressioni immagini èpittoriche, disegni, ecc) che influenzano sia le vicini. attività di pianificazione che i comportamenti degli abitanti (cfr. A. Faludi and A.J. van der Valk, Rule 10. Gradienti and Order: Dutch Planning Doctrine in the Twentieth Century, Kluwer Academic Publishers, Un centroDordrecht, è rafforzato una serie graduale di altri di dimensioni che 1994) edasvolgono un ruolo importante nella centri costruzione di un quadrodifferenti di riferimento vanno rapportate le decisioni operative da campo. attuare progressivamente nel processo di ‘puntano’alalquale centro stesso e ne intensificano l’effetto di piano) 11. Irregolarità L’effetto campoè un di un dato centro si rafforza diverso. a causa delle irregolarità di dimensione, StrategicdiChoice approocio sostanzialmente forma e disposizione di altri centri vicini. Si tratta infatti di un processo ciclico interattivo nel quale gli attori — tecnici e politici — partecipano a una serie di sessioni di lavoro per decidere in condizioni d’incertezza, di 12. Echi urgenza, risorsedalla e di presenza conflitti d’interessi nelle stesse condizioni in cui La forza didiuncarenza centro di dipende di angoli e(cioè, orientamenti dominanti nel sistema ogni amministrazione e ogni urbanista è solito operare!). Le scelte di piano e i progetti dei centri inclusi. vengono elaborati e selezionati solo dopo aver individuato e valutato le alternative possibili 13. Vuoto), contemperando l’esigenza di dover operare con la necessaria rapidità con quella (opzioni Modo in cui l’intensità delflessibilità centro dipende dall’esistenza uno spazio ancora disponibile – un di garantire la massima ed efficacia alle sceltedifuture. centro vuoto – in qualche parte del suo campo. Strategic Choice non perviene alla redazione di un piano inteso come rigido 14. Semplicità e calma interiore sistema di prescrizioni, ma identifica le azioni e i progetti da realizzare nelle La forza di un centro dipende dalla sua incrementale semplicità, ottenuta attraverso la riduzione del successive fasi di un processo di tipo e continuo. numero dei centri differenti che esso contiene e l’aumento della forza di quelli restanti. 15. Non-separatezza La vita e la forza di un centro dipendono dalla leggerezza con la quale esso si ‘mescola’ ai centri circostanti – talora in modo tale che non è quasi possibile distinguerlo da essi. Le quindici proprietà non sono indipendenti ma si sovrappongono in parte. Ciò dipende dal fatto che la proprietà primitiva è il campo dei centri: quelle di cui sopra sono solo proprietà derivate, che aiutano a comprendere concretamente come il campo agisce. Ogni proprietà descrive uno dei possibili modi in cui i centri possono mutuamente intensificarsi: esse possono essere dunque utilizzate anche a scopo progettuale per realizzare centri viventi, in grado di realizzare la wholeness in una specifica regione. A4. Il processo fondamentale Tutti i processi di pianificazione, di progettazione, di nuova costruzione e di recupero che sono parte di un processo vivente possiedono la medesima struttura generale. L’idea che esista un’unica categoria di processi viventi può essere traumatica per la mentalità moderna. I progettisti contemporanei, in particolare, considerano l’architettura come un insieme di attività disparate che riguardano la forma dello spazio, le funzioni, i flussi di persone, le strutture, i materiali da costruzione, i colori, il traffico, il clima, i finanziamenti, i desiderata del committente, ecc. Nell’attività professionale tradizionale tutti questi aspetti sono visti come cose sostanzialmente diverse, che occorre trattare con differenti procedure: gli architetti e gli ingegneri sono chiamati a gestirli combinando tali procedure in modo da conseguire un risultato finale valido ed efficace. Alexander, al contrario, ritiene che ogni attività di panificazione, progettazione e costruzione – a livello concettuale e pratico – debba comportare l’applicazione ripetuta dei passi di un processo fondamentale di differenziazione (fundamental differenziating process). Ogni progetto ‘vivente’ sarà allora il risultato di combinazioni (o combinazioni di combinazioni) di questo processo che farà emergere nuovi centri, ne faciliterà l’evoluzione e la mutua interazione. Ad ogni stadio del processo occorre considerare la wholeness preesistente nel contesto. In genere ogni struttura spaziale è completa per alcuni aspetti ma incompleta per altri: occorre pertanto procedere a completarla inserendo un nuovo elemento nella struttura, costituito da uno o più nuovi centri viventi. Questo elemento può essere grande, medio o piccolo; può essere una cosa materiale o immateriale; può riguardare una parte di territorio o rispecchiare l’idea di una persona (o la visione collettiva di un gruppo di persone). Ma ciò che più importa è che ad ogni passo il nuovo elemento, che viene ‘iniettato’ nella struttura preesistente per trasformarla e differenziarla, dovrà estendere ed intensificare la struttura stessa con la creazione di altri centri e il rafforzamento di quelli preesistenti. Il processo, che consente di far evolvere la wholeness, si basa sulle quindici proprietà dei centri (cfr. A3). I passi di questo processo sono i seguenti ( Alexander, The Nature of Order, vol. II, p. 216). Ad ogni istante del processo corrisponde uno specifico stadio evolutivo della struttura, della wholeness: cioè del sistema dei centri, delle loro connessioni e dei loro gradi di vita Innanzitutto occorre considerare la wholeness complessiva, cioè alla grande scala, sia attuale che latente. E’ importante individuare dove la struttura spaziale appare più debole, soprattutto in termini di completezza, di coerenza e in relazione alla sua capacità di suscitare sentimenti ed emozioni. Si individuano i centri latenti nel ‘tutto’. Non si tratta dei centri ben stabili che sono già presenti nella struttura; si tratta piuttosto dei centri che sono presenti in forma attenuata, che sembrano essere all’origine dell’attuale assenza di vita, di wholeness (o quantomeno, che sembrano concorrere a tale assenza). Si procede ad operare su uno di questi centri. Il centro può essere grande, medio o piccolo. Si applicano le trasformazioni che preservano la struttura, facendo uso delle quindici proprietà dei centri, utilizzate singolarmente o in combinazione, per differenziare e rafforzare la struttura (ovverosia la wholeness). Come risultato del processo di differenziazione prenderanno vita nuovi centri. La creazione dei nuovi centri estende la presenza delle quindici proprietà nel contesto. In particolare, risulterà accresciuta l’intensità di alcuni centri, grandi e piccoli. Come risultato di questa differenziazione la struttura sarà complessivamente più forte, meglio definita e più coerente: in altri termini il suo grado di vita sarà maggiore. Occorre verificare se ciò sia vero e se la presunta crescita di vita abbia avuto effettivamente luogo. Inoltre, occorre verificare che la differenziazione attuata per il centro in questione sia la più semplice possibile. Si ritorna all’inizio del ciclo e si ripercorrono i passi del processo. Il processo è intrinsecamente ciclico. La creazione di un nuovo centro o il suo rafforzamento può richiedere che si operi parallelamente su altri centri: potremmo allora essere indotti a distogliere momentaneamente l’attenzione dal centro considerato per dedicarci alla creazione o al rafforzamento di altri centri che contribuiranno a potenziarlo. Il processo termina quando non è più possibile compiere cicli ulteriori per intensificare la vita del ‘tutto’. Come suggerimento operativo, Alexander osserva che “un processo vivente conserva sempre un certo ordine e si svolge secondo una successione naturale. Tipicamente (ma non sempre) il processo evolve dai centri più grandi a quelli più piccoli, in modo da consentire ai primi di svilupparsi dal contesto; questi centri saranno in seguito riempiti/completati dai centri più piccoli, che contribuiranno a rafforzarli nel contesto generale” (ibidem p. 218). Il carattere soggettivo del processo è peraltro evidente. La capacità del progettista di applicare il processo fondamentale per conseguire un risultato valido (cioè per creare la wholeness) dipende in buona misura dalla sua personale sensibilità che deve guidarlo, ad esempio, nell’individuare le parti dove ‘la struttura appare più debole’ (punto 3) o nella scelta delle ‘trasformazioni che preservano la struttura, facendo un buon uso delle quindici proprietà dei centri, applicate singolarmente o in combinazione, per differenziare e rafforzare la struttura’ (punto 6). Relativamente al punto 9 del processo fondamentale (‘Occorre verificare se ciò sia vero e se la presunta crescita di vita abbia avuto effettivamente luogo’), Alexander fornisce una check list che dovrebbe aiutare il progettista a scegliere tra due possibili risultati alternativi dell’applicazione del processo, durante il suo stesso svolgimento (C. Alexander, The Nature of Order, vol. I, p. 355). Le domande della lista sono: - Quale delle due soluzioni genera in me un sentimento di vita più forte? - Quale mi rende maggiormente consapevole della mia stessa vita? - Quale delle due comunica (…) a me, al mio corpo e al mio intelletto un maggiore senso di armonia? - Quale delle due mi fa sentire interiormente più equilibrato? - Considerando me sesso come una totalità che contiene tutte le mie dimensioni e le mie molte contraddizioni interne, quale delle due soluzioni appare più simile alla parte migliore di me, ovverosia è più vicina all’immagine del mio ‘io eterno’? - Quale delle due mi rende più devoto, o ispira in me un senso di devozione? - Quale mi rende più consapevole di Dio, o mi fa sentire più vicino a Dio? - Osservando l’espandersi e il contrarsi della mia umanità, quale delle due determina una maggiore espansione della mia umanità? - Quale possiede un feeling maggiore, o meglio, quale induce in me un sentimento più profondo di unità ? Come si vede, questa check list non è uno strumento che consente di paragonare il grado di vita di due contesti in termini obiettivi [1]. Lo stesso Alexander lo riconosce là dove osserva che “per misurare il grado di vita è difficile utilizzare quei metodi che, allo stato attuale della scienza, sono considerati obiettivi. Invece, per ottenere dei risultati pratici, dobbiamo utilizzare noi stessi come strumenti di misura, nell’ambito di un nuovo procedimento di misurazione che si fonda necessariamente sull’osservatore umano e sull’osservazione del suo stato interiore” (ibidem p. 354). Come vedremo in seguito (cfr. A5, A6 e A7), un modo meno soggettivo di procedere consiste nel fare uso dei pattern in quanto ‘regole’ che consentono al progettista di realizzare i centri e metterli in relazione. Sono infatti numerosi i pattern che aiutano a realizzare centri viventi e a rafforzarli reciprocamente utilizzando, spesso in modo implicito, le stesse quindici proprietà che sono alla base del processo fondamentale di differenziazione che consente di sviluppare un contesto preservandone la wholeness. [1] Queste domande, a prescindere dalla visione filosofico-religiosa che le ispirano (e che molti possono non condividere), mostrano come sia importante affinare la propria sensibilità interiore e rapportare ad essa i giudizi riguardanti l’intensità, il grado di vita dei centri e della wholeness. A5. The Nature of Order e A Pattern Language: quale rapporto? Nel 1977 Alexander e collaboratori hanno pubblicato il libro A Pattern Language. I pattern sono essenzialmente strumenti per definire centri generali (generic) (o archetipi). Ciascuno dei 253 pattern illustrati in A Pattern Language rappresenta una ‘regola’ che descrive e aiuta a costruire ù (i) un tipo di centro atto a risolvere una situazione che si presenta in modo ricorrente in differenti contesti (storici, geografici, culturali, ecc); (ii) la relazione che si deve instaurare tra un centro ed altri centri per realizzare la wholeness Questi pattern, tuttavia, non aiutano a costruire i centri che sono specifici di un determinato contesto culturale (e che non è possibile trovare in altri contesti). In A Pattern Language è prevista peraltro la possibilità di creare anche in questo caso dei sistemi assimilabili a un linguaggio di pattern. In particolare è possibile creare un linguaggio ‘artificiale’ sviluppando i pattern idonei a risolvere i problemi che sono specifici di un determinato contesto: alcuni di questi pattern saranno del tutto nuovi; altri saranno pattern generali (archetipi) che potranno essere utilizzati solo dopo essere stati adattati in modo opportuno al contesto considerato. Resta tuttavia aperto il problema di come creare operativamente nuovi pattern, diversi da quelli archetipi ricavati dall’osservazione delle culture del passato. Alexander afferma che è possibile determinare il futuro dal presente: in particolare, che a partire dall’osservazione della cultura – come è oggi – si può decidere in quale direzione la cultura stessa dovrebbe evolvere : “è possibile ricavare nuovi pattern, idonei a creare la struttura del contesto presente e futuro, a partire dalla wholeness della cultura esistente”. A questi pattern, creati ex novo, se ne potranno aggiungere altri più consolidati, ricavati dalle tradizioni antiche che sono ancora vive nella cultura attuale, dopo averli eventualmente contestualizzati. Vediamo come sia possibile costruire un linguaggio dove sono presenti pattern generici e pattern specifici, cioè derivati dalla cultura specifica del contesto. A6. Il caso delle abitazioni di Lima (1969) Selezioniamo a titolo d’esempio alcune parti del testo dove Alexander descrive il processo di progettazione di abitazioni a basso costo destinate alle famiglie peruviane di Lima (C. Alexander, The Nature of Order, vol. II, pp. 349-354). “(…) Per svolgere il lavoro preliminare il nostro gruppo, costituito da quattro nord-americani, andò a vivere a Lima per un mese. Ognuno di noi si trovò una famiglia presso la quale abitare: ci incontravamo ogni notte in una stanza che avevamo affittato per confrontare i nostri appunti e scrivere ciò che avevamo appreso (...). Mi accorsi che avrei potuto immaginare meglio il ‘sentire’ dei peruviani immedesimandomi in alcuni di loro (…). Il comedor (sala da pranzo), situato al centro della casa, era un luogo meraviglioso dove tutti si recavano per guardare la TV, sedere e conversare in prossimità dell’ingresso. Come membro di quella famiglia mi resi subito conto di avere bisogno e desiderare tale stanza, e che potevo ‘sentire’ esattamente dove era giusto che stesse: cioè, al centro della casa. Sentivo che essa doveva essere collocata in modo che ciascuno la attraversasse, entrando e uscendo. (…) Come membro di quella famiglia peruviana, immerso nella cultura peruviana, nello spirito di quella famiglia di cui facevo parte, quella stanza aveva un senso preciso (…). La tecnica essenziale per fare emergere i centri, in ogni situazione sociale e culturale, consiste nel consentire che le emozioni li generino dentro di voi. Dovete chiedervi: cosa farei se fossi una persona che vive qui, cosa sarebbe giusto per me? Dovete immedesimarvi nella situazione e usare il vostro intuito e le vostre emozioni come strumenti di misura. (…) Non dovrete presumere di essere sempre nel giusto: dovete verificare con le persone interessate. D’altronde, verificare non vuol dire fare sempre quello che chiedono gli abitanti; il loro sentire potrebbe anche essere sbagliato. Occorre andare sempre alla radice delle cose, interrogarsi su che cosa è più probabile che generi vita, e mantenere un cauto scetticismo (…). Per concretezza riporto qui di seguito la lista dei pattern[1] che i miei colleghi ed io abbiamo identificato nel 1969 per le comunità e le abitazioni peruviane. [1] Spesso Alexander non distingue tra centro e pattern. Personalmente ritengo sia opportuno mantenere separati i significati di questi due termini (cfr. A5). ‘CELLULE’ DI SUBCULTURA GRADI DEL CARATTERE PUBBLICO STRADE LOCALI CIRCOLARI INTERSEZIONI A ‘T’ PARCHEGGI IN VISTA PICCOLI LOTTI DI PARCHEGGIO PASEO NUCLEI DI ATTIVITA’ SIMBIOSI AUTOMOBILI-PEDONI PERCORSI PEDONALI RIALZATI (50 CM SOPRA LA CARREGGIATA) ATTRAVERSAMENTI PEDONALI AGLI INCROCI MERCATO PRINCIPALE CENTRI PER ATTIVITA’ SERALI PERCORSI SCOLASTICI ASILI D’INFANZIA IN VISTA GIARDINI CIRCONDATI DA PARETI INGRESSO ALLE ‘CELLULE’ STANZA MULTIFUNZIONE ALL’APERTO PICCOLI NEGOZI SOTTO CASA PERCORSI PEDONALI CENTRIPETI GIOCO DEL CALCIO IN STRADA FIORI NELLA STRADA CASA LUNGA E SOTTILE PARETE PERIMETRALE CASA NATURALMENTE VENTILATA ALL’INTERNO LUCE SU DUE LATI DI OGNI STANZA PATIOS CHE VIVONO ARAZZO DI LUCE E OMBRA LA SALA: GRADIENTE DI INTIMITA’ POSIZIONE DELLA STANZA DA BAGNO PUERTA FALSA FIESTA SCALA COME PALCOSCENICO PARETI SPESSE CIRCOLAZIONE NELLA STANZA DA LETTO ‘ALCOVE’ NELLA STANZA DA LETTO RAPPORTO COMEDOR-CUCINA LABORATORIO DOMESTICO DUE PATIOS DI SERVIZIO CUCINA CON SPAZIO PER POTERSI MUOVERE LIBERAMENTE ‘ALCOVE’ CON LETTO SINGOLO LETTI AGGREGATI POSIZIONE DEL LETTO PRINCIPALE SPAZIO PER VESTIRSI NEL BAGNO PRINCIPALE PERSONE ANZIANE AL PIANO DI SOTTO SPAZIO PER DORMIRE DELLA SERVITU’ STANZA DA BAGNO SUDDIVISA IN DUE PARTI ARMADIO PER ASCIUGARE I VESTITI SPAZIO DI TRANSIZIONE ALL’INGRESSO NICCHIA DELLA PORTA PRINCIPALE MIRADOR PANCHINE PRESSO LA PORTA PRINCIPALE PORTICATI TUTT’INTORNO APERTURE TRASPARENTI SUL SOFFITTO DEL PATIO LUCE DAL PATIO DI DUE PIANI SOLE SPLENDENTE NEI PATIOS BALCONE DI DUE METRI POSSIBILITA’ DI UN NEGOZIO DI FRONTE CANONE D’AFFITTO LUNGHI STRISCIONI CHE FLUTTUANO NELL’ARIA BLOCCHI DELLE PARETI SENZA MALTA TRAVI REALIZZATE CON FASTELLI DI BAMBOO PAVIMENTI REALIZZATI CON FASTELLI DI BAMBOO ZOLFO PEP RAFFORZARE LE STRUTTURE SERBATOIO DELL’IMPIANTO IDRAULICO ARMADIO DELL’IMPIANTO ELETTRICO (…) Alcuni [centri] (…) esprimono le nostre idee circa il modo migliore di realizzare gli spazi pedonali e automobilistici, o di articolare in lotti un parcheggio. Altri sono poco più che ipotesi circa il modo di realizzare materialmente qualcosa: un esempio è l’utilizzo dello zolfo come elemento atto a rinforzare le strutture statiche degli edifici. Altri ancora sono molto generali, come quelli che successivamente furono elaborati ed inseriti in A Pattern Language: sono il frutto di osservazioni, radicate nella psicologia, ed esprimono regole che contribuiscono a rendere confortevole la vita delle persone in quasi tutto il mondo. Altri, infine, sono specifici del clima del luogo, e non proprio della sua cultura. Questa lista di centri descrive ciò che noi, all’epoca, avevamo individuato come il ‘nucleo’ del contesto culturale di Lima, al quale le nuove abitazioni dovevano adeguarsi e dal quale le abitazioni stesse avrebbero potuto essere generate. Ancora privi di esperienza, cercammo di identificare i centri che esistevano nella vita di tutti i giorni (ad esempio, PICCOLI NEGOZI SOTTO CASA), quelli che noi ritenevamo essere presenti nella coscienza delle persone (ad esempio la SALA, una sorta di piccolo soggiorno vicino all’ingresso dove una persona si sente in pace; un luogo che rispecchia una tradizione peruviana antica, al tempo stesso formale e confortevole, adatto a ‘mostrare’) e quelli che esistevano, in modo latente, nei sogni e nelle tradizioni, ma che rischiavano di scomparire dalla società peruviana contemporanea. Altri centri rispecchiavano alcuni aspetti della vita attuale della città peruviana: GIOCO DEL CALCIO IN STRADA, che corrisponde a una modalità peculiare di giocare a calcio in Perù; SIMBIOSI AUTOMOBILIPEDONI, che illustra un modo particolare di usare le auto parcheggiate ai bordi della strada (…). Poiché esistono nella cultura, questi centri posseggono una forza trainante, un potere generativo. Essi possono essere utilizzati per creare dei ‘cloni’, ovvero molti singoli centri specifici, nelle comunità e nelle case peruviane, che rispecchiano i pattern generali definiti in rapporto alla cultura. Così con il loro aiuto qualcuno potrà essere in grado di progettare e costruire una SALA nella sua abitazione, e questa SALA esisterà nella sua nuova casa un nuovo centro sviluppato sia dalla wholeness della cultura, sia, nei suoi aspetti di dettaglio, dalla particolare geometria dell’abitazione e dalla sua collocazione in relazione alla strada. I centri nati dalla cultura (…) descrivono come il mondo possa essere generato in modo da essere congruente con le emozioni, le aspirazioni, le abitudini e il modo di socializzare delle persone. ” In relazione ad alcuni centri di tipo nuovo, che rispecchiano alcuni aspetti della vita attuale, Alexander puntualizza quanto segue. “(…) i ragazzi, le ragazze e gli adolescenti si sentono a loro agio quando si appoggiano alle automobili scalcinate parcheggiate lungo i bordi della strada, e conversano nella polvere, nel fango e nel sole abbagliante di una strada sterrata [SIMBIOSI AUTOMOBILI-PEDONI]. E, naturalmente, si sentono a loro agio in un piccolo patio oscuro, dove la luce abbagliante dell’immancabile foschia equatoriale è raffrescata dall’ombra profonda [PATIOS CHE VIVONO]. Analogamente, la famiglia nel comedor, raccolta attorno all’apparecchio televisivo, è qualcosa di interamente nuovo: eppure le persone si sentono profondamente a loro agio, perché si tratta di una situazione reale, così eccitante, così quotidiana (…)“. Quello che andiamo cercando – nel tentativo di trovare ora dei pattern per le nostre vite, per la nostra epoca, cioè nuovi tipi di centri che dovranno essere sviluppati dalla wholeness della situazione presente – sono proprio questi pattern profondi, esistenti a metà, eppure capaci di portarci oltre il presente, oltre il ‘vero’ della wholeness attuale, in modo da preservarne la struttura ma, nello stesso tempo, renderla coerente con la nuova era.” A7. I pattern che aiutano a realizzare le quindici proprietà In linea di principio tutte le quindici proprietà dei centri possono essere realizzate con l’aiuto dei pattern: in The Nature of Order Alexander, nelle note funzionali che concludono la descrizione di ogni proprietà, identifica alcuni pattern generali che aiutano a realizzarle. Esaminiamo in dettaglio i rapporti che intercorrono tra ogni proprietà e i pattern che contribuiscono a metterla in atto. 1. Livelli di scala I livelli di scala sono necessari in molti casi pratici. Questa proprietà si realizza facilmente con l’aiuto del pattern RIFINITURE DI MEZZO POLLICE (240), che contrasta ogni modalità rigida di costruire che non prevede rifiniture e aggiustamenti in quanto sufficientemente precisa da poterne farne a meno. Questa precisione è conseguita però a caro prezzo, ovverosia uccidendo la libertà del processo di costruzione. Lo stesso dicasi del pattern PICCOLE VETRATE (239): una finestra funziona meglio, sotto il profilo emozionale, quando viene suddivisa in parti, poiché la suddivisione aiuta a creare (incorniciare) la vista sull’esterno. I riquadri dei pannelli vetrati rafforzano inoltre la struttura della finestra e facilitano la sostituzione dei vetri quando si rompono. Altri esempi, ad un’altra scala, sono forniti dai pattern REGIONI INDIPENDENTI (1), COMUNITA’ DI 7000 ABITANTI (12), QUARTIERI IDENTIFICABILI (14) e GERARCHIA DELLO SPAZIO APERTO (114). Tutti questi pattern mostrano come livelli di scala definiti e distinti nel contesto complessivo del territorio e della città possono aiutare a mantenere vive e vitali le comunità umane. I pattern ALCOVE (179), LETTO IN ALCOVA (188), SOFFITTI CON ALTEZZE DIFFERENTI (190) favoriscono l’introduzione di scale diverse all’interno di un edificio. Questi pattern si riferiscono alla necessaria varietà di attività che sono presenti nell’edificio ed alla conseguente varietà dimensionale degli spazi in cui esse si svolgono. Gli edifici con stanze delle stesse dimensioni sono spesso poco originali. In una casa con una stanza grande e stanze più piccole, il clima sociale e gli spazi di vita sono più intensi. Una piccola casa in cui è presente una stanza molto grande, due stanze piccole e due piccole alcove funziona molto meglio di una casa dove ci sono quattro stanze di uguali dimensioni. In questi esempi gli spazi più piccoli ‘aiutano’ la vita degli spazi più grandi; e questi ultimi ‘aiutano’ la vita di quelli più piccoli. C’è più possibilità di creare vita quando le stanze sono diverse e sono presenti forti variazioni di dimensione, rispetto a quando le stanze sono omogenee sotto il profilo dimensionale. Dunque la presenza di livelli di scala nei centri influenza il ‘comportamento’ dell’edificio e lo rende più adatto a supportare la vita. 2. Centri forti Molti pattern evidenziano che gli spazi sono più utili e più profondamente ‘sentiti’ quando sono costituiti da centri forti (si veda ad esempio il pattern EDIFICIO PRICIPALE, 99). Il pattern IL FOCOLARE (181) mostra come sia necessario dotare un soggiorno di un caminetto o di qualche altro elemento equivalente, che ne identifichi il nucleo. Dal pattern AREE COMUNI NEL ‘CUORE’ (129) si evince che occorre organizzare la parte centrale di un edificio (il ‘cuore’) come uno spazio al quale tutti i percorsi sono tangenti, al fine di creare una singola area condivisa da tutta la famiglia (o dal gruppo sociale). Le persone dovrebbero poter stare al sole, in quanto elemento fondamentale delle aree esterne di un’abitazione che sono esposte a sud (ESTERNI ESPOSTI A SUD, 105; LUOGHI SOLEGGIATI, 161). Occorre considerare lo spazio in cui si sta seduti in una stanza come una zona protetta, adatta allo svolgimento di attività, dotata di un ‘guscio’ (hull) con i bordi che isolano coloro che svolgono un’attività dagli spazi di circolazione (PORTE AGLI ANGOLI DELLA STANZA, 196). I centri forti giocano anche un ruolo chiave alla scala urbana nel creare i punti focali che sono necessari nella città (si vedano i pattern MAGIA DELLA CITTA’, 10; PICCOLE PIAZZE PUBBLICHE, 61; POSTI IN ALTO, 62; QUALCOSA APPROSSIMATIVAMENTE NEL MEZZO, 126; LUOGHI ALBERATI, 171). Ancora, i centri forti svolgono un ruolo fondamentale nella realizzazione di sequenze spaziali che proteggono con gradualità la privacy e le emozioni profonde delle persone all’interno degli edifici: spazi pubblici facilmente raggiungibili che conducono gradualmente a spazi più interni, che conducono a loro volta ad altri spazi ancora più interni. La caratteristica di campo di ogni centro deriva dal gradiente complessivo (GRADIENTE D’INTIMITA’, 127). Gli spazi pubblici più interni, quando sono situati alla fine di una sequenza, sono caratterizzati dalla presenza di calma. 3. Confini Un quartiere necessita di un chiaro confine (CONFINE DI SUB-CULTURA, 13; CONFINE DI QUARTIERE, 15). Per irrigidire la membrana di una parete dobbiamo ispessire le finestre e le porte attorno alle aperture (TELAI COME BORDI CHE AUMENTANO LA RIGIDITA’, 225). Alla scala degli interni di un edificio molte stanze diventano più belle e fruibili quando sono circondate da sedili alle finestre, da alcove, da pareti spesse che comprendono stipetti e armadi (ALCOVE, 179; SPAZIO DELLA FINESTRA, 180; PARETI SPESSE, 197; ARMADI TRA LE STANZE, 198). Lo stesso edificio è spesso più confortevole se viene messo in relazione con lo spazio esterno, se si realizzano porticati, portici e terrazze (PORTICATI TUTT’INTORNO, 166; PORTICI, 119; STANZA ALL’APERTO, 163). Il pattern COLLANA DI PROGETTI COMUNITARI (45) consente di rafforzare il ‘cuore’ di una comunità mediante la collocazione di piccoli servizi attorno a un edificio pubblico principale. Tutti questi pattern danno forma ai confini; ma questi confini funzionano in modo diverso. Alcuni, come le ALCOVE, creano luoghi dove un piccolo spazio contribuisce ad intensificare le attività di uno spazio più grande che viene così ad essere dotato di un bordo più spesso. Altri isolano dal rumore: ad esempio, gli ARMADI TRA LE STANZE realizzano degli schermi acustici. Talvolta i centri che creano confini rafforzano la vita sul bordo di un centro più grande: ciò avviene, per esempio, in PORTICATI TUTT’INTORNO e in PORTICI, che formano uno strato di interfaccia tra interno ed esterno, così come in SPAZIO DELLA FINESTRA, con le sue sedute, e in PARETI SPESSE. In tutti i casi, i confini ‘aiutano’ un insieme di spazi ad isolare e rafforzare le funzioni degli altri spazi, creando zone di separazione e zone di commistione. Il punto chiave è che quando le funzioni dei centri che realizzano il confine sono scelti in modo corretto, i centri più piccoli che formano le zone di bordo intensificano le attività dei centri maggiori che sono interni al confine. 4. Ripetizione alternata Esempi di pattern che fanno uso della ripetizione alternata per creare uno spazio vivente sono: ‘CORRIDOI’ AGRICOLI NELLA CITTA’ (3), che comporta l’alternanza di città e campagna; STRADE PARALLELE (23), che richiede l’alternanza di strade e spazi edificati; PERCORSI E METE (120), che regola l’alternanza di spazi di percorrenza e punti d’arrivo lungo un percorso; RIPOSTIGLIO (145), che richiede l’alternanza di spazi abitati e spazi finalizzati soltanto alla conservazione di oggetti e materiali; PENDII A TERRAZZA (169), che comporta l’alternanza di muri verticali e terreni orizzontali; ARMADI TRE LE STANZE (198), dove gli spazi degli armadi si alternano a quelli abitati; RETE DI PERCORSI PEDONALI E AUTOMOBILI (52), che comporta l’intercalare ‘sincopato’ dei percorsi pedonali e delle strade carrabili, secondo maglie ortogonali parallele e sfalsate, nonché degli spazi tra i percorsi stessi e il sistema dei nodi dove le maglie s’intersecano. 5. Spazio positivo Una descrizione dettagliata dei modi in cui questa proprietà può essere realizzata si trova nel pattern SPAZIO ESTERNO POSITIVO (106), quasi omonimo della proprietà. Modi specifici di realizzare questa proprietà sono descritti in altri pattern quali: FORMA DELLO SPAZIO INTERNO (191), COSTRUIRE NEGLI INTERSTIZI (48), PARCHEGGI SCHERMATI (97); RECUPERO DEL SITO (104), BALCONE PROFONDO DUE METRI (167), POSTO ALLA FINESTRA (180) e SOFFITTI CON ALTEZZE DIFFERENTI (190). Le conseguenze pratiche per un edificio sono straordinarie. Stanze e corridoi che hanno un carattere anonimo rendono meno vitale un edificio. Quando ogni spazio è positivo, vuol dire che si è venuta a creare una configurazione spaziale in cui tutte le stanze si adattano perfettamente pur conservando la dimensione, la configurazione, la forma e il carattere di cui necessitano: ognuna si sviluppa fino a raggiungere il suo carattere ‘perfetto’ con forza ed evidenza. Sono stanze che non sono collocate semplicemente l’una accanto all’altra come avviene in una pianta convenzionale. Più in generale: (a) ogni piccola parte di spazio è pienamente utilizzata; (b) non esistono spazi di risulta, cioè spazi sprecati perché non utilizzabili. In un contesto costruito, grande o piccolo, la misura in cui ogni singola parte – piena o vuota – è positiva costituisce la chiave della sua vita. 6. Forma buona In ogni cosa che funziona bene, tutto lo spazio tra le parti deve avere una forma buona. Questa regola fa parte di una regola più generale secondo cui in tutto ciò che ha vita, ogni parte visibile, ad ogni livello, ha una buona forma ed è pertanto un centro vivente. In una foglia vediamo la forma della stessa come realizzata da centri. In un ponte dotato di forma buona le parti svolgono tutte un ruolo strutturale che è efficiente ed efficace. In una finestra che ha una forma buona l’arco, la testata, il telaio e i montanti svolgono tutti il loro ruolo in modo valido ed efficiente. In una forma amorfa, al contrario, non riusciamo a vedere dei centri. Pertanto tale forma non è fatta di centri: diversamente da una forma buona, non induce in modo naturale e semplice un campo di centri e la bellezza della funzione, la chiarezza e la finezza con la quale essa opera, va perduta. Abbiamo la tendenza a vedere figure semplici dentro una forma buona e forme buone costituite di figure semplici. Questa è la regola basilare. Esempi di regole per realizzare forma buona sono i pattern FORMA DEL PERCORSO (121), FRONTI DEGLI EDIFICI (122), POSTO DELLA COLONNA (226), CORONAMENTO DEL TETTO (232). In A Pattern Language si mostra come la forma delle stanze, degli spazi aperti e delle strade, in pianta e sezione, sempre giocano un ruolo vitale per il loro funzionamento (si veda ad es. FORMA DELLO SPAZIO INTERNO, 191). 7. Simmetrie locali In A PATTERN LANGUAGE il pattern RETICOLO DI STRADE DI CAMPAGNA (5) utilizza la simmetria delle strade e l’articolazione in zone quadrate del territorio per creare una struttura regolare (simmetrica). AMBITI DI CIRCOLAZIONE (98) utilizza centri simmetrici come centri ordinatori che rendono chiari e coerenti i movimenti delle persone in uno spazio urbano complesso. Le strade, ovviamente, sono costruite in modo simmetrico con alcune eccezioni che si rendono necessarie laddove la strada incontra confluenze, edifici, giardini e territori particolari (PROMENADE, 31; CASE A SCHIERA, 38). Anche le stanze dovrebbero essere nella maggior parte dei casi simmetriche, almeno in linea di principio, pur con eccezioni finalizzate a correggere situazioni anomale (FORMA DELLO SPAZIO INTERNO, 191). 8. Interconnessione profonda e ambiguità Una grande quantità di esempi e regole pratiche per mettere in atto questo principio si può trovare in A Pattern Language. Tale principio realizza fusioni e connessioni a scale territoriali molto diverse, da quella regionale a quella che riguarda i dettagli più fini dello spazio fisico. Esempi di regole che operano a una scala molto grande sono i pattern ‘CORRIDOI’ AGRICOLI NELLA CITTA’ (3), nel rapporto città-campagna, e ‘STRISCIA’ INDUSTRIALE (42), nel rapporto città-industria. Alla scala di edificio si presenta la necessità di un’interconnessione profonda tra esterno e interno per fornire a tutte le stanze un’illuminazione appropriata. Stanze con luce naturale su due o tre lati sono quelle che hanno una probabilità più alta di essere vive (ALI DI LUCE, 107; LUCE SU DUE LATI DI OGNI STANZA, 159). Ciò implica una relazione tra centri interni (lo spazio interno), centri nelle pareti (le finestre) e centri esterni (lo spazio esterno). L’ambiguità connessa al rapporto interno-esterno in un edificio è cruciale anche per motivi sociali: quest’ambiguità determina quel particolare tipo d’interconnessione che si concretizza sotto forma di portici e terrazze. Le regole per attuare questa ambiguità sono descritte in PORTICI (119) e TERRAZZE PRIVATE SULLA STRADA (140). Altri esempi sono i pattern FINESTRE CHE SI APRONO (236), dove la connessione tra l’apertura della finestra e l’atmosfera esterna è di tipo fisico; PERCORSO PERGOLATO (174), dove l’interconnessione si realizza tra la griglia della pergola e lo spazio esterno alla stessa. 9. Contrasto In A Pattern Language l’importanza di questa proprietà in relazione a differenti gruppi umani è sottolineata dal pattern MOSAICO DI SUB-CULTURE (8). Il contrasto lavorare/abitare e la necessità che hanno queste attività di integrarsi vicendevolmente viene realizzata dal pattern POSTI DI LAVORO DISTRIBUITI (9). Il contrasto tra due entità complementari come spazio e struttura, nonché il modo in cui ciascuna definisce l’altra sono descritti in LA STRUTTURA PROCEDE DAGLI SPAZI SOCIALI (205). Il necessario contrasto in rapporto a luce ed ombra, per esempio, è realizzato con ARAZZO DI LUCE ED OMBRA (135) e PUNTI LUCE (252). Tipi di contrasto più sottili (e loro effetti) si ottengono con FINESTRE CHE GUARDANO LA VITA (192) e IL FOCOLARE (181). 10. Gradienti Nelle opere d’ingegneria di grande scala si utilizzano elementi di diverse dimensioni per economizzare sui materiali impiegati. Nelle torri del Golden Gate Bridge la dimensione delle celle e degli elementi e lo spessore delle piastre variano in modo graduale, dalla cima alla base delle torri, per motivi economici e per posizionare la maggior quantità di materiale là dove è indispensabile per fare fronte agli sforzi cui la struttura è assoggettata. Un problema del genere è affrontato dal pattern DISTRIBUZIONE FINALE DEI PILASTRI (213). Alla scala della città un gradiente si verifica, ad esempio, nella densità che decresce inevitabilmente dal centro alla periferia (ANELLI DI DENSITA’, 29), e nella densità di un centro locale che cresce lungo la direttrice bacino d’utenza - centro della regione (NUCLEO ECCENTRICO, 28). Si verifica anche quando abbiamo una successione di oggetti che cambiano dimensione o ampiezza dello spazio di separazione, come in una sequenza di stanze che vanno dalla più piccola alla più grande e dallo spazio pubblico a quello privato (GRADIENTI DI PRIVACY, 127; TRANSIZIONE TRA ESTERNO E INTERNO, 112; ‘GRADI’ DEL CARATTERE PUBBLICO, 36). 11. Irregolarità Gli esempi che mostrano l’importanza di questa proprietà abbondano. Se cerco di posizionare le finestre nella parete di un edificio facendo attenzione alle esigenze d’illuminazione delle diverse stanze, alle diverse visuali, alla luce del sole e alla privacy, è probabile che una semplice striscia di finestre ripetute in modo regolare debba essere modificata lungo il suo sviluppo longitudinale al fine di soddisfare queste esigenze pratiche (PORTE E FINESTRE SECONDO NATURA, 221). L’irregolarità che ne deriva è sempre bella, del tipo ‘non consapevole’, quasi perfetta – ma non completamente – e quindi molto armoniosa. A un’altra scala, il celebre studio empirico dello spazio urbano di Camillo Sitte dimostra chiaramente come la vita di una piazza pubblica dipenda dalla sua geometria: “lo spazio pubblico è spesso irregolare. L’irregolarità aiuta a creare un’atmosfera informale che lega la piazza alla città e agli edifici” (da ‘L’arte di costruire le città’). Ma a dispetto dell’irregolarità, il sentimento di centralità pure necessita di essere rafforzato e sostenuto da simmetrie locali nelle conformazione complessiva di assi, posizionando alcuni elementi in prossimità del centro della piazza e utilizzando ovviamente fronti di edifici fortemente simmetrici per rimarcare i luoghi e le direzioni importanti. Ci sono molti indizi che un piano troppo dettagliato, un ordine troppo rigido nel quale ogni cosa assume una posizione precisa, riduca la funzionalità e inibisca i necessari processi di adattamento. Per esempio, in un edificio dove tutte le stanze devono avere la stessa ampiezza e affacciare su uno specifico corridoio principale, le stanze stesse potrebbero avere di conseguenza una forma allungata e non essere illuminate dal sole. Consentendo una maggiore irregolarità, le stanze possono essere collocate in una posizione più opportuna in modo da essere meglio illuminate. Non si deve tollerare che una pianta sia assoggettata a vincoli esterni conseguenti a scelte di tipo puramente formale. In A Pattern Language ci sono molti pattern – finalizzati a regolare le necessarie relazioni funzionali – che originano dall’idea d’irregolarità. Per esempio, QUALCOSA APPROSSIMATIVAMENTE NEL MEZZO (126) esige la presenza di un punto focale al centro di una piazza, ma solo approssimativamente nel centro, poiché il suo posizionamento deve rispettare altri importanti criteri, come la visibilità dalle strade che sbucano nella piazza. GIARDINO SELVATICO (172) stabilisce un’armonia organica in un giardino che è rafforzata dalla presenza d’irregolarità. TEGOLE E MATTONI COTTI A BASSA TEMPERATURA (248), VISTA ZEN (134), GIARDINO SEMINASCOSTO (111) e PARETI ESTERNE RIVESTITE (234) introducono una sottile irregolarità – in situazioni che riguardano i materiali, la vista, la posizione e la superficie – che consente di raggiungere un miglior risultato sotto il profilo funzionale. Il pattern SOFFITTI A VOLTA (219) mostra come la volta più perfetta per una data stanza (anche se non perfetta sotto il profilo geometrico) sia il risultato di un processo di adattamento tra la configurazione della stanza e quella dello spazio del soffitto 12. Echi In un vecchio fienile ben costruito le diverse parti sono realizzate allo stesso modo: travi e colonne sagomate con l’accetta, fissate a incastro, come se derivassero tutte da una stessa famiglia. Questa è una conseguenza di fattori pratici e funzionali. Spesso, quando i diversi dettagli costruttivi appartengono a una stessa famiglia, il compito di realizzare l’edificio diventa più semplice, i tempi di costruzione si abbreviano e i costi diminuiscono. E’ possibile realizzare la necessaria varietà senza fatica. Viceversa, se i dettagli sono i più disparati, occorre compiere uno sforzo mentale così grande per concepire l’intero edificio che resterà poco spazio per l’invenzione e la varietà. Ne segue che in un edificio senza ‘echi’ la possibilità di adattare l’edificio ai requisiti appare spesso troppo ridotta. Quando le funzioni vengono prese in seria considerazione, ci sono generalmente diverse regole geometriche che ne derivano come risultato delle condizioni imposte dalle funzioni stesse. Queste regole, applicate più volte, determineranno un modo familiare di percepire e realizzare angoli, linee, configurazioni, non tanto a fini formali quanto semplicemente come risultato di un processo costruttivo che persegue attentamente i requisiti funzionali. Per esempio, gli edifici su una collina tenderanno tutti a relazionarsi in modo conforme alla pendenza, all’insolazione, al drenaggio del suolo e al rischio di valanghe. Come risultato, il lato della collina occupato dagli edifici, tutti realizzati in modo conforme alle suddette regole, presenterà degli ‘echi’ nella sua forma fisica. Se qualcosa viene realizzata senza ‘echi’ di questo tipo, è probabile che certi requisiti ‘profondi’ siano ignorati e la varietà di forme prive di ‘echi’ determinerà delle carenze funzionali. In A Pattern Language ‘echi’ si ritrovano in relazione agli ingressi (FAMIGLIA D’INGRESSI, 102), alle colonne e alle travi (IRRIGIDIMENTO GRADUALE, 208), alle finestre e alla luce naturale (LUCE DA DUE LATI DI OGNI STANZA, 169) e agli oggetti personali di arredo (COSE DELLA TUA VITA, 253). 13. Vuoto Dove esistono piccoli spazi in cui sono presenti rumori, brusii ecc. è essenziale che ci siano anche spazi più grandi pervasi da un’atmosfera più calma e tranquilla. Il mancato rispetto di questo principio costituisce uno degli errori principali delle abitazioni e degli interventi edilizi attuali. Non importa quanto piccola sia una casa: deve sempre esserci una dialettica tra spazi piccoli e almeno uno spazio più grande, in cui si svolgono eventi sociali ed emotivi di tipo completamente differente. In A Pattern Language si trovano i pattern seguenti: LUOGHI SACRI (24) che mostra un grande vuoto, sotto forma di montagna o di lago, quali essenze della sacralità; ACCESSO ALL’ACQUA (25), dove il vuoto assume la forma di un grande corpo d’acqua, che mostra l’importanza di realizzare insediamenti umani lungo i bordi del corpo stesso; ACQUA CALMA (71), che esige la presenza di acqua calma, considerata alla stregua di un vuoto. Alla scala delle relazioni umane troviamo la stessa cosa in SEDERSI IN CERCHIO (185), dove lo stesso cerchio e lo spazio vuoto nel suo ‘cuore’ rappresentano manifestazioni alla piccola scala di un ‘vuoto’ in azione. A una stessa piccola scala ritroviamo la tranquillità di STANZA DA BAGNO (144) quale esempio di uno spazio ‘vuoto’ necessario all’interno dello spazio e della confusione familiare; ed anche LUOGO SEGRETO (204), un piccolo spazio nascosto, talora all’interno della casa, che svolge la funzione di ‘vuoto’ nei nostri cuori, come una piccola zona caratterizzata da una perfetta e segreta tranquillità. 14. Semplicità e calma interiore In A Pattern Language un buon numero di pattern riguarda questo tipo di semplicità estrema del cuore. Essi rappresentano l’occhio del ciclone, il nucleo semplice che sta nel cuore di una certa parte della vita. Esempi sono STRADE VERDI (51), STAGNI E RUSCELLI (64), DAVANZALE BASSO (222), PARETI INTERNE SOFFICI (235) e TENDE COME COPERTURE (244). 15. Non-separatezza Per una varietà di ragioni funzionali, i sistemi ambientali sono più ‘tutto’ e hanno più vita quando c’è una diffusa presenza di legami che collegano l’interno dei sistemi stessi con altri sistemi che sono fuori di essi, in modo da creare una rete ininterrotta nel contesto. A scala regionale, urbana e sociale questi legami, in quanto elementi vitali per la società, sono trattati, per esempio, in POSTI DI LAVORO SPARSI (9), ANZIANI DAPPERTUTTO (40), LABORATORI E UFFICI AUTOGESTITI (80). Essi sono considerati anche nella costruzione degli edifici, che sono vicini o che si toccano (EDIFICI COLLEGATI, 108), che collegano spazi esterni ed interni (PERCORSO INTERNO ALL’EDIFICIO, 101; STANZA ALL’APERTO, 163) o in rapporto alla loro connessione con gli spazi dell’auto (PERCORSO CASA-AUTOMOBILE, 113). Ugualmente è importante come tematica sociale all’interno della struttura degli edifici e dei quartieri alla piccola scala, come ad esempio in LUOGHI PER IL GIOCO COLLEGATI (68) e DORMIRE IN PUBBLICO (94). Essi intervengono inoltre in ambito psicologico nei pattern LUCE FILTRATA (238) e FINESTRE CHE SI APRONO (236), dove viene indicata la sottile connessione che deve esistere tra interno ed esterno. Considerazioni pratiche e di natura ecologica suggeriscono inoltre che dovremmo cercare di realizzare una transizione opportuna lungo i bordi degli edifici in relazione all’uso dei materiali, in modo che ogni materiale si trovi accanto a qualcosa con la quale possa convivere: ad esempio. legno e cemento, cemento e terra. Le serie di transizioni evitano così quelle brusche giustapposizioni che potrebbero non durare nel tempo. Un altro esempio riguarda il modo in cui le terrazze e i percorsi si collegano alla terra. Essi funzionano meglio quando le connessioni tra pietre, pavimentazioni e nuda terra sono così graduali, così ‘morbide’, che difficilmente si riesce a notarle. Per contro, una terrazza costruita su palificazioni, sospesa in aria, vi da accesso al sole e all’aria, ma non vi mette in rapporto con la terra. Questi aspetti sono trattati in dettaglio in COLLEGAMENTI CON LA TERRA (168), FIORI IN POSIZIONE RIALZATA (245) e PAVIMENTAZIONI CON INTERSTIZI TRA LE PIETRE (247). La non-separatezza fa sì che il giardino, il percorso, il bordo dell’edificio e il muro si rafforzino a vicenda sotto il profilo funzionale, consentendo l’accesso tra gli stessi nella giusta misura per favorire le necessarie interazioni. B. L’ applicazione del processo fondamentale B1. I centri latenti: piazza S. Marco a Venezia Ogni contesto presenta una struttura, una wholeness, più o meno coerente. L’individuazione dei ‘punti deboli’ della wholeness coincide con la ricerca dei centri latenti, cioè dei centri che sono presenti nel contesto in forma attenuata (o potenziale). Questa ricerca, secondo Alexander, rappresenta la prima fase di un processo di crescita che avviene all’interno o all’esterno (ai bordi) del contesto considerato e che migliora la coerenza della wholeness preesistente attraverso lo sviluppo di nuovi centri forti a partire dai centri latenti. Un esempio riguarda il processo che ha guidato per molti secoli lo sviluppo di piazza S. Marco a Venezia (C. Alexander, The Nature of Order, vol. III, pp. 5-7). La wholeness, che è chiaramente visibile alla fine del processo, non era presente (e neppure pensabile) nell’anno 560 a.d., quando il processo ebbe inizio. L’evoluzione storica della piazza può essere analizzata in cinque stadii [1] . [1] Alexander analizza le trasformazioni della piazza in maggiore dettaglio in The Nature of Order, vol. II, pp. 253-255. Stadio 1 (560 a.d.) Il processo inizia in una piccola isola di forma pressochè quadrata. Una piccola basilica viene costruita al suo interno, dando origine a un centro forte dotato di simmetria locale (la pianta della basilica è caratterizzata da simmetria assiale). Viene quindi costruito il castello del Doge: si tratta di un edificio simmetrico a pianta quadrata circondato da un canale anch’esso di forma quadrata (secondo centro forte, simmetria locale). Stadio 2 (dal 560 al 976 a.d.) Vengono costruiti due nuovi edifici, entrambi centri forti, dotati di simmetria assiale. Questi edifici sono inseriti in modo da delimitare alla loro sinistra uno spazio quasi perfettamente rettangolare, che costituisce un nuovo centro forte. Questo spazio rettangolare viene esteso verso il Canal Grande: il centro si rafforza ulteriormente poichè l’estensione migliora l’accesso all’acqua (proprietà vuoto). Viene costruita anche una torre-campanile (un altro centro) approssimativamente nel mezzo dello spazio rettangolare e quasi in asse con la basilica alla sua destra. Si crea così un ulteriore centro forte realizzato dal collegamento visivo tra la nuova torre e la basilica. Nella planimetria di sinistra viene mostrato, in nero, il centro latente già presente nell’anno 560 che ha guidato lo sviluppo della piazza nei quattro secoli successivi, ovvero di quello spazio rettangolare che inizierà a prendere lentamente forma con la costruzione dei due nuovi edifici. All’interno del centro latente viene identificato con un piccolo quadrato bianco il luogo dove sarà realizzata la la torre, origine di altri centri. Stadio 3 (dal 1071 al 1309 a.d.) Lungo il lato superiore dell’isola viene costruito un nuovo edificio che delimita ulteriormente e da forma alla grande piazza rettangolare. Nell’isola di sinistra viene costruito un edificio con tre corpi di fabbrica collegati che generano una nuova piazza (ancora un centro forte), attaccato come una sorta di coda alla piazza rettangolare. Questa piazza, con il suo orientamento, contribuisce a focalizzare l’attenzione sulla basilica e realizza un nuovo centro forte di grande potenza, versione primordiale dell’attuale piazza S. Marco. Un altro centro forte è rappresentato dalla nuova basilica di S. Marco che ingloba la basilica preesistente e l’adiacente cappella: con i suoi nuovi transetti, la basilica assume la forma di croce (proprietà simmetria locale). Lo spazio antistante il Canal Grande viene ulteriormente ampliato: si crea così una specie di proscenio sul Canale stesso che qualifica l’intero complesso come centro forte, quando viene osservato dall’acqua. Nella planimetria di destra) sono mostrati i due centri latenti principali: quello che da origine al centro forte della nuova piazza e quello rappresentato dalla nuova basilica di S. Marco. Stadio 4 (dal 1400 al 1532 a.d.) Il canale che separa le due isole viene coperto in parte, mentre gli edifici disposti lungo i loro lati superiori si saldano tra loro assumendo uno spessore sostanzialmente uniforme. Piazza S. Marco diventa più ampia e unitaria, e lo qualità del suo spazio migliora (proprietà spazio positivo). La torre-campanile viene inglobata in un edificio rettangolare che potenzia la percezione della basilica dall’acqua. La sua posizione isolata la rende centro forte, chiaramente visibile da molti chilometri. Lo spessore della basilica e il suo impatto sulla piazza aumenta. Il castello del Doge viene ampliato e trasformato, diventando l’attuale Palazzo Ducale. Il Palazzo e i nuovi uffici lungo i bordi delle piazze migliorano la coerenza dello spazio e trasformano l’intero complesso in centro forte, più potente di quello preesistente. La planimetria di destra mostra il centro latente che prelude alla trasformazione di piazza S. Marco secondo le modalità sopra illustrate. Stadio 5 (dopo il 1532 a.d.) Gli edifici attorno a piazza S. Marco aumentano di spessore grazie all’introduzione di nuovi uffici e abitazioni e rafforzano il loro ruolo di centri forti, come pure quello della piazza che racchiudono (proprietà confini). L’edificio lungo il lato inferiore della piazza viene ricostruito e allontanato dal campanile. All’atto della sua ricostruzione vengono anche realizzate alcune corti interne che costituiscono altrettanti centri forti. Il lato della piazza opposto a quello della basilica viene ‘bucato’ per creare un ulteriore ingresso alla piazza: i lunghi portici che circondano la piazza costituiscono ora nuovi centri che rendono ancor più positivo lo spazio della piazza e dirigono lo sguardo dell’osservatore verso la basilica. I disegni che ornano la pavimentazione introducono in tutto il complesso nuove simmetrie locali. Nella planimetria di destra vengono mostrati i centri latenti costituiti dai portici che saranno costruiti, inclusi quelli di fronte a Palazzo Ducale. Sono mostrati anche le corti interne degli edifici che circondano la piazza e i disegni della pavimentazione. La vitalità di piazza S. Marco consegue dai numerosi centri costruiti e fatti evolvere nel tempo secondo un processo di differenziazione che rispecchia quello precedentemente descritto. La maggior parte delle entità realizzate, grandi e piccole, sono centri viventi che hanno evoluto nel tempo per rendere la wholeness del luogo sempre più coerente e vibrante. L’analisi di Alexander, applicata ai soli aspetti planimetrici, può sembrare riduttiva. Un’analisi estesa ad altri aspetti (volumetrie e prospetti, uso dei colori e dei materiali, valori simbolici, attività ecc) avrebbe peraltro confermato – e probabilmente rafforzato – il giudizio di vitalità espresso da Alexander sulla base dei risultati di una semplice analisi dell’evoluzione storica della planimetria del complesso. Ad esempio, analizzando in maggiore dettaglio la trasformazione del castello dei Dogi nell’attuale Palazzo Ducale scopriremmo che il prospetto di quest’ultimo costituisce un centro che presenta la proprietà gradienti in misura ben maggiore di quella del castello preesistente (Alexander, The Nature of Order, vol. 1, pp. 205-209). Questa proprietà, ben visibile nel prospetto dell’edificio, è collegata alla presenza di centri – portici a terra, loggiato al primo piano e grandi finestre nella parte superiore – che si intensificano vicendevolmente per la presenza di forme e di dettagli ornamentali che ricorrono e si richiamano, sia pure in modo variato, tra i livelli. In piazza S. Marco sono presenti centinaia di centri, di dimensioni differenti, ognuno caratterizzato dalla presenza di una o più proprietà fondamentali che si intensificano mutuamente. E’ grazie ad essi che la piazza viene oggi universalmente considerata una delle piazze più belle e interessanti del mondo. Il caso di piazza S. Marco esemplifica un processo di progettazione ‘non autocosciente’ che si è svolto in tempi lunghi (per circa 1000 anni). I progettisti e gli artigiani che si sono succeduti nei secoli sono stati in grado di applicare il processo fondamentale di differenziazione senza averlo mai teorizzato, utilizzando esclusivamente gli strumenti concettuali e tecnici che la cultura dell’epoca metteva a loro disposizione. Nella nostra società ‘autocosciente’ [1] queste conoscenze non fanno più parte del patrimonio culturale dell’attuale progettista – più in generale, dell’attuale popolazione. La conoscenza del processo fondamentale e la capacità di applicarlo sono diventati pertanto requisiti essenziali per conservare e, possibilmente, accrescere la wholeness di un edificio o di un contesto urbano che deve essere realizzato o trasformato in tempi relativamente brevi. Come si può dunque applicare oggi il processo fondamentale? [1] I concetti di cultura (o società) non autocosciente e autocosciente sono stati sviluppati in dettaglio da C. Alexander in Note sulla sintesi della forma, Il Saggiatore, Milano, 1967. B2. Un ‘poema’ come incipit del processo: il caso di Samarcanda L’esempio che segue illustra la fase iniziale dell’applicazione del processo fondamentale alla ricostruzione dell’area centrale della città di Samarcanda, di dimensioni pari a circa 1000x500 m (C. Alexander, The Nature of Order, vol. II, pp. 360-363). Il progetto è stato sviluppato da Alexander e dai suoi collaboratori nell’ambito di un concorso bandito dalla fondazione Aga Khan nel 1991. “Nelle primissime fasi del nostro lavoro (…), quasi il primo giorno di lavoro, molto prima che avessimo iniziato a elaborare il progetto, ho scritto un ‘poema’, un elenco di centri parzialmente configurati. 1. Una successione di piazze pubbliche, giardini ed edifici costituirà il nuovo centro della città di Samarcanda; le piazze, gli edifici e i giardini collegheranno tra loro i quartieri storici e quelli tradizionali [moderni]. 2. Sarà presente una nuova dimensione, un centro di vita spirituale. Non sarà un centro commerciale, un centro culturale o un centro religioso (nell’accezione tradizionale). Non si tratterà di un centro convenzionale. In qualche modo, questo nuovo centro della città di Samarcanda unirà il vecchio al nuovo, legherà il percorso della via della seta e la tomba di Timur il Grande con il mondo moderno; una visione del mondo votata al benessere dell’uomo – ma anche al raggiungimento di una consapevolezza spirituale circa l’importanza della vita – sarà palese, ‘sentita’ e viva. 3. Sarà un luogo dove ci si recherà per ispirarsi. Un luogo di pellegrinaggio, che accoglierà visitatori dai cinque continenti, in numero sempre maggiore. 4. Una rete di bei percorsi contornati da colonne, colonnati, pareti di mattoni, edifici, giardini. Questa rete di percorsi, che attraverserà l’intera area, prenderà forma dalle masse edificate che emergeranno all’interno dell’area e dai giardini tradizionali. 5. Si apriranno dei percorsi alle corti, agli stagni, ai giardini, ai luoghi nascosti? saranno essi contornati solo da edifici misteriosi, colorati, realizzati in laterizio e marmo? Ci saranno figure, statue, animali, Dei, persone, monumenti collocati nei punti dove i percorsi s’intersecano? 6. Gli animali saranno rappresentati come creature misteriose? 7. Ci saranno riferimenti ai viaggi? 8. La cosa principale di cui ciascuno potrà godere consapevolmente è la rete del verde e delle strade, simili a gioielli. In ogni strada ci saranno alberi lussureggianti, sedute, marciapiedi e corsi d’acqua. 9. Queste strade verdi, ricche di alberi, panchine, spazi per sedersi e sponde, formeranno un reticolo di spazi tutti adatti al passeggio. Avranno l’aspetto di parchi lunghi e sottili; si potranno compiere esplorazioni per ore passeggiando per queste strade. 10. Ogni strada condurrà a qualche nuovo tesoro. Ogni edificio sarà come un tesoro, raggiungibile tramite la strada. 11. Samarcanda, storicamente, al tempo di Ulugh Beg, era il crocevia del mondo. Durante la dinastia Tang ogni sostanza esotica conosciuta, ogni idea, artefatto o opera d’arte concepibile sulla terra passava per Samarcanda. Non importava da dove venisse o dove andasse: passava per Samarcanda. 12. In qualche modo possiamo immaginare questi nuovi percorsi verdeggianti come un reticolo, quasi un mitico bazar nel quale sono contenute tutte queste numerose ‘sostanze’ esotiche. 13. La parete di piastrelle blu del Timurids, dipinte a mano, con fini dettegli neri, gialli e bianchi, su mattoni in terra cruda: queste stesse piastrelle con i mattoni di colore giallo sono bene in vista sulle pareti, sulle cupole e nei cortili in tutto il centro. Costituiscono un filo conduttore che collega il tutto. 14. La rete complessiva dei percorsi è simile a una ‘città proibita’. Un luogo circondato da mura interrotte in pochi punti che consentono l’ingresso a un’area speciale che racchiude la sua stessa magia. Questo fu il primo elenco che ho scritto per il progetto. Dopo aver cercato di individuare il sistema complessivo dei pattern, e dopo averci ancora lavorato, l’elenco venne trasformato in modo da diventare uno strumento utile per modificare il senso e il contenuto del luogo secondo la visione che era maturata nella nostra mente. Iniziammo a pensare a quale tipo di vita, in tutti i suoi aspetti, avrebbe potuto realizzarsi grazie a questi pattern. Con il crescere della nostra conoscenza modificammo i pattern, li rafforzammo, li migliorammo, li rendemmo più espliciti: continuammo a lavorare finché un ‘tutto vivente’ emerse pienamente nell’elenco dei centri che nel frattempo aveva assunto una forma utilizzabile [1]. Si noti che le frasi dell’elenco iniziale erano scritte in una forma ‘attiva’ (in corsivo), più adatta a delineare i contenuti di ogni centro potenziale. L’elenco seguente, più lungo, è scritto in maiuscolo: le idee si erano ormai materializzate e consolidate come centri. [1] Le numerose differenze che si rilevano confrontando i versi del ‘poema’ con il secco elenco dei centri sono dunque dovute all’acquisizione progressiva di nuove conoscenze e di nuovi ‘sentire’ da parte di Alexander e dei suoi collaboratori. LA CITTA’ PROIBITA MURA PERIMETRALI MASSICCE LA PASSEGGIATA DEL FESTIVAL VISTA VERSO IL REGISTAN L’OSSERVATORIO IL FRUTTETO DEGLI ALBERI DI PESCO TERRAZZA PRINCIPALE TEATRO ALL’APERTO SCUOLA DI ARTIGIANATO E BAZAR LA CITTA’ INTERNA PICCOLI ALBERGHI PERCORSO CINTO DA MURA SCUOLA DI MUSICA INGRESSO ALLA CITTA’ INTERNA CINQUE PICCOLI GIARDINI CINTI DA MURA STRADA PRINCIPALE PROVENIENTE DAL REGISTAN FONTANE E RUSCELLI PALAZZO DELLE MOSTRE BAZAR COPERTO LA BIBLIOTECA IL MUSEO DEI MANOSCRITTI PONTE AD ARCO IL PONTE PRINCIPALE CALCIO E ALTRI GIOCHI PARETE DI ARCATE INGRESSI NELLA PARETE ESTERNA L’OSPIZIO DI KULLIYE PARTE INTERNA DELLA CITTA’ PROIBITA PERCORSI CON LE MATTONELLE BLU LA MOSCHEA (…)” Questo esempio da un’idea del ruolo vitale che possono svolgere i centri nel creare un ‘tutto’. Questi centri, anche il loro elenco soltanto, crea un’atmosfera quasi magica. Nel momento stesso in cui li nominiamo (è sufficiente soltanto nominarli), incominciamo a percepire l’aura del luogo. I pattern sono evocativi. Non importa in quale ordine elenchiamo i centri: il puro elenco già evoca un’atmosfera profonda che contribuisce a determinare i caratteri dettagliati del luogo che sarà poi realizzato tramite questi centri”. In merito al processo di continuo miglioramento dell’elenco Alexander aggiunge: “Il punto essenziale sta nel trovare – o creare – un insieme di centri che, assieme, generino un oggetto completo e coerente del tipo che desideriamo. Continueremo a verificare il nostro elenco rudimentale per vedere quale tipo di ‘tutto’ questo elenco di centri potrebbe generare. Quindi useremo l’intuizione e l’emozione per valutare le carenze nel ‘tutto’ che si è venuto a determinare, per capire quali altri centri sarà necessario realizzare” (C. Alexander, The Nature of Order, vol. I, p. 363) A questo punto è opportuno fare qualche considerazione. Alexander, nel primo elenco (‘poema’) descrive uno scenario che non ha ancora le caratteristiche di un elenco di centri, cioè di “sistemi fisici distinti, che occupano un certo volume nello spazio e possiedono una speciale, rilevante coerenza”. In questo scenario la descrizione di elementi fisici si mescola a quella delle sensazioni e delle emozioni che essi dovranno suscitare. I centri, intesi come sopra, vengono definiti soltanto nel secondo elenco. Inoltre Alexander, in entrambi gli elenchi, tende a non distinguere tra oggetto fisico da realizzare (centro) e ‘regola’ che aiuta a realizzarlo (pattern), dal momento che usa indifferentemente questi due termini per designare lo stesso oggetto. Dal secondo elenco possiamo facilmente dedurre che i centri / pattern non sono quasi mai identici ai pattern generali (archetipi) elencati e descritti in A Pattern Language. Le possibilità che si possono dunque prospettare al fine di utilizzare l’elenco in questione per definire il progetto, disegnarlo e realizzarlo fisicamente sono sostanzialmente di tre tipi. (i) rinunciare del tutto all’uso di un linguaggio di pattern. Come scrive Alexander, “l’elenco dei centri dai quali un oggetto sarà realizzato viene espresso talvolta come un linguaggio di pattern. Ma quest’ultimo è soltanto uno dei modi possibili in cui possiamo operare. La cosa importante è che devi avere ben chiaro quali sono i centri essenziali che conferiranno all’oggetto una vita reale e profonda. Quando avrai chiarito ciò a livello mentale, potrai avviare il processo di unfolding geometrico del piano e del progetto” (C. Alexander, The Nature of Order, vol. I, p. 367). Altrimenti detto: invece di pensare ai pattern, realizza direttamente i centri applicando il processo fondamentale di differenziazione [1]. (ii) selezionare i centri generali che vengono poi realizzati con l’ausilio di pattern archetipi, eventualmente contestualizzati. Per i centri che sono molto specifici della cultura, del clima ecc del luogo e che non sono in alcun modo riconducibili ai 253 pattern di A Pattern Language, si costruiscono nuovi pattern da affiancare ai pattern generali, individuando parimenti i legami che li collegano tra loro e agli altri pattern dell’elenco [2]. (iii) selezionare, come nell’ipotesi precedente, i centri generali con l’ausilio di A Pattern Language, e inglobare direttamente nel progetto i centri più specifici, senza costruire preventivamente nuovi pattern, bensì applicando direttamente il processo fondamentale che consente di realizzarli e metterli in rapporto tra loro e con i centri generali. Se nell’ipotesi (ii) tutti i centri che sono specifici del contesto vengono dunque tradotti preventivamente in pattern rispettando il formato di A Pattern Language, nell’ipotesi (iii) tale traduzione non è prevista. [1] In realtà questo modo di procedere non esclude necessariamente l’utilizzo di pattern. Come si vedrà nell’esempio seguente (cfr. B3), l’applicazione diretta delle proprietà fondamentali dei centri non esclude l’utilizzo contestuale o successivo dei pattern che aiutano a realizzarle. [2] Come è noto, ogni pattern è collegato ad alcuni pattern di scala superiore (che lo precedono nell’elenco) e a certi pattern di scala inferiore (che lo seguono). Un pattern aiuta a completare i pattern superiori ed è completato dai pattern inferiori (per maggiori dettagli cfr. C. Alexander, S. Ishikawa, M. Silverstein, A Pattern Language. Town, Building ,Construction, Oxford University Press, New York, 1977, p. X e seguenti). Per il progetto di ricostruzione dell’area centrale di Samarcanda alcuni centri potrebbero essere realizzati con l’ausilio di pattern archetipi opportunamente contestualizzati. Un centro come LA PASSEGGIATA DEL FESTIVAL potrebbe giovarsi del pattern generale PASSEGGIATA (31), che andrebbe contestualizzato per tenere conto della particolare funzione del nuovo percorso. Il centro IL FRUTTETO DEGLI ALBERI DI PESCO potrebbe essere realizzato con l’ausilio di ALBERI DA FRUTTA (170), anch’esso opportunamente contestualizzato; così il centro INGRESSI NELLA PARETE ESTERNA, la cui costruzione potrebbe richiedere l’applicazione di pattern quali INGRESSI PRINCIPALI (53) e TRANSIZIONE TRA ESTERNO E INTERNO (112); e via di seguito. Trovare a priori dei pattern generali adatti a realizzare centri come IL MUSEO DEI MANOSCRITTI, CALCIO E ALTRI GIOCHI e L’OSPIZIO DI KULLIYE sembra più difficile. Secondo l’ipotesi (iii) non è tuttavia necessario costruire preventivamente i pattern che ci aiutano a realizzarli, ma possiamo progettarli direttamente tenendo conto della loro specificità e facendo uso delle quindici proprietà fondamentali. E’ possibile che alcuni pattern generici, eventualmente contestualizzati, potranno essere utilizzati in seguito, quando i centri in questione saranno stati definiti in maggiore dettaglio ed articolati in centri di più piccole dimensioni. Purtroppo Alexander non descrive il processo che ha seguito per sviluppare il progetto a partire dall’elenco dei centri individuato. B3. La progettazione di un piccolo spazio comune con l’applicazione diretta delle proprietà fondamentali dei centri (1992) Alexander descrive un semplice processo di progettazione di un piccolo spazio pubblico realizzato per una comunità di famiglie texane (The Nature of Order, vol. III, pp. 82-85). Lo spazio in questione è un’area di pochissimi ettari [1], con molti alberi e arbusti, a servizio di cinque abitazioni che dovevano essere costruite in un’area che affaccia sul lago Travis, a Austin. Dopo solo pochi minuti di sopralluogo, Alexander e i suoi collaboratori furono in grado di identificare le strutture che costituivano la wholeness di quest’area. Essa comprendeva tra l’altro una fila di alberi che si estendeva fino all’acqua del lago, nonché uno spazio di proprietà comune, di forma molto complessa, che costituiva il ‘cuore’ dell’area considerata. Alexander e i suoi colleghi procedettero subito ad analizzare questo spazio e a delimitarne i bordi con dei paletti. Il giorno dopo convocarono sul terreno le famiglie interessate, per mostrare loro lo spazio comune e spiegare che sarebbe stato opportuno rafforzare il sistema latente di centri presenti in quello spazio, e fare in modo che le abitazioni si relazionassero ad esso. L’idea era semplice: i membri delle famiglie rimasero dapprima scioccati, ma poi dichiararono di essere profondamente interessati. Una persona disse di avere già visto molte volte quegli alberi, ma che non aveva mai notato l’esistenza di quei centri naturali: averli considerati in quel modo aveva completamente cambiato il suo rapporto con il sito. [1] Alexander ritiene che questa costruzione di un piccolo ‘guscio’ (hull) di spazio comune sia un esempio che potrebbe funzionare anche per la progettazione degli spazi pubblici, a tutte le scale. Questa struttura fatta di terra, acqua ed alberi, una volta identificata e portata ‘allo scoperto’, indusse tutti a comportarsi in modo più vivace e interessato nella scelta dei luoghi nei quali collocare le loro case. Improvvisamente, invece di disporle a caso sulla base di una divisione arbitraria in lotti, le famiglie si resero conto che sarebbe stato meglio ubicare le loro abitazioni rispettando la struttura dello spazio comune che avevano riconosciuto essere importante e significativa, che aveva un significato profondo e dava un senso all’azione di collocare ogni abitazione in un posto preciso. Alexander e i suoi collaboratori manifestarono ai membri delle famiglie un importante principio che sempre avrebbe dovuto ispirare ogni progettazione architettonica: quello di non modificare mai la struttura territoriale (wholeness) esistente se non per rafforzarla, facendo attenzione a non apportare quei cambiamenti anche minimi che potrebbero danneggiarla. La wholeness guidò l’azione dei progettisti, ma anche quella degli abitanti, che sempre più desideravano proteggere ed estendere la wholeness del sito, nel rispetto del principio che ogni scelta doveva perseguire questo obiettivo. Lo spazio comune che Alexander e i suoi collaboratori avevano identificato fin dall’inizio come struttura coerente diventò nel progetto quel “guscio” che consentirà poi alle abitazioni di essere vitali. Questo spazio fu conformato con cura. Nel seguito sono mostrati uno schizzo planimetrico ed alcune immagini del progetto realizzato. In pratica venne costruito un muretto di pietre basso, lungo poche centinaia di metri, che ne segnava i bordi (cfr. confine, A3). Furono creati alcuni centri forti: alcune sedute con fontana all’estremo superiore dell’area; una pergola, una fontana e una panchina con vista sul lago all’estremo inferiore. La parte centrale di questo spazio fu lasciata libera per creare un’intensa sensazione di libertà, di assenza di elementi ingombranti (vuoto). I progettisti posero attenzione nel realizzare differenti livelli di scala, alternando gli alberi secolari , gli ingressi delle abitazioni e le strutture realizzate alle due estremità dell’area (sedute, fontane, ecc.) a centri di dimensioni minori. Essi utilizzarono inoltre la proprietà simmetrie locali per conformare la aree d’ingresso al ‘guscio’ dello spazio comune e i percorsi al suo interno. Infine consentirono che la irregolarità fossero ampiamente dominanti in tutta la struttura (ad esempio, il muretto e i percorsi non seguono un tracciato di forma geometrica, ma hanno forme irregolari che meglio si adattano alle pendenze del terreno). Lo spazio comune a forma di uovo allungato, infine, è caratterizzato dalla presenza di gradienti. Alexander non specifica se per progettare in dettaglio l’area i progettisti abbiano fatto ricorso a un linguaggio di pattern. In linea di principio l’utilizzo di alcuni pattern sarebbe stato possibile ed utile: ad esempio, per stabilire alcune caratteristiche generali dello spazio comune (TERRENO COMUNE, 67); per costruire il muretto che delimita i bordi dello spazio comune (MURETTO PER SEDERSI, 234); per realizzare i due centri forti collocati alle estremità dell’area, nonché per creare un rapporto ottimale tra il centro inferiore e la riva del lago (SEDUTE, 241; PERCORSO PERGOLATO, 174; LUOGO SOLEGGIATO, 161; ACCESSO ALL’ACQUA, 25; ecc); per conservare e utilizzare al meglio gli alberi preesistenti (POSTI ALBERATI, 171); per scegliere la forma e la pavimentazione dei percorsi interni allo spazio comune (PERCORSI E METE, 120; FORMA DEL PERCORSO, 121; PAVIMENTAZIONI CON INTERSTIZI TRA LE PIETRE, 247); ecc. C. La progettazione partecipata C1. La partecipazione secondo Alexander In che modo Alexander concepisce e pratica la partecipazione nel processo progettuale? Per rispondere a questa domanda sono utili alcune frasi tratte da The Nature of Order (vol. III, pp. 259-282). “(…) Ciò che io intendo come vera appartenenza è una visione condivisa che deve andare oltre la superficie, che non riguarda soltanto questioni pratiche sulle quali le persone possono facilmente mettersi d’accordo, me anche le volizioni profonde, i sogni, il tipo di ambiente dove vivere una vita (quasi) perfetta. (…) Attualmente sembra difficile riuscire a raggiungere tale condivisione, poiché le persone posseggono valori diversi, hanno visioni del mondo differenti. Come raggiungere l’accordo, allora? Altrove ho suggerito che un linguaggio di pattern condiviso che definisce i nostri centri generali, uno per uno, ci fornisce lo strumento necessario per poter raggiungere l’accordo, a un livello profondo, su ciò che è veramente importante nel nostro mondo (…). [Negli esempi illustrati] abbiamo visto come sia facile, per le persone, incorporare nel linguaggio le specificità culturali ed emozionali del luogo, e come il linguaggio stesso possa diventare la guida per realizzare edifici, spazi pubblici, strade, ecc. (…). Un linguaggio di pattern cattura l’’anima essenziale dei luoghi e delle persone e la fissa nella loro mente in un modo tale che essa diventa la fonte dei loro sogni e un punto di riferimento per le scelte concrete di pianificazione e costruzione per tutti coloro che partecipano (…).” Per Alexander non è sempre necessario che la partecipazione coinvolga tutti. “[Se il caso ideale consiste] in un processo in cui tutti i membri di una comunità o gli abitanti di un quartiere esprimono i loro punti di vista, i loro ‘sentire’, e contribuiscono alla costruzione della visione collettiva, il caso più interessante – perché più realistico – è un processo differente, più limitato. In questa versione del processo, di più modesto profilo, una comunità di centinaia o anche migliaia di membri può essere rappresentata da un piccolo gruppo, costituito da non più di una decina di persone. Se esse radicano questo linguaggio di pattern nel terreno dell’esperienza quotidiana, diventa loro possibile realizzare qualcosa di ben fondato, che rispecchi la verità e che sia sufficientemente solido da consentire a tutti gli altri di continuare a percorre il cammino tracciato.” Coloro che non sono disposti a condividere le loro decisioni e le loro scelte con altre persone possono costituire un problema. Si tratta per lo più di politici, amministratori pubblici, di imprenditori che temono di perdere il loro ruolo o di dover rinunciare ai loro interessi, peraltro non sempre legittimi. A questo proposito Alexander afferma che “sopprimere od ostacolare la partecipazione nella progettazione dell’ambiente non solo è sbagliato, ma è soprattutto un’interferenza indebita (…). Gli amministratori non dovrebbero mai sottrarre alle persone quel controllo del processo che loro spetta. La partecipazione è un’attività umana che, se svolta in modo corretto, può consentire alle persone di perseguire i loro bisogni in un modo coerente; un’attività che va a vantaggio di tutta la comunità. Una discussione interminabile circa i valori, gli obiettivi e i diversi punti di vista può vanificare ogni processo sociale condotto in modo sbagliato: ma quando tale processo viene gestito in modo corretto è difficile che tali problemi si presentino. Il punto essenziale è che quando il processo fondamentale viene applicato correttamente per realizzare un linguaggio di pattern, le persone sono portate, una alla volta o tutte assieme, a focalizzare la loro attenzione sugli spazi comuni, ad aguzzare l’ingegno per migliorarli. Ciò avviene perché il processo consente loro di determinare solo un pattern – o un centro generale – per volta. E’ così che l’accordo profondo e sostanziale che c’è tra le persone può emergere. Il disordine e la confusione che fanno tanta paura agli amministratori sono solo il risultato di un approccio alla costruzione del consenso attuato in modo sbagliato”. C2. La progettazione e la realizzazione del campus di Eishin Il campus di Eishin è una struttura scolastica per 1500 studenti [1] progettata e realizzata tra il 1981 e il 1985 a Musashino Shi, una località vicina a Tokio, da C. Alexander, G. Black e H. Neis. Il linguaggio di pattern [2] fu costruito come elenco di centri dai progettisti e dai i futuri utilizzatori del campus: gli studenti, i docenti, il personale tecnico e amministrativo della scuola. L’elenco, nella prima versione, era costituito da un insieme di frasi organizzate in capitoli che descrivevano sia gli elementi fisici del progetto, sia i modi di vita del campus. Qui di seguito sono riportati 3 degli 8 capitoli in cui l’elenco stesso è articolato. [1] La struttura ospita una high school e un college. [2] Anche in questo caso Alexander utilizza indifferentemente i termini ‘pattern’ e ‘centro’. CARATTERI GLOBALI 1. C’è un confine esterno che delimita il sito. 2. Dentro il confine esterno c’è un confine interno che circonda un’area più piccola, la cu superficie è circa 1/5 di quella dell’intero sito. 3. L’area interna al confine interno è denominata ‘recinto interno’. Si tratta di un’area ‘densa’ dove la high school ed il college hanno i loro edifici principali. 4. Tra il confine esterno e il confine interno c’è un altro recinto: un’area occupata da giardini, campi sportivi e diversi edifici esterni isolati. 5. I caratteri degli edifici e del sito sono determinati dalle mura con fondazioni di pietra, dalle colonne di legno, dalle pareti bianche, da alcuni luoghi particolari con legno laccato di colore rosso, dai grandi tetti sospesi, dalle pietre e dall’erba sul terreno. IL RECINTO INTERNO 1. L’ingresso al recinto interno inizia al confine esterno. In un punto chiave del confine esterno c’è un ‘cancello’. 2. Questo ‘cancello’ principale è un edificio. 3. Tra il ‘cancello’ principale e confine interno c’è la strada d’ingresso. La strada è fiancheggiata da mura o alberi, ed è particolarmente tranquilla. 4. Nel punto in cui la strada d’ingresso incontra il confine interno c’è un secondo ‘cancello’. 5. Dentro il secondo ‘cancello’, c’è un piazzale pubblico. Questo piazzale è costituito da un grande edifico, che delimita il lato principale del piazzale. 6. Oltre il piazzale pubblico, dopo aver attraversato un terzo ‘cancello’, c’è il centro principale della scuola e dell’università . Questo centro principale può essere raggiunto attraversando i diversi ‘strati’ descritti in precedenza. Ed esso contiene al suo interno altri ‘strati’ ed altri livelli di tranquillità. 7. Questo centro principale è assai grande – è esso stesso un mondo, circondato, con un recinto interno, ed è costituito da percorsi e ingressi. Questo centro contiene gran parte dell’high school e gran parte dell’università (college). 8. Da questo centro principale si aprono alla vista quelle parti dell’università e della high school che sono specialistiche e separate. 9. Poiché il centro principale è allo stesso tempo il cuore e il punto d’incontro della school e dell’università, la sua forma è simile a quella di una croce – costituita da percorsi che si attraversano. Poiché esso assomiglia al carattere ‘‘ta’ (una croce in un quadrato), lo abbiamo denominato Centro Tanoji. 10. All’incrocio delle strade e dei percorsi che formano in Centro Tanoji c’è un piccolo centro. Questo luogo è il nucleo della parte più frequentata del Centro. 11. Dal lato opposto a quello del Centro Tanoji si apre alla vista un luogo sopraelevato e pieno di pace che chiamiamo il chiostro del college. Questo è il ‘sancta sanctorum’ dell’università, il luogo più tranquillo di tutti. La sua posizione è scelta in modo da invitare alla contemplazione. 12. Parimenti, dal Centro Tanoji si apre direttamente alla vista la strada principale. Si tratta di una strada larga, vivace, assolata, contornata da singoli edifici in cui gli studenti della high school assistono alle lezioni. 13. Attraverso gli ingressi, su un altro lato del Centro Tanoji, c’è un prato. Questo prato, destinato soprattutto agli studenti, è circondato dagli edifici del college e conduce direttamente al lago. 14.Il lago è un posto tranquillo, dove si può stare tranquilli (…) CARATTERISTICHE DEGLI INTERNI 1. Il carattere degli interni è caldo e sommesso: colonne, pavimenti e pareti di legno; pareti dal colore giallo pallido, simile a quello del crisantemo, in carta o seta; porte scorrevoli e soffitti quasi bianchi. 2. I pavimenti di molti edifici sono rialzati, leggermente oltre l’usuale, rispetto al terreno. 3. La aule hanno pavimenti lisci di legno, o tappeti, e le scarpe non sono ammesse al loro interno. 4. Tutte le aule principali hanno grandi finestre esposte a sud. 5. Molte stanze hanno delle verande da un lato, dove la luce batte e illumina gli interno penetrando attraverso le porte. 6. Molte pareti ed altre superfici sono fatte di legno naturale non trattato. 7. Le aule ed altre stanze sono arredate con tavoli di legno massiccio che sono condivisi da più studenti 8. Negli edifici più grandi ci sono specchi in cui gli studenti possono specchiarsi 9. Fuori dagli edifici ci sono spesso aiuole di fiori 10. Dentro, qua e là nella scuola, ci sono a sorpresa alcune macchie di colore morbido, che spiccano tra i colori sommessi del resto: una figura dipinta in blu pallido martin pescatore in un posto; un’iride giallooro in un altro posto. Tutte queste frasi (e quelle degli altri capitoli) hanno consentito ad Alexander e agli altri progettisti di costruire l’elenco definitivo dei duecento centri circa che prefigurano in dettaglio tutta la vita della scuola [1] . Un gruppo di docenti e studenti del campus, una decina in tutto, era solito incontrarsi con i progettisti per discutere in merito al linguaggio durante la sua stessa costruzione. Ogni volta che un elemento del linguaggio raccoglieva il consenso generale, veniva inserito nel corpo del linguaggio stesso. Quando c’erano punti da dibattere o approfondire, si accendevano feroci discussioni, finché la questione non si appianava. I membri di quel gruppo sapevano che alla fine avrebbero dovuto incontrare la comunità di tutti i futuri utenti del campus, che aveva il compito di approvare o respingere l’intero linguaggio. Di conseguenza essi fecero del loro meglio per prefigurare spazi o situazioni che erano parte di un ‘sentire’ condiviso. Tutto questo processo durò circa quattro mesi. [1] Alexander, in The Nature of Order, non riporta l’elenco completo ma solo alcuni dei centri che ne fanno parte, come: AULE IN EDIFICI SEPARATI - OGNI EDIFICIO COME UNA CASA - GIARDINI TRA LE AULE - PERCORSI CHE COLLEGANO LE AULE ESPOSTI ALLA PIOGGIA -…L’elenco completo dei centri sarà pubblicato da Alexander in un lavoro che si intitolerà Battaglia: il racconto di un conflitto storico tra mondo di serie A e mondo di serie B. In merito alla partecipazione dei futuri utenti del campus Alexander afferma quanto segue. “Deve essere chiaro che il linguaggio dei pattern, sebbene scaturito dalle bocche e dai cuori dei membri della comunità, fu creato da noi [progettisti]. E’ stato difficile crearlo, è stata un’impresa artistica e poetica: ma nonostante fossimo stati noi a scriverlo e a strutturarlo, furono i loro sogni, le loro speranze, le loro volizioni e i loro desideri a renderlo possibile. Così, quando essi lo videro, lo riconobbero come proprio. Questo è ciò che intendo per visione collettiva. Alla fine, dunque, abbiamo costruito un linguaggio di pattern compiuto, una descrizione completa della visione collettiva della comunità. Per essere operativa, questa visione doveva essere fisica. Anche se era fatta soltanto di parole, una volta creata, discussa, concertata e infine votata e approvata, essa doveva descrivere concretamente a che cosa il campus avrebbe dovuto assomigliare. A questo punto consegnai questo linguaggio di pattern condiviso ad uno studente, a un docente e a qualche altro membro della comunità interessata, chiedendo loro di realizzare un disegno che rappresentasse la loro idea di campus. Possediamo ancora alcuni di questi disegni: ognuno riguarda l’intera area del campus. Naturalmente le visioni di persone così diverse non sono esattamente le stesse. Spesso sono anche abbastanza dissimili in termini di uso dettagliato degli spazi. Ma i disegni sono tutti uguali in un senso più profondo, poiché condividono la stessa struttura generale. In tutti è rappresentato lo spazio centrale, l’ingresso principale e l’ingresso secondario – tutti elementi che facevano parte del linguaggio. In tutti i disegni è presente anche una strada dove è situata la high school ed una specie di grande corte di forma allungata dove sono ubicati gli edifici del college, poiché anche questo faceva parte del linguaggio. A un certo livello, la conoscenza era dunque condivisa, specie in relazione ai principali punti di attenzione, agli edifici principali, alla densità degli spazi costruiti, alle contiguità, alla natura degli edifici (la loro grandezza, le loro relazioni) e agli spazi di circolazione.” La figura mostra il disegno di un docente che presenta quella coerenza che era già presente nella versione verbale e poetica della visione (pattern language). Prosegue Alexander: “Ad esempio, all’epoca avevamo stabilito che ogni classe dovesse occupare un edifico separato (oggi, dopo avere riveduto il progetto iniziale, ogni edificio ospita in realtà due classi). Se le persone sono state in grado di disegnare tutto ciò è perché avevano concordato in precedenza quello che sarebbe stato giusto fare. (...) In seguito tutti ci ringraziarono di aver realizzato per loro un nuovo modo di vivere, poiché essi capirono che nel linguaggio (e nel campus reale che fu poi costruito) era contenuta implicitamente la loro visione collettiva di un nuovo modo di vivere: il loro modo di vivere, quello stesso che desideravano.” L’immagine forte e trainante costruita con il linguaggio ha facilitato la successiva definizione dell’assetto fisico complessivo dell’area: ma per poter meglio definire questo assetto è stato necessario ritornare sul terreno. “Nel progetto di Eishin, dopo aver completato l’intera immagine in termini verbali (ossia la nostra visione collettiva espressa come pattern language) incominciammo a definire passo passo l’assetto del campus direttamente sul terreno. Ciò richiedeva un processo differente da quello utilizzato per creare il linguaggio. A questo punto disponevamo di un’immagine della nuova comunità espressa in termini verbali: ma adattare questa immagine alla realtà del territorio, passo dopo passo, arbusto dopo arbusto (qui c’è un albero, qui c’è una bella vista, il vento che soffia qui è un po’ troppo forte e così via) era tutt’altra cosa. Adesso dovevamo cercare di realizzare questa struttura: dovevamo cercare di identificarla fisicamente sul terreno. In pratica ci procurammo alcune centinaia di bastoncini sottili alti circa due metri, con una bandierina ad una estremità, e li conficcammo nel terreno in modo da delimitare tutta l’area dello spazio pubblico, il cosiddetto ‘guscio’. Alla fine, il tutto sembrava un esercito di samurai in movimento. Le bandierine ci consentivano di vedere dove stavamo passeggiando, quali spazi pubblici erano stati conformati e dove. Noi e tutti coloro che avevano partecipato al processo potevamo allora immaginare in termini più realistici come sarebbe stato lo spazio pubblico, ‘sentirlo’, camminarci dentro. Gli spazi delimitati dalle bandierine identificavano quel ‘guscio’, individuavano i ‘soggiorni’ di quella comunità in quell’area coperta di arbusti di tè, la cui superficie era pari a quella di nove isolati urbani(…) “Abbiamo anche realizzato un modello plastico grezzo del campus di Eishin con del cartoncino colorato. Il modello aveva una superficie di circa nove metri quadrati (3x3 m) ed occupava un’intera stanza. Nonostante fosse poco dettagliato, esso aveva il vantaggio di poter essere modificato e migliorato senza problemi. Questo modello diventò uno strumento di lavoro per tutti. Conservavamo questo modello in una stanza della vecchia scuola, dove tutti potevano trovarlo e vederlo. Ogni giorno le persone erano solite andare in questa stanza per osservare il plastico. Grazie ad esso è stato possibile per tutti visualizzare il ‘guscio’ pubblico, nella sua reale struttura e consistenza fisica, in modo che le persone potessero immaginare come i singoli edifici avrebbero contribuito a conformarlo.” C3. Come si costruisce in pratica una visione collettiva? Alexander, in The nature of Order (vol. II, p. 269), illustra in dettaglio il processo che ha consentito di costruire la visione collettiva che è alla base del linguaggio di pattern utilizzato per la progettazione e la realizzazione del campus di Eishin. “Come abbiamo cominciato? A che cosa doveva fare riferimento il linguaggio dei pattern? Organizzammo una riunione con alcuni rappresentanti della comunità – ci saranno state 100150 persone in tutto, docenti, studenti, personale amministrativo e tecnico. All’epoca essi vivevano e lavoravano in una scuola di Tokio, in una zona che assomigliava molto alla ‘giungla d’asfalto’ di New York: un isolato rettangolare con un grande edificio nel mezzo e asfalto tutt’attorno; e questo è tutto. Nella nostra discussione incominciammo a ragionare in merito a come sarebbe stata la vita in un campus diverso, un campus che le persone desideravano fortemente. Essi non risposero subito a questa domanda. Era difficile per loro. Talvolta penso di aver assillato le persone con le mie domande. Esse avrebbero potuto rispondermi: Bene, che cosa volevi dire? Cosa vogliamo? Una scuola è una scuola! Cosa pensavi che avremmo detto? Era come se ci fosse una sorta di riluttanza a far emergere l’intima visione poetica che ognuno di loro possedeva internamente. Forse perché era imbarazzante, o sembrava troppo visionaria. “Mi ricordo di aver notato tutto questo in una persona con cui stavo parlando. Mi disse: Bene, che cosa c’è da discutere? è o non è una scuola? Allora, con pazienza, entrai in argomento e dissi: Guarda, cerca di dimenticarti della scuola in cui ti trovi adesso; dimenticala del tutto, e immaginati solo un luogo che assomigli al posto più meraviglioso in cui hai mai lavorato … e in cui, come insegnante, ogni giorno eri felice di stare. Com’è fatto questo luogo? La risposta fu ancora: Non lo so. Allora dovetti spingermi un po’ oltre e dire: In realtà desidero sapere cosa c’è nel tuo cuore, e non smetterò di chiedertelo finché non me lo dirai. E poi: Guarda, se è troppo difficile, chiudi gli occhi: allora lo vedrai. Immagina che sia un posto meraviglioso dal tuo punto di vista. Non sapevi che fosse lì, e improvvisamente lo hai raggiunto, come per caso. Cosa hai trovato? A quel punto l’uomo cui mi stavo rivolgendo disse: Oh! m’immagino di passeggiare lungo un piccolo ruscello tra le aule; sto pensando di preparare la mia prossima lezione. Immagino di passeggiare lungo questo piccolo corso d’acqua, di sedermi per cinque minuti per poi proseguire e recarmi in aula a svolgere la lezione. Qttenuta questa risposta, raggiunto finalmente il livello di approfondimento desiderato, la frase trovò una collocazione nel linguaggio di pattern che andavamo costruendo. L’idea di un posto con dell’acqua, dove un insegnante poteva vagare tra le aule, diventò parte del sogno collettivo. Esso fu definitivamente incluso nel linguaggio poiché scoprimmo ben presto che quell’insegnante aveva parlato anche a nome di tutti gli altri insegnanti, che l’accettavano come parte del loro sogno comune. L’intero linguaggio dei pattern di quel campus ha di fatto l’aspetto di un poema di duecento versi, che tratta dalle cose più grandi fino a quelle più piccole, come le rifiniture delle finestre, i singoli alberi, ecc. Esso descrive in termini che sono al tempo stesso poetici e concreti a che cosa dovrebbe assomigliare quel campus.” Alexander prosegue e conclude: “Tutto ciò fu scritto prima che noi avessimo iniziato a disegnare. All’epoca noi stavamo ancora cercando d’immaginare nelle nostre menti il nuovo campus. La bellezza di possedere una ‘pittura’ verbale come un linguaggio di pattern è la sua flessibilità. (…) Un disegno è troppo monolitico; anche quando è fatto di parti separabili, è molto più difficile estrarne gli elementi e discuterli separatamente. Ma con una ‘pittura’ fatta di parole, puoi discutere gli elementi uno ad uno, eliminarne alcuni che non funzionano, migliorarli, fare in modo di renderli gradualmente più comprensibili e coerenti con i risultati del dibattito.” C4. Considerazioni conclusive In sintesi, ecco la ‘ricetta’ che Alexander suggerisce a chi è interessato ad ottenere una visione vera della città o di uno dei suoi quartieri: una vera visione collettiva, condivisa ed approvata da ogni abitante del quartiere. “Fallo con la gente, tirando fuori le frasi dalle loro labbra. Assicurati sempre di aver interrogato ogni persona in merito al sentimento più profondo che essa prova nei confronti della vita e a ciò che ne deriva. Considera un solo pattern per volta e, quando è necessario, discutilo a fondo. Fatti aiutare da qualcuno - un architetto, un facilitatore, ecc. che non sia interessato ad imporre alla comunità un’immagine egocentrica - a coordinare l’attività di strutturazione del linguaggio in modo che esso diventi coerente, utile e, se possibile, anche poetico (…)”. La procedura descritta rispecchia l’ottimismo di Alexander, che tende spesso a trascurare i gravi conflitti che sono presenti in una comunità, o che pensa di poterli superare con il richiamo all’introspezione, ai valori profondi dell’uomo. Spesso chi conduce un processo di progettazione partecipata non fa abbastanza sforzi per cercare di mettere in atto la strategia di Alexander: una strategia difficile ma che può essere vincente, come dimostrano alcuni dei successi da lui ottenuti. Occorre tuttavia rilevare che non è sempre possibile superare tutti i conflitti, specialmente quelli che originano da forti interessi economici, o da credenze e pregiudizi personali di tipo ideologico, religioso e razziale. Non è sempre facile superare i conflitti e, al tempo stesso, ottenere soluzioni (cioè un linguaggio di pattern) che siano coerenti con i principi di Alexander. In certi casi converrà limitarsi a costruire delle visioni che siano il risultato di compromessi accettabili per tutti. Se si creano almeno le condizioni per cui gli ‘attori’ si dimostrano quantomeno disposti a partecipare ad un processo di negoziazione che, a priori, non favorisca nessuno, sarà possibile aiutare gli stessi a superare i conflitti ed evitare anche la trappola degli accordi minimali, di basso profilo, stabilendo accordi che producano un reale vicendevole guadagno. Produrre tale ‘guadagno’ non significa conseguire una duplice (ma spesso ingannevole) vittoria: quella nostra e quella del nostro antagonista. Occorre invece capire che per conseguire congiuntamente dei vantaggi le parti che si confrontano devono saper sfruttare le loro differenze; devono, in altre parole, trarre vantaggio dalle loro diverse priorità per realizzare ‘guadagni congiunti’. Ma sfruttare tali differenze non significa aiutare l’altro per aiutare noi (do ut des), né aiutare l’altro a soddisfare i suoi obiettivi prioritari affinché noi possiamo dopo soddisfare i nostri (più semplicemente: fare uno scambio), ma significa innanzi tutto imparare a riconoscere ed accettare le priorità di entrambi. Tutto ciò potrebbe costituire il primo passo per iniziare a costruire un linguaggio di pattern che non sia troppo condizionato dai conflitti e che possa essere veramente il frutto di una visione condivisa.