Percy Jackson racconta gli dei greci
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Percy Jackson racconta gli dei greci
Il libro Amori, passioni, eroismi, avventure, colpi di genio. Ma anche furti, bugie, pugnalate alle spalle, fratricidi e, per non farsi mancare nulla, un pizzico di cannibalismo. Gli dei della mitologia greca, si sa, hanno un caratterino imprevedibile e nessuno meglio di Percy Jackson conosce gli esiti spesso catastrofici delle loro estrosità. Del resto un semidio ha uno sguardo privilegiato sugli abitanti dell’Olimpo e può svelarci le loro storie osando intitolarle “Tutti pazzi per Afrodite”, “Dioniso conquista il mondo grazie a una bevanda rinfrescante” o “Artemide sguinzaglia il Maiale della Morte”. Dissacrante e ironico come sempre, ma al tempo stesso preciso e accurato nel racconto dei miti greci più celebri, Rick Riordan torna con una guida divertentissima al Monte Olimpo e dintorni, dopo la quale ninfe, ciclopi e divinità primordiali vi sembreranno familiari come i vostri cugini. L’autore Autore per ragazzi e adulti, Rick Riordan è stato premiato con i riconoscimenti più importanti del genere mystery. Dopo aver insegnato inglese per quindici anni, ora si dedica a tempo pieno alla scrittura e vive a Boston, con la moglie e i due figli. Le saghe “Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo”, “Eroi dell’Olimpo” e “The Kane Chronicles” sono un successo mondiale e in Italia hanno venduto più di un milione di copie. Rick Riordan PERCY JACKSON RACCONTA GLI DEI GRECI Traduzione di Laura Grassi A mio padre, Rick Riordan Senior, che mi ha letto il mio primo libro di mitologia INTRODUZIONE Spero di guadagnarmi una bella nota di merito per questo lavoro. Quando un editore di New York mi ha chiesto di buttar giù quello che so sugli dei greci, gli ho chiesto: — Posso farlo sotto pseudonimo? Perché non ho nessuna voglia che gli augusti Olimpi se la prendano con me un’altra volta. Ma se conoscere gli dei greci può aiutarvi a sopravvivere se mai dovessero materializzarsi davanti ai vostri occhi, allora immagino che scrivere tutto questo costituirà la mia buona azione settimanale. Nel caso non mi conosciate, mi chiamo Percy Jackson e sono un semidio – mezzo dio e mezzo mortale, figlio di Poseidone – ma non voglio dilungarmi su di me. La mia storia è già stata scritta in un bel po’ di libri di pura invenzione (ops, mi è scappata una strizzatina d’occhio), e io non ne sono che un personaggio (già, colpetto di tosse). Solo, siate clementi con me mentre vi parlo degli dei, d’accordo? Esistono almeno quaranta ziliardi di versioni dei miti greci, quindi non cominciate subito a dire: “Ehi, a me risulta in un altro modo, guarda che ti sbagli!”. Io vi racconto la versione che secondo me ha più senso. Giuro che non ho inventato niente. Ho preso tutte le storie da quei tizi greci e romani che le hanno scritte per primi. Credetemi, non potrei inventarmi della roba così pazzesca. Quindi, ecco qua. Innanzitutto vi racconterò come fu creato il mondo. Poi snocciolerò una lista di dei e vi dirò le mie opinioni su ciascuno. Spero solo di non farli arrabbiare tanto da incenerirmi prima che… ARGGGHHHHHHH! Scherzavo! Sono ancora qui. Comunque, voglio cominciare con la storia della creazione secondo gli antichi Greci che, tra l’altro, è decisamente incasinata. Infilate occhiali protettivi e impermeabile. Pioverà sangue. L’INIZIO DI TUTTA LA FACCENDA In principio io non c’ero. E credo che non ci fossero nemmeno gli antichi Greci. Nessuno aveva carta e penna per prendere appunti, quindi non posso garantire per quello che segue, ma di certo è ciò che i Greci hanno pensato sia successo. All’inizio, dunque, non c’era praticamente niente. Tanto niente. Il primo dio, se così lo si può chiamare, fu Caos: una cupa, densa nebbia con tutta la materia del cosmo a vorticarci dentro. Eccovi un primo dato: Caos significa letteralmente “baratro”, “buco”, “gap”, e non stiamo parlando della marca di vestiti. Dopo un po’ Caos diventò meno caotico. Forse si era stufato di essere così cupo e nebbioso. Un po’ di quella materia coagulò e si solidificò, diventando la terra, che purtroppo però sviluppò una personalità vivente, la quale si autonominò Gea, la Madre Terra. Ora, Gea era proprio la terra: le rocce, le colline, le valli… insomma, primo, secondo e contorno. Ma poteva anche assumere sembianze umane. Le piaceva passeggiare sulla terra – il che fondamentalmente significava passeggiare su se stessa – assumendo l’aspetto di una matrona con tunica a fiori, riccioli neri e sorriso gentile. Il quale sorriso, però, nascondeva un brutto carattere. Ve ne accorgerete abbastanza presto. Dopo un bel po’ di tempo passato tutta sola, Gea alzò gli occhi al nebbioso nulla sopra di lei e si disse: — Sai cosa ci starebbe bene? Un bel cielo. Un cielo mi piacerebbe proprio. E sarebbe carino se ci fosse anche un bell’uomo di cui potermi innamorare, perché quaggiù con l’unica compagnia di queste rocce mi sento un po’ sola. Delle due, l’una: o Caos la sentì e decise di collaborare, oppure Gea usò tutta la propria forza di volontà perché ciò accadesse. Sta di fatto che sopra la terra si formò il cielo: una cupola protettiva, azzurra di giorno e nera di notte. Il cielo decise di chiamarsi Ouranos, che poi è solo un altro modo di scrivere Urano. Perché non si sia scelto un nome migliore – tipo Portatore di Morte o José – non lo so, ma la cosa potrebbe spiegare perché fosse sempre così scorbutico. Come Gea, anche Urano poteva assumere sembianze umane e visitare la terra. Il che era un vantaggio, perché il cielo è lontano uno sproposito, e le relazioni a distanza non funzionano mai bene. In forma umana, Urano aveva l’aspetto di un uomo alto e atletico, con capelli scuri di media lunghezza. Indossava solo un perizoma e aveva la pelle cangiante: a volte azzurra con disegni di nuvole sui muscoli, a volte scura e ricoperta di stelle luccicanti. Ehi, era stata Gea a sognarlo così, non date la colpa a me. A volte vi capiterà di vederlo raffigurato con in mano la ruota dello zodiaco, a rappresentare le costellazioni che attraversano il cielo per l’eternità. Dunque, Urano e Gea si sposarono. E vissero felici e contenti? Non esattamente. In parte il problema fu che Caos si entusiasmò un po’ troppo per la faccenda della creazione. Nella sua nebbiosa e cupa mente pensò: “Guarda un po’, Cielo e Terra. Divertente! Vediamo cos’altro riesco a fare”. E così in breve creò tutta una serie di problemi, e con problemi intendo gli dei. Dalle nebbie di Caos si raccolse l’acqua, che gocciolò negli anfratti più profondi della terra e formò i primi mari, che ovviamente svilupparono una coscienza: il dio Ponto. Poi Caos andò davvero fuori di testa e pensò: “Ci sono! E se facessi una cupola come il cielo, però sotto la terra? Sarebbe straordinario!”. Ed ecco che un’altra cupola si materializzò sotto la terra, ma questa era buia e tenebrosa e per niente accogliente, dal momento che la luce del cielo non ci arrivava mai. E questo era il Tartaro, il Pozzo del Male; come potete arguire dal nome, quando sviluppò una personalità divina non vinse propriamente la gara di simpatia. Il problema era che sia a Ponto sia a Tartaro piaceva Gea, e questo creò un po’ di tensione nella relazione tra lei e Urano. Poi saltò fuori un’altra combriccola di dei primordiali, che a volerli nominare tutti si impiegherebbero settimane. Caos e Tartaro ebbero una figlia (non chiedetemi come: non lo so) di nome Nyx, che era la personificazione della notte. Poi Nyx – da sola! – ebbe una figlia di nome Emera, che era la personificazione del giorno. Le due non andavano mai d’accordo, perché erano diverse come… be’, lo sapete. Secondo alcune versioni, Caos creò anche Eros, il dio della procreazione… in parole povere, mamme dee e papà dei che fanno tanti figlioletti dei. Altre fonti dicono che Eros fosse figlio di Afrodite, ma a lei arriveremo più tardi. Io non so quale versione sia vera, ma so per certo che Gea e Urano cominciarono ad avere figli, con risultati piuttosto… vari. All’inizio ne scodellarono dodici: sei femmine e sei maschi, chiamati Titani. Avevano un aspetto umano, solo erano molto più alti e più forti. Ora direte che dodici figli avrebbero dovuto essere abbastanza per chiunque, giusto? Con una famiglia così numerosa, praticamente uno ha il proprio reality show personale… In più, una volta nati i Titani, il matrimonio di Gea e Urano cominciò ad andare in crisi. Urano passava sempre più tempo a non fare niente in cielo; non andava più a trovare la moglie; non dava una mano con i bambini. Gea era davvero scocciata, e iniziarono le discussioni. A mano a mano che i bimbi crescevano, Urano li sgridava sempre di più. Insomma, si comportava davvero da cattivo papà. Un paio di volte i due cercarono di aggiustare le cose. Gea decise che forse, se avessero avuto un altro stock di figli, si sarebbero riavvicinati… Lo so, lo so. Era una pessima idea. In ogni caso, Gea partorì tre gemelli. Problema: i nuovi figli rispondevano perfettamente alla definizione di “ORRENDI”. Erano grandi e grossi come i Titani, solo ancora più colossali e animaleschi, e con un impellente bisogno di una ceretta integrale. Ciliegina sulla torta: avevano un solo occhio in mezzo alla fronte. Si sa, per una mamma il proprio bimbo è sempre una meraviglia. E infatti Gea amava molto i suoi tre ultimi nati e li chiamò ciclopi. Furono i ciclopi maggiori, che alla fine generarono un’intera genia di ciclopi minori. Ma questo accadde molto tempo dopo. Quando Urano vide i tre gemelli, diede di matto: — Non possono essere figli miei! Non mi somigliano neanche un po’! — E invece lo sono, fannullone! — strillò Gea. — Non osare lasciarmi a tirarli su da sola! — Non c’è pericolo, non ti preoccupare — grugnì Urano. Uscì come un tornado e ritornò con un mazzo di robuste catene fatte della pura oscurità del cielo notturno. Legò i ciclopi e li scagliò nel Tartaro, che era l’unica parte della creazione dove non avrebbe dovuto prendersi cura di loro. Piuttosto severo, non trovate? Gea gridò e gemette, ma Urano si rifiutò di liberarli. Nessuno osò opporsi ai suoi ordini, perché a quel punto si era guadagnato la reputazione di soggetto a dir poco terribile. — Io sono il re dell’universo! — strepitò. — Come potrei non esserlo? Sono letteralmente al di sopra di chiunque altro. — Ti odio! — piangeva Gea. — Puah! Tu farai come dico io. Io sono il primo e il migliore degli dei primordiali. — Io sono nata prima di te! — protestò lei. — Tu non esisteresti nemmeno se io non… — Non mi provocare — ringhiò Urano. — Ho ancora un sacco di catene di oscurità. Come potete immaginare, Gea provocò un vero e proprio terremoto, ma non sapeva cos’altro fare. I suoi figli maggiori, i Titani, erano ormai quasi adulti, ed erano terribilmente dispiaciuti per lei. Il padre non piaceva granché neanche a loro – Gea parlava sempre male di lui, e a ragione – ma lo temevano, ed erano impotenti nei suoi confronti. “Devo tenere unita la famiglia per i ragazzi” pensò Gea. “Forse devo dargli un’altra possibilità.” Così organizzò una serata romantica: candele, rose, musica soft. Sperava di riaccendere un po’ dell’antica magia. Qualche mese dopo, diede alla luce un’altra tripletta di gemelli. Come se avesse avuto bisogno di un’ulteriore prova che il matrimonio con Urano era finito… i nuovi nati erano ancora più mostruosi dei ciclopi. Ognuno aveva cento braccia, il petto ricoperto di spine come ricci di mare e cinquanta minuscole teste appollaiate sulle spalle. A Gea però non importava. Lei adorava quei faccini, tutti e centocinquanta. Chiamò i tre gemelli centimani. Ma fece appena in tempo a scegliere i nomi che arrivò Urano, lanciò loro un’occhiata e glieli strappò dalle braccia. Senza una parola, li avvolse nelle catene e li gettò nel Tartaro come sacchi di spazzatura. Il tizio aveva decisamente dei problemi. Questo però fu davvero troppo per Gea. Pianse e strepitò e causò una quantità tale di terremoti che i Titani vennero a vedere cosa ci fosse che non andava. — Vostro padre è un vero…! Non so come lo definì, ma ho la sensazione che la prima parolaccia sia stata inventata in quell’occasione. Gea raccontò loro quello che era successo. Poi sollevò le braccia e fece tremare la terra sotto di sé. Evocò la materia più dura che potesse trovare nel suo dominio, con rabbia le diede forma e creò la prima arma mai forgiata: una lama di ferro ricurva lunga circa un metro. La assicurò a un manico di legno ricavato dal ramo di un albero lì vicino, poi mostrò la sua invenzione ai Titani. — Prendete, figli miei! — esclamò. — Ecco lo strumento della mia vendetta. Lo chiamerò falce! I Titani borbottarono tra loro: — E a cosa serve? Perché è curva? Come si scrive fal-ce? — Uno di voi deve farsi avanti! — gridò Gea. — Urano non è degno di essere il re del cosmo. Uno di voi lo ucciderà e prenderà il suo posto. I Titani apparivano decisamente a disagio. — Ecco… spiegaci questa faccenda dell’uccidere — disse Oceano. Era il più vecchio dei Titani, ma di solito bazzicava le lontane distese del mare assieme al dio primordiale dell’acqua, che lui chiamava zio Ponto. — Cosa vorrebbe dire uccidere? — Vuole che facciamo fuori papà — azzardò Temi. Era una delle femmine più sveglie, che colse immediatamente il concetto di “punizione per un crimine”. — Come dire… non farlo esistere più. — Ed è possibile? — chiese la sorella Rea. — Pensavo fossimo tutti immortali. Gea ringhiò di frustrazione. — Non siate vigliacchi! È semplicissimo. Prendete questa lama affilata e riducetelo in pezzi, così che non possa più infastidirci. Chi di voi ci riuscirà sarà il capo dell’universo! E io gli preparerò anche quei biscotti che vi piacciono tanto, quelli con lo zucchero a velo. Al giorno d’oggi abbiamo una parola per definire questo tipo di comportamento: psicotico. A quei tempi però le regole erano molto più elastiche. Forse, sapendo che la prima famiglia del creato fu anche la prima famiglia disfunzionale, vi sentirete meglio riguardo ai vostri consanguinei. I Titani cominciarono a borbottare e a indicarsi l’un l’altro dicendo: — Caspita, tu saresti bravissimo a uccidere papà. — Nooo, secondo me dovresti farlo tu. — A me piacerebbe un sacco, davvero, ma ora come ora devo finire una cosa, quindi… — Lo farò io! — si levò una voce dal fondo. Il più giovane dei dodici Titani si fece largo a spallate. Crono era il più piccolo dei fratelli e delle sorelle. Non era il più sveglio, né il più forte, né il più veloce. Ma era indubbio che fosse il più assetato di potere. Immagino che quando sei l’ultimo di dodici figli, passare il tempo a cercare di distinguerti e farti notare sia la norma. Al Titano più giovane l’idea di comandare il mondo andava parecchio a genio, soprattutto se questo significava essere capo dei fratelli. E l’offerta dei biscotti con lo zucchero a velo non guastava di certo. Crono era alto circa tre metri, che per un Titano non è niente di eccezionale. Non aveva l’aria pericolosa come alcuni suoi fratelli, ma era scaltro. Si era già guadagnato il soprannome di “Gancio”, perché nei corpo a corpo giocava sporco e non era mai dove ti aspettavi che fosse. Aveva il sorriso e gli stessi riccioli scuri della madre, ma la crudeltà del padre. Quando ti guardava, non sapevi mai se ti avrebbe dato un pugno o raccontato una barzelletta. Anche la barba era inquietante. Era giovane per averla, eppure si era già fatto crescere le basette in un’unica striscia che gli sporgeva dal mento come il becco di un corvo. Quando vide la falce, gli brillarono gli occhi. La voleva a tutti i costi. Era l’unico tra i fratelli a capire quanti danni avrebbe potuto causare quella lama di ferro. Quanto all’uccidere suo padre… perché no? Urano lo notava a malapena (anche Gea, se era per quello). Entrambi i genitori molto probabilmente non si ricordavano neppure il suo nome. Crono detestava essere ignorato. Era stufo di essere il più piccolo e di indossare i vestiti smessi da quegli stupidi dei suoi fratelli. — Lo farò io — ripeté. — Farò a pezzi papà. — Il mio bambino preferito! — gridò Gea. — Sei meraviglioso! Sapevo di poter contare su di te… Ehm, chi saresti tu? — Crono — rispose lui, riuscendo a conservare il sorriso. Insomma, per una falce, qualche biscotto e la possibilità di commettere un assassinio, poteva pur nascondere quello che provava davvero. — Sarà un onore uccidere per te, madre. Ma faremo come dico io. Prima di tutto, voglio che tu inganni Urano e lo convinca a farti visita. Digli che ti dispiace. Digli che è tutta colpa tua e che gli preparerai una cenetta prelibata per farti perdonare. Tu pensa solo a farlo venire qui stasera e comportati come se lo amassi ancora. — Puah! — fece Gea, sul punto di vomitare. — Sei impazzito? — Devi solo fare finta — insistette Crono. — Una volta che avrà assunto sembianze umane e si sarà seduto accanto a te, salterò fuori io e lo attaccherò. Ma avrò bisogno di aiuto. Si girò verso i fratelli, tutti improvvisamente molto concentrati a guardarsi i piedi. — Sentite, ragazzi — disse. — Se va male, Urano si vendicherà su tutti noi. Non possiamo permetterci errori. Ho bisogno di quattro che lo tengano fermo e facciano in modo che non scappi in cielo prima che io lo abbia finito. Gli altri rimasero in silenzio. Probabilmente si figuravano quel nanerottolo del fratellino che attaccava l’enorme e violento padre, e le probabilità non erano certo a suo favore. — Avanti, insomma! — li sgridò Crono. — Sarò io a sobbarcarmi il lavoro sporco di farlo a fette. Quattro di voi dovranno solo tenerlo fermo. Quando sarò re, quei quattro verranno premiati! Darò a ognuno un angolo di terra da governare: nord, sud, est e ovest. Prendere o lasciare. Chi è con me? Le ragazze erano troppo sagge per farsi coinvolgere in un assassinio. Trovarono ciascuna una scusa e se ne andarono in fretta. Il figlio più vecchio, Oceano, si rosicchiò nervosamente il pollice. — Io devo tornare nel mio mare per delle faccende… ehm, ecco… acquatiche. Scusatemi… E con questo rimasero solo Ceo, Giapeto, Crio e Iperione. Crono sorrise. Prese la falce dalle mani di Gea e ne saggiò la punta, facendosi uscire una goccia di sangue dal dito. — Dunque, quattro volontari. Fantastico! Giapeto si schiarì la voce. — Ecco, in effetti… Iperione gli diede una gomitata. — Siamo con te, Crono! — assicurò. — Conta su di noi! — Eccellente — disse Crono, e fu la prima volta che un genio del male pronunciò la parola “eccellente”. Poi spiegò loro il piano. Quella sera, Urano venne davvero. Apparve nella valle dove di solito incontrava Gea, e quando vide la tavola apparecchiata sontuosamente aggrottò la fronte. — Ho ricevuto il tuo biglietto. Intendi sul serio ricominciare? — Assolutamente! — Gea indossava il suo vestitino verde senza maniche, il più bello che aveva. I capelli erano tempestati di pietre preziose (era facilissimo per lei procurarsele, essendo la Terra), e profumava di rosa e gelsomino. Si distese su un sofà, alla luce soffusa delle candele, e fece cenno al marito di avvicinarsi. Nel suo perizoma, Urano non si sentiva abbastanza elegante. Non si era nemmeno pettinato. La sua pelle versione notturna era scura e tempestata di stelle, ma questo non rispondeva esattamente al dress code previsto per una cena importante. Pensò che avrebbe dovuto almeno lavarsi i denti. Sospettava qualcosa? Non lo so. Nessuno nella storia del cosmo era mai stato attirato in un’imboscata e fatto a pezzi fino a quel momento. Lui sarebbe stato il primo. Un tipo fortunato. E poi si sentiva un po’ solo, sempre in giro per il cielo. L’unica sua compagnia erano le stelle, la personificazione dell’aria Etere (che era uno svaporato totale), Nyx ed Emera, madre e figlia, che litigavano immancabilmente a ogni alba e tramonto. — Allora… — Urano sentì le mani sudate. Aveva dimenticato quanto potesse essere bella Gea quando non gli urlava contro. — Non sei più arrabbiata? — Affatto! — lo rassicurò lei. — E… ti va bene che io incateni i nostri figli e li getti negli abissi? Gea digrignò i denti, ma riuscì a imbastire un sorriso. — Per me è okay. — Perfetto — grugnì Urano. — Perché quei ragazzini erano davvero ORRENDI. Gea diede un colpetto al divano. — Vieni a sederti qui vicino a me, marito mio. Urano sorrise e si avvicinò con passo goffo. Non appena si fu sistemato, Crono sussurrò da dietro il masso più vicino: — Ora! I quattro fratelli balzarono fuori dai loro nascondigli. Crio si era camuffato da cespuglio. Ceo si era scavato un buco e l’aveva coperto di frasche. Iperione si era infilato sotto il divano (era un divano molto grande) e Giapeto stava cercando di farsi passare per un albero, con le braccia tese in fuori tipo rami. Non so come, ma aveva funzionato. I quattro fratelli afferrarono il padre. Ciascuno prese un arto e, lottando, lo inchiodarono a terra, braccia e gambe divaricate. Crono emerse dall’ombra. La falce di ferro splendeva alla luce delle stelle. — Ciao, papà. — Che significa questo? Gea, di’ loro di lasciarmi! — Ah! — Gea si alzò dal divano. — Tu non hai avuto pietà per i nostri figli, marito caro, quindi nemmeno tu la meriti. Oltretutto, chi si metterebbe mai in perizoma per una cena elegante? Sei disgustoso! Urano cercò di divincolarsi. — Come osi! Io sono il Signore del Cosmo! — Non più. — E Crono sollevò la falce. — Attento! Se lo fai, ehm… com’è che ti chiami tu? — CRONO! — Se lo fai, Crono — riprese Urano — ti maledirò! Un giorno anche i tuoi figli ti distruggeranno e ti ruberanno il trono, come tu stai facendo a me! Crono rise. — Lascia che ci provino. E calò la falce. Che colpì Urano proprio… be’, sapete una cosa? Non posso dirlo. Se siete dei maschietti, immaginate pure il punto più doloroso in cui potreste essere colpiti. Ecco. Lì. Urano ululò di dolore, e Crono lo fece a pezzi. Fu il più disgustoso B-movie horror che possiate immaginare. Sangue dappertutto… solo che il sangue degli dei è d’oro e si chiama icore. Le rocce ne furono tutte schizzate, e quella roba era così potente che in seguito, quando nessuno vedeva, dall’icore si sollevarono tre creature, tre demoni sibilanti: le Furie, gli spiriti della punizione. Volarono subito nell’oscurità del Tartaro. Altre gocce del sangue del cielo caddero sul terreno fertile, dove si trasformarono in creature selvagge ma miti, chiamate ninfe e satiri. La maggior parte del sangue però non fece altro che schizzare ovunque. Ve lo dico io: quelle macchie non sarebbero MAI venute via dalla maglietta di Crono. — Ben fatto, fratelli! — esclamò con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, la falce grondante sangue. Giapeto si mise a vomitare all’istante. Gli altri risero e si diedero delle gran pacche sulle spalle. — Oh, figli miei! — disse Gea. — Sono così orgogliosa di voi! Biscotti e punch per tutti! Prima di brindare, Crono raccolse i resti del padre nella tovaglia. Forse perché era arrabbiato con il fratello maggiore Oceano che non lo aveva aiutato, fatto sta che li portò al mare e ve li gettò dentro. Il sangue si mescolò con l’acqua salata e… più avanti vedrete cosa ne uscì. E ora vi chiederete: “Okay, ma se il cielo è stato ucciso, perché se guardiamo in alto lo vediamo ancora?”. Risposta: “E io che ne so?”. La mia ipotesi è che Crono avesse ucciso la forma fisica di Urano così che il dio del cielo non potesse più farsi vedere sulla terra e rivendicarne il dominio. Praticamente lo esiliarono nell’aria. Quindi non è propriamente morto, ma ora non può fare altro che essere l’innocua cupola del mondo. Comunque, Crono ritornò nella valle e i Titani fecero festa. Gea nominò Crono Signore dell’Universo. Gli fece una corona d’oro, pezzo unico griffato da collezione e quant’altro. Lui mantenne la promessa e diede ai quattro fratelli che lo avevano aiutato il controllo dei quattro angoli della terra. Giapeto diventò il Titano dell’Ovest, Iperione ebbe l’Est, Ceo il Nord e Crio il Sud. Quella sera, Crono sollevò il suo calice di nettare (che è la bevanda preferita degli immortali). Cercò di mostrare un sorriso fiducioso – perché i re dovrebbero sempre sembrare fiduciosi – anche se in realtà cominciava già a preoccuparsi per la maledizione di Urano, e cioè che un giorno i suoi stessi figli lo avrebbero detronizzato. Nonostante ciò, gridò: — Fratelli, un brindisi! Abbiamo dato inizio all’Età dell’Oro! E se vi piacciono le bugie, i furti, le pugnalate alle spalle e il cannibalismo, allora andate pure avanti a leggere, perché fu decisamente l’Età dell’Oro di tutto questo. L’ETÀ DELL’ORO DEL CANNIBALISMO All’inizio Crono non era così male. Doveva ancora diventare un perfetto sacco di… be’, insomma, di merda. E scusate il francesismo. Liberò i ciclopi maggiori e i centimani dal Tartaro, cosa che rese estremamente felice Gea. E i mostri finirono anche per risultare utili. Avevano trascorso tutto il tempo negli abissi imparando come forgiare i metalli e realizzare costruzioni di pietra (immagino non ci fosse molto altro da fare, laggiù) e così, al fine di dimostrare la loro gratitudine per la riconquistata libertà, costruirono per Crono un palazzo gigantesco, in cima al Monte Otri, che a quei tempi era la montagna più alta della Grecia. Il palazzo era tutto di marmo nero. Imponenti colonne e saloni immensi brillavano alla luce di torce magiche. Il trono era ricavato da un blocco unico di ossidiana, tempestato d’oro e di diamanti: impressionante, certo, ma forse non molto comodo. A Crono però non importava. Poteva starsene seduto lì tutto il giorno, a rimirare il mondo sotto di lui gridando maligno: — Mio! Tutto mio! I suoi cinque fratelli e le sei sorelle non discutevano mai con lui. Avevano già ottenuto i territori che volevano e comunque, dopo averlo visto brandire la falce, non avevano molta voglia di contraddirlo. Oltre a essere il re del cosmo, Crono divenne il Signore del Tempo. Non poteva spostarsi lungo la linea del tempo come Doctor Who o gente così, ma a volte riusciva a rallentarlo o ad accelerarlo. Ci riusciva per davvero! Quando siete a una lezione noiosissima che sembra non finire mai, prendetevela con Crono. O quando il fine settimana è incredibilmente troppo corto, anche in questo caso è colpa sua. Del tempo, gli interessava soprattutto il potere distruttivo. Essendo immortale, non riusciva a capire cosa potessero significare pochi brevi anni per una vita mortale. Soleva andarsene a spasso per il mondo facendo accelerare la vita delle piante e degli animali così da poterli veder sfiorire e morire, solo per divertimento. Quanto ai suoi fratelli, quelli che lo avevano aiutato a uccidere Urano avevano avuto i quattro angoli della terra, il che è un po’ strano, dal momento che i Greci credevano che il mondo fosse un grosso cerchio piatto come uno scudo, e quindi non avrebbe dovuto avere angoli, ma comunque. Crio era il Titano del Sud. Come simbolo aveva scelto l’ariete, perché la costellazione dell’ariete sorge nel cielo a sud. La sua armatura blu scuro era punteggiata di stelle, e dall’elmo sporgevano due corna di ariete. Era un tipo tenebroso e di poche parole. Se ne stava là, al confine meridionale del mondo, a guardare le costellazioni perso in pensieri profondi… O forse pensava semplicemente che avrebbe dovuto pretendere un lavoro più eccitante. Ceo, o Coio, era il Titano del Nord, e viveva al capo opposto del mondo (ovviamente). A volte veniva chiamato Polo, perché aveva il controllo del Polo Nord. Questo prima che ci si trasferisse Santa Klaus. Ceo fu anche il primo Titano ad avere il dono della profezia. In effetti koios in greco antico è un termine che ha a che fare con le domande. Faceva domande al cielo, e a volte il cielo gli bisbigliava le risposte. Da brividi? Già. Non so se comunicasse con lo spirito di Urano o cosa, ma le sue sbirciate nel futuro erano così utili che gli altri Titani cominciarono a porgli quesiti cruciali tipo: “Che tempo farà sabato?”; “Oggi Crono mi ucciderà?”; “Cosa mi metto per il ballo di Rea?”. Cose di questo genere. Alla fine Ceo tramandò il dono della profezia ai suoi figli. Iperione, il Titano dell’Est, era il più luminoso dei quattro. Dato che la luce del sole arrivava ogni mattina da est, si autoproclamò Signore della Luce. Dietro le spalle tutti lo chiamavano Crono Light, perché faceva sempre tutto quello che gli diceva il fratello ed era fondamentalmente una copia di Crono con metà delle sue calorie e sapore zero. Comunque, indossava una brillante armatura d’oro ed era noto per andare a fuoco nei momenti più impensati, il che lo rendeva molto divertente alle feste. La sua controparte, Giapeto, era più tranquillo, essendo il Titano dell’Ovest. Un buon tramonto ti fa sempre venire voglia di distenderti e rilassarti. Nonostante ciò, era meglio non farlo arrabbiare. Era infatti un eccellente lottatore e sapeva come usare un’asta acuminata. Giapeto significa “colui che punge”, e sono sicuro che non si è guadagnato questo nome applicando piercing in un centro estetico. Quanto all’ultimo fratello, Oceano, si era preso il comando delle acque che circondavano il mondo. Ecco perché le immense distese d’acqua che fanno da confine alle terre si chiamano oceani. Sarebbe potuta andare peggio. Se fosse stato Giapeto a governare le acque, oggi parleremmo di “Giapeto Atlantico” e “navigar sull’azzurro Giapeto”, e non avrebbe la stessa musicalità. Ora, prima di dedicarmi alle sei fanciulle, le Titanidi, lasciate che mi tolga il pensiero e sbrighi alcune faccende antipatiche. Sapete, alla fine i Titani cominciarono a dirsi: “Ehi, papà ha avuto Gea come moglie. E noi? Chi saranno le nostre mogli?”. Poi guardarono le Titanidi e pensarono: “Mmmh…” Lo so. State gridando: “CHE SCHIFO! Sposare le proprie sorelle?!”. Già. Anch’io lo trovo abbastanza disgustoso, ma il fatto è che i Titani non consideravano i legami famigliari nello stesso modo in cui li consideriamo noi. Prima di tutto, come ho già detto, le regole di comportamento a quei tempi erano molto più permissive. E poi non c’era una gran scelta, quando si trattava di cercare qualcuno da sposare. Non si poteva semplicemente andare su Titanmatch.com e trovare l’anima gemella. Ma, soprattutto, gli immortali sono diversi dagli umani. Vivono più o meno per sempre. Hanno poteri fighissimi. Hanno icore invece che sangue e DNA, e quindi per loro se le linee genealogiche non si combinano bene, non è un problema. È per questo che non guardano alla faccenda fratelli/sorelle allo stesso modo nostro. Tu e la ragazza che ti piace potete essere nati dalla stessa mamma, ma una volta che sei cresciuto non devi più necessariamente pensarla come tua sorella. Questa è la mia teoria. O magari invece i Titani erano solo fuori di zucca, lascio decidere a voi. Comunque, non tutti i fratelli sposarono le proprie sorelle, ma ecco una breve sintesi. La più vecchia delle Titanidi era Teia. Se si voleva attirare la sua attenzione, bastava sventolarle qualcosa di brillante davanti al naso. Lei adorava le cose luccicanti e i paesaggi inondati di luce. Ogni mattina, al ricomparire dei raggi del sole, danzava felice. Scalava le montagne solo per poter vedere per chilometri intorno a sé. Scavava gallerie sotterranee e recuperava pietre preziose, usando i suoi poteri magici per farle brillare. Teia è colei che ha dato all’oro la brillantezza e ai diamanti il loro fulgore. Diventò la titanide della vista acuta. Dato che era tutta luccichii e bagliori, finì per sposare Iperione, il Signore della Luce. Come potete immaginare, andarono molto d’accordo, però come riuscissero a dormire, con lui che brillava tutta la notte e lei perennemente a ridacchiare: “Che luce! Che luce!”, non lo so. Sua sorella Temi era esattamente l’opposto. Silenziosa e riflessiva, non cercava mai di attirare l’attenzione su di sé. Indossava sempre un semplice scialle bianco sui capelli. Si rese conto fin dalla più tenera età di avere una predisposizione naturale per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è corretto e ciò che non lo è. E quando aveva qualche dubbio, sosteneva di poter attingere saggezza dalla terra. Non credo si riferisse a Gea, però, perché sua madre aveva qualche problema riguardo al concetto di giusto e sbagliato. Comunque, tra i fratelli e le sorelle, Temi godeva di una buona reputazione. Sapeva mediare anche le peggiori discussioni. Diventò la titanide delle leggi naturali e della giustizia. Non sposò nessuno dei fratelli, il che dimostra appunto la sua saggezza. La terza sorella è Teti, e vi prometto che è l’ultimo nome con la “T” per le ragazze, perché persino io faccio confusione. Teti amava i fiumi, i ruscelli e l’acqua corrente in genere. Era molto dolce, sempre a offrire ai fratelli qualcosa da bere, sebbene questi si fossero ormai stufati di sentirsi dire che un Titano medio ha bisogno di ventiquattro grossi boccali d’acqua al giorno per mantenere l’idratazione. A ogni buon conto, Teti si considerava l’infermiera del mondo, dal momento che tutti gli esseri viventi hanno bisogno di bere. Finì per sposare Oceano, un vero e proprio decerebrato. «Ehi, ti piace l’acqua? Anche a me! Dobbiamo proprio uscire a bere qualcosa, una volta o l’altra!» Febe, la quarta sorella, viveva nel centro geografico del mondo, che per i Greci era l’Oracolo di Delfi: una sorgente sacra dove a volte, se si sapeva ascoltare, si poteva sentire qualche previsione riguardo al futuro. I Greci chiamavano quel posto omphalos, “ombelico”, del mondo, anche se non hanno mai specificato se fosse rientrante o sporgente. Febe fu tra i primi a capire come ascoltare la voce di Delfi, ma non era una di quelle veggenti tutta luci soffuse e mistero. Il suo nome significa “brillante”, e lei guardava sempre il lato positivo delle cose. Le sue profezie tendevano a essere come i biscotti della fortuna: solo e semplicemente buoni. Il che andava benissimo, immagino, se ti bastava sentire le belle notizie, ma non poi così bene se avevi qualche problema serio. Tipo, se saresti morto l’indomani, Febe probabilmente ti diceva solo: “Oh, ecco, vedo che non dovrai preoccuparti per la verifica di matematica della settimana prossima!”. Finì per sposare Ceo, quello del Nord, perché anche lui aveva il dono della profezia. Sfortunatamente si vedevano solo una volta ogni tanto, perché vivevano in due posti molto lontani. Curiosità extra: parecchio tempo dopo, il nipote di Febe, un tizio di nome Apollo, rilevò l’Oracolo. E dato che aveva ereditato i suoi poteri, a volte veniva chiamato Febo Apollo. La titanide numero cinque era Mnemosine: e, ragazzi, con la mia dislessia ho dovuto sillabare questo nome almeno venti volte, e probabilmente è ancora sbagliato. Mnemosine era nata con una memoria fotografica molto prima che qualcuno sapesse cos’era una fotografia. Davvero, non scherzo. Si ricordava tutto: i compleanni delle sorelle, i compiti, portare fuori la spazzatura, dare da mangiare ai gatti. Per certi versi era okay. Teneva gli annali di famiglia e non dimenticava mai, mai niente. Ma a volte averla intorno era uno sfinimento, perché non permetteva a nessuno di scordare nemmeno il più piccolo particolare. Quella cosa imbarazzante che avevi fatto quando avevi otto anni? Ebbene sì, lei se la ricordava. La promessa che le avresti restituito il prestito? Se la ricordava, tranquillo. Ma la cosa peggiore era che Mnemosine si aspettava che anche gli altri avessero un’ottima memoria. Pensando di rendersi utile, inventò le lettere e la scrittura, così che tutti noi poveri mentecatti privi dell’ottima memoria sopra citata potessimo tenere traccia permanente di ogni cosa. Diventò la titanide della memoria, soprattutto della memorizzazione meccanica. La prossima volta che dovete studiare una poesia o imparare le capitali degli stati senza nessuna ragione plausibile, ringraziate Mnemosine. Questo tipo di compiti sono stati solo ed esclusivamente una sua idea. Nessuno dei Titani volle sposarsela. Indovinate perché. E finalmente, la sorella numero sei: Rea. Povera Rea. Era la più dolce e la più bella delle Titanidi, il che ovviamente significa che a lei toccarono tutte le sfortune e la vita peggiore. Il suo nome vuol dire sia “alta marea” sia “tranquillità”, ed entrambe le definizioni le stanno a pennello. Arrivava con la marea e infondeva tranquillità nelle persone mettendole a proprio agio. Vagava per le vallate della terra facendo visita ai fratelli e alle sorelle e chiacchierando con le ninfe e i satiri che erano nati dal sangue di Urano. In più amava gli animali; il suo preferito era il leone. Nei dipinti che la raffigurano se ne vedono sempre un paio al suo fianco, cosa che la faceva stare in una botte di ferro quando se ne andava a spasso, persino nei quartieri più malfamati. Rea diventò la titanide della maternità. Adorava i bambini e aiutava le sorelle durante il parto. Tanto che alla fine, quando ebbe figli suoi, si guadagnò il titolo di Grande Madre. Purtroppo, prima che questo potesse accadere, dovette sposarsi, che è il motivo per cui cominciarono i problemi… Oh, ma era tutto così fantastico! Cos’è che poteva andare storto? Questo pensava la Madre Terra Gea. Era talmente soddisfatta di vedere i suoi ragazzi prendersi cura del mondo che decise di tornare a sprofondarsi nella terra e per un po’ essere soltanto… terra, appunto. Ne aveva passate così tante! Aveva avuto diciotto figli… un po’ di riposo se lo meritava. Era certa che Crono avrebbe pensato a tutto e sarebbe stato un buon re per l’eternità. (Già, proprio.) Così si predispose a fare un bel sonnellino, che in termini geologici significava qualche millennio. Nel frattempo i Titani cominciarono ad avere figli, che andarono a formare la seconda generazione di Titani. Oceano e Teti, il signor e la signora Acqua, ebbero una figlia di nome Climene, che fu la divinità della fama. Immagino fosse così fissata con la fama perché era cresciuta sul fondo dell’oceano, dove non succedeva mai niente. Tutto quello che le interessava erano pettegolezzi e riviste mondane, oltre che aggiornarsi sulle ultime notizie da Hollywood… o almeno le sarebbe interessato, se Hollywood fosse esistita. Come molte persone ossessionate dalla celebrità, andò in California. Finì per innamorarsi del Titano dell’Ovest, Giapeto. Lo so, tecnicamente era suo zio… Ma, come ho già detto, per i Titani era diverso. Il mio consiglio è di non soffermarsi troppo sui particolari. Comunque, Giapeto e Climene ebbero un figlio di nome Atlante, che si rivelò un grande lottatore, ma anche un grande fesso. Quando crebbe, diventò il braccio destro di Crono e il suo sicario di fiducia. Dopo di lui, Giapeto e Climene ebbero un altro figlio di nome Prometeo, intelligente quasi quanto Crono. Secondo alcune leggende, fu Prometeo a inventare una forma di vita inferiore di cui probabilmente avete sentito parlare: la specie umana. Un giorno era lì a trastullarsi sulla riva di un fiume fabbricando statuette di argilla, quando si accorse di avere scolpito una coppia di buffe figurine che somigliavano ai Titani, solo molto più piccole e facili da distruggere. Forse nell’argilla c’era qualche goccia di sangue di Urano, o forse Prometeo ci soffiò sopra di proposito, non lo so. Sta di fatto che le creature di argilla presero vita e diventarono i primi due esseri umani. Pensate che si sia guadagnato una medaglia per questo? Noooo. I Titani guardarono a quegli umani come noi potremmo guardare ai gerbilli. Alcuni di loro li giudicarono carini, ma talmente poco longevi che non servivano a granché. Altri pensarono che fossero disgustosi roditori. E altri ancora non li degnarono di uno sguardo. Quanto agli umani, per lo più si riparavano nelle caverne e sgambettavano in giro cercando di non essere calpestati. I Titani continuarono a generare altri Titani. Non li citerò tutti, altrimenti dovremmo starcene qui per tutta la durata del pisolino di Gea; dirò solo che Ceo e Febe, la coppia delle profezie, ebbero una figlia di nome Leto, che decise di essere la protettrice della gioventù. Fu la prima baby-sitter. Le mamme e i papà titani erano sempre felicissimi di vederla. Iperione e Teia, signor e signora Lucentezza, ebbero due gemelli, che chiamarono Elio e Selene, a cui furono affidati il sole e la luna. Vi torna, giusto? Non c’è niente di più luminoso del sole e della luna. Ogni giorno Elio guidava il carro del sole nel cielo, anche se questo gli faceva accumulare un sacco di chilometri. Lui però pensava di essere molto figo, e aveva la sgradevole abitudine di chiamarlo il suo “bolide acchiappa-ragazze”. Selene non era altrettanto appariscente. Guidava il suo carro della luna attraverso il cielo notturno, e generalmente se ne stava per conto suo, anche se la volta che si innamorò davvero si trattò della storia più triste mai sentita. A ogni buon conto, c’era un Titano che non si era sposato e non aveva figli, ovvero Crono, il Signore dell’Universo. Se ne stava semplicemente seduto sul suo trono nel palazzo sul Monte Otri, e più gli altri se la spassavano più lui si imbronciava. Ricordate la maledizione con cui Urano lo aveva minacciato, che un giorno o l’altro i suoi figli lo avrebbero detronizzato? Crono non riusciva a togliersela dalla testa. All’inizio si era detto: “Vabbè, che sarà mai. Basta che non mi sposi, così non avrò figli!”. Ma è brutto starsene da soli quando tutti intorno a te si sistemano e mettono su famiglia. Crono si era guadagnato il trono in modo onesto e leale, ma quella maledizione faceva svanire il piacere di aver fatto a pezzi suo padre. Ora, mentre gli altri si godevano la vita, lui doveva stare attento a non farsi destituire. No, non era per niente bello. I suoi parenti non erano più assidui come un tempo. Dopo che Gea se ne era tornata nella terra, avevano smesso di venire a palazzo per il pranzo della domenica. Dicevano che erano terribilmente occupati, ma Crono sospettava che i fratelli, le sorelle e i nipoti semplicemente avessero paura di lui. E in effetti aveva ereditato il caratteraccio del padre e la stessa indole crudele. La sua falce poi era decisamente minacciosa, e in più lui aveva la tendenza un po’ spiazzante a gridare: “Vi uccido tutti!” ogni volta che qualcuno lo faceva arrabbiare. Ma cosa poteva farci se era così? Un mattino si mise davvero a dare i numeri. Si svegliò perché un ciclope stava martellando un pezzo di bronzo proprio fuori dalla finestra della sua camera da letto. Alle sette del mattino di un fine settimana! Come aveva promesso a sua madre, Crono aveva liberato i ciclopi e i centimani dal Tartaro, ma cominciava ad averne davvero abbastanza di quei parenti così brutti, che oltretutto diventavano sempre più ributtanti a mano a mano che invecchiavano. Puzzavano come i WC chimici degli stadi, non curavano per niente la propria igiene personale e in più erano incredibilmente rumorosi: costruivano cose, martellavano metalli, spaccavano pietre. Erano stati molto utili per erigere il palazzo, ma ora erano solo una gran rottura. Chiamò allora Atlante, Iperione e un paio di altri suoi sicari. Questi circondarono i ciclopi e i centimani e dissero che sarebbero andati tutti a fare una bella gita in campagna in cerca di fiori selvatici. Poi balzarono loro addosso, li avvolsero di nuovo nelle catene e li rispedirono nel Tartaro. Se Gea si fosse svegliata, non ne sarebbe stata contenta… E allora? Adesso Crono era il re. Volente o nolente, mammina avrebbe dovuto accettarlo. A palazzo la vita proseguì molto più tranquilla, ma Crono aveva ancora un altro motivo per essere di cattivo umore. Non era giusto che lui non potesse avere una ragazza. Anche perché ne aveva in mente una in particolare. Segretamente si era preso una cotta per Rea. Rea era bellissima. Ogni volta che la famiglia si radunava, Crono le lanciava occhiate furtive. Se si accorgeva che altri maschi flirtavano con lei, li prendeva in disparte per una conversazione privata, con la falce in mano, e li metteva in guardia dal riprovarci. Adorava il modo di ridere di Rea. Il suo sorriso era più luminoso del bolide acchiapparagazze di Elio… cioè, del sole. Amava il modo in cui i riccioli neri le sfioravano le spalle. I suoi occhi erano verdi come i prati, e le labbra… be’, Crono quelle labbra sognava di baciarle. E poi Rea era dolce e gentile, e tutti le volevano bene. Crono pensò: “Se soltanto avessi una moglie come lei, i miei famigliari non avrebbero tutta questa paura di me. Si presenterebbero a palazzo più spesso. Rea mi insegnerebbe a essere un Titano migliore. La vita sarebbe meravigliosa!”. Ma un’altra parte di lui pensava: “No! Non posso sposarmi, per via di quella stupida maledizione!”. Così scalpitava in preda alla frustrazione. Lui era il re dell’universo! Poteva fare tutto quello che voleva! Forse Urano aveva solo voluto spaventarlo, e in realtà non c’era nessuna maledizione. O forse sarebbe stato fortunato e non avrebbe avuto figli. Prendi nota: se stai cercando di non avere figli, non sposare una che è la titanide della maternità. Crono alla fine non ce la fece più. Invitò Rea a una cena romantica e le confessò i propri sentimenti. E lì su due piedi le chiese di sposarlo. Ora non so se Rea lo amasse o no. Nella seconda ipotesi, immagino fosse troppo spaventata per dirglielo. Lui era Crono il Bastardo, dopotutto, il tizio che aveva ucciso il loro padre. Il re dello stramaledetto universo. E non aiutava nemmeno che per tutto il tempo della cena la falce fosse rimasta appesa a un gancio sul muro dietro di lui, con la lama luccicante che, alla fiamma delle candele, sembrava ancora ricoperta di icore dorato. Rea accettò di sposarlo. Forse pensava di riuscire a redimerlo. Forse anche Crono ci credeva. Fecero una bellissima luna di miele. Qualche settimana dopo, quando Crono seppe che (sorpresa! sorpresa!) Rea aspettava il loro primo figlio, cercò di convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio. Era felice. Non sarebbe mai stato un cattivo padre come Urano. Non importava che il bambino fosse un maschietto o una femminuccia. Lui lo avrebbe amato comunque, e avrebbe dimenticato la vecchia maledizione. E poi il figlio nacque: era una bellissima bambina. Intimamente Rea aveva temuto che suo figlio potesse nascere ciclope o centimano. Probabilmente anche Crono si era stressato per questo. Invece no. La bambina era perfetta. Anzi, forse lo era persino un po’ troppo. Rea la chiamò Estia. La avvolse in una morbida coperta e la mostrò all’orgoglioso papà. All’inizio Crono sorrise: la bimba non era un mostro. Fantastico! Ma quando le solleticò il mento e la guardò negli occhi facendo i soliti teneri gorgoglii che si fanno a un neonato, si accorse che Estia non era affatto un Titano. Era più piccola di un bambino Titano, ma più forte e dalle proporzioni perfette. E gli occhi erano fin troppo intelligenti per una neonata. Irradiava potere. Con la sua conoscenza del tempo, Crono poté figurarsi che aspetto avrebbe avuto una volta cresciuta. Sarebbe stata più bassa dei Titani, ma capace di grandi imprese. Avrebbe superato qualsiasi Titano in qualunque cosa avesse scelto di eccellere. Estia era una versione migliorata dei Titani: Titano 2.0, Titani, il ritorno. E infatti non era un Titano. Era una dea: il primo individuo di un ramo totalmente nuovo dell’evoluzione degli immortali. Guardandola, Crono si sentì come un vecchio cellulare davanti all’ultimo modello di smartphone. Seppe all’istante che i suoi giorni erano contati. Il sorriso orgoglioso da bravo papà si spense. A quella bambina non doveva essere permesso di crescere, o la profezia di Urano si sarebbe avverata. Doveva agire in fretta. Sapeva che Rea non avrebbe mai acconsentito che sua figlia venisse uccisa, e poi si portava sempre appresso quegli stupidi leoni. E lui non poteva mettersi a lottare nella sala del trono. Non poteva nemmeno prendere la falce, con la bambina in braccio. Doveva sbarazzarsi di Estia immediatamente e definitivamente. Aprì la bocca, la spalancò al massimo, più di quanto avesse mai creduto di poter fare. La mandibola si disarticolò come quella di certi serpenti che possono papparsi una mucca in un sol boccone. Ci cacciò dentro Estia e la inghiottì. Un solo glup, e la piccola era sparita. Come potete facilmente immaginare, Rea diede in escandescenze. — Mia figlia! — strillò. — Tu… hai appena… — Oh, accidenti — disse Crono con un rutto. — Che sbadato. Mi dispiace. A Rea schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. Se possibile, urlò ancora di più. Si sarebbe lanciata contro Crono per tempestarlo di pugni, o avrebbe ordinato ai leoni di attaccarlo, ma aveva paura di far male alla bambina imprigionata dentro di lui. — Vomitala fuori! — lo implorò. — Non posso — rispose Crono. — Ho uno stomaco di ferro. Una volta che va giù qualcosa, non può più uscire. — Ma come hai potuto inghiottirla? — continuò a gridare Rea. — Era la nostra bambina! — Già, a proposito di questo… — Crono cercò di assumere un’espressione contrita. — Ascoltami, tesoro, con quella bambina le cose non avrebbero funzionato. — Funzionato?! — È per via della maledizione. — Crono le raccontò quello che Urano aveva profetizzato. — Insomma, andiamo, pasticcino mio! Quella bambina non era nemmeno un Titano vero e proprio. Avrebbe creato un sacco di problemi, te lo dico io! Il prossimo verrà meglio, ne sono certo. Il che gli sembrava decisamente ragionevole, ma chissà perché Rea non fu per niente d’accordo. Si precipitò fuori dalla sala, furibonda. Penserete che non lo avrebbe mai perdonato. Insomma, vostro marito si mangia il primo figlio come un hamburger farcito… Una madre normale se la legherebbe al dito. Ma la situazione di Rea era complicata. Prima di tutto, Crono aveva inghiottito la piccola Estia tutta intera. Tecnicamente, come i genitori, la bimba era immortale. Non poteva morire, persino nello stomaco del padre. Vomitevole? Sì. Un filino claustrofobico? Potete scommetterci. Ma mortale? No. “È ancora viva” si consolava Rea. “Troverò il modo di tirarla fuori.” Questo la calmò un poco, anche se non aveva ancora elaborato un piano. Non poteva ricorrere alla forza: era una titanide mite. Anche se avesse cercato di combattere, la maggior parte dei Titani più forti, come Iperione e quel tirapiedi di Atlante, avrebbero spalleggiato Crono. Non poteva nemmeno tentare un attacco a sorpresa con un coltello o la falce, o persino con i suoi leoni, perché avrebbe potuto fare del male alla bambina. Forse ora starete pensando: “Aspetta un attimo, se la bimba era immortale, perché Rea si preoccupava di poterle fare del male?”. Vedete, anche gli immortali possono essere feriti gravemente, storpiati o mutilati. Una ferita può non ucciderli, ma anche loro non sempre riescono a guarire: possono restare storpi per l’eternità. Ne avrete qualche esempio più avanti. Rea non aveva nessuna intenzione di squartare Crono e rischiare di tagliare anche la sua bambina, perché vivere senza un pezzo di corpo non è certo bello, soprattutto quando ti tocca vivere per sempre. Non poteva divorziare da Crono, perché il divorzio non era ancora stato inventato. E in ogni caso, lei era troppo terrorizzata per provarci. Non la si può certo biasimare. Come avrete senz’altro notato, Crono era decisamente un brutto soggetto. E Rea questo lo sapeva sin da quando lui aveva fatto a pezzi il padre e poi se n’era andato in giro durante la festa post-assassinio, con la tunica tutta macchiata di icore, gridando: — Fantastico parricidio, ragazzi! Batti il cinque! Non poteva scappare, perché Crono era il signore di tutto il mondo. A meno che non volesse tuffarsi nel Tartaro (ipotesi da non considerare), non aveva un posto dove andare. Non le restava che tener duro, prendere tempo e aspettare finché non avesse trovato un modo per tirare fuori Estia. Crono cercò di essere carino con lei. Le fece dei regali e la portò fuori a cena, come se questo potesse farle dimenticare la figlioletta che lui aveva nello stomaco. Quando Crono pensò che fosse passato abbastanza tempo – tipo tre o quattro giorni – cominciò a insistere per avere altri figli. Perché? Forse desiderava inconsciamente la morte. Forse era diventato così ossessionato dalla profezia di Urano che voleva vedere se il prossimo figlio sarebbe stato un vero Titano o un altro di quegli orribili, troppo potenti e assolutamente perfetti piccoli dei. Così Rea ebbe un secondo bambino: un’altra femmina, ancora più bella della prima. La chiamò Demetra. E osò sperare. Demetra era così adorabile che forse avrebbe fatto sciogliere anche il cuore di Crono. Non poteva certo sentirsi minacciato da quel fagottino di gioia. Crono prese la bimba tra le braccia e si accorse subito che Demetra era un’altra dea. Brillava di un’aura ancora più potente di quella di Estia. E questo significava una sola cosa: problemi con la P maiuscola. Questa volta non ebbe nemmeno un attimo di esitazione. Spalancò la bocca e la inghiottì all’istante. Vi lascio immaginare la crisi isterica della mamma. Vi lascio immaginare le giustificazioni con cui il papà cercò di scagionarsi. Rea era veramente tentata di scatenare i suoi leoni, ma adesso la posta in gioco era ancora più alta. Dentro la pancia Crono aveva due figlie. Lo so, lo stomaco del Signore dei Titani cominciava a essere un po’ affollato. Ma gli dei sono abbastanza flessibili in fatto di taglia. A volte sono enormi. A volte non sono più grandi degli umani. Io non c’ero nello stomaco di Crono, fortunatamente, ma posso solo ipotizzare che le due bimbe immortali avessero fatto in modo di restare piccole. Continuarono a maturare, ma senza crescere. Erano come germogli che si arrotolavano sempre più stretti su se stessi, sperando un giorno di poter sbocciare. E ovviamente pregando che Crono non buttasse giù salsa piccante. Povera Rea. Crono insistette per provare ancora. — Col prossimo andrà meglio — promise. — Vedrai che non dovrò mangiare più nessun bambino! Il terzo figlio? Anche quello una femmina. Rea la chiamò Era, e questa fu addirittura la meno titanica, la più divina. Rea era davvero la Grande Madre. Anzi, era persino un po’ troppo brava: ogni figlia che aveva avuto era migliore e più potente della precedente. Non avrebbe voluto mostrare la piccola Era a Crono, ma anche a quei tempi era una tradizione: il papà doveva prendere in braccio il neonato. Si trattava di una di quelle leggi naturali su cui Temi aveva sempre insistito (a dire il vero, c’era anche una legge naturale che proibiva di mangiare i propri figli, ma Temi aveva troppa paura per farne cenno a Crono). E così Rea si fece coraggio. — Mio signore, ti presento tua figlia Era. GLUP. Questa volta Rea lasciò la sala del trono senza nemmeno fare una scenata. Era troppo addolorata, disperata e incredula. Aveva sposato un bugiardo compulsivo, assassino e cannibale. Poteva andare peggio di così? Oh, un momento! Crono era anche il re dell’universo, con una nutrita schiera di gorilla ai suoi ordini, quindi lei non poteva certo ribellarsi e fuggire. Appunto. Certo che poteva andare peggio. Altre due volte Rea diede alla luce perfetti e adorabili neonati divini. Il quarto bambino era un maschio e fu chiamato Ade. Rea sperò che Crono lo avrebbe lasciato vivere, perché ogni papà vuole un figlio maschio con cui giocare a pallone, giusto? Niente da fare. Giù anche lui per il passavivande! Il quinto figlio era un altro maschio, Poseidone. Stessa storia. Slurp. A questo punto, Rea fuggì da palazzo. Pianse e gemette e non sapeva più che fare. Andò dai fratelli e dalle sorelle, dai nipoti e dalle nipoti, ma nessuno volle starla a sentire. Implorò aiuto. Gli altri Titani però o avevano troppa paura di Crono (come Temi) o lavoravano per lui (come Iperione), e le dissero di smetterla di lagnarsi. Alla fine Rea andò a trovare la sorella Febe, all’Oracolo di Delfi, ma purtroppo nemmeno l’Oracolo poté darle consiglio. Corse allora sul prato più vicino, si gettò a terra e cominciò a piangere. All’improvviso, udì un mormorio salire dal terreno. Era la voce di Gea, che ancora dormiva; ma persino nei sogni la Madre Terra non poteva sopportare di udire il pianto della sua adorata figlia. Quando starai per dare alla luce il tuo prossimo figlio, bisbigliò la voce, vai a partorire a Creta! Là troverai aiuto! Questo bambino sarà diverso! Salverà tutti gli altri. Rea tirò su col naso e cercò di ricomporsi. — Dov’è Creta? È un’isola giù a sud, disse la voce di Gea. Devi prendere il mar Ionio verso, direi, Kalamata. Poi gira a sinistra e… be’, sai che ti dico? Non preoccuparti, la troverai. Quando si avvicinò il momento del parto, e Rea cominciò a essere davvero molto grossa, fece qualche respiro profondo, chiamò a raccolta tutto il proprio coraggio e caracollò nella sala del trono. — Crono, mio signore — annunciò — parto per Creta. Tornerò con il bambino. — Creta? — si accigliò Crono. — Perché Creta? — Be’, ecco — disse Rea — sai che Ceo e Febe a volte riescono a dare uno sguardo al futuro? — Ebbene? — Non voglio rovinarti la sorpresa, ma hanno profetizzato che se avrò questo bambino a Creta, ti piacerà più di tutti gli altri! E ovviamente, mio signore, farei qualsiasi cosa per compiacerti! Crono aggrottò la fronte. La faccenda lo insospettiva, ma pensò: “Insomma, le ho mangiato cinque figli, e lei è ancora qui. Se avesse voluto organizzare qualcosa di losco, lo avrebbe già fatto”. In più, ormai aveva la mente un po’ offuscata. Si ritrovava cinque giovani dei che vagavano nel suo stomaco lottando per farsi spazio, quindi si sentiva sempre come se avesse mangiato troppo e avesse bisogno di schiacciare un sonnellino. Voglio dire, cinque dei nella pancia, accidenti! Abbastanza per un tennis doppio con in più l’arbitro. Erano là dentro da così tanto tempo che probabilmente stavano sperando che Crono inghiottisse un mazzo di carte o un Monopoli. Comunque, Crono guardò Rea e disse: — Mi porterai subito il bambino? — Certo. — Allora va bene. Vai pure. Dov’è Creta? — Non lo so di preciso — rispose Rea. — Ma la troverò. E così fece. Una volta là, incontrò subito alcune ninfe molto collaborative che come lei avevano udito la voce di Gea. La condussero in una caverna comoda e appartata ai piedi del Monte Ida. Lì vicino scorreva il loro ruscello, così Rea aveva sempre acqua fresca a disposizione. E la rigogliosa foresta forniva cibo in abbondanza. Lo so, lo so: gli immortali vivevano principalmente di nettare e ambrosia, ma in caso di necessità potevano mangiare anche altra roba. Essere un dio non avrebbe niente di divertente se ogni tanto non ci si potesse fare una buona pizza. Rea partorì un robusto maschietto. E questo era davvero il più bello di tutti. La mamma lo chiamò Zeus, che a seconda delle persone a cui chiedete può significare o “cielo” o “splendore” o semplicemente “vivere”. Personalmente voto per l’ultimo significato, perché penso che a questo punto Rea nutrisse per suo figlio un’unica speranza: che rimanesse vivo e possibilmente lontano da stomaci ostili. Zeus cominciò a piangere, forse perché percepiva l’ansia della madre. Il suo vagito riecheggiò nella caverna e si propagò nel mondo così forte che tutti seppero che era nato un nuovo bambino. — Oh, fantastico — borbottò Rea. — Ho promesso di portare immediatamente il bimbo a Crono. Ora gli giungerà all’orecchio che è arrivata l’ora del pasto a base di neonato. Il pavimento della caverna tremò, e dalla polvere emerse una grossa pietra, una roccia liscia e ovale esattamente dello stesso peso e dimensioni del piccolo dio. Rea non era stupida e intuì subito che quello era un dono di Gea. Normalmente nessuno sarebbe entusiasta che la madre gli regalasse un sasso, ma Rea capì cosa fare con quella pietra. L’avvolse nelle fasce e affidò il vero Zeus alle ninfe. Sperava solo, una volta tornata a palazzo, di riuscire a portare a termine con successo la sostituzione. — Verrò a trovarvi ogni volta che posso — promise alle ninfe. — Ma voi sarete in grado di prendervi cura del piccolo? — Non preoccuparti — disse una di loro di nome Neda. — Gli daremo da mangiare il miele delle api che vivono qui intorno. E quanto al latte, abbiamo una fantastica capra immortale. — Una cosa? — chiese Rea. Le ninfe le portarono la capra Amaltea, che produceva un eccellente latte magico in mille gusti diversi, compreso “a basso contenuto di grassi”, “cioccolato” e “formula per neonati”. — Bella capra — ammise Rea. — Ma se il piccolo piange? Avrete senz’altro già notato che è fornito di ottimi polmoni. E Crono ha un udito finissimo. Potrebbe sospettare qualcosa. Neda considerò la faccenda. Poi condusse Rea all’entrata della caverna e chiamò la Madre Terra: — Oh, Gea! So che stai dormendo, e mi dispiace disturbarti. Ma avremmo bisogno di aiuto per sorvegliare questo ragazzino! Preferibilmente un aiuto molto rumoroso! La terra rombò, e ne emersero tre nuovi collaboratori, nati dalla polvere e dal sangue sparso di Urano (come già detto, quella roba era schizzata ovunque). Si trattava di grossi e pelosi umanoidi, coperti di pelo, piume e cuoio come se fossero diretti a una festa in maschera a tema “La Preistoria”. Erano armati di aste e scudi, e quindi sembravano più cacciatori di teste che balie. — SIAMO I CURETI! — gridò uno dei tre con quanto fiato aveva in corpo. — AIUTEREMO NOI! — Grazie — rispose Rea. — Ma dovete sempre parlare così forte? — QUESTA È LA MIA VOCE INTERIORE! — strillò il guerriero. Il piccolo Zeus ricominciò a piangere. Immediatamente i tre guerrieri si produssero in alcuni passi di danza tribale, battendo le spade sugli scudi, gridando e cantando. E coprirono completamente il pianto del bimbo. Per non si sa quale ragione, al piccolo tutto quel rumore sembrò andare a genio. Si addormentò beato tra le braccia di Neda, e i Cureti smisero di fare chiasso. — Okay, bene — disse Rea con le orecchie assordate. — Pare che abbiate la situazione sotto controllo. — Prese in braccio il finto neonato. — Auguratemi buona fortuna. Una volta tornata sul Monte Otri, si precipitò nella sala del trono con il suo sasso in fasce. Era terrorizzata che il piano potesse fallire, ma dopo così tanti anni come sposa di Crono aveva imparato a essere una brava attrice. Si presentò decisa al re cannibale e gridò: — Ecco, questo è il più bel bambino in assoluto! Uno splendido maschietto di nome… Rocky! E immagino che te lo mangerai! Crono fece una smorfia. A dire la verità, il pensiero di dover inghiottire un altro piccolo dio non lo entusiasmava. Era strapieno! Ma quando sei re, il dovere innanzi tutto. — Già… Mi dispiace, tesoro — disse. — Devo proprio. La profezia e tutte quelle cose là. — Ti odio! — sibilò Rea. — Urano sarà anche stato un padre orribile, ma almeno non ci mangiava! — Dammi quel bambino! — ringhiò Crono. — No! Crono lanciò un urlo possente. Disarticolò le mascelle e spalancò la bocca all’inverosimile. — Ora! Afferrò il fagotto di fasce e se lo cacciò in gola senza nemmeno guardarlo, proprio come Rea aveva sperato. Dentro la sua pancia, i cinque giovani dei non digeriti sentirono la pietra rotolare lungo l’esofago. — Sta arrivando! — gridò Poseidone. Si spostarono più che poterono in quello spazio ristretto, e Rocky atterrò in mezzo a loro. — Ma questo non è un bambino — fece notare Ade. — Credo sia una pietra. Proprio un acuto osservatore, eh? Nel frattempo, nella sala del trono, Rea improvvisò una scenata da Oscar. Prese a urlare e a battere i piedi e a insultare Crono con i peggiori epiteti. — Rocky! — gemeva. — Nooooo! Crono cominciò ad accusare un brutto mal di stomaco. — Quest’ultimo ragazzino mi ha proprio riempito — si lamentò. — Cosa gli davi da mangiare? — E che cosa te ne importa? — gemette Rea. — Non farò più figli, mai più! Crono si dichiarò d’accordo. Era decisamente sazio. Rea corse via piangendo, e lui non cercò nemmeno di fermarla. Finalmente a palazzo le cose si acquietarono. Crono era convinto di aver neutralizzato la maledizione di Urano. Senz’altro i suoi figli non avrebbero potuto spodestarlo, perché lui sapeva dov’erano in ogni momento. Era il re del cosmo, e nessuno l’avrebbe mai detronizzato! Intanto Rea si recava al Monte Ida ogni volta che poteva. Il suo bambino cresceva, e lei si premurò di raccontargli un sacco di fiabe della buonanotte sul suo orribile padre e i cinque fratelli non digeriti che aspettavano solo di essere tirati fuori dalle viscere del mostro. Quindi ormai avrete capito che quando Zeus sarà grande abbastanza, ci sarà uno scontro padre-figlio di proporzioni epiche. Se per Crono e i suoi Titani volete un “e vissero sempre felici contenti”, allora smettete pure di leggere. Perché nel prossimo capitolo, Zeus scatenerà una guerra nucleare. GLI OLIMPI SFONDANO QUALCHE TESTA Sul Monte Ida Zeus ebbe un’infanzia felice. Trascorreva le giornate a correre per la campagna assieme alle ninfe e ai satiri, imparava a combattere con i suoi rumorosi amici Cureti, si faceva scorpacciate di miele e latte magico di capra (slurp!) e ovviamente non andava mai a scuola, perché la scuola non era ancora stata inventata. Crescendo, si trasformò in un gran bel tipo: un giovane dio abbronzato e muscoloso grazie a tutto il tempo passato nella foresta e sulla spiaggia. Aveva capelli corti e neri, una barba ben curata e occhi azzurri come il cielo, che però potevano rannuvolarsi molto velocemente se si arrabbiava. Un giorno andò a trovarlo mamma Rea, con il suo cocchio tirato dai leoni. — Zeus — gli disse — devi trovarti un lavoretto per l’estate. Zeus si grattò la testa. La parola “estate” gli piaceva. Non era altrettanto sicuro che gli piacesse la parola “lavoro”. — Cos’avresti in mente? Gli occhi di Rea brillarono. Era da parecchio che programmava la sua vendetta contro Crono. Ora, guardando il figlio – così sicuro di sé, forte e bello – capì che il momento era arrivato. — A palazzo c’è un posto vacante da coppiere — gli spiegò. — Ma io non ho nessuna esperienza nel maneggiare le coppe — ribatté Zeus. — È facile — lo rassicurò Rea. — Ogni volta che il re Crono chiede da bere, tu glielo porti. La paga non è alta, ma il lavoro presenta un sacco di vantaggi: per esempio, la possibilità di spodestare tuo padre e diventare il Signore del Creato. — In effetti, per questo mi sento proprio portato — considerò Zeus. — Ma non è che poi Crono si accorge che sono un dio? — Ci ho pensato — rispose Rea. — I tuoi fratelli sono sopravvissuti nella sua pancia per tutti questi anni e come te sono ormai adulti. Ciò significa che devono avere il potere di cambiare forma e dimensioni. E anche tu dovresti avere questa capacità. Vedi un po’ se riesci ad apparire meno divino, più… Titanoso. Zeus si mise a riflettere. Aveva già scoperto di essere capace di cambiare forma. Una volta aveva spaventato la sua tata ninfa trasformandosi in un orso. Un’altra aveva vinto una corsa con i satiri trasformandosi in un lupo. Secondo i satiri aveva imbrogliato, ma era assolutamente falso. Era una gara di corsa, no? E i lupi corrono. Non si era mica trasformato in un’aquila (cosa che avrebbe potuto benissimo fare)! L’unico Titano che Zeus avesse mai visto da vicino era sua madre, ma sapeva che in genere erano più grossi di lui. Però non irradiavano il suo stesso potere. Emanavano una vibrazione leggermente diversa: più violenta, e con una sfumatura più rozza. Immaginò se stesso come Titano, e quando riaprì gli occhi, per la prima volta si ritrovò più alto di sua madre. Si sentiva come se avesse dormito male dopo una brutta giornata trascorsa a strangolare nemici. — Ottimo! — esclamò Rea. — E ora andiamo a fare questo colloquio di lavoro. Quando Zeus vide il Monte Otri per la prima volta, rimase a bocca aperta per lo stupore. Il palazzo era enorme. Le sue lucenti torri nere svettavano fra le nuvole come dita minacciose pronte ad afferrare le stelle. La fortezza doveva incutere paura, Zeus lo capì immediatamente. Ma sembrava anche tetra e solitaria: certo non un posto divertente dove vivere. Decise che se mai avesse avuto una casa sua, sarebbe stata molto più accogliente. Non sarebbe andato giù pesante con lo stile “Signore delle Tenebre”. Il suo palazzo sarebbe stato di un bianco abbagliante. “Una cosa per volta” si disse. “Prima devo portare le coppe.” Rea lo scortò nel salone del trono, dove il vecchio re cannibale stava sonnecchiando sul trono. Gli anni non erano stati clementi con lui, il che era ironico, dal momento che era il Signore del Tempo. Non era propriamente invecchiato, ma sembrava stanco e apatico. Far appassire e perire le forme di vita mortale non lo divertiva più. E calpestare gli uomini non lo faceva più ridere come una volta, nonostante i loro flebili strepiti così gradevoli. A furia di bere e mangiare troppo aveva messo su peso, e avere cinque dei nella pancia non aiutava di certo. Anche loro nel corso degli anni erano diventati più grandi e pesanti. Cercavano continuamente di guadagnare l’uscita arrampicandosi su per la gola del padre. I loro sforzi non avevano successo, ma provocavano a Crono un fastidiosissimo reflusso. Rea si avvicinò al trono. — Mio signore, vorrei che tu conoscessi una persona! Crono grugnì e aprì gli occhi. — Non ero addormentato! — si affrettò a dire. Batté le palpebre alla vista del meraviglioso Titano ritto davanti a lui. — Chi…? Il giovane immortale fece un profondo inchino. — Mi chiamo Zeus, mio signore. — Aveva deciso di usare il suo vero nome perché tanto Crono non l’aveva mai sentito. — Vorrei offrirmi come tuo coppiere. Crono studiò il viso del nuovo arrivato. Vi ravvisava qualcosa di vagamente familiare: uno scintillio negli occhi, il sorriso sbilenco. Ovviamente tutti i Titani erano imparentati. Forse era per quello. Lui aveva ormai così tanti nipoti che non riusciva nemmeno a ricordarseli tutti. Eppure, trovava questo giovanotto un po’ inquietante… Si guardò intorno, cercando di ricordarsi esattamente chi glielo avesse presentato, ma Rea si era già ritirata nell’ombra. Crono aveva lo stomaco troppo pieno e i pensieri troppo confusi per rimanere sospettoso a lungo. — Bene — disse al ragazzo. — Hai già qualche esperienza come coppiere? Zeus sorrise. — No, mio signore, ma sono uno che impara in fretta. E so anche cantare, danzare e raccontare barzellette sui satiri. Subito intonò una canzone che gli avevano insegnato le ninfe. Poi si esibì in un paio di movimenti di danza dei Cureti. Era la cosa più interessante che succedesse sul Monte Otri da un bel pezzo. Altri Titani si radunarono nella sala del trono per dare un’occhiata. Ben presto tutti ridevano e applaudivano. Persino Crono aveva un gran sorriso stampato in faccia. — Sei assunto — disse alla fine. — A proposito, ho sete. — Boccale in arrivo! — E Zeus si diresse svelto verso le cucine, dove riempì di nettare ghiacciato un calice d’oro. Non ci volle molto perché diventasse il servitore più famoso di tutto il palazzo. Portava coppe come se lo facesse da sempre. Il suo canto era limpido come i ruscelli del Monte Ida. Le sue battute “satiriche” erano così taglienti che non credo le metterei in un libro per famiglie. Sapeva sempre esattamente che cosa Crono avrebbe avuto piacere di bere: nettare caldo speziato, nettare fresco con una spruzzata di limone, nettare al seltz con un po’ di succo di mirtillo selvatico. Aveva anche introdotto i Titani alle gare di bevute, che erano molto popolari tra i satiri sul Monte Ida. Tutti quelli seduti a tavola dovevano cominciare a tracannare nello stesso momento. Vinceva il più veloce. E cosa vinceva? Be’, niente, ma era un modo fantastico per mettersi in mostra, perché niente è più virile (o titanico) che avere del nettare che ti gocciola giù per il mento e sulla maglietta. Queste gare riaccesero un po’ dello spirito competitivo di Crono. Certo, lui era il re dell’universo, ma era pur sempre il più giovane di dodici figli. Non poteva permettere che i suoi fratelli o nipoti fossero migliori di lui in qualcosa. Nonostante lo stomaco sempre intasato, arrivò al punto di riuscire a ingollare un calice pieno di nettare in tre secondi, e i calici dei Titani hanno le dimensioni dei boccioni per i distributori d’acqua. Perciò raccomandava sempre a Zeus di riempirgli il boccale con qualunque cosa andasse giù il più velocemente possibile. Che era esattamente quello che Zeus aveva programmato. Una sera, mentre Crono cenava con i suoi fedeli scagnozzi, preparò un miscuglio speciale da tenere pronto per la gara. Sul Monte Ida le ninfe gli avevano insegnato un sacco di cose su piante, erbe e roba del genere. Sapeva quali fanno venire sonno, quali fanno girare la testa e quali ti fanno stare così male che vorresti che lo stomaco ti uscisse dal corpo. Per gli ospiti mescolò un po’ di nettare particolarmente ipnotico, che li avrebbe fatti dormire come ghiri. Per Crono preparò invece una miscela speciale di nettare e senape. Alcune versioni della storia dicono che abbia usato del vino, ma non può essere così, perché il vino non era ancora stato inventato. Anche su questo torneremo più tardi. Comunque sia, nel boccale di Crono c’era qualcosa di ultrapotente. Zeus lo mise da parte e aspettò il momento propizio. La cena cominciò come al solito, con molti brindisi, varie portate di cibo e aggiornamenti sulle notizie titaniche del giorno. Zeus provvide affinché il nettare scorresse a fiumi. E intanto intratteneva gli ospiti con storielle piccanti. Verso la fine della serata, quando tutti erano contenti, rilassati e sonnacchiosi, cominciò a magnificare la grande capacità del re di reggere le bevande forti. — Re Crono è un campione in fatto di bevute! — proclamò. — Dovreste vederlo. È un vero fuoriclasse. Ve lo garantisco, il suo record è… cos’è, tre secondi? — Urg — riuscì solo a dire Crono. Era già pieno, e aveva sperato di evitare una delle solite competizioni. — Se volesse — continuò Zeus — potrebbe bere più in fretta di chiunque di voi! Scommetto che stasera potrebbe stabilire un nuovo record. Vi piacerebbe assistere? Atlante, Iperione, Ceo e tutti gli altri applaudirono e reclamarono a gran voce una gara. Crono non era davvero nello spirito, ma non poteva rifiutarsi. Era in gioco il suo prestigio di Grande Tracannatore. Fece cenno a Zeus di portare un altro giro. Questi corse alle cucine e prese la sua miscela speciale. Offrì agli ospiti il nettare soporifero, poi servì a Crono l’ultimo boccale e, senza dargli il tempo di annusarlo, gridò: — Pronti, via! I Titani inghiottirono il loro disgustoso beverone. Crono notò subito che il suo nettare aveva un sapore strano, ma era in gara: non poteva smettere di ingollare, perché bisognava svuotare il recipiente fino all’ultima goccia! Forse le sue papille gustative erano un po’ intorpidite. In fin dei conti Zeus non aveva mai avuto comportamenti sospetti. Prosciugò la coppa in due secondi e mezzo, la sbatté capovolta sul tavolo e gridò: — Ho vinto! Ho… Il suono che a quel punto gli uscì di bocca era simile a quello di un tricheco mezzo annegato a cui viene praticata la rianimazione. Non c’è un modo elegante per dirlo: Crono vomitò. E fu un vomito degno del re dell’universo. Un vomito regale. Lo stomaco cercò di risalirgli in gola. La bocca gli si spalancò per quanto possibile e sputò fuori cinque dei, una pietra ricoperta di muco, una notevole quantità di nettare, qualche biscotto e una targa da cocchio (no, non so come ci fosse finita, quella). I cinque dei appena rigurgitati assunsero subito le loro dimensioni da adulti, proprio lì, sul tavolo. I Titani li fissarono attoniti, perché la loro mente era rallentata per via del nettare drogato. Quanto a Crono, stava ancora disseminando vomito in giro per la sala del trono. — Prendeteli! — boccheggiò. Il primo a reagire fu Atlante. — Guardie! — gridò, e cercò di rimettersi in piedi, ma la testa gli girava così tanto che cadde in grembo a Iperione. Zeus fece per lanciarsi sulla falce del padre e sgozzare il vecchio cannibale lì dov’era, ma gli altri Titani stavano cominciando a riprendersi dallo shock. Saranno pure stati lenti e mezzo addormentati, ma avevano le armi. Mentre l’unica arma di Zeus era un vassoio portavivande. E il suo esercito era costituito da cinque viscidi dei disarmati che avevano passato ben poco tempo fuori da uno stomaco, figuriamoci in un campo di battaglia. Le guardie cominciarono ad affluire nella sala del trono. Zeus si rivolse agli altri dei ancora frastornati: — Sono vostro fratello Zeus. Seguitemi e vi darò libertà e vendetta. Oltre che miele e latte di capra. Tanto bastò. Mentre Crono vomitava e i suoi soldati tentavano maldestramente di mettere mano alle armi, Zeus e i suoi fratelli si trasformarono in aquile e si alzarono in volo fuori dal palazzo. — E adesso? — chiese Ade. I sei dei si erano riuniti nel covo segreto di Zeus sul Monte Ida, che si rifiutavano di chiamare la “Taverna di Zeus”. Lui li aveva aggiornati su quello che stava succedendo nel mondo, ma sapevano tutti che non potevano rimanere lì a lungo. Le ninfe riferirono di voci bisbigliate attraverso la terra: Crono stava mandando i suoi Titani a setacciare ogni angolo in cerca dei fuggitivi. Li rivoleva indietro, in catene o fatti a pezzi. Non era particolarmente rigido al riguardo. — E adesso si combatte — rispose Zeus. Poseidone grugnì. Era fuori dalla pancia di Crono da un giorno soltanto e già il fratello minore cominciava a stargli antipatico, quell’ultimo arrivato che pensava di poter prendere il potere solo perché li aveva salvati. — A me combattere nostro padre va benissimo — disse — ma ci vorrebbero delle armi. Ne hai? Zeus si grattò un orecchio. A dire il vero non ci aveva pensato. — Be’, no… — Forse potremmo fare la pace — suggerì Estia. Gli altri la fissarono come se fosse uscita di senno. Estia era la maggiore e la più mite, ma i fratelli non la prendevano mai sul serio. Chissà come sarebbe stato il mondo se fosse stata lei a prendere il potere ma, ahimè, non lo prese. — Non se ne parla nemmeno — intervenne Demetra. — Io non perdonerò mai nostro padre. Forse potremmo rubargli la falce e farlo a pezzi come lui ha fatto con Urano! E poi potremmo usare quella stessa falce per qualcosa di più utile, per esempio per tagliare il grano! Avete visto che campi meravigliosi abbiamo sorvolato? Era la guardò torva. — Si può sapere perché sei tanto fissata con queste colture? Per tutti gli anni che siamo stati nella pancia di Crono non hai parlato d’altro che di piante, che oltretutto prima di oggi non avevi mai visto! Demetra arrossì. — Non lo so. Sogno sempre campi verdi. Sono così belli, pieni di pace e… — Figli miei! — esclamò una voce dai boschi. Mamma Rea si fece avanti nella radura. Abbracciò ciascuno dei suoi preziosi figli e figlie, versando lacrime di gioia sulla loro ritrovata libertà. Poi li fece avvicinare l’uno all’altro e disse: — So io dove potete procurarvi delle armi. E raccontò loro la storia dei centimani e dei ciclopi, che Crono aveva esiliato nel Tartaro una seconda volta. — I centimani sono muratori fantastici — spiegò. — Sono stati loro a costruire il palazzo di Crono. — Che è piuttosto grandioso — ammise Zeus. — Sono forti, e odiano Crono — continuò Rea. — In battaglia sarebbero utilissimi. Quanto ai ciclopi, sono forgiatori di grande talento. Se c’è qualcuno in grado di fabbricare armi più potenti della falce di vostro padre, sono loro. Gli occhi neri di Ade brillarono. L’idea di scendere nella zona più pericolosa e orribile del creato in qualche modo lo affascinava. — Quindi andiamo nel Tartaro e riportiamo indietro i ciclopi e i centimani. — Già, una passeggiata — osservò Era. Sapeva cosa voleva dire passeggiare, perché Crono per digerire faceva sempre due passi dopo pranzo. — Andiamo. Organizzare un’evasione dal Tartaro a noi può sembrare una cosa abbastanza complicata, ma sei dei sono in grado di portare a termine grandi imprese, quando ci si mettono. Ade scoprì una rete di caverne sotterranee che portava dritta nel ventre della terra. Era particolarmente abile a orientarsi nel sottosuolo. Condusse i fratelli lungo il corso di un fiume sotterraneo chiamato Stige, finché non arrivarono su una cengia affacciata sul vuoto del Tartaro. Lì si trasformarono in pipistrelli e si tuffarono nell’abisso. Sul fondo trovarono un tetro paesaggio di guglie rocciose, grigi terreni desolati, pozzi profondi e nebbia venefica, con tutta una serie di mostri orrendi e spiriti maligni che fluttuavano. A quanto pareva Tartaro, lo spirito degli abissi, laggiù nel buio aveva concepito altri dei primordiali, che a loro volta si erano riprodotti. I sei giovani dei si aggirarono furtivi finché non trovarono la zona di massima sicurezza, circondata da alte pareti di bronzo e pattugliata da demoni. Nelle loro sembianze di pipistrelli, volarono facilmente al di là della barriera; ma una volta dentro videro il carceriere, e furono lì lì per perdersi d’animo. Al fine di assicurarsi che i suoi preziosi prigionieri non scappassero, Crono aveva assunto personalmente il mostro più orribile del Tartaro. Si chiamava Campe. Non so se lo avesse trovato su un sito di annunci o dove, ma se le peggiori creature dei vostri incubi avessero a loro volta degli incubi, probabilmente sognerebbero Campe. Dalla vita in su era una femmina umanoide con serpenti per capelli (se vi suona familiare probabilmente è perché questa acconciatura in seguito ha avuto molto successo fra i mostri). Dalla vita in giù era una dragonessa a quattro zampe. All’attaccatura di ogni zampa spuntavano migliaia di vipere, che nell’insieme sembravano gonnellini fatti di saettanti fili d’erba. In vita aveva cinquanta teste di bestie terrificanti – orsi, cinghiali, vombati, fate voi – costantemente impegnate a far scattare le mascelle, ringhiare e cercare di divorare i gonnellini. Dalle scapole le spuntavano due enormi ali nere da pipistrello. La coda da scorpione si agitava minacciosa stillando veleno. Insomma, se non l’avete ancora capito, non erano in molti a invitarla a cena. Gli dei rimasero a guardare da dietro un mucchio di massi, mentre il mostruoso carceriere pattugliava avanti e indietro, frustando i ciclopi con una sferza incandescente e pungendo i centimani con la coda da scorpione ogni volta che rompevano le righe. I poveri prigionieri erano costretti a lavorare senza sosta: niente acqua, niente cibo, niente sonno, niente di niente. I centimani erano confinati al capo estremo del recinto a estrarre blocchi di pietra dal terreno vulcanico. I ciclopi lavoravano nella parte più vicina. Ciascuno aveva una forgia dove faceva colare i vari metalli, che a colpi di martello riduceva poi in lamine di bronzo e ferro. Se qualcuno cercava di sedersi, o addirittura faceva anche solo una pausa per prendere fiato, Campe lo colpiva con lo staffile lasciandogli sferzate brucianti sulla schiena. Peggio ancora, ai prigionieri non era permesso finire nulla di quello che cominciavano. Non appena i centimani avevano pronto un bel mucchio di pietre da costruzione, Campe li costringeva a sbriciolarle. E ogni volta che i ciclopi erano sul punto di terminare un’arma o uno scudo o anche solo un attrezzo che potesse diventare pericoloso, Campe lo confiscava e lo gettava di nuovo nel magma ribollente. A questo punto starete senz’altro pensando: “Insomma, sei tipi ben piazzati e una sola carceriera. Perché non provavano a saltarle addosso?”. Perché Campe aveva la frusta. E il veleno della sua coda poteva neutralizzare un ciclope anche per ore, lasciandolo a contorcersi per il dolore. La dragonessa era terrificante, giuro, e i prigionieri erano incatenati ai suoi piedi, così che non potevano andare molto lontano. Oltretutto, sia i centimani sia i ciclopi erano creature dall’animo gentile. Nonostante il loro aspetto, erano costruttori, non guerrieri. Sarebbe bastato dargli un secchiello di Lego, e sarebbero stati felici per giorni. Zeus aspettò finché Campe non si spostò al capo opposto del recinto. Poi strisciò verso il ciclope più vicino. — Pssst! — chiamò. Il ciclope abbassò il martello e si girò verso di lui, ma il suo unico grande occhio aveva fissato troppo a lungo le fiamme per riuscire a vedere l’interlocutore. — Non sono Pssst — disse comunque. — Sono Bronte. “Oh, ragazzi” pensò Zeus. “Mi sa che qui andrà per le lunghe.” — Ciao, Bronte. — Parlò molto lentamente e in tono allettante, come se stesse cercando di fare uscire un cagnolino dalla cuccia. — Io sono Zeus. Sono qui per salvarvi. Bronte si incupì. — Questa l’ho già sentita. Crono ci ha imbrogliati. — Sì, lo so — disse Zeus. — Crono è anche mio nemico. Insieme possiamo vendicarci e gettare lui quaggiù. Come ti suona? — Suona bene — rispose Bronte. — Ma in che modo? — Prima di tutto abbiamo bisogno di armi — spiegò Zeus. — Potete costruircene qualcuna? Bronte scosse la testa. — Campe è sempre all’erta. Non ci lascia portare a termine niente di niente. — Che ne dici se ciascuno di voi fa un pezzo diverso di ogni arma? — suggerì Zeus. — Poi potreste assemblarle all’ultimo minuto e lanciarle a noi. Campe non se ne accorgerebbe. — Sei sveglio. — Lo so. Passa parola ai tuoi amici. — Zeus strisciò di nuovo dietro i massi. Bronte bisbigliò il piano ai suoi fratelli Arge e Sterope. Questi batterono i martelli sull’incudine in un codice cifrato di loro invenzione e inviarono il messaggio all’altro lato del recinto fino ai centimani: Briareo, Cotto e Gige. Lo so che sono nomi orribili, ma ricordate, Gea non aveva avuto molto tempo per tenersi i tre gemelli prima che Urano li gettasse nel Tartaro. Quantomeno non si era ridotta a chiamarli Cicì, Cocò e Titì. Gli dei attesero nel buio mentre i ciclopi fabbricavano i pezzi delle nuove armi, facendo in modo che ciascuno sembrasse un aggeggio incompleto e innocuo. Non so se quella roba avrebbe passato i sistemi di sicurezza degli aeroporti, ma comunque trasse in inganno Campe. La prima volta che la dragonessa girò la schiena e marciò verso il lato opposto del recinto, Bronte velocemente assemblò la prima arma magica e la gettò a Zeus. Sembrava un razzo di bronzo, lungo poco più di un metro, con le estremità assottigliate a cono. La mano di Zeus lo afferrò facilmente al centro. Non appena lo sollevò, tutto il suo corpo vibrò di potere. Poseidone aggrottò la fronte. — E questo cos’è? Non è una falce. Dalle due punte sprizzarono scintille e crepitò un arco di elettricità. Zeus puntò quell’affare sul masso più vicino, e un migliaio di cirri infuocati lo ridussero in polvere. — Caspita, fantastico! — esclamò. — Questa sì che è un’arma. Fortunatamente Campe non sembrò notare l’esplosione. È probabile che nel Tartaro le cose esplodessero spesso. Pochi minuti più tardi Bronte gettò loro una seconda arma: una lancia a tre punte. La prese Poseidone. Il quale immediatamente si innamorò del suo tridente. Adorava gli attrezzi a punta! E riuscì subito a sentire il potere delle tempeste vibrare attraverso l’asta. Quando si concentrò, dalle tre punte vorticò fuori un tornado in miniatura, che diventava più veloce e più grosso a mano a mano che lui si concentrava. E quando conficcò la lancia a terra, poi, il suolo cominciò a tremare e a creparsi. — Ottima arma — annunciò. — Perfetto! Bronte lanciò loro un terzo oggetto. Questa volta fu Ade ad afferrarlo: un lucente elmo da guerra in bronzo decorato con scene di morte e distruzione. — Voi avete avuto delle armi — mugugnò. — Io un cappello. Lo indossò e scomparve. — Ehi, ma sei invisibile! — esclamò Zeus. — Già. — Ade sospirò desolato. — Ci sono abituato. — No, intendo dire che sei davvero invisibile. — Oh. — Ade si sforzò di tornare visibile. — Quel cappello è davvero terrificante — osservò Demetra. — In effetti… — convenne Ade. — Sembra proprio. Decise di provare qualcos’altro. Fissò i fratelli, e dall’elmo cominciarono a irradiarsi onde di terrore. Zeus e Poseidone impallidirono e presero a sudare. Per poco Zeus non fece cadere il suo nuovo lanciafulmini. — Piantala! — ansimò. — Mi stai terrorizzando! Ade sorrise. — Accidenti, forse non è così male. Era incrociò le braccia e sbuffò sdegnosa. — I maschi e i loro giocattoli. E a noi nulla, vero? Ovviamente vi aspettate che staremo qui a fare le ragazze pompon mentre voi tre vi occupate del combattimento, dico bene? Zeus le fece l’occhiolino. — Non ti preoccupare, piccola. Ti proteggerò io. — Credo che vomiterò — fu il commento di Era. Probabilmente i ciclopi avrebbero fatto le armi anche per le ragazze, ma in quel momento Campe si voltò e riprese a marciare verso di loro. Forse aveva notato il fumo seguito all’esplosione di Zeus, o il vorticare delle nuvole dal tridente di Poseidone. O forse percepiva i residui di terrore intorno all’elmo di Ade. Qualunque cosa fosse stata a farla insospettire, individuò la presenza degli dei. Sollevò la frusta e ruggì: — ROAAARRRRRRRR! Caricò verso il loro nascondiglio, la coda che frustava l’aria e le migliaia di vipere intorno alle zampe che sputavano veleno. — Fantastico — borbottò Era. — Ci penso io — disse Zeus. Si alzò in piedi e sollevò il lanciafulmini di bronzo, convogliandovi tutta la sua forza. ZAP! Una colonna di energia incandescente si diresse contro Campe: la luce più accecante che si fosse mai vista nel Tartaro. La dragonessa semiumana ebbe appena il tempo di pensare: “Oh-oh” che il fulmine la fece esplodere in un milione di sibilanti coriandoli di rettile. — Ecco cosa intendevo! — gridò Zeus raggiante. Poseidone sollevò il tridente. — Ragazzo, lascia un po’ di spazio anche a noi. — Voi pensate a liberare i ciclopi e i centimani — gridò Zeus. Poseidone grugnì qualcosa, ma utilizzò il tridente per disintegrare le catene di oscurità che legavano i piedi dei prigionieri. — Grazie — disse Bronte. — Vi aiuteremo a combattere Crono. — Grande! — esultò Zeus. Era si schiarì la voce. — Sì, va bene, ma quelle armi per le ragazze… Oltre il muro di bronzo, rimbombarono ruggiti mostruosi. Gli spiriti e le bestie del Tartaro avevano probabilmente visto il bagliore del lampo e ora si stavano avvicinando per indagare. — Sarà meglio andarcene — suggerì Demetra. — E intendo dire subito. Era la migliore idea non attinente alle granaglie che avesse mai avuto, così Ade guidò i fratelli nel mondo in superficie, insieme ai loro nuovi sei grossi amici. Distruggere Crono non fu una passeggiata. Secondo la maggior parte dei resoconti, la Guerra dei Titani durò dieci anni, o forse Crono utilizzò i suoi trucchi con il tempo per far sembrare che durasse così tanto, sperando che gli dei rinunciassero. Se così fu, non funzionò. Rea, la Grande Madre, andò a far visita a quanti più Titani poté, cercando di persuaderli a schierarsi al fianco di Zeus. Parecchi l’ascoltarono. Dopotutto Crono non era un leader molto popolare. Quasi tutte le femmine aiutarono Zeus oppure rimasero fuori dal gioco. Prometeo, il creatore degli umani, fu abbastanza furbo da rimanere neutrale. Oceano si tenne nelle profondità degli oceani. Elio e Selene, il sole e la luna, decisero di non prendere le parti di nessuno fintantoché avessero potuto conservare il loro impiego. La maggior parte dei Titani maschi rimasero fedeli a Crono, con Atlante come generale supremo e combattente leader. Le scaramucce tra dei e Titani andarono avanti per un po’: saltava un’isola qui, si vaporizzava un mare là. I Titani erano forti e bene armati. All’inizio si portarono in vantaggio. Pur sostenuti dalle armi magiche dei ciclopi, gli dei non erano avvezzi al combattimento. È dura non lasciar cadere il tridente e scappare quando Atlante si lancia a rotta di collo verso di te ululando e mulinando la spada. Ma presto impararono. Alla fine i ciclopi munirono tutti gli alleati di Zeus di armi imbattibili. I centimani si addestrarono a scagliare bordate di pietre come catapulte viventi. Sì, lo so, ora starete pensando: “Che fatica sarà mai, lanciare dei sassi?”. Okay. Cercate di tirare una pietra con ogni mano e di colpire il bersaglio. Non è facile come sembra. E ora immaginate di coordinare cento mani, tutte che lanciano sassi grandi quanto frigoriferi. Se non state attenti, finirete per scagliare pietre ovunque abbattendo voi e i vostri alleati. La guerra andò avanti per parecchio, perché nessuno dei contendenti da ambo le parti poteva morire. Non è che si può semplicemente pugnalare un immortale, incenerirlo o fargli crollare una casa in testa e dichiarare chiusa la faccenda. In realtà, devi catturare ogni nemico e assicurarti che sia ferito così gravemente da non poter guarire mai più, poi devi cercare di capire cosa fare del corpo sconquassato. Per quanto ne sapeva Zeus, persino gettare qualcuno nel Tartaro non era una garanzia sufficiente che ci sarebbe rimasto per sempre. Nessuna di quelle piccole scaramucce poteva risultare decisiva. Alla fine Zeus architettò il grande piano. — Dobbiamo assaltare il Monte Otri — disse ai fratelli durante uno dei consigli di guerra settimanali. — Un attacco frontale al loro quartier generale. Se lo faremo, i Titani che ci sono ostili si raduneranno per proteggere Crono. E allora potremo sconfiggerli tutti contemporaneamente. — In altre parole — tradusse Ade — stai proponendo un suicidio. Poseidone sollevò il tridente. — Per una volta sono d’accordo con Ade. Se scaliamo le pendici del Monte Otri, Atlante sarà là ad aspettarci. Le sue truppe saranno posizionate più in alto. Ci schiacceranno come formiche. Se cerchiamo di volarci dentro, verremo colpiti in aria. Hanno un sacco di missili anti-dio. Gli occhi di Zeus brillarono. — Ma il mio piano non è questo. Li indeboliremo attaccandoli dalla montagna di fronte. — Faremo cosa? — chiese Demetra. Non sembrava affatto a proprio agio nella sua armatura, anche se l’aveva disegnata lei stessa. Aveva dipinto un covone d’orzo e una margherita sullo scudo, e come arma principale aveva scelto una minacciosa paletta da giardinaggio. Zeus dispiegò una mappa del territorio greco sulla terra polverosa. Accanto al Monte Otri si ergeva un’altra montagna, non così alta e non altrettanto famosa. Si chiamava Olimpo. — Scaleremo l’Olimpo — disse. — Non se lo aspettano, e Otri sarà a portata dei nostri missili. I centimani lanceranno scariche di pietre. Io scaglierò fulmini. Poseidone evocherà tempeste e terremoti. — E io diventerò invisibile — borbottò Ade. Zeus diede una pacca sulle spalle al fratello. — A te toccherà un lavoro importante. Farai serpeggiare ondate di terrore tra i ranghi nemici. Una volta che avremo distrutto le loro difese, voleremo tutti lassù… — Comprese noi tre dee? — intervenne Demetra. — Anche noi possiamo combattere, sai. — Ma certo! — Zeus sorrise con un accenno di nervosismo. — Pensavi forse che mi fossi dimenticato di voi? — Sì — rispose Demetra. — Uh, comunque — continuò Zeus — voliamo sul Monte Otri, annientiamo quelli che sono rimasti e li facciamo tutti prigionieri. Estia si avvolse nel suo scialle marrone. — Continuo a pensare che dovremmo fare la pace. — No! — gridarono gli altri. Era picchiettò un dito sulla mappa. — È un piano assolutamente folle. Mi piace. E così quella notte, protetti dall’oscurità, gli dei e i loro alleati si arrampicarono per la prima volta sul Monte Olimpo. Il mattino dopo, quando Elio guidò nel cielo il suo bolide acchiappa-ragazze, re Crono si svegliò al rombo di quello che sembrava un tuono. Probabilmente perché era un tuono. Nuvole minacciose avanzavano da ogni parte. Zeus scagliò un fulmine che disintegrò la torre più alta in nere schegge di marmo. I centimani lanciarono così tanti massi verso il Monte Otri che quando Crono guardò fuori dalla finestra gli sembrò che stessero piovendo elettrodomestici. Le eleganti cupole del palazzo implosero in colonne di polvere a forma di fungo. Le pareti si sbriciolarono. I pilastri caddero come pezzi di domino. I centimani lo avevano costruito e sapevano perfettamente come distruggerlo. Mentre il palazzo tremava, Crono afferrò la falce e chiamò i suoi accoliti all’attacco. Ma il fatto è che: a) le falci possono molto poco contro sassi e fulmini; b) nessuno riusciva a sentirlo in mezzo a quel baccano; c) il palazzo si stava disintegrando attorno a lui. Proprio mentre diceva: — Titani, andiamo! — una sezione di soffitto da tre tonnellate gli crollò in testa. La battaglia fu un massacro, ammesso che si possa parlare di massacro quando nessuno muore. Un pugno di Titani cercò di contrattaccare, ma finì per essere sepolto da una valanga di detriti e pezzi di roccia. Dopo l’assalto iniziale, gli dei arrivarono in volo ed eliminarono ogni altra resistenza. Poseidone sollevava terremoti che inghiottivano i nemici. Ade compariva qua e là a caso e gridava: — Bu! — Il suo elmo del terrore (o “Cappello Bu”, come lo chiamavano gli altri), faceva volare i Titani giù dai fianchi del monte, o dritti contro le armi dei ciclopi. Quando la polvere si posò e le nuvole della tempesta si sollevarono, persino gli dei si fermarono attoniti di fronte allo spettacolo di ciò che avevano fatto. Non solo il palazzo di Crono non c’era più, ma era stata spazzata via l’intera cima del Monte Otri. Vi ho detto che il Monte Otri era la vetta più alta della Grecia? Bene, ora non più. Il Monte Olimpo, che anticamente era ben più piccolo, è alto quasi 3000 metri, mentre il Monte Otri oggi è soltanto 1600 e rotti. Zeus e i centimani avevano praticamente tagliato la montagna a metà. I ciclopi disseppellirono i Titani dalle macerie e cominciarono a incatenarli. Nessuno riuscì a fuggire. Il generale Atlante e i quattro fratelli che controllavano gli angoli della terra furono trascinati davanti a Zeus e fatti inginocchiare. — Ah, miei cari zii! — ridacchiò Zeus. — Ceo, Crio, Giapeto e Iperione. Voi quattro state per andarvene dritti nel Tartaro, dove rimarrete per sempre! I fratelli chinarono la testa pieni di vergogna, ma il generale Atlante rise in faccia ai suoi carnefici. — Dei insignificanti! — gridò. Persino incatenato incuteva paura. — Voi non sapete niente di come funziona l’universo. Se gettate questi quattro nel Tartaro, l’intera volta del cielo crollerà! È solo la loro presenza ai quattro angoli della terra a impedire all’immensa distesa di Urano di caderci addosso. — Può darsi — disse Zeus con un sorriso. — Ma per fortuna, Atlante, ho la soluzione! Tu sei sempre lì a vantarti di quanto sei forte. D’ora in avanti, terrai su il cielo da solo! — Cosa? — Bronte, Arge, Sterope — chiamò Zeus. — È tutto vostro. I ciclopi trascinarono Atlante sulla cima di una montagna lontana la cui punta sfiorava il cielo. Non so come fecero, ma generarono una colonna centrale di supporto, un unico imbuto di nuvole, come l’apice a punta di una trottola. Incatenarono Atlante alla montagna e gli posarono sulle spalle tutto il peso della calotta celeste. E ora penserete: “E perché lui non si è rifiutato di sorreggerla e non ha lasciato che il cielo cadesse?”. Ho già fatto cenno alle catene, vero? Non poteva scappare senza essere schiacciato. E poi è difficile da capire a meno che non l’abbiate fatto (e io l’ho fatto), ma reggere il cielo è un po’ come essere bloccato su una panca da pesi sotto un bilanciere carico. Tutta la tua concentrazione è volta a impedire di farti spiaccicare. Non puoi sollevarlo, perché è troppo pesante, non puoi lasciarlo andare, perché cadendo ti schiaccerebbe. Tutto quello che puoi fare è tenerlo lì dov’è, lottando, sudando e ansimando: “Aiuto!”, nella speranza che qualcuno attraversi la palestra, si accorga che stai per essere lentamente ridotto a un pancake e sollevi il bilanciere. Ma che succede se non lo fa nessuno? Immaginate di essere costretti in una simile situazione per l’eternità. Quella fu la punizione di Atlante. Tutti gli altri Titani che avevano combattuto nella guerra se la cavarono con molto meno. Furono scagliati a testa in giù nel Tartaro. Il che ci lascia con la domanda da un milione di dracme: cosa successe a Crono? Le versioni sono molte e diverse. La maggior parte concordano sul fatto che il Bastardo fu disseppellito dalle macerie e portato davanti a Zeus, costretto in catene come gli altri Titani e gettato nel Tartaro. Ma secondo alcune tradizioni posteriori – e direi che io propendo per queste – Zeus prese la falce e fece il padre a fettine, come lui aveva affettato Urano. Crono fu gettato nel Tartaro in minuscoli pezzi. Ipoteticamente, è da lì che è derivata l’idea del Padre Tempo con la sua falce che ogni primo gennaio viene spodestato dal Neonato Anno Nuovo. Anche se è difficile immaginare Zeus in pannolino e cappellino di carta. Secondo alcune versioni, molto tempo dopo Zeus liberò Crono dal Tartaro perché andasse a trascorrere gli anni della pensione in Italia o a governare le isole di Blest dei Campi Elisi. Personalmente non ci credo. Non ha senso, se si pensa che Crono è stato fatto a pezzi. E se conoscete Zeus, saprete che non è esattamente il tipo che perdona e dimentica. Comunque, con Crono abbiamo chiuso. L’Era dei Titani era finita. Ai Titani che non avevano combattuto contro gli dei fu permesso di rimanere in circolazione. Alcuni, come Elio e Selene, conservarono il posto di lavoro. Altri addirittura contrassero matrimoni misti con gli dei. Zeus si autonominò re del cosmo, ma fu più furbo di Crono. Sedette intorno a un tavolo con i fratelli e disse: — Guardate, voglio essere giusto. Perché non ci giochiamo ai dadi il controllo delle diverse parti del mondo? Il tiro più alto sceglie per primo. Ade corrugò la fronte. — Io ho una sfortuna da far schifo. Di che parti stiamo parlando? — Del cielo, del mare e del mondo degli Inferi — rispose Zeus. — Intendi dire il Tartaro? — chiese Poseidone. — Sai che roba! — Intendo dire il mondo sotterraneo superiore — specificò Zeus. — Sai, no, quella parte carina più vicina alla superficie. Non è male. Grosse caverne, un sacco di gioielli, tenute in riva al fiume Stige. — E che ne è della terra vera e propria? — domandò Ade. — La Grecia e tutti gli altri paesi? — Quella sarà zona neutrale — disse Zeus. — Sulla terra possiamo intervenire tutti. I fratelli acconsentirono. Avete notato che le sorelle non erano state invitate a questa partita a dadi? Lo so, è profondamente ingiusto. Ma fu così che andarono le cose. Zeus ebbe il punteggio più alto (che sorpresa!). Come personale dominio scelse il cielo, il che ha senso per via dei fulmini e tutta quella roba lì. Poseidone ottenne il secondo punteggio più alto; scelse il mare e divenne signore supremo delle acque, al di sopra di Oceano, che fu spinto ancora più in profondità ai margini del mondo, e di Ponto, che comunque se ne stava a dormire nel fango per la maggior parte del tempo. Ade ebbe l’incarico peggiore, proprio come si aspettava. Si assunse la guida del mondo degli Inferi, ma c’è da dire che la cosa si confaceva alla sua personalità un po’ ombrosa, quindi non si lamentò (troppo). I centimani costruirono per Zeus il palazzo che aveva sempre sognato sul Monte Olimpo. Poi Zeus li rimandò nel Tartaro, ma questa volta come carcerieri, a tenere d’occhio i Titani. Ai centimani non dispiacque poi tanto. Perlomeno adesso erano loro ad avere la frusta. I ciclopi andarono a lavorare per gli dei. Costruirono un’officina sul fondo del mare, vicino all’isola di Lemno, dove c’erano molte bocche vulcaniche ad alimentare le loro fucine. Fabbricavano tonnellate di armi speciali e altri divertenti aggeggi da collezione, avevano un’assicurazione sanitaria molto vantaggiosa e una settimana di ferie pagate all’anno. Quanto agli dei, Zeus li invitò tutti a stare sull’Olimpo. Ciascuno aveva un trono nel salone principale, così, anche se lui era al potere, si trattava più di un consiglio di dei che non di una dittatura. Decisero di chiamarsi Olimpi. Be’… direi che erano tutti bene accetti sull’Olimpo. A parte Ade. Aveva sempre dato i brividi ai suoi fratelli. Ora che era il Signore degli Inferi, sembrava portare tristezza e disgrazie ovunque andasse. — Capisci — gli disse una volta Zeus in privato — non possiamo avere un trono dell’Oltretomba qui sull’Olimpo. Metterebbe a disagio gli altri dei, e scheletri e pietre nere in effetti non si abbinano con gli arredi. — Oh, certo — borbottò Ade. — Capisco benissimo. Comunque, ecco come iniziarono le cose con gli dei sul Monte Olimpo. Alla fine, nella sala del consiglio ci sarebbero stati dodici troni e un’intera schiera di dei che il trono non lo avevano. Gli Olimpi pensavano di potersi sistemare e guidare il mondo in santa pace. C’era solo un problema. Ricordate che per tutto questo tempo Madre Terra Gea aveva schiacciato il suo pisolino? Bene, alla fine si svegliò. E quando tornò a casa e scoprì che i suoi figli preferiti, i Titani, erano stati gettati nel Tartaro, a Zeus toccò dare qualche spiegazione. Ma questa storia ve la racconterò un’altra volta. Ora è tempo di conoscere gli dei più da vicino, uno per uno, personalmente. Prima però un avvertimento: alcune delle loro storie potrebbero farvi sentire come Crono dopo un bel bicchierone di nettare alla senape. ZEUS Scusate, ma perché Zeus deve sempre essere il primo? Fateci caso: ogni libro che parla degli dei greci comincia con lui. Cos’è, abbiamo invertito l’ordine alfabetico? Lo so che è il re dell’Olimpo e compagnia bella, ma, credetemi, il suo ego non ha nessun bisogno di essere alimentato ulteriormente. Sapete cosa vi dico? Che si metta in coda. Parleremo degli dei in ordine di nascita, prima le femmine. Siediti dietro, Zeus. Cominciamo con Estia. ESTIA SCEGLIE LO SCAPOLO NUMERO ZERO Per molti versi Estia assomigliava parecchio alla sua mamma Rea. Aveva un sorriso schietto, caldi occhi castani e capelli neri e ricci che le incorniciavano il viso. Era mite e garbata. Non diceva mai una parola negativa su nessuno. Se andavi a una festa sull’Olimpo, non era certo la prima che catturava la tua attenzione. Non era appariscente, chiassosa o eccentrica. Piuttosto era un po’ la dea della porta accanto: dolce e carina in modo poco pretenzioso. Di solito portava i capelli nascosti sotto uno scialle di lino, indossava tuniche dritte e semplici e non si truccava mai. Ho già detto che nessuno la prendeva sul serio, e infatti gli altri dei non si preoccupavano molto di seguire i suoi consigli. Era stata inghiottita da Crono per prima, quindi fu vomitata per ultima. Per questo i fratelli tendevano a considerarla la più piccola, piuttosto che la maggiore: l’ultima a venire al mondo. Rispetto a loro, era più silenziosa e tranquilla, ma ciò non significava che non le volessero bene. Come succedeva con Rea, era difficile non amare Estia. C’era però un aspetto, e un aspetto molto importante, in cui Estia non somigliava alla madre. Rea era nota per essere molto… come dire… mamma. La Madre con la M maiuscola. L’unica vera Madre. La Grande Madre. Estia invece non voleva avere niente a che fare con la maternità. Non che avesse problemi con le famiglie degli altri. Adorava i suoi fratelli, e una volta che questi cominciarono ad avere figli, si affezionò molto ai nipotini. Il suo desiderio più profondo era che tutta la genia degli Olimpi andasse d’accordo e passasse bei momenti insieme intorno al focolare, chiacchierando, cenando, giocando a Twister o intrattenendosi in qualsiasi altra piacevole attività. Era solo che lei non voleva sposarsi. E se ci pensate, è facile capire perché. Aveva passato anni nella pancia di Crono. Possedeva un’ottima memoria, e si ricordava persino di quando il padre l’aveva inghiottita da neonata. Non aveva mai scordato i gemiti disperati della madre. Il suo incubo era che potesse capitare la stessa cosa a lei. Non voleva sposarsi per poi scoprire che il marito non era altro che un cannibale mangiabambini. E la sua non era solo paranoia: aveva avuto la prova che Zeus avrebbe potuto essere tale e quale suo padre. Dopo la guerra con Crono, Zeus aveva infatti deciso che sarebbe stata una buona idea scegliere una moglie fra i Titani, giusto per dimostrare che non c’erano rancori. Aveva dunque sposato una sorella di Oceano, una fanciulla chiamata Meti, personificazione dei saggi consigli e della buona pianificazione. Una specie di life coach per Titani. Meti era molto brava a dare consigli agli altri, ma a quanto pare non si dimostrò altrettanto sveglia nei confronti di se stessa. Quando fu in attesa del primo figlio, disse a Zeus: — Marito mio, ho una bella notizia! Prevedo che questo bambino sarà una femmina. Ma se ne avremo un altro, sarà un maschietto, che un giorno, e sono sicura che questo ti farà felice, sarà destinato a governare l’universo! Non è meraviglioso? Zeus fu travolto dal panico. Pensò che sarebbe finito come Urano e Crono – fatto a pezzettini – così decise di seguire l’esempio del padre. Spalancò la bocca e generò un tornado che risucchiò Meti direttamente nella sua gola, comprimendola fino a farla diventare un minuscolo boccone, e poi la ingoiò. Questo mandò in paranoia gli altri Olimpi, soprattutto Estia. Che cosa successe a Meti e al suo bambino non ancora nato, là nella pancia di Zeus? Ci torneremo in seguito. Sta di fatto che Estia fu testimone di tutta la faccenda e si disse: “Sposarsi è PERICOLOSO!”. Zeus si scusò con i Titani e gli dei per aver inghiottito Meti, e promise che non lo avrebbe fatto mai più. Decise di sposare un’altra titanide, ma come potete ben immaginare non ci furono molte volontarie. Solo una acconsentì: Temi, la titanide della giustizia, che si dà il caso fosse la zia favorita di Estia. Durante la guerra, Temi si era schierata con gli dei. Dal momento che aveva ben chiaro ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, sapeva che gli dei avrebbero avuto governanti migliori di Crono (prego notare che ho detto “migliori”, non “buoni”). Come Estia, Temi era semplice e castigata, portava sempre il velo e non era interessata al matrimonio, specialmente dopo quello che era successo a Meti; ma in nome della pace acconsentì a sposare Zeus. (Sì, tecnicamente era la zia di Zeus… ma passiamo oltre.) L’unione non durò a lungo. Temi partorì due volte tre gemelle. La prima serie non era così male: tre sorelle chiamate Ore, che finirono per occuparsi del cambio delle stagioni. (Scommetto che starete pensando: “Un momento, perché solo tre stagioni?”. Ricordatevi che siamo in Grecia. Immagino che là non ci fossero inverni lunghi e rigidi.) La seconda infornata, invece, faceva davvero accapponare la pelle. Le tre gemelle furono chiamate Moire: erano la personificazione del destino, ed erano nate vecchie. Appena fuori dalla culla, da tre rugose bambine che erano diventarono tre rugose nonnine. Stavano sempre sedute nel loro angolo a filare con un fuso magico. Ogni volta che tagliavano un pezzo di quel filo, qualche mortale nel mondo moriva. Gli Olimpi si resero presto conto che le tre Parche non solo potevano vedere il futuro, ma anche controllarlo. Potevano legare la vita di ognuno al loro filo magico – letteralmente filando la lunghezza di una vita – e quando lo tagliavano… sayonara! Nessuno sapeva se fossero in grado di fare la stessa cosa con gli immortali. Ma persino Zeus temeva quelle tre fanciulle. Dopo aver generato le Parche, il dio del cielo prese Temi da parte e le disse: — Sai una cosa? Non sono sicuro che questo matrimonio possa funzionare. Se continuiamo ad avere figli come queste Parche, mi sa che finiremo nei guai. I prossimi cosa saranno, le Tre Bombe del Giorno del Giudizio? I Tre Porcellini? Temi si finse delusa, ma in realtà era molto sollevata. Non voleva avere altri figli, e decisamente non voleva essere risucchiata anche lei nella gola di Zeus da un tornado. — Hai ragione, mio signore — disse. — Sarò felice di farmi da parte, e do il mio consenso affinché tu prenda un’altra moglie. Estia assistette a tutto questo pensando: “A me non dovrà succedere mai. Con la fortuna che mi ritrovo, sposerei un dio qualunque e partorirei i Brutos. No, è una prospettiva troppo orribile”. Decise quindi che era molto meglio restare single e dedicarsi ad aiutare i fratelli ad allevare la loro, di progenie. Lei sarebbe stata la zia preferita. La zia zitella. La zia che non aveva mai avuto repellenti e rugose bambine-nonne. C’era solo un problema: qualche dio la pensava diversamente. Poseidone, per esempio, ogni volta che vedeva Estia diceva tra sé e sé: “Accidenti, è proprio carina. E poi ha un buon carattere, sarà facile andarci d’accordo. Dovrei sposarmela”. Perciò rieccoci, siamo di nuovo alla faccenda dei matrimoni tra fratelli e sorelle. Forza, cerchiamo di sdrammatizzare il tabù una volta per tutte. Insieme: uno, due, tre… — CHE SCHIFO! Anche Apollo, un altro giovane olimpio, voleva sposare Estia. Parleremo di lui più avanti, per ora dirò solo che sarebbe stata una ben strana unione, dal momento che Apollo era uno degli dei più appariscenti. Perché desiderasse sposare la dolce e riservata Estia proprio non lo so. Forse voleva una moglie che non lo mettesse in ombra. Fu così che i due dei andarono da Zeus lo stesso giorno a chiedergli il permesso di sposare Estia. Sembra strano che chiedessero a lui invece che a Estia stessa ma, come forse avrete notato, i maschi non erano particolarmente sensibili a questo genere di cose. E Zeus, essendo il re del cosmo, aveva l’ultima parola sui matrimoni. Nel frattempo, Estia era seduta accanto al grande focolare al centro della sala del trono, e non badava troppo a quello che le accadeva intorno. A quei tempi c’era sempre un focolare nella stanza principale della casa, che forniva calore nei giorni più freddi. Ed era anche dove si cuoceva il cibo, si faceva bollire l’acqua, si tostava il pane, si arrostivano i marshmallow e si mettevano ad asciugare le calze. E dove ci si intratteneva a chiacchierare. Fondamentalmente, era il cuore della vita familiare. Estia si aggirava sempre da quelle parti. Era un po’ come se si fosse presa la responsabilità di tenere sempre acceso il fuoco di casa. La faceva sentire bene, soprattutto quando la famiglia vi si riuniva intorno per i pasti. Zeus gridò: — Ehi, Estia! Vieni un po’ qui. Lei si avvicinò al trono con aria circospetta, guardando Poseidone e Apollo che le sorridevano entrambi, l’uno con in mano un mazzolino di fiori e l’altro una scatola di caramelle. Pensò: “Ohi-ohi”. — Belle notizie — la informò Zeus. — Questi affascinanti dei vogliono sposarti. Dato che sono un re molto comprensivo e premuroso, lascerò a te la scelta. Lo Scapolo Numero Uno, Poseidone, ama le passeggiate sulla spiaggia e le immersioni. Lo Scapolo Numero Due, Apollo, ama la musica e la poesia e passa il suo tempo a leggere profezie all’Oracolo di Delfi. Chi ti piace di più? Estia si lasciò sfuggire un singhiozzo disperato, che sorprese non poco i due pretendenti. Si lanciò ai piedi di Zeus e piangendo gridò: — Ti prego, mio signore. No-o-o! Nessuno dei due! Apollo si accigliò e si controllò l’alito. Poseidone si chiese se si fosse dimenticato per l’ennesima volta il deodorante. Prima che potessero adombrarsi troppo, Estia si ricompose e cercò di spiegare: — Nulla di personale contro di loro. È solo che non voglio sposare nessuno! Voglio rimanere nubile per sempre. Zeus si grattò la testa. Semplicemente, la cosa non gli quadrava. — Vuoi dire… non sposarti mai? Non vuoi avere figli? Non vuoi essere moglie e madre? — Esatto, mio signore — rispose Estia. — Mi prenderò cura del focolare. Terrò acceso il fuoco. Preparerò i banchetti. Farò tutto quello che è in mio potere per aiutare la famiglia. Solo, promettimi che non dovrò mai sposarmi! Apollo e Poseidone ne furono un po’ offesi, ma era difficile rimanere arrabbiati a lungo con Estia, che era così dolce, giudiziosa e sollecita. La perdonarono per la stessa ragione per cui avevano voluto sposarla: era una persona davvero gradevole. E, tra gli Olimpi, la gradevolezza era un bene raro e tenuto in gran conto. — Ritiro la mia proposta di matrimonio — disse Poseidone. — E in più, proteggerò il diritto di Estia a non sposarsi. — Anch’io — si unì Apollo. — Se è quello che vuole, onorerò i suoi desideri. Zeus alzò le spalle. — Bene, non capisco ma mi adeguo. In effetti, si prende cura del focolare in modo fantastico. E nessuno riesce ad arrostire i marshmallow come lei: né troppo molli, né troppo secchi. Estia, il tuo desiderio è esaudito! Lei si abbandonò a un gran sospiro di sollievo e divenne la dea del focolare, che non sembrerebbe granché, ma era esattamente quello che voleva. Più tardi qualcuno inventò la storia secondo la quale Estia aveva un trono sull’Olimpo e vi rinunciò quando comparve un nuovo dio chiamato Dioniso. È un bel racconto, ma non compare negli antichi miti. Estia non desiderò mai un trono. Era troppo modesta per una cosa del genere. Il suo focolare divenne un porto sicuro nelle tempestose discussioni degli Olimpi. Tutti sapevano che quello era territorio neutrale. Ci si poteva andare per una pausa, un boccale di nettare o una chiacchierata con Estia. Lì si poteva riprendere fiato senza essere scocciati da nessuno. Estia si prendeva cura di tutti, così tutti si prendevano cura di lei. L’esempio più famoso? Una sera mamma Rea diede una grande festa sul Monte Ida per celebrare l’anniversario della vittoria degli Olimpi su Crono. Furono invitati tutti gli dei e i Titani amici, insieme a decine di ninfe e satiri. La festa degenerò un tantino: nettare a fiumi, portate e portate di ambrosia e folli danze con i Cureti. Gli dei arrivarono persino a convincere Zeus a raccontare qualcuna delle sue sconvenienti storielle sui satiri. Estia non era molto abituata ai party. Intorno alle tre del mattino ne ebbe abbastanza di danze e nettare e confusione, per cui si allontanò verso i boschi. Lì si imbatté in un asinello legato a un albero; probabilmente uno dei satiri lo aveva usato per arrivare alla festa. Chissà perché, ma Estia trovò la cosa molto divertente. — Salve, signor ciuco! — ridacchiò. — Ora mi metto… hic!… mi stendo qui e mi faccio un sonnellino. A te non spiace stare di guardia, vero? Cadde a faccia in giù nell’erba e cominciò a russare all’istante. L’asino non sapeva bene cosa pensare, ma rimase lì tranquillo. Pochi minuti dopo, un dio minore della natura chiamato Priapo si trovò a passare da quelle parti. Di lui non si sente parlare molto, nelle antiche storie. E a dire la verità non è granché importante. Era un dio campestre che proteggeva orti e giardini. Eccitante, vero? “Oh, grande Priapo, proteggi i miei cetrioli con i tuoi immensi poteri!” Se vi è mai capitato di vedere quegli stupidi gnomi da giardino, ecco, si tratta di un retaggio dei giorni in cui la gente metteva le statue di Priapo in cortile per proteggere le colture. Comunque, Priapo era un tipo festaiolo, che amava flirtare con le ragazze. Quella sera aveva bevuto parecchio, e stava pattugliando i boschi in cerca di un’ignara ninfa o dea con cui scambiare qualche tenerezza. Quando arrivò alla radura e vide la bella dea addormentata in mezzo all’erba, che russava allettante al chiarore lunare, pensò: “SÌÌÌÌ!”. Strisciò verso Estia. Non sapeva che dea fosse, ma non gli importava più di tanto. Era sicuro che se le si fosse accoccolato vicino a lei, una volta sveglia, ne sarebbe stata felicissima, perché insomma, chi disdegnerebbe un interludio romantico con il dio della verdura? Le si inginocchiò accanto. Aveva un profumo delizioso, di legna bruciata e marshmallow arrostiti. Le fece scorrere le dita tra i capelli scuri e sussurrò: — Ciao, piccola. Che ne dici di fare un po’ di conoscenza? Nell’oscurità, all’asino dovette sembrare un’ottima idea, perché ragliò: — Ihooooooooh. E Priapo gridò: — Ahhhhhh!! Estia si svegliò di soprassalto e fu orripilata nel trovare il dio della verdura chino su di lei, con una ciocca dei suoi capelli in mano. Così strillò: — Aiuto! Alla festa, gli dei udirono il suo grido. Piantarono lì quello che stavano facendo e si precipitarono in suo soccorso, perché se si trattava di Estia semplicemente non ci si poteva esimere. Non appena videro Priapo, gli diedero tutti addosso, lanciandogli calici in testa, prendendolo a pugni, insultandolo. Il poveretto riuscì a stento a salvare la pelle. Più tardi sostenne che non aveva idea che si trattasse di Estia. Pensava fosse solo una ninfa, o qualcosa del genere. Comunque, non fu più il benvenuto alle feste degli Olimpi, e dopo quel fatto tutti divennero ancora più protettivi nei confronti della dea. C’è poi un’altra parte della sua storia abbastanza importante, ma devo fare qualche congettura perché non la troverete negli antichi miti. All’inizio c’era un solo focolare al mondo, e apparteneva agli dei. Il fuoco era il loro marchio di fabbrica. Gli insignificanti umani non sapevano come ottenerlo. Ancora si rifugiavano nelle caverne, grugnivano, si mettevano le dita nel naso e si prendevano a colpi di clava. Al Titano Prometeo, quello che li aveva fabbricati con l’argilla, la cosa dispiaceva molto. Dopotutto li aveva fatti a immagine e somiglianza degli immortali. Ed era intimamente convinto che gli umani fossero anche capaci di comportarsi come gli immortali. Tutto quello di cui avevano bisogno era un piccolo aiuto per cominciare. Ogni volta che andava in visita sull’Olimpo, vedeva gli dei che si raccoglievano intorno al focolare di Estia. Era proprio il fuoco l’elemento cardine che conferiva al palazzo l’atmosfera di casa. Il fuoco teneva caldi. Sul fuoco si cucinava e si preparavano gradevoli bevande. Di sera ci si accendevano le torce. E con i carboni ardenti si potevano fare un sacco di scherzetti divertenti. Se solo gli umani ne avessero avuto un po’… Alla fine Prometeo prese coraggio e andò a parlare con Zeus. — Salve Zeus, mio signore — esordì. — Ecco, mi chiedevo se non potrei mostrare agli umani come si fa il fuoco. Zeus aggrottò la fronte. — Umani? Intendi dire quei pupazzetti lerci che fanno dei gridolini divertenti quando li schiacci? Perché mai dovrebbero aver bisogno del fuoco? — Potrebbero imparare a essere più simili a noi — spiegò Prometeo. — Potrebbero costruire case, fondare città, roba del genere. — Questa — replicò Zeus — è la peggiore idea che io abbia mai sentito. La prossima volta ti salterà in testa di armare gli scarafaggi. Dai il fuoco agli umani, e quelli prenderanno possesso del mondo. Diventeranno arroganti e penseranno che sono bravi quanto gli immortali. No. Divieto assoluto. Ma Prometeo non poteva lasciar perdere. Continuava a osservare Estia seduta accanto al focolare, e ammirava la sua capacità di tenere insieme la famiglia degli Olimpi con il fuoco sacro. Non era giusto, si disse. Gli umani meritavano di stare altrettanto bene. E poi cosa successe? Molte versioni di questa storia dicono che Prometeo rubò un tizzone dal focolare e lo nascose nello stelo cavo di una pianta di finocchio, anche se si potrebbe pensare che qualcuno lo avrebbe notato mentre sgattaiolava fuori dal palazzo con un rametto fumante che puzzava di anice bruciato. Nessun accenno al fatto che Estia lo abbia aiutato. Però, come avrebbe fatto a ignorare quello che il Titano stava facendo? Era sempre vicino al focolare. Per Prometeo non sarebbe stato possibile rubare il fuoco senza che lei se ne accorgesse. Personalmente ritengo che Estia provasse una certa simpatia per Prometeo e per quei piccoli umani, perché aveva un cuore gentile. Credo che abbia aiutato il Titano o quantomeno abbia chiuso un occhio, lasciandogli rubare il tizzone ardente. Comunque sia andata, Prometeo strisciò fuori dall’Olimpo con il suo bastoncino incandescente e lo diede agli umani. Ai quali ci volle un po’ per imparare a usare quella roba ustionante senza ammazzarsi, ma alla fine ci riuscirono, e l’idea divampò come… be’, come un incendio. Di solito Zeus non prestava molta attenzione a ciò che accadeva sulla terra. Dopotutto, il suo regno era il cielo. Ma durante una limpida notte in cui era affacciato al suo balcone sull’Olimpo, notò che il mondo era punteggiato di luci: nelle case, nei paesi, persino in qualche città. Gli umani erano usciti dalle caverne. — Brutto delinquentello — borbottò. — Prometeo ha armato gli scarafaggi. Accanto a lui Era disse: — Eh, cosa? — Niente — farfugliò Zeus. Ma gridò alle guardie: — Trovate Prometeo e portatemelo qui. Subito! Era proprio furibondo. Non gli andava che qualcuno disubbidisse ai suoi ordini, soprattutto quando questo qualcuno era un Titano che lui aveva generosamente risparmiato dopo la guerra. Era così arrabbiato che decise di punirlo in modo esemplare. Lo incatenò a una roccia del Monte Caucaso, al confine più orientale del mondo, e poi evocò un’enorme aquila, il suo animale sacro, perché beccasse nel ventre aperto di Prometeo e si nutrisse del suo fegato. Perdonatemi, è piuttosto ributtante, lo ammetto. Spero non stiate per mettervi a tavola. Ogni giorno l’aquila sventrava Prometeo e gli mangiava il fegato. E ogni sera Prometeo guariva e gli si formava un fegato nuovo, in tempo utile perché l’aquila ricomparisse il mattino dopo. Gli altri dei e Titani recepirono il messaggio: “Non disubbidire a Zeus o ti capiterà qualcosa di brutto, che molto probabilmente vedrà coinvolti catene, fegati e aquile fameliche”. Quanto a Estia, nessuno l’accusò di niente; ma dovette sentirsi molto in colpa per Prometeo, perché si assicurò che il suo sacrificio non fosse vano. Divenne la protettrice di tutti i focolari del mondo. In ogni casa mortale il camino centrale era consacrato a lei. Se avevi bisogno di protezione, per esempio quando qualcuno ti dava la caccia o ti malmenava, correvi verso il focolare più vicino e così nessuno poteva più toccarti. Chiunque vivesse in quella casa era obbligato ad aiutarti, se chiedevi asilo. Era lì che le famiglie pronunciavano i loro giuramenti più solenni, e ogni volta che bruciavano una porzione del loro pasto come sacrificio agli dei, parte di quel sacrificio andava a Estia. A mano a mano che i paesi e le città crebbero, venivano considerati come un’unica grande casa per tutti. Ogni cittadina aveva un focolare centrale, che era sotto la protezione di Estia. Se arrivava l’ambasciatore di un’altra città, come prima cosa doveva visitare quel focolare per annunciare che veniva in pace. Se uno si trovava nei guai e riusciva ad arrivare là, nessuno in città poteva fargli del male. Anzi, i cittadini erano tenuti a proteggerlo perché ne andava del loro onore. Alla fine saltò fuori che Prometeo aveva ragione. Gli umani cominciarono effettivamente a comportarsi come dei, nel bene e nel male. Gli dei stessi ci si abituarono e persino lo accettarono. Gli umani edificavano templi a loro dedicati, bruciavano incenso in loro onore e cantavano quanto fossero meravigliosi gli Olimpi. Il che certamente aiutò. Zeus però non perdonò mai Prometeo per aver disubbidito, anche se alla fine il povero Titano riuscì a liberarsi, ma quella è un’altra storia. Quanto a Estia, fu per lo più in grado di mantenere la pace sull’Olimpo, ma non sempre. Per esempio, una volta sua sorella Demetra si arrabbiò talmente tanto con i fratelli che quasi causò la Guerra Mondiale Numero Zero… DEMETRA SI TRASFORMA IN GRAN-ZILLA Demetra, appunto. Cercate di non eccitarvi troppo, perché questo capitolo è tutto su grano, pane e cereali. Quando si tratta di carboidrati, per dirla papale papale, Demetra va completamente fuori di testa. Però non sono onesto nei suoi confronti. Certo, era la dea dell’agricoltura, ma possedeva anche altre virtù. Delle tre dee più vecchie era la sorella di mezzo, così associava la personalità gentile di Estia alla straordinaria sensualità di Era, la minore. Aveva lunghi capelli biondi, color del grano maturo. Portava una corona di foglie di granturco intrecciate, un capo fashion che non tutti potrebbero permettersi, ma che a lei invece stava… da dio. Le piaceva adornarsi di papaveri, che crescono numerosi nei campi di grano, o perlomeno così mi hanno detto. Non mi capita spesso di passeggiare nei campi di grano. Sopra il vestito verde brillante indossava una tunica nera, così ogni volta che si muoveva sembrava che dal terreno fertile spuntassero teneri germogli. Profumava come un campo di gelsomini dopo la pioggia. Dal momento che Estia aveva deciso di non sposarsi, Demetra fu la prima dea che attirò veramente l’attenzione degli dei maschi. (Anche lei era bella, però aveva un caratterino… Ma su questo torneremo più avanti.) Non solo era affascinante, era anche di buon cuore (in genere), sapeva cuocere un ottimo pane e meravigliosi biscotti, e stranamente dava l’impressione di essere pure una valente guerriera. Guidava un cocchio d’oro trainato da due draghi gemelli, e al suo fianco riluceva una spada dorata. Addirittura, uno dei suoi nomi greci era Demetra Crisaora, “dalla Spada d’Oro”, che mi sembra un gran bel titolo per un film di arti marziali. Secondo alcune leggende, la sua spada non era altro che la falce di Crono, che lei aveva riforgiato trasformandola nel più pericoloso attrezzo per la mietitura che ci fosse al mondo. Di solito la usava per tagliare il grano, ma se si arrabbiava abbastanza ci poteva anche combattere… Comunque, piaceva a tutti gli dei maschi. Sia Zeus sia Poseidone sia Ade l’avevano chiesta in sposa, ma Demetra aveva risposto picche a tutti e tre. Preferiva vagare per la terra, trasformare distese aride in campi fertili, incoraggiare i frutteti a fare frutti e i fiori a sbocciare. Un giorno Zeus pensò bene di insistere. Aveva appena divorziato da Temi e non si era ancora risposato. Si sentiva solo. Per chissà quale ragione si fissò su Demetra e decise che doveva assolutamente averla. La trovò in un campo di grano (chi l’avrebbe detto, eh?). Demetra gli gridò di andarsene, ma lui continuò a molestarla. — Avanti — le disse. — Un bacio soltanto. E poi magari un altro. E poi magari… — No! — gridò lei. — Smettila di rompere! — Io sono il re dell’universo — la lusingò allora Zeus. — Se ci mettiamo insieme, tu sarai la regina! — Non m’interessa. — Demetra fu tentata di sguainare la spada d’oro, ma Zeus era il dio più potente in assoluto, e coloro che gli si opponevano si cacciavano in un sacco di guai (vedi Prometeo). Oltretutto, aveva parcheggiato il cocchio lontano, all’altro lato del campo, così non poteva semplicemente saltarci su e togliersi di torno. Zeus continuò a tormentarla: — Avremmo figli meravigliosi e potenti. — Vattene. — Dai, baby. Non fare così. Alla fine Demetra si scocciò così tanto che si trasformò in un serpente. Pensava di seminare Zeus strisciando via e nascondendosi tra le stoppie. Pessima idea. Anche Zeus poteva trasformarsi in animale. Così assunse pure lui le sembianze di serpente e la seguì. Fu facile, perché i serpenti hanno un olfatto finissimo e, come ho detto prima, Demetra emanava un profumo di pioggia-su-gelsomino assolutamente inconfondibile. La divinità si insinuò in un buco nel terreno. Altra pessima idea. Zeus le scivolò dietro. Il tunnel era strettissimo, così una volta che lui ebbe bloccato l’ingresso, Demetra non ebbe più via di scampo. E non aveva spazio per cambiare di nuovo aspetto. Zeus la tenne intrappolata e non la lasciò andare fino a che… vabbè, vedete di far funzionare la fantasia. Alcuni mesi più tardi Demetra partorì il suo primo figlio, una bimba, a cui diede il nome di Persefone. Era una bambina deliziosa e dolcissima. Demetra quasi perdonò Zeus per averla indotta a una compromettente tresca fra serpenti. Quasi. Non si sposarono, e Zeus fu un padre abbastanza negligente; la piccola però divenne la luce degli occhi di Demetra. Tra un po’ vi parlerò di Persefone… Mi piacerebbe poter dire che fu l’unica volta in cui Demetra si mise in una situazione spinosa con un maschio. Purtroppo non fu così. Qualche anno più tardi, Demetra andò in vacanza al mare. Era lì a passeggiare, godendosi la solitudine e l’aria fresca, quando la scorse Poseidone. Essendo il dio del mare, tendeva a notare le signore carine che passeggiavano sulla spiaggia. Emerse dunque dalle onde nel suo migliore abito verde, con il tridente in mano e in testa una corona di conchiglie (era convinto che lo rendesse irresistibile). — Ciao, fata — disse facendo guizzare le sopracciglia. — Devi essere un’onda di marea, perché mi hai letteralmente tolto la sabbia da sotto i piedi. Erano anni che provava quella battuta, e fu felicissimo di poterla finalmente usare. Demetra non ne fu per niente impressionata. — Vattene, Poseidone. — In effetti, a volte il mare si ritira — convenne lui — ma poi ritorna sempre. Che ne dici di una cenetta romantica nel mio palazzo sommerso? Demetra prese mentalmente nota di non parcheggiare più il cocchio così lontano. I due draghi infatti le sarebbero tornati utili. Decise di cambiare forma e andarsene, ma questa volta pensò bene di non trasformarsi in un serpente. “Ho bisogno di qualcosa di più veloce” rifletté. Gettò lo sguardo in fondo alla spiaggia e vide un branco di cavalli selvaggi che correvano sul bagnasciuga. “Un cavallo! Perfetto!” In un attimo si trasformò in una giumenta bianca e partì al galoppo sulla spiaggia. Raggiunse il branco e si mescolò agli altri cavalli. Ma il suo piano aveva alcune gravi pecche. Innanzitutto, anche Poseidone era in grado di trasformarsi in un cavallo, cosa che fece immediatamente: un maestoso stallone bianco, che prese a galopparle dietro. Secondo, era stato proprio Poseidone a creare i cavalli. Di loro sapeva tutto, e poteva facilmente sottometterli ai propri ordini. Come aveva potuto un dio del mare creare un animale terrestre come il cavallo? Su questo torneremo dopo. In ogni caso, Poseidone raggiunse il branco e cominciò a farsi largo in cerca di Demetra, o quantomeno ad annusare per individuare il suo profumo così dolce e particolare. Trovarla fu facile. Il travestimento apparentemente perfetto di Demetra si rivelò una trappola perfetta. Gli altri cavalli facevano largo a Poseidone, ma si stringevano intorno a lei e non la lasciavano muoversi. Demetra fu travolta dalla paura di essere calpestata, tanto che non riuscì nemmeno a trasformarsi in qualcos’altro. Poseidone le si affiancò e nitrì qualcosa tipo: “Ciao, bellezza. Ti va una galoppatina noi due soli?”. Con grande orrore di Demetra, il dio fu molto più affettuoso di quanto lei avrebbe voluto. Oggigiorno per un comportamento simile verrebbe arrestato. Cioè… posto che non fosse sotto sembianze di cavallo. Non credo che si possa arrestare un cavallo. A quei tempi però il mondo era un luogo decisamente più rozzo e incivile. Demetra non poté nemmeno andare a denunciare Poseidone a re Zeus, perché costui era cafone quanto lui. Mesi dopo, una Demetra molto gravida e molto arrabbiata partorì due gemelli. La cosa più strana? Uno dei neonati era una dea, l’altro uno stallone. Ora, non è mia intenzione soffermarmi sul perché e sul percome. La bimba fu chiamata Despoina, ma di lei nei miti non sentirete parlare molto. Quando divenne adulta, il suo compito fu semplicemente quello di accudire il tempio di Demetra come Somma Sacerdotessa del Granturco Magico, o una cosa simile. Il suo fratellino, lo stallone, fu chiamato Arion. Finì per diventare un destriero immortale velocissimo, che aiutò Ercole e qualche altro eroe. Era un cavallo stupendo, anche se non sono proprio sicuro che Demetra fosse orgogliosa di avere un figlio che aveva bisogno di essere ferrato a mesi alterni e che la stuzzicava sempre col muso per avere una mela. A questo punto verrebbe da pensare che Demetra abbia giurato di chiudere per sempre con i maschi cafoni e disgustosi per unirsi a Estia nel club delle single impenitenti. Stranamente invece, un paio di mesi più tardi, si innamorò di un principe umano di nome Iasione. Il che dimostra quanta strada avessero fatto gli umani da quando Prometeo aveva dato loro il fuoco. Avevano imparato a parlare e a scrivere, a lavarsi i denti e a pettinarsi. Indossavano vestiti e a volte facevano anche il bagno. Alcuni erano persino abbastanza affascinanti da poter flirtare con le dee. Questo Iasione (non Giasone, quello è un altro) era un eroe di Creta. Carino e beneducato, si prendeva molta cura degli agricoltori delle sue parti, il che era il sistema più sicuro per fare breccia nel cuore di Demetra. Un giorno era in giro a ispezionare alcuni campi appena arati, quando la dea casualmente gli comparve accanto sottoforma di fanciulla mortale. Cominciarono a chiacchierare. — Oh, quanto adoro il grano. — Anch’io! È la cosa più bella che ci sia! Insomma, si innamorarono. Si incontrarono nei campi molte altre volte. Per alcune settimane Demetra fu in totale balia dell’amore. Ovviamente qualcosa doveva andare male. La volta successiva che si recò nel campo di grano, accadde che Zeus stava guardando dall’Olimpo. La vide in atteggiamenti intimi con il suo innamorato mortale – lo abbracciava e lo baciava, e intanto continuavano a parlare di grano – e fu accecato dalla gelosia. Profondamente ingiusto, vero? Lui e Demetra non stavano nemmeno insieme. Ciononostante, quando Zeus scorse un eroe mortale trastullarsi con la sua pseudo ragazza, perse la testa. La cosa bella di quando ti arrabbi con i mortali è che sono mortali. Il che significa che puoi ucciderli. Demetra stava dando un bacio appassionato a Iasione, allorché sentì il cielo tuonare. Le nuvole si squarciarono e brillò un fulmine. ZAP! In una frazione di secondo, la dea si trovò sola nel campo di grano, con i vestiti bruciacchiati e un mucchietto di cenere di eroe ai propri piedi. Si mise a gemere e a lanciare maledizioni a Zeus, ma non ci fu niente da fare. Si rifugiò imbronciata nel suo appartamento privato sull’Olimpo e vi rimase chiusa per mesi. Quando alla fine uscì, teneva in braccio l’ultimo bambino che avrebbe mai concepito, un maschietto di nome Pluto (non Plutone: anche quello è un altro). Nemmeno di Pluto sentirete parlare molto nei vecchi miti, ma diventò un dio minore della ricchezza e dell’agricoltura. Andava a spasso per la Grecia con sacchetti di monete d’oro in cerca di bravi contadini da premiare per le loro fatiche. Una specie di cassiere del Monopoli. A questo punto Demetra si disse che ne aveva abbastanza. Ogni tanto accettava qualche appuntamento occasionale, ma non si sposò mai né ebbe altri figli, e i suoi rapporti con il genere maschile rimasero sempre tesi. E le esperienze che aveva avuto finirono in qualche modo per inacidire il suo carattere mite. Si potrebbe pensare che una dea del grano non arriverebbe mai a incutere paura, e invece… bang! Avreste dovuto vedere che cosa fece a quel tipo, Erisittone. Lo so. Il nome più stupido mai concepito. Comunque, questo tizio era un principe locale che pensava di essere l’uomo più figo che si fosse mai visto dall’Età del Bronzo in avanti. Voleva costruirsi un enorme maniero con i tronchi della vicina foresta. Il problema? Che gli alberi più grandi e più belli – gli unici secondo lui adatti per il suo palazzo – crescevano in un bosco sacro a Demetra. Queste querce e questi pioppi massicci svettavano fino a trenta metri di altezza, e ciascuno ospitava uno spirito dei boschi, una driade, che lo proteggeva. Le driadi danzavano leggiadre, cantavano di Demetra e intrecciavano corone di fiori, facevano insomma tutto quello che fanno le driadi nel tempo libero. Da quelle parti tutti sapevano che quel bosco era sacro alla dea, ma a Eri-come-sichiama (credo che lo chiamerò semplicemente Eric) non importava. Quindi radunò qualcosa come cinquanta tra i suoi amici più forti e robusti, li armò con asce di bronzo e si diresse con loro nel bosco. Non appena le driadi li videro arrivare, cominciarono a strillare, chiamando Demetra a proteggerle. Dovevano senz’altro avere la dea in connessione veloce, perché quella arrivò in un lampo. Prese le sembianze di una fanciulla e si piazzò sulla strada, proprio davanti a Eric e alla sua schiera di tirapiedi armati d’ascia. — Oh, caspita! — esclamò. — Che baldi giovanotti! Dove siete diretti? — Levati di mezzo, pupa — grugnì Eric. — Dobbiamo far legna. — Ma perché volete prendervela con questi poveri alberi indifesi? — Perché ho bisogno di legname! — sbraitò Eric. — Costruirò la più grande dimora del mondo! I suoi amici applaudirono e brandirono le asce minacciosi. — Forse è meglio che tu scelga altri alberi — provò a convincerlo la dea, cercando di non perdere la calma. — Questo bosco è sacro a Demetra. — Bah! — disse Eric. — Sono gli alberi più alti della zona, e io ho bisogno di alberi alti per costruire il mio salone. Io e i miei amici abbiamo intenzione di banchettare lì ogni sera. Darò feste magnifiche e diventerò famoso in tutta la Grecia! I suoi amici gridarono: — Gnam! — e fecero schioccare rumorosamente le labbra. — Ma questa è la casa di molte driadi innocenti — insistette Demetra. — Se cercheranno di fermarmi — minacciò Eric — farò a pezzi anche loro! La dea strinse i denti. — E se fosse Demetra, a cercare di fermarti? Eric scoppiò a ridere. — Che ci provi. Una stupida dea delle messi non mi fa nessuna paura. E ora fatti da parte o riduco a pezzetti anche te, ragazza. Diede una spallata alla dea e si diresse verso l’albero più grosso, un enorme pioppo argentato. Non appena sollevò l’ascia, una folata di vento rovente lo mandò a sbattere a terra sul sedere. Demetra crebbe fino a raggiungere la sua massima altezza, torreggiando sugli alberi come Gran-zilla nella sua tunica verde e nera, la corona di foglie di granturco fumante nell’aria dorata, la falce che gettava una lunga ombra sul gruppo di mortali. — E DUNQUE — tuonò la gigantesca dea — IO NON TI FAREI PAURA? I cinquanta scagnozzi di Eric lasciarono cadere le asce e fuggirono strillando come bambinette. Eric cercò di rialzarsi, ma aveva le ginocchia di gelatina. — Ecco, io ho… stavo solo… — VOLEVI DIVENTARE FAMOSO PER I TUOI BANCHETTI? — ruggì Demetra. — E ALLORA BANCHETTERAI, ERISITTONE. OGNI NOTTE UN GRANDE BANCHETTO, PROPRIO COME VOLEVI! IO SONO LA DEA DEI RACCOLTI, LA SIGNORA DEL NUTRIMENTO. TU MANGERAI E MANGERAI PER IL RESTO DEI TUOI GIORNI, MA LA TUA FAME NON SARÀ MAI SODDISFATTA. Quindi scomparve in un bagliore di luce color smeraldo. Il povero Eric corse via piagnucolando e giurando agli dei che non avrebbe mai più toccato quel bosco sacro. Non servì a nulla. Quella sera, una volta finito di cenare, si ritrovò affamato esattamente come quando aveva cominciato. Spazzolò una seconda cena, e poi una terza, ma non si sentì affatto meglio. Trangugiò un intero gallone d’acqua, senza tuttavia riuscire a placare nemmeno la sete. In pochi giorni la fame e la sete divennero intollerabili. Quando si svegliava, era affamato come quando si era addormentato. Eric era un uomo ricco, ma nel giro di poche settimane diede fondo a tutti i suoi averi esclusivamente per comprare cibo. Mangiava di continuo, dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno. Però non serviva a niente. Alla fine consumò tutto quello che possedeva, gli amici lo abbandonarono e si ritrovò così disperato che cercò persino di vendere la propria figlia come schiava per avere di che comprarsi da mangiare. Per fortuna Demetra non fu così crudele da lasciare che ciò accadesse. La fanciulla implorò che qualcuno la salvasse, e in suo aiuto venne Poseidone. Forse pensava di dovere un favore a Demetra per l’incidente delle tenerezze sotto spoglie equine. O molto più probabilmente non si faceva scrupoli ad aiutare una fanciulla carina. In ogni caso, prese la ragazza sotto la propria protezione e la nominò governante del suo palazzo in fondo al mare. Quanto a Eric, dilapidò ogni suo avere e morì tra indicibili sofferenze. Un lieto fine. Il mondo andò avanti. I mortali capirono che forse sarebbe stato saggio prendere Demetra sul serio. Chiunque controlli le derrate alimentari può essere una benedizione… o un’irrimediabile maledizione. Dopo questo episodio, la dea ritenne di aver dato sfogo a tutta la sua rabbia. Decise di rilassarsi e godersi la vita, e la cosa più bella in assoluto che la vita le aveva donato era stata la figlia maggiore, Persefone. Certo, voleva bene anche agli altri, ma Persefone era la sua preferita. — Ho chiuso con le storie drammatiche — disse a se stessa. — Adesso voglio prendermela comoda e dedicarmi alla mia meravigliosa bambina! Come potete immaginare, la faccenda non risultò così semplice. PERSEFONE SPOSA IL SUO STALKER (O DEMETRA - LA VENDETTA) Devo essere onesto. Non ho mai capito cos’avesse Persefone di tanto straordinario. Insomma, per essere una che ha quasi distrutto l’universo, a me non sembra poi granché. Certo, era carina. Aveva i capelli biondi della madre e gli occhi azzurri di Zeus. E nessuna preoccupazione al mondo. Era convinta che il suddetto mondo fosse stato inventato esclusivamente per il suo piacere. Immagino che quando i tuoi genitori sono dei, non ci voglia molto a darlo per scontato. Adorava la vita all’aria aperta. Trascorreva le giornate a passeggiare per la campagna con le sue amiche ninfe e dee, sguazzando nei ruscelli, raccogliendo fiori in prati soleggiati e mangiando frutta colta direttamente dall’albero… Okay, okay, sto inventando, ma ritengo fosse quello che una dea teenager facesse prima che inventassero gli smartphone. Il fatto è che di Persefone non si può dire molto altro. Non è che fosse poi questa gran intelligentona. Non era coraggiosa. Non aveva obiettivi o hobby (a parte la faccenda dei fiori). Se ne stava semplicemente lì, a godersi la vita e a fare la bambina viziata, ultraprotetta e ultraprivilegiata. Certo, un’esistenza fantastica, se riesci ad averla, ma io non sono cresciuto così, e quindi non ardo di simpatia per lei. Ciononostante, Demetra viveva per la figlia, e non posso biasimarla per la sua iperprotettività. Di brutte esperienze con dei subdoli e infingardi ne aveva avute abbastanza. Dopotutto, Persefone era venuta al mondo proprio in seguito all’imboscata di un serpente. Poteva già considerarsi fortunata a non essere uscita da un uovo. Ovviamente, nell’istante preciso in cui fu dichiarata off-limits, gli dei maschi la notarono e pensarono che fosse incredibilmente sexy. Tutti volevano sposarla, ma sapevano che Demetra non lo avrebbe mai permesso. Ogni volta che uno di loro si avvicinava troppo, la dea appariva dal nulla con il suo cocchio trainato dai draghi e con la spada d’oro magica al fianco. La maggior parte dei pretendenti lasciò perdere e decise di corteggiare qualche dea meno rischiosa. Ma ci fu uno che non riusciva a togliersi Persefone dalla testa. Per la precisione Ade, il Signore dell’Oltretomba. Un connubio perfetto, vero? Un tizio vecchio e cupo, che vive nella più vasta caverna esistente al mondo stipata di anime morte, che si innamora di una fanciulla giovane e graziosa a cui piacciono la luce del sole, i fiori e le scampagnate all’aria aperta. Tutto a gonfie vele, no? Ade sapeva di non avere speranza: per lui Persefone era assolutamente fuori portata. Oltretutto Demetra non avrebbe permesso a nessun dio di avvicinarsi a sua figlia. Men che meno avrebbe lasciato che qualcuno la invitasse a cena nel Tartaro. Ade cercò di togliersela dalla testa. Ma laggiù nell’Oltretomba si sentiva molto solo, senza altra compagnia che quella dei morti. Continuava quindi a mettersi l’elmo dell’invisibilità e a sgattaiolare nel mondo di sopra così da poter rimirare Persefone che giocava spensierata. In altre parole, fu il primo stalker del mondo. Non so se vi è mai capitato di avere una cotta veramente tosta per qualcuno; sta di fatto che per Ade era diventata un’ossessione. Si teneva in tasca alcuni schizzi che ritraevano Persefone. Incideva il suo nome con un coltello sul tavolo di ossidiana, che non era una fatica da poco. La sognava e aveva con lei conversazioni immaginarie dove le dichiarava il proprio amore, e Persefone gli confessava di aver sempre avuto un debole per vecchi dei bavosi e subdoli che vivevano in caverne zeppe di morti. Era così preso da quel pensiero che non riusciva più a concentrarsi sul lavoro, che consisteva nello smistare le anime appena arrivate nell’aldilà. I fantasmi cominciavano a scappare indietro nel mondo, o a vagare nella zona sbagliata degli Inferi. Gli ingorghi di traffico ai cancelli dell’Oltretomba diventarono insostenibili. Alla fine Ade non riuscì a sopportare oltre. A suo onore va detto che non cercò di imbrogliare Persefone o di prenderla con la forza, perlomeno non subito. Pensò: “D’accordo, Demetra non mi ascolterà mai. Forse allora potrei parlare con il padre di Persefone”. Per Ade non era facile salire in visita all’Olimpo. Sapeva di non essere il benvenuto, lassù. E poi non aveva nessuna voglia di chiedere un favore a quell’odioso di suo fratello Zeus, ma si fece coraggio ed entrò a passo di marcia nella sala del trono degli Olimpi. Il caso volle che Zeus quel giorno fosse di buon umore. Aveva appena finito il suo divino lavoro settimanale: pianificare le nuvole, organizzare i venti e fare tutto quello che un dio del cielo deve fare. Ora era lì comodamente seduto a sorseggiare nettare e a godersi la bella giornata. Stava sognando a occhi aperti un’altra graziosa signora che aveva intenzione di sposare, Era; perciò, quando arrivò Ade, aveva stampato in faccia un sorriso trasognato. — Zeus, mio signore — lo salutò Ade con un inchino. — Ade! — esclamò lui tutto allegro. — Come va, fratello? È tanto che non ci si vede! Ade fu tentato di ricordargli che era tanto perché lui gli aveva detto che sull’Olimpo non era il benvenuto, ma preferì non stare a sottilizzare. — Ecco, in effetti… — esordì cincischiando nervosamente la tunica nera. — Ho bisogno di un consiglio… riguardo a una ragazza. Zeus fece un gran sorriso. — Allora sei venuto nel posto giusto. Le signore vanno pazze per me! — Sì, certo… — Ade cominciò a chiedersi se quella visita fosse stata una buona idea. — Si tratterebbe di una particolare ragazza: tua figlia Persefone. Il sorriso di Zeus si affievolì. — Ah. E che sei venuto a dirmi di lei? Ade si era tenuto dentro i suoi sentimenti per così tanto tempo che non riuscì più a trattenersi. Confessò ogni cosa, persino tutta la faccenda dello stalking. Promise che sarebbe stato un marito meraviglioso e devoto. Le avrebbe dato tutto quello che desiderava, se solo Zeus gli avesse concesso di sposarla. Zeus si accarezzò la barba. In giorni normali una richiesta così ridicola lo avrebbe fatto infuriare. Avrebbe brandito il suo fulmine e rimandato Ade negli Inferi con la tunica in fiamme e i capelli ridotti a ciocche bruciacchiate e fumanti. Ma, come abbiamo detto, quel giorno era di buon umore. Anzi, fu commosso che Ade fosse andato da lui a parlargli del suo problema e fosse stato così sincero. Si sentì persino dispiaciuto per il fratello, anche perché capiva perfettamente come si potesse essere ossessionati da una donna. Certo, Persefone era sua figlia; ma Zeus aveva avuto un sacco di figlie da un sacco di donne diverse. E questa non era nemmeno la sua preferita. Si sentiva generoso e disposto a concederla. Tamburellò le dita sul bracciolo del trono. — Il problema è Demetra. Uhm… perché è la figlia di Demetra, vero? Non ricordo bene. — Sì, mio signore — confermò Ade. — E la sua figlia prediletta — riprese Zeus con aria meditabonda. — La luce dei suoi occhi, che non perderebbe mai di vista eccetera eccetera. — Sì, mio signore. — Ade cominciava a sentirsi a disagio. — Dovrei forse parlare con Demetra? Magari, se tu rompi il ghiaccio e le fai promettere di ascoltarmi… Oppure potrei dichiarare il mio amore direttamente a Persefone… — Che cosa? — Zeus assunse un’espressione inorridita. — Essere onesti con una donna? Non funziona mai, fratello. Devi essere deciso. Prenderti quello che vuoi. — Eh… sicuro? — Con me ha sempre funzionato — confermò Zeus. — Suggerisco un rapimento. Quando nessuno ti vede, cattura Persefone e portala nella tua tana. Demetra non saprà quello che è successo. Quando se ne renderà conto… sarà troppo tardi! Persefone sarà tua. Avrai un sacco di tempo per convincerla a rimanere con te negli Inferi. Ade ormai nutriva forti dubbi sulla saggezza di Zeus. — Ecco… sei sicuro che sia una buona idea? — Assolutamente! — dichiarò convinto il dio del cielo. Ade si mordicchiò un labbro. Questa faccenda del rapimento gli sembrava un po’ rischiosa. Non era certo che Persefone sarebbe stata contenta di essere rapita, ma non è che lui ne sapesse molto di donne. Magari Zeus aveva ragione. (Per la cronaca: NO, NON AVEVA RAGIONE.) — Però c’è un problema, mio signore — fece notare Ade. — Persefone non è mai sola. O è con Demetra oppure in compagnia di qualche ninfa o dea. Come riuscirò a rapirla senza che nessuno mi veda? Se anche usassi il mio elmo dell’invisibilità, non potrei far diventare invisibile lei o impedirle di strillare. Gli occhi di Zeus brillarono maliziosi. — Tu lascia fare a me. Tieni solo pronto il cocchio. Zeus aspettò finché Demetra non fu impegnata in qualche faccenda di agricoltura all’altro capo del mondo, tipo far maturare l’orzo in Libia o roba del genere. Di preciso non lo so. Comunque, Persefone era stata affidata alle cure delle ninfe. Di solito la cosa funzionava, ma in effetti le ninfe non erano proprio tagliate per fare le guardie del corpo. Si facevano distrarre facilmente, tanto quanto Persefone. Come d’abitudine, le ragazze uscirono a passeggiare nei prati e passarono la mattinata a esplorare le colline e a spruzzarsi allegre nel fiume. Dopo un piacevole e pigro pranzo, durante il quale misero le tuniche ad asciugare al sole, Persefone decise di andare a raccogliere fiori. — Non ti allontanare troppo! — le gridò una ninfa. — Tranquilla — la rassicurò lei. Per parte sua, non era per niente preoccupata. Il mondo era il suo parco giochi! Tutti le volevano bene, e poi che cosa poteva succedere mentre coglieva fiori in un prato? Le ninfe erano assonnate, accaldate dal sole e sazie del pranzo, così si stesero per un sonnellino. Persefone vagabondò lungo il fianco della collina finché non ebbe raccolto un gran mazzo di rose selvatiche. Le quali, per non so quale ragione, non avevano spine. Il loro intenso profumo le fece quasi venire le vertigini. Poi si spostò un po’ più in là e scorse un intero campo di viole. — Che meraviglia! — esclamò. Si mise a passeggiare tra le viole, cogliendo le più belle e gettando via le rose, che ora al confronto sembravano pallide e slavate. Bene, probabilmente avrete già intuito dove tutto questo avrebbe portato; Persefone invece ne era completamente ignara. Non sapeva che era stato Zeus a far crescere tutti quei fiori, a rendere ogni macchia più colorata e più profumata di quella appena lasciata per attirarla sempre più lontano dalle sue chaperon. Ma come poteva il dio del cielo far crescere i fiori? Che ne so. L’ipotesi migliore che posso fare è che avesse ancora una certa influenza su Gea, anche se era addormentata. Probabilmente di quando in quando Zeus riusciva a evocare i suoi poteri per far accadere qualcosa sulla terra; magari non cose enormi come sollevare le montagne. Ma far crescere fiori? Non è poi una gran fatica. Persefone saltellava di fiore in fiore mormorando: — Oh, che meraviglia! Che meraviglia! — e cogliendo i più belli. Senza accorgersene, si trovò molto lontano dalle ninfe addormentate. Si avventurò in una valle appartata che era un tripudio di giacinti. Si era chinata a raccoglierne uno azzurro, bellissimo, quando il suolo tremò. Davanti ai suoi piedi si aprì una spaccatura, e quattro cavalli neri attaccati a un maestoso cocchio emersero scalpitando nella luce del sole. Il conducente era drappeggiato in fluttuanti vesti scure, indossava guanti di ferro, aveva una spada enorme al fianco e una frusta in una mano. Il viso era coperto da un elaborato elmo di bronzo decorato con immagini di morte e tortura. Col senno di poi, Ade si chiese se fosse stata una buona idea indossare il suo elmo del terrore al primo appuntamento, ma ormai era troppo tardi. Persefone lanciò un grido e indietreggiò in mezzo all’erba. Sarebbe potuta scappare, ma era in stato di shock. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Tutto era sempre ruotato intorno a lei, tutto era sempre andato come lei voleva. Non poteva essere in pericolo. D’altronde era abbastanza sicura di non avere mai desiderato che un tizio dall’aspetto demoniaco comparisse su un cocchio nero a schiacciare i suoi giacinti. A dire la verità, ogni tanto aveva sognato a occhi aperti qualche giovanotto perdutamente innamorato di lei. Con le ninfe aveva passato parecchio tempo a riderci su. Ma questo non era quello che si era immaginata. Ade si tolse l’elmo. Aveva un incarnato ancora più pallido del solito, e i capelli schiacciati dall’elmo. Sudava, era nervoso e batteva le palpebre come se avesse un bruscolino in un occhio. — Sono Ade — proferì con voce tremula. — E ti amo. Persefone gridò ancora, e questa volta molto più forte. Non sapendo cos’altro fare, Ade l’afferrò per un braccio, la tirò sul cocchio e sferzò i cavalli. I quattro destrieri sparirono nelle viscere della terra, e il crepaccio si richiuse dietro di loro. L’unico testimone del rapimento fu Elio, lassù sul suo incandescente bolide acchiapparagazze, perché aveva un’ottima vista e vedeva praticamente ogni cosa. Ma pensate forse che abbia alzato il telefono per chiamare l’Olimpo e riferire l’accaduto? Figuriamoci. Innanzitutto, allora non c’erano i telefoni. In secondo luogo, a Elio non andava di farsi coinvolgere nelle faccende degli dei. Dopotutto lui era un Titano. Pensava di essere già fortunato ad avere un lavoro e a non essere finito in fondo al Tartaro. E poi, quel rapimento non era certo la cosa più folle che avesse visto durante le sue traversate quotidiane del cielo. Quegli dei di cose pazzesche ne combinavano in continuazione. Ragazzi, le storie che avrebbe potuto raccontare! Prima o poi avrebbe scritto un libro. E così continuò a badare ai fatti propri. Quanto alle ninfe che avrebbero dovuto tenere d’occhio Persefone, dormirono per tutta la durata del rapimento. L’unico essere vivente che udì la fanciulla gridare fu la persona più improbabile che potreste immaginare. In una caverna incastonata nelle pendici del monte più vicino, Ecate, della stirpe dei Titani, si stava facendo i fatti suoi. Era tutta presa in faccende di sortilegi, crocevia magici e fantasmi. Praticamente era la prima grande fan di Halloween. Di solito lasciava la sua grotta solo una volta calata la sera, quindi quel pomeriggio era lì seduta a leggere libri di incantesimi o che so io, quando udì una ragazza gridare. Ecate sarà pure stata l’oscura divinità della magia, ma non era malvagia. Si precipitò in aiuto della ragazza, ma quando raggiunse il prato tutto si era già concluso. Durante il giorno i suoi poteri erano deboli. Era sicura che la terra si fosse aperta e qualcuno fosse stato caricato a forza su un cocchio e trascinato sotto, ma non aveva idea di chi fosse il rapitore e chi il rapito. Perciò non sapeva cosa fare. Non è che potesse chiamare il 113. Dal momento che non conosceva i fatti, decise di tornare alla sua caverna e aspettare fino al crepuscolo, quando avrebbe potuto lanciare incantesimi più forti e auspicabilmente ottenere maggiori informazioni. Nel frattempo, le ninfe si erano svegliate ed erano andate a cercare Persefone, che però era letteralmente scomparsa dalla faccia della terra. Prima che Demetra tornasse e scoprisse che la sua preziosa figlia non si trovava, le poverette erano già andate nel panico. Non so se Demetra le punì; se così fu, non dev’essere stato bello. Fatto sta che Demetra diede di matto. Cominciò a vagare ovunque, gridando il nome di Persefone fino a sgolarsi. A chiunque incontrava chiedeva se avesse visto qualcosa. Non si cambiò d’abito né fece il bagno per nove giorni. Non mangiò e non dormì. Non fece altro che cercare la figlia. Probabilmente aveva preso la direzione sbagliata, perché il decimo giorno tornò indietro e cominciò a setacciare la zona intorno alla caverna di Ecate. Ecate sentì Demetra chiamare Persefone e non le ci volle molto per fare due più due. Ogni notte aveva cercato di scoprire qualcosa riguardo al rapimento, ma i suoi incantesimi non erano riusciti a rivelarle niente. C’era in atto una qualche magia che occultava l’efferato gesto. Aveva la sensazione che dietro tutta la faccenda ci fosse un dio molto potente, o addirittura più di uno. Corse fuori incontro a Demetra e le raccontò delle urla che aveva sentito e della sua convinzione che qualche dio non meglio identificato avesse rapito Persefone. La madre non prese bene la notizia. Disperata, urlò così forte che le piante nel raggio di un chilometro appassirono e morirono. Per centinaia di chilometri in tutte le direzioni ogni pannocchia sul suolo della Grecia esplose trasformandosi in popcorn. — Troverò chi l’ha presa! — gemette Demetra. — Lo ucciderò! E poi lo ucciderò un’altra volta! A questo punto chiunque sarebbe scappato a gambe levate dalla povera madre impazzita, ma Ecate era davvero dispiaciuta per lei. — Stasera ti aiuterò nella ricerca — le disse. — Ho delle torce, e sono molto brava a scrutare nel buio. Così cercarono dal tramonto all’alba, ma senza fortuna. Dopo aver promesso di riprendere al crepuscolo, Ecate tornò nella sua caverna a riposare. Demetra invece non si fermò. Continuò a girovagare finché non scese di nuovo la sera e approdò in una città chiamata Eleusi. Ormai, anche se era una dea immortale, cominciava a essere esausta. Decise di visitare il posto, magari far riposare i piedi per qualche minuto e socializzare con i locali. Chissà, magari avevano visto qualcosa o ricevuto qualche notizia. Assunse sembianze umane e si diresse verso l’edificio dove era custodito il focolare della cittadina, perché era lì che i forestieri andavano normalmente quando volevano chiedere aiuto agli abitanti. Nella piazza si era raccolta una piccola folla. Una donna con vesti pregiate e una corona d’oro in testa stava tenendo non so che discorso. Essendo una dea intelligente, Demetra pensò: “Quella dev’essere la regina”. Si scoprì che era proprio la regina Metanira, che con la famiglia e le sue guardie offriva sacrifici agli dei per celebrare la nascita del suo ultimo figlio, Demofoonte (o più probabilmente per scusarsi con gli dei di avergli dato un nome tanto stupido). Quando Demetra si avvicinò, Metanira stava rivolgendo una preghiera proprio a lei. Persino nella sua prostrazione, per la dea dev’essere stato abbastanza emozionante sentire la gente che la pregava senza sapere che fosse lì presente. Se fossi stato io, avrei aspettato finché la regina non avesse detto: “O grande Demetra…”. Poi sarei saltato fuori tra scintille e fuochi d’artificio e avrei detto: “HAI CHIAMATO?”. Probabilmente è un bene che nessuno mi abbia fatto dio. Comunque sia, Demetra pensò che fosse di buon auspicio. Aspettò che la regina avesse finito la preghiera di ringraziamento per il bimbo, che era molto carino. Quando la folla si disperse, si diresse verso di lei; ma fu Metanira a notarla per prima. — Tu, vecchia! — la apostrofò. Demetra sbatté le palpebre e si guardò intorno, chiedendosi a chi si stesse rivolgendo. Poi ricordò di essere sotto false sembianze. — Ah, giusto! Sì, mia regina! — disse allora nella sua migliore vocina querula. Metanira studiò il volto di Demetra e i suoi abiti laceri. Con quel travestimento la dea doveva sembrare ancora più stremata. Dopo dieci giorni, di certo non profumava di gelsomino come suo solito. — Non ti conosco — disse alla fine la regina. La famiglia e i fedeli servitori le si raccolsero intorno. Demetra stava valutando se fosse il caso di ritrasformarsi in un mostro del grano alto trenta metri e farli fuggire tutti terrorizzati, quando Metanira sorrise. — Benvenuta a Eleusi! Noi accogliamo sempre i forestieri, perché non sai mai se uno di loro sia un dio travestito, giusto? Le guardie ridacchiarono. Probabilmente stavano pensando: “Già, proprio. Questa vecchiaccia, una dea”. Demetra si inchinò. — Molto saggio, mia regina. Davvero molto saggio. — Stai cercando un posto dove riposare? — chiese Metanira. — Hai bisogno di cibo? Come posso aiutarti? “Accidenti” pensò Demetra. “Fa sul serio.” Dopo giorni passati a logorarsi per l’ansia e a correre come una pazza per tutta la Grecia in cerca di sua figlia, rimase interdetta di fronte a tanta gentilezza. Quegli insignificanti mortali non potevano sapere che non era una mendicante qualsiasi, eppure la regina in persona si era presa la briga di essere carina con lei, a dire il vero più carina di quanto la maggior parte dei suoi pari sarebbe stata. Era così stanca ed emotivamente provata che scoppiò in lacrime. — Mia figlia — singhiozzò. — Mia figlia è stata rapita. Metanira trattenne il fiato. — Che cosa? Ma è un oltraggio! Un giovane bellissimo fece un passo avanti e strinse le mani a Demetra. — Cara vecchia, io sono Trittolemo, il figlio primogenito della regina. Ti giuro che ti aiuterò a trovare tua figlia facendo tutto ciò che è in mio potere! Metanira annuì in segno di assenso. — Ma ora vieni, cara ospite — disse. — Si vede che sei esausta. Non aiuterai certo tua figlia se finirai per morire di fame e sfinimento. Ti prego, stasera resta con noi e raccontaci la tua storia. Mangia e riposa. Domani mattina decideremo cosa fare. Demetra avrebbe voluto declinare l’invito e proseguire la sua ricerca. Dal momento che era immortale, ovviamente non era in pericolo di vita. In effetti, però, stanca lo era. E quella era brava gente. Dopo dieci giorni sulla strada, sui suoi abiti sudici cominciavano a germogliare varietà di muffe e funghi che persino la dea delle piante non conosceva. Ringraziò la regina e accettò la sua ospitalità. Dopo essersi fatta un bel bagno caldo e aver indossato una tunica pulita, si sentì molto meglio. Si unì alla famiglia reale per la cena e raccontò le sue tribolazioni, tralasciando però alcuni dettagli minori, per esempio il fatto di essere una dea. Spiegò che la figlia era scomparsa durante una gita nei prati con le amiche. Una donna che viveva non lontano aveva udito delle grida, quindi era evidente che la ragazza era stata rapita, ma lei non aveva idea di chi potesse essere stato o dove la figlia potesse essere. La famiglia reale si produsse in un brainstorming di suggerimenti: mettere una taglia, far stampare l’immagine di Persefone sui cartoni del latte, affiggere per tutta la città manifesti con la scritta SCOMPARSA. Alla fine fu Trittolemo ad avere l’idea migliore. — Manderò degli esploratori verso i quattro punti cardinali — disse. — Raccoglieremo informazioni e divulgheremo la notizia del rapimento. Tu resta con noi e riposa per qualche giorno, ospite onorata. So che sei in ansia, ma questo è il modo più rapido per battere la campagna. Quando i miei cavalieri ritorneranno, ne sapremo di più. Di nuovo Demetra avrebbe voluto protestare. Era terribilmente preoccupata per la figlia, ma non le veniva nessuna idea migliore, ed era grata dell’ospitalità di quella famiglia. E poi aveva davvero bisogno di qualche giorno di riposo. Dopo il panico iniziale per il rapimento, il suo umore aveva cominciato a volgere verso una fredda determinazione. In fondo al cuore sapeva che Persefone era ancora là fuori: prigioniera, ma illesa. Glielo diceva il suo istinto di madre. Non importava quanto ci sarebbe voluto, l’avrebbe trovata a tutti i costi. E quando avesse messo le mani sul rapitore… oh, la sua vendetta sarebbe stata terribile. Lo avrebbe ricoperto di fertilizzante, affinché tutti i suoi pori germogliassero, e avrebbe riso di fronte alle sue grida terrorizzate mentre si trasformava in uno di quei pupazzi con i capelli d’erba, il più grosso del mondo. Sorrise al principe Trittolemo. — Grazie per la tua gentilezza. Accetto l’offerta. — Benissimo! — Gheee! — gorgheggiò il neonato Demofoonte tra le braccia della regina. Demetra lanciò uno sguardo al bimbo. Il suo cuore si riempì di calore e nostalgia. Sembrava un secolo da quando Persefone era stata così piccina! — Lasciate che ricambi la vostra gentilezza — disse allora alla regina. — Sono un’ottima balia, e so cosa vuol dire essere una neomamma. Avete bisogno di un po’ di sonno! Stanotte permettete che mi occupi io del bambino. Prometto di tenerlo al sicuro, e lo benedirò con incantesimi contro il male, così da farlo diventare un eroe bello e forte! Io non sono mai stato mamma, ma credo che mi suonerebbe sospetto se una vecchia incontrata per strada si offrisse di tenermi il bambino per tutta la notte. Invece, come probabilmente avrete già intuito, la regina Metanira era una persona di animo buono e fiducioso. Era molto dispiaciuta per quella povera vecchia che aveva appena perso la figlia. E poi era vero che da quando era arrivato il bimbo non aveva dormito molto. — Ne sarò onorata — disse porgendo Demofoonte a Demetra. Quella notte la dea cullò il bambino accanto al fuoco. Gli cantò le canzoncine dell’Olimpo, come “Ci son due dinosauri e un minotauro” e “Sono un piccolo ciclope”. Gli diede da bere il nettare, la bevanda degli dei, mescolato al suo solito latte. E pronunciò potenti benedizioni per tenerlo lontano dai pericoli. “Ti renderò immortale, piccolino” pensò. “È il minimo che possa fare per la tua mamma dal cuore così buono. Ti renderò tanto forte che nessuno ti potrà mai rapire come hanno rapito mia figlia.” Quando il bimbo si addormentò, lo sistemò tra le braci del camino. Ecco, ora penserete: “Santo cielo! Lo mette ad arrostire?”. Tranquilli, tutto a posto. Il bimbo stava benissimo. La magia di Demetra lo proteggeva, così le fiamme lo facevano semplicemente sentire comodo e al caldo. Mentre Demofoonte dormiva, il fuoco cominciò a bruciare la sua essenza mortale, dando inizio al processo di trasformazione in dio. Al mattino, la regina Metanira non riusciva a credere che il suo bambino fosse cresciuto così tanto. Durante la notte aveva messo su parecchi chili, gli occhi erano più vivaci e la presa più forte. — Che cosa gli hai dato da mangiare? — chiese stupita. Demetra ridacchiò. — Oh, niente di speciale, avevo solo promesso di prendermi cura di lui. Vedrai, diventerà un giovanotto meraviglioso! A colazione Trittolemo annunciò che i suoi cavalieri erano già partiti. Si aspettava notizie nel giro di un paio di giorni. Demetra era divorata dall’ansia. Era tentata di continuare il viaggio per conto suo, ma poi acconsentì ad aspettare il ritorno degli esploratori. Quella sera si occupò ancora del piccolo Demofoonte. Questa volta lo nutrì con ambrosia e lo mise di nuovo a dormire nel fuoco. Al mattino fu contenta di constatare che si stava immortalizzando alla perfezione. “Un’altra notte dovrebbe bastare” decise. Quando restituì il bambino alla regina, la mattina dopo a colazione, questa non fu molto entusiasta. Più che un neonato, suo figlio sembrava un bambino di quattro mesi. Si chiese che tipo di magia quella vecchia stesse usando, e se avesse superato i test di sicurezza per l’infanzia. Forse mescolava qualche ormone della crescita al latte di Demofoonte. Ancora qualche giorno, e avrebbe avuto bicipiti da sollevatore di pesi e peli sotto le ascelle. Ciononostante, era troppo educata per prendersela con la sua ospite o lanciare accuse senza avere le prove. Si tenne i dubbi per sé, ma sotto sotto sperò che i messaggeri tornassero quel giorno stesso e che la vecchia se ne andasse. Purtroppo non tornarono. — Sono certo che saranno qui domattina — promise Trittolemo. — E allora avremo senz’altro qualche notizia. Demetra acconsentì a fermarsi un’altra notte. Questa volta, finita la cena, prese il bimbo dalle braccia della regina senza nemmeno chiederlo, dando per scontato che andasse bene così. Ma nel petto di Metanira il cuore prese a battere forte. Rimase a guardare l’ospite che portava il bambino nella propria stanza, e cercò di convincersi che non ci fossero problemi. La vecchia era innocua. Senz’altro non avrebbe trasformato il suo piccolo in un mostro schiumante nel giro di una notte. Tuttavia non riuscì a dormire. Cominciò a temere che si sarebbe persa l’infanzia del figlio. Al mattino si sarebbe svegliata e avrebbe trovato un robusto infante di tre anni con tanto di barba correrle incontro gridando con voce da baritono: “Ciao mamma, come va?”. Alla fine, non potendo sopportare oltre, scivolò silenziosa lungo il corridoio verso la stanza di Demetra per controllare il bambino. La porta era accostata. Nel camino brillavano le braci. Metanira sentì la vecchia cantare una ninnananna, ma dal bimbo non veniva alcun suono. Stava certo dormendo come un angioletto. E se invece fosse stato in pericolo? Senza bussare spinse la porta… e lanciò uno strillo con quanto fiato aveva in gola. La vecchia sedeva tranquilla su una sedia a dondolo, guardando Demofoonte bruciare nel fuoco! Metanira si lanciò verso il camino, afferrò il bimbo e lo tolse dalle fiamme, incurante di scottarsi le mani e le braccia. Il bimbo cominciò a piagnucolare, seccato di essere stato svegliato dal suo tiepido pisolino. La regina si scagliò contro Demetra, pronta ad artigliarle la faccia, ma la vecchia la anticipò. — Cosa ti è venuto in mente? — strillò alzandosi dalla sedia e agitando i pugni. — Perché l’hai fatto? Hai rovinato tutto! Metanira rimase interdetta. Nel frattempo, avendo sentito gridare, si erano precipitati nella stanza anche il principe Trittolemo e un manipolo di guardie. — Che succede? — chiese il principe. — Imprigionate questa donna! — gridò Metanira, tenendo stretto fra le braccia ustionate il piccolo Demofoonte. — Ha cercato di uccidere mio figlio! Lo stava facendo bruciare nel camino! Le guardie si lanciarono in avanti, ma Trittolemo ordinò: — Fermi! E quelle si bloccarono. Trittolemo guardò accigliato la madre, poi la vecchia. Era abbastanza intelligente da capire che c’era qualcosa che non andava. Il piccolo piangeva, ma a parte quello sembrava stesse bene. Nessuna traccia di ustioni. La copertina che lo avvolgeva non era nemmeno strinata. E la vecchia appariva più esasperata che colpevole o spaventata. — Che significa tutto questo? — le domandò. — Significa — ringhiò Demetra — che tua madre ha appena rovinato tutto. Poi cominciò a emanare uno scintillio. Il travestimento si dissolse e lei si erse in tutta la sua altezza di dea dai capelli d’oro, le vesti rilucenti di verde, la spada che mandava bagliori al suo fianco. Le guardie lasciarono cadere le armi e arretrarono. Probabilmente avevano sentito la storia di Eric. La regina rimase senza fiato. Essendo una donna pia, sapeva riconoscere una divinità. — Demetra! — Già — disse la dea. — Stavo cercando di farti un favore, stupida donna. Ancora poche ore nel fuoco, e il tuo piccolo sarebbe diventato immortale! Sarebbe cresciuto fino a diventare un bellissimo giovane dio e ti avrebbe portato onore in eterno. Ora hai rovinato la magia. Sarà solo un essere umano… Un grande eroe, certo, alto e forte, ma condannato alla vita mortale. Sarà semplicemente Demofoonte, un essere superiore solo a metà, quando invece avrebbe potuto essere Tuttofoonte, un essere superiore completo. Metanira inghiottì a fatica. Non sapeva se dovesse scusarsi o ringraziare la dea o che altro. Era così sollevata di aver riavuto il suo piccolo sano e salvo, senza bruciature, che le importava molto poco che fosse immortale. A lei suonava già bene la storia del grande eroe. Però reputava più saggio non dirlo alla dea. — Avrei… avrei dovuto fidarmi di te — mormorò. — Ti prego, grande Demetra, puniscimi pure per questa mancanza di fede, ma non fare del male alla mia famiglia. Demetra liquidò quelle parole con un cenno. — Non essere sciocca, non ti punirò. Sono solo seccata. Mi avete aiutato nella mia ricerca, e… — Oh! — Trittolemo sollevò la mano. — Il che mi ricorda — disse — che uno dei messaggeri è appena tornato con una notizia. — Riguardo a mia figlia? — Demetra dimenticò all’istante il disappunto e afferrò il principe per le spalle. — L’hai trovata? Trittolemo non era abituato a essere scrollato da una dea immortale, ma cercò comunque di darsi un tono. — Ecco, non esattamente, mia signora. Però il messaggero dice di aver conosciuto qualcuno che ha conosciuto qualcun altro che ha conosciuto un tizio in una taverna nel lontano Oriente. Questo tizio diceva di essere il Titano del sole, Elio. A quanto pare stava cercando di far colpo sulle donne con questa storia. Demetra strinse gli occhi. — Flirtare con donne qualsiasi in una taverna? Tipico di Elio. Oddio, a dire il vero è tipico di molti dei. E che cos’ha detto? — Sembra stesse raccontando la storia di tua figlia Persefone. Sosteneva di aver assistito al rapimento e di sapere chi ne è l’artefice. Ma, ecco, non ha fatto il nome del colpevole. — Ovvio! — Demetra era così agitata che dalla maglietta di Trittolemo cominciò a spuntare erba. — Oh, scusami… ma questa è una bellissima notizia! Avrei dovuto pensarci di andare a far visita a Elio. Lui vede tutto! — Baciò Trittolemo sulla guancia. — Grazie, mio caro ragazzo. Non dimenticherò il tuo aiuto. Una volta riavuta mia figlia, la ricompensa per te sarà inimmaginabile. Trittolemo cercò di sorridere, ma non ci riuscì. Era preoccupato che Demetra lo mettesse a dormire nel fuoco di un camino. — Figurati, non è il caso. Davvero. — No, insisto. Ma ora devo scappare! Demetra si trasformò in una tortora, uno dei suoi uccelli sacri, e volò fuori dalla finestra, lasciandosi dietro una molto confusa famiglia reale di Eleusi. Elio seppe di essere nei guai non appena vide Demetra irrompere nella sua sala del trono. In genere amava rilassarsi durante le ultime ore della notte, prima di sellare i suoi fieri destrieri e recarsi al lavoro. Era lì bello spaparanzato a pensare a tutte le cose assurde che aveva visto durante la cavalcata del giorno prima: davvero avrebbe dovuto scrivere un libro! Ed ecco che improvvisamente le porte di bronzo si spalancarono ed entrò Demetra, che andò a parcheggiare il cocchio trainato dai draghi proprio sotto gli scalini del trono. I due mostri ringhiarono e scoprirono le zanne, che stillarono bava sulle scarpe d’oro di Elio. — Ehm… ciao — disse lui, un po’ nervoso. — Dov’è mia figlia? — La voce di Demetra era seria e pericolosamente calma. Elio rabbrividì. Non aveva alcuna intenzione di farsi coinvolgere nelle baruffe divine. Non lo pagavano abbastanza per sobbarcarsi anche quello. Ma decise che non era proprio il momento di tacere un’informazione. — L’ha presa Ade — rispose. E le raccontò tutto quello che aveva visto. Demetra trattenne un grido: non voleva causare un’altra esplosione epidemica di popcorn. Solo che… Ade? Di tutti gli orribili e disgustosi dei che potevano aver preso la sua preziosa figlia, Ade era il più orribile e disgustoso. — E perché non me l’hai detto prima? — La voce era tagliente come la lama della sua spada. — Be’, ecco… — Non importa! — tagliò corto la dea. — Di te mi occuperò dopo. Quando Zeus saprà che Ade ha disonorato nostra figlia, si infurierà! E guidò il cocchio fuori dal palazzo del sole, dirigendosi verso l’Olimpo. Come potete ben immaginare, la conversazione con Zeus non andò come lei aveva previsto. Entrò a passo di marcia nella sala del trono e gridò: — Zeus! Non crederai mai a quello che è successo! E gli raccontò tutta la storia, chiedendogli di intervenire. Stranamente, Zeus non sembrò poi così indignato. Anzi, tendeva a sfuggire lo sguardo di Demetra. Continuava a stuzzicare la punta del suo fulmine, e lungo il viso gli scendevano rivoletti di sudore. La dea sentì un brivido freddo percorrerle la schiena, una specie di rabbia più intensa di qualunque emozione mai provata fino ad allora. — Zeus, che cos’hai fatto? — Ecco… — Il dio si strinse nelle spalle con aria imbarazzata. — Ade deve avermi accennato che voleva sposare Persefone. Demetra si conficcò le unghie nel palmo della mano finché non cominciò a stillare icore. — E? — E ritengo sia un buon connubio! Ade è potente. E bello… cioè, in realtà, è potente. — Rivoglio indietro mia figlia — tagliò corto Demetra. — SUBITO! Zeus si agitò sul trono. — Senti, piccola… — Non chiamarmi piccola. — Non posso rimangiarmi la parola data. Quel che è fatto è fatto. La ragazza è negli Inferi. Sono sposati. Fine della storia. — No — ribatté Demetra gelida. — Niente fine della storia. Finché non riavrò indietro mia figlia, sulla terra non crescerà più niente. I raccolti avvizziranno. La gente morirà di fame. Ogni singolo essere vivente condividerà il mio dolore finché tu non sistemerai le cose e farai tornare Persefone! E uscì dalla stanza tuonando minacce (tuonare di solito era compito di Zeus, ma lei era fuori di sé dalla rabbia). Tornò a Eleusi, l’unico posto dove l’avevano aiutata. Lì permise alle messi di continuare a crescere, ma sul resto della terra tutto appassì e morì come aveva annunciato. Zeus si disse: “Sta solo facendo le bizze. Diamole qualche giorno e le passerà”. Ma trascorsero le settimane. Poi i mesi. Gli umani morivano di fame a migliaia. E se gli umani morivano di fame, non potevano bruciare offerte agli dei. Non potevano costruire nuovi templi. Tutto quello che potevano fare era piangere disperati e pregare gli dei ventiquattr’ore su ventiquattro implorando: “Aiutateci! Stiamo morendo di fame!”. Il che faceva venire a Zeus un gran mal di testa. E anche gli dei erano ormai ridotti a mangiare solo ambrosia e nettare, cosa che li stancò in fretta. Senza grano non potevano avere né il pane né quegli ottimi biscotti che a volte preparava Era. Alla fine Zeus cedette. Convocò il suo messaggero più importante, un dio di nome Ermes, e disse: — Senti, Ermes, vai giù negli Inferi, e di’ a Ade di rimandare indietro Persefone o non avremo più pace… E nemmeno biscotti. — Vado, capo. — Ed Ermes si fiondò nel regno dei morti. Nel frattempo, Persefone era rimasta nel palazzo di Ade e stava imparando nel modo peggiore che il mondo non girava intorno a lei. Non importa quante volte avesse battuto i piedi, trattenuto il respiro o strillato chiamando la madre: non otteneva niente. Piantò delle scenate epiche; distrusse letto e materasso (il che le rese molto difficile dormire); diede calci ai muri (che servì solo a farle male ai piedi); e quando i pallidi servi di Ade le portavano i pasti, lanciava i piatti e si rifiutava di mangiare, anche se moriva di fame. Questa faccenda del non mangiare era importante. Vedete, nell’antica Grecia consumare un pasto a casa di qualcuno era un po’ come firmare un contratto. Significava che accettavi il tuo ruolo di ospite. Chi ti ospitava doveva trattarti in modo adeguato, ma anche tu dovevi comportarti di conseguenza. In linea di massima, significava che eravate in rapporti di amicizia. Persefone non aveva intenzione di sottoscrivere quel contratto. Neanche a parlarne. I primi giorni si rifiutò di lasciare la propria stanza. Ade non la forzò, sebbene avesse cercato di parlarle a più riprese. — Senti — le aveva detto — tuo padre ha acconsentito al matrimonio. Mi dispiace per la faccenda del rapimento, che peraltro è stata una sua idea, ma vedi, io ti amo davvero. Sei meravigliosa, bellissima, e ti prometto… — Vattene! — Persefone gli aveva tirato la prima cosa che le era capitata sotto mano, che si dà il caso fosse un cuscino. Il quale era rimbalzato sul petto di Ade. Il povero dio se n’era andato triste e sconsolato e l’aveva lasciata in pace. Intorno al quarto giorno Persefone cominciò ad annoiarsi e uscì dalla sua stanza. Nessuno la fermò. Presto capì il perché. Fuori dal palazzo del re non c’era un posto dove andare. Era imprigionata nel regno dei morti, circondata da nient’altro che buie distese affollate di anime, senza nemmeno il cielo sopra, solo una cupa foschia. Se anche fosse fuggita, non aveva voglia di avventurarsi in quei campi pieni di gente morta, e non aveva idea di come ritornare nel mondo dei vivi. La cosa che la faceva infuriare di più? Che Ade si rifiutasse di arrabbiarsi con lei, nonostante i piatti rotti, le lenzuola strappate e gli epiteti orribili che gli urlava contro, anche se a dire il vero non ne conosceva molti. Aveva vissuto una vita felice e protetta, e chiamare Ade “testa di rapa” in effetti non era poi un insulto così forte. Ade incassava le ingiurie e le ripeteva che gli dispiaceva molto che fosse arrabbiata. — Io ti amo davvero — le disse un giorno. — Sei la cosa più luminosa che ci sia nell’intero regno. Con te qui non mi mancherà mai più la luce del sole. Tu per me sei molto più calda del sole stesso. — Sei una gran testa di rapa! — gli gridò lei. Dopo che Ade se ne fu andato, Persefone capì che il dio le aveva detto qualcosa di dolce, anche se in quel suo modo viscido e patetico, ovvio. Passarono i giorni. Più Persefone vagava per quel luogo, più si stupiva. Il palazzo era enorme. Ade aveva stanze intere fatte d’oro e d’argento. Ogni giorno i servi sistemavano nuovi mazzi di fiori fatti di gioielli preziosi: dozzine di rose di rubini su steli di diamanti, girasoli di platino e oro con foglie tempestate di smeraldi. Persino sul Monte Olimpo Persefone non aveva mai visto tanta abbagliante opulenza. Cominciò a capire che per quanto raccapricciante e orribile, Ade aveva un immenso potere. Controllava migliaia di anime. Comandava mostri spaventosi e creature delle tenebre. Aveva accesso a tutte le ricchezze sotterranee, il che ne faceva il dio più ricco del mondo. Non importava quante cose lei potesse distruggere: lui le rimpiazzava con altre, addirittura migliori. Ciononostante, continuava a odiare quel luogo. Ovvio che lo odiava! Le mancavano il sole, i prati e i fiori freschi. L’aria degli Inferi era così umida che non riusciva mai a scaldarsi. La costante oscurità le causava una grave sindrome da Disturbo Affettivo Stagionale. Finché un giorno incappò nella sala del trono di Ade. Lui era seduto all’estremità opposta del salone, su un trono costruito con migliaia di ossa, e stava parlando a un evanescente fantasma. Persefone immaginò che si trattasse di uno spirito appena arrivato dal mondo mortale, perché sembrava stesse riferendo al dio le ultime notizie. — Grazie — disse Ade allo spirito — ma non ci rinuncerò mai! Non m’importa quanti mortali periranno. Persefone marciò verso il trono. — Che cosa stai tramando, essere infame che non sei altro? Chi stai uccidendo, questa volta? Ade aveva un’espressione confusa. Agitò una mano, e il fantasma scomparve. — Non… non mi va di raccontartelo — rispose. — Ti farebbe soffrire. Il che sortì l’unico effetto di farle venire ancora più voglia di saperlo. — Che sta succedendo? Ade fece un respiro profondo. — Tua madre è molto arrabbiata. Sa che ti ho preso in moglie. — Ah! — Il cuore di Persefone esultò. — Adesso sì che sei nei guai. Scommetto che sta arrivando qui con un esercito di ninfe arrabbiate e spiriti del grano furiosi, vero? — No — disse Ade. Persefone sbatté le palpebre. — No? — Qui non verrà mai — spiegò Ade. — Odia questo posto. Odia me. — Naturale! — esclamò Persefone, sebbene fosse un po’ scocciata. Contava che la madre venisse a salvarla, e di persona, che odiasse o meno il mondo sotterraneo. — Ma… non capisco. Che cosa stavi dicendo sul fatto che stanno morendo i mortali? Ade fece una smorfia. — Tua madre sta cercando di costringere Zeus a restituirti. Ha ridotto alla fame il mondo intero; continuerà a far morire migliaia di persone finché tu non sarai tornata. Per poco Persefone non svenne. Sua madre stava facendo cosa? Era sempre stata così dolce e gentile. Non riusciva a immaginare Demetra che lasciava morire una pianta di granturco, figuriamoci migliaia di persone. Ma qualcosa le diceva che Ade non mentiva. Si sentì pungere gli occhi. Non sapeva se fosse tristezza o rabbia, o semplicemente se le venisse da vomitare. Migliaia di mortali perivano per causa sua? — Devi lasciarmi ritornare — disse. — Immediatamente. Ade strinse la mascella. Per la prima volta non sembrò lo smidollato che era. Sostenne lo sguardo di lei, e i suoi occhi scuri brillarono di una fiamma purpurea. — Sei la mia vita — rispose. — Sei più preziosa di tutti i gioielli nascosti nelle viscere della terra. Mi dispiace che tu non mi ami, perché io sarò un buon marito. Farò di tutto per renderti felice. Ma non ti restituirò. Se sarà necessario, affronterò un attacco di Demetra. Aprirò i cancelli degli Inferi e permetterò che gli spiriti dei morti ritornino nel mondo, piuttosto che lasciarti andare! Al che Persefone non seppe proprio più cosa fare. Le sembrava che il cuore le si fosse ridotto a una piccola pietra preziosa, duro e brillante come un diamante. Si girò e scappò via. Corse per un corridoio che non aveva mai esplorato prima, aprì una porta, la oltrepassò ed entrò in un… giardino. Si sentì mancare il fiato. Era il luogo più incredibile che avesse mai visto. Sopra la sua testa fluttuavano eteree luci calde, forse anime di morti particolarmente solari. Non ne era certa, ma quel giardino era più caldo e luminoso di qualsiasi altro luogo dell’Oltretomba. Meravigliosi fiori sotterranei brillavano nel buio. Frutteti di pruni meticolosamente potati offrivano gemme gonfie e fragranti e frutti luminosi come lampade al neon. I sentieri erano tempestati di rubini e topazi. Bianche betulle agitavano i rami nell’aria come fantasmi di ghiaccio. In mezzo scorreva sinuoso un ruscello. Su un tavolo poco lontano era appoggiato un vassoio d’argento con una brocca di nettare gelato, insieme ai suoi biscotti preferiti e a frutta fresca. Non riusciva a capacitarsi di ciò che vedeva. Tutti i fiori e gli alberi che più amava del mondo di sopra erano in quel giardino, rigogliosi e profumati in quell’oscurità. — Cosa…? — Non trovava le parole. — Come…? — Ti piace? — chiese Ade alle sue spalle. L’aveva seguita fuori, e per una volta la sua voce non la fece rabbrividire. Persefone si girò, e sul volto di lui vide un timido sorriso. Quando sorrideva, non aveva un aspetto così orribile. — Tu… tu hai fatto questo per me? Ade si strinse nelle spalle. — Mi dispiace che non sia stato pronto prima. Ho fatto venire i migliori giardinieri. Ascalafo! Dove sei? Dai cespugli comparve un giovincello magro. In mano teneva un paio di cesoie. Ovviamente era morto, a giudicare dalla pelle simile a carta crespa e dal colore giallastro delle sclere, ma riuscì a imbastire un sorriso. In un certo modo sembrava più sveglio di tutti gli altri zombie che Persefone aveva incontrato là sotto. — Stavo potando le rose — rispose. — Signora, è un piacere conoscerti. Persefone capì che avrebbe dovuto dire qualcosa, tipo anche solo ciao, ma era troppo sbalordita. Proprio allora una gargolla alata entrò volando nel giardino. Sussurrò qualcosa all’orecchio di Ade, e subito la faccia del dio si fece seria. — Un visitatore — disse. — Scusami, mia cara. Quando fu uscito, Ascalafo fece un cenno verso il tavolo. — Mia signora, gradiresti qualcosa da mangiare? — No — rispose Persefone automaticamente. Nonostante tutto, continuava a non voler accettare l’ospitalità di un dio che l’aveva rapita. — Come preferisci — continuò il giardiniere. — Però ho appena colto queste melagrane mature. Sono fantastiche. Ne tirò fuori una dalla tuta, la poggiò sul tavolo, poi la tagliò in tre parti con un coltello. Dentro si videro brillare centinaia di succosi piccoli semi color porpora. Ora, personalmente non sono un grande fan delle melagrane, ma Persefone ne andava pazza. Le ricordavano i momenti felici del mondo in superficie, quando saltava giuliva nei prati con le sue amiche ninfe. Guardò il frutto lussurioso, e sentì lo stomaco protestare. Non mangiava nulla da giorni, ormai. Era immortale, quindi non poteva morire, però provava ugualmente la sensazione di essere sul punto di morire di fame. “Un boccone soltanto non potrà fare un gran danno” si disse. Si sedette e si mise in bocca un seme: non riusciva a credere che fosse tanto gustoso. Prima ancora di accorgersene, aveva mangiato un terzo del frutto. Probabilmente lo avrebbe finito se Ade non fosse tornato con il visitatore: il dio Ermes. — Amore mio! — gridò Ade, e la sua voce sembrò quasi un gemito. Persefone schizzò in piedi. Si nascose dietro la schiena le dita appiccicaticce, sperando di non avere gocce di succo rosso che le colavano giù per il mento. — Mmmmmmm? — mugolò, spostando contro una guancia alcuni semi mezzo masticati. — Questo è Ermes. — Il viso di Ade era cupo. — È venuto… è venuto a prenderti. Persefone deglutì. — Ma… avevi detto… — È stato Zeus a ordinarlo. — Ade aveva un’aria così abbattuta che Persefone dimenticò che si trattava di una buona notizia. — Sarei stato felice di combattere qualsiasi dio per la tua salvezza, ma persino io non posso lottare contro l’intero consiglio dell’Olimpo. Sono… sono costretto a rinunciare a te. Persefone avrebbe dovuto gridare di gioia. Era quello che voleva, no? Ma allora perché si sentiva così triste? Non poteva sopportare lo sguardo di Ade. Aveva fatto costruire quel giardino solo per lei. L’aveva trattata nel migliore dei modi… perlomeno dopo il rapimento iniziale, e quella era stata un’idea di Zeus. Per lei era disposto ad aprire le Porte della Morte. Ermes frattanto non sembrava preoccuparsi minimamente di tutto questo. — Bene, fantastico! — Sorrise a Persefone. — Pronta? Prima però devo farti qualche domanda a fini burocratici. Sai, faccende di dogana, per via dei confini. Hai avuto contatti con qualche animale vivo? Persefone corrugò la fronte. — No. — Visitato nessuna fattoria? — continuò a indagare Ermes. — Hai con te più di 10.000 dracme in valuta straniera? — Eh… no. — Un’ultima domanda — disse Ermes. — Hai mangiato del cibo qui negli Inferi? — Sollevò le mani in segno di scusa. — Lo so che è una domanda stupida. Insomma, è ovvio che sei abbastanza furba. Se lo avessi mangiato, saresti costretta a stare qui per sempre! Persefone si schiarì la voce. — Ecco… Non so se avrebbe mentito o meno, ma prima che potesse rispondere intervenne Ascalafo: — Mostra loro le mani, mia signora. Persefone arrossì. Tirò fuori le mani, tutte macchiate di rosso. — Un terzo di una melagrana — confessò. — E basta. — Oh — fece Ermes. — Accidenti. — Allora può rimanere! — Ade si mise a danzare in circolo, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, ma poi gli venne in mente che forse non era molto dignitoso. — Ehm, volevo dire. Deve rimanere. Sono… sono spiacente, mia cara, se questo ti rende triste. Ma non posso far finta di non essere felice. Questa per me è una bellissima notizia. Le emozioni di Persefone erano così confuse che non era sicura di come si sentisse. Ermes si grattò la testa. — Questo complica molto le cose. Devo fare rapporto in attesa di nuovi ordini. Torno subito. E volò sul Monte Olimpo per riferire gli ultimi fatti. Quando Demetra venne a conoscenza del problema, fu presa da un altro attacco di rabbia. Non si sa come, ma riuscì a mandare una potente maledizione attraverso il terreno fin giù in quel giardino segreto nel palazzo di Ade. Trasformò il giardiniere Ascalafo in un geco, perché aveva tradito Persefone. Perché un geco? Non ne ho idea. Immagino che così su due piedi un geco zombie le fosse sembrata la peggiore maledizione. Demetra rinnovò la minaccia di lasciar morire di fame il mondo intero se non avesse riavuto indietro la figlia. Ade mandò un altro messaggio via Ermes, avvertendo che i morti sarebbero risorti in un’apocalisse di zombie se Persefone non fosse rimasta con lui. Zeus aveva un tale mal di testa che gli sembrava si stesse spaccando in due, e si immaginava il suo bel mondo distrutto, finché Estia non se ne uscì con una soluzione. — Facciamo che Persefone dividerà il proprio tempo — suggerì. — Ha mangiato un terzo della melagrana, e allora passerà un terzo dell’anno con Ade e due terzi con Demetra. Incredibilmente, tutti gli dei si trovarono d’accordo. Ade era felicissimo di avere la sua bella moglie, anche se soltanto per un terzo dell’anno. Demetra era più che soddisfatta, anche se la collera nei confronti di Ade non le passò mai. Ogni volta che Persefone stava nel regno dei morti, Demetra diventava fredda e rabbiosa, e non lasciava crescere le piante. Secondo le leggende, ecco perché in Grecia ci sono tre stagioni, e durante i mesi freddi dell’autunno le messi non crescono. Quanto a Persefone, l’esperienza la costrinse tutto sommato a diventare adulta. Alla fine si innamorò di Ade e si ricavò uno spazio negli Inferi, anche se era felice quando poteva vivere nel mondo in superficie con la mamma e le vecchie amiche. Ecate, che aveva aiutato Demetra nelle ricerche, si trasferì nell’Oltretomba e divenne una delle cameriere personali di Persefone. Il che le andava benissimo. Quel mondo era molto più buio, nonché un posto migliore per praticare la magia che non una caverna piena di spifferi. Demetra si ricordò persino della promessa fatta a Trittolemo, il principe di Eleusi. Gli regalò il suo cocchio con le ruote di serpenti e lo promosse dio dell’agricoltura. Gli ordinò di viaggiare per il mondo e insegnare alla gente a coltivare le messi. Forse non parrà un incarico particolarmente prestigioso, ma immagino che a Trittolemo piacesse di più che essere obbligato a dormire nel fuoco. Dopodiché, la dea finalmente si calmò. Non fece più sfuriate, per fortuna, perché a quel punto cominciò sua sorella Era, le cui ire fecero sembrare la collera di Demetra a dir poco noiosa. ERA DÀ RIFUGIO A UN PICCOLO CUCULO Cominciamo subito con una bella notizia. Era si potrebbe senz’altro definire molto sexy. Con questo intendo dire che era veramente da sballo. Aveva una chioma nera come la liquirizia, un viso regale e indicibilmente bello, come quello della più meravigliosa top model che abbia mai calcato le passerelle. I Greci descrivevano i suoi occhi come “gli occhi di una vitella”. Che ci crediate o meno, era un complimento. Significa che erano grandi e liquidi, occhi in cui ci si poteva perdere. Immagino che i Greci passassero molto tempo a guardare le vitelle. In ogni modo, ai primordi dell’Olimpo, tutti gli dei maschi e i Titani erano persi per Era. Il che ci porta alla brutta notizia: Era aveva un caratteraccio e un modo di fare davvero impossibile. Ogni volta che qualcuno la avvicinava, lo stroncava subito, facendogli notare i suoi errori e trattandolo come uno scolaretto, tanto che quello se ne andava in lacrime e rinunciava a farle il filo. Madre Rea sapeva che a Era avrebbe fatto bene il collegio, dove avrebbe potuto maturare e imparare a essere meno acida. Purtroppo a quel tempo nessuno aveva ancora inventato gli educandati femminili. Rea allora mandò Era a vivere con zio Oceano e zia Teti sul fondo del più lontano oceano. Per un po’ Era rimase fuori dagli schermi radar. Passò qualche anno felice con Oceano e Teti, che rispetto agli altri immortali avevano un matrimonio abbastanza solido. Così decise che voleva un matrimonio come quello. Avrebbe aspettato il tipo giusto. Non si sarebbe limitata a sposare il primo dio che fosse passato da quelle parti, a meno che non le avesse dimostrato che sarebbe stato un bravo marito, rispettoso e fedele. Aveva sentito parlare dei problemi di sua sorella Demetra. Zeus, Poseidone e Ade erano bellimbusti fatti e finiti. Estia era stata tanto furba da rimanere zitella. Ma Era non aveva intenzione di restare single per sempre. Voleva un marito, dei figli, una villa fuori città… insomma, tutto il pacchetto. Doveva solo stare attenta a quale marito scegliere. Dopo qualche anno ritornò sull’Olimpo, dove ebbe il suo bell’appartamento a palazzo. Il suo brutto carattere adesso era abbastanza sotto controllo, anche se gli dei maschi trovavano ancora difficile flirtare con lei, perché se esageravano un po’, lei li metteva immediatamente al loro posto. Baciare Era? Fuori discussione. A meno che non le si facesse vedere un anello di fidanzamento e una dichiarazione del commercialista che eri in grado di mantenere una famiglia. Alla fine, la maggior parte degli dei e dei Titani decise che era troppo impegnativa, anche se era decisamente la più bella dea del creato (almeno fino a quel momento). C’era però un dio che considerava il conquistarla una sfida. A Zeus non piaceva sentirsi rispondere di no. Forse si è già notato. A tavola, durante la cena, scivolava vicino a lei e le raccontava le barzellette più spassose del suo repertorio. Per lei cantava accanto al focolare. Quando la vedeva avanzare nei corridoi, si lanciava immediatamente in una danza cureta solo per vederla sorridere. Nell’intimo, a Era quelle attenzioni piacevano. Se voleva, Zeus sapeva essere divertente. Era bello, con quei capelli neri e gli occhi azzurri, e oltretutto era solito andare in giro senza maglietta, facendo guizzare i muscoli e ostentando gli addominali. Era in ottima forma, su questo non c’erano dubbi. E in più era il re dell’universo, quindi la maggior parte delle donne lo avrebbe considerato un buon partito. Ma non Era. Lei sapeva tutto riguardo alla sua natura di donnaiolo. Era già stato sposato almeno due volte. Aveva avuto una figlia con Demetra. E si parlava di molti altri flirt con dee e persino mortali. Era non aveva alcuna intenzione di essere l’ennesima conquista. Lei non era un trofeo. Sapeva che se avesse ceduto, Zeus avrebbe immediatamente perso interesse nei suoi confronti, avrebbe smesso di essere così affascinante e se ne sarebbe andato a caccia di qualcun’altra. E quella era un’idea che non sopportava. Una sera a cena lui raccontò una barzelletta particolarmente divertente – qualcosa riguardo a un asino, a un dio e a un ciclope che entrava in un tempio – ed Era non poté fare a meno di ridere, tanto da farsi venire le lacrime e non riuscire più a respirare. Lanciò uno sguardo dall’altra parte della tavola e incrociò quello di Zeus per una frazione di secondo di troppo. Si schiarì subito la voce e distolse gli occhi, ma il dio aveva colto quello che lei provava. — Io ti piaccio — disse. — Sai benissimo che è così. — Ti assicuro di no — rispose Era. — Sei un presuntuoso, un donnaiolo, un villano e un bugiardo. — Esatto! — confermò Zeus. — E sono le mie qualità migliori! Era si sforzò di non ridere. Non aveva mai conosciuto qualcuno che fosse altrettanto immune dai suoi insulti. Zeus era testardo quanto lei. — Puoi rinunciare fin da subito — aggiunse. — Ti dico che non sono interessata. — Io non rinuncio mai — ribatté Zeus. — E tu interessata lo sei. Tu e io… re e regina del cosmo. Immagina! Saremmo una coppia insuperabile. È chiaro che tu sei la dea più bella del creato. E io, ovvio, sono dannatamente figo. E fletté i muscoli. Era un ridicolo esibizionista, ma Era dovette ammettere che il ragazzo aveva un fisico mozzafiato. Scosse la testa. — Come faccio a convincerti che stai perdendo tempo? — Non ci riuscirai. Perché io ti amo. Lei sbuffò. — Tu ami chiunque indossi una gonna. — Questa volta è diverso. Tu sei la dea giusta, lo so. E lo sai anche tu. Devi solo dire: “Ti voglio bene”. Puoi farcela. Se lo ammetti, poi ti sentirai meglio. — Mai — dichiarò Era. — Non te lo dirò mai. Mai. — Oh, ma questa è una sfida! — rise Zeus. — Se ti costringerò ad ammettere che mi vuoi bene, mi sposerai? Era alzò gli occhi al cielo. — Certo, Zeus. Dato che non succederà mai, posso tranquillamente giurare che se mai dovessi ammettere che… quella roba lì… allora va bene, ti sposerò. Zeus le fece l’occhiolino. — Accetto la sfida. Si alzò da tavola, ed Era cominciò a chiedersi se per caso non avesse commesso uno sbaglio. Alcune sere dopo, Era aveva pressoché dimenticato quella conversazione. Stranamente, Zeus non l’aveva più tirata in ballo. Anzi, da quella volta non le aveva quasi più rivolto la parola, il che avrebbe dovuto riempirla di sollievo, e invece chissà perché la metteva di cattivo umore. “Dimenticalo” diceva a se stessa. “Alla fine ha recepito il messaggio. Probabilmente sta già circuendo qualche altra povera dea.” Cercò di convincersi che era una buona notizia. Non era gelosa. Figuriamoci. Che cosa ridicola! Quella notte sull’Olimpo imperversò una terribile tempesta, il che avrebbe dovuto insospettire Era, dal momento che Zeus era il dio del cielo e compagnia bella; ma era troppo impegnata a schermare le finestre per tenere fuori la pioggia. Corse in camera da letto, e stava giusto chiudendo le ultime imposte, quando un uccellino svolazzò dentro e crollò sfinito sul pavimento. — Accidenti! — esclamò la dea facendo un passo indietro. — E tu come sei arrivato fin qui? Il povero uccellino sbatté debolmente le ali sulle piastrelle di marmo. Il piccolo torace si sollevava a fatica, e il corpicino tremava di freddo. Era si chinò, e vide che era un cuculo. Vi è mai capitato di vedere un vero cuculo (non quelli di legno che saltano fuori dagli orologi a cucù)? A me no. Sono dovuto andarmelo a cercare su Google Immagini. È un uccelletto dall’aspetto strano. La cresta di piume sulla testa gli conferisce un’aria da Ultimo dei Mohicani, che mal si accompagna con le lucide ali marroni e bianche o la lunga coda. Fondamentalmente è come se avesse infilato la testa nel marchingegno di qualche scienziato pazzo e si fosse preso la scossa, quindi capisco perché l’esclamazione “Cucù!” a volte venga usata per cogliere di sorpresa e far prendere uno spavento. Sta di fatto che Era si inginocchiò e raccolse l’uccellino. Sentiva battere il suo cuore contro il palmo e notò che una delle ali era piegata in modo innaturale. Non si capacitava di come un esserino così piccolo fosse riuscito a volare fin lassù sull’Olimpo. Di solito soltanto le aquile arrivavano tanto in alto, perché la zona attorno al monte era spazio aereo vietato. D’altro canto, sapeva che le tempeste erano caratterizzate da venti molto forti. Probabilmente il povero uccelletto era stato semplicemente spazzato via. — È un miracolo che tu sia vivo — gli disse. — Non preoccuparti, piccolino. Mi prenderò io cura di te. Preparò un nido di coperte ai piedi del letto e con delicatezza vi sistemò il cuculo. Gli asciugò le ali e gli diede da bere qualche goccia di nettare, che sembrò giovargli. L’uccello gonfiò le piume, chiuse gli occhi e cominciò a emettere pigolii ronfanti, come le note dolci di un flauto. Era trovò quel suono molto piacevole. — Lo terrò solo per stanotte — disse. — Se domattina sta meglio lo libero, e che vada per la sua strada. Il mattino dopo il cuculo non fece nessun tentativo di volare via. Se ne stette appollaiato tutto contento sul dito della dea, a beccare dalla sua mano semini e noccioline sbriciolate. Prima di allora Era non aveva mai avuto un animale da compagnia, e la cosa la rendeva felice. — Sei proprio un bravo uccellino, sai? — mormorò. — Cucù — rispose il cuculo. Guardando quei fiduciosi occhietti color arancio, il cuore di Era si riscaldò. — Dici che dovrei tenerti? — Cucù — ripeté il cuculo strofinandole il becco contro un dito in un inconfondibile gesto di affetto. Era rise deliziata. — E va bene, allora. D’accordo. Anch’io ti voglio bene. In una frazione di secondo, il cuculo saltò a terra e cominciò a crescere. All’inizio Era pensò di avergli dato troppo nettare e temette che stesse per esplodere, il che sarebbe stato tanto sconvolgente quanto disgustoso. Invece l’uccellino prese le forme di un dio. Ed ecco che davanti a lei c’era Zeus nelle sue abbaglianti vesti bianche, la corona d’oro che brillava sui capelli neri ancora gellati nell’acconciatura da cuculo. — Dolcissime parole, mia signora — disse. — “Anch’io ti voglio bene.” Ora, mi pare che noi due avessimo fatto un patto. Era rimase così stupefatta che non riuscì a rispondere. Si sentì montare dentro una rabbia indicibile, ma percepì anche una sorta di strisciante ammirazione per quell’incredibile imbroglione. Non sapeva se dargli un pugno, ridere o semplicemente baciarlo. Comunque sia, lo trovava alquanto attraente. — A una condizione — disse secca. — Spara. — Se ti sposo, dovrai essere un marito fedele. Basta andare in giro a divertirti. Basta scandali e basta correre dietro alle mortali carine. Non ho nessuna intenzione di diventare lo zimbello degli abitanti dell’Olimpo. Zeus contò sulle dita. — Mi sembra che sia più di una condizione, ma pazienza. Accetto! Era avrebbe dovuto farlo promettere sullo Stige, il voto più impegnativo che gli dei potessero fare. Invece non le venne in mente e acconsentì a sposarlo. Dopo quel fatto, il cuculo divenne uno degli animali sacri a Era. Vi capiterà quindi di vedere raffigurazioni della dea che tiene in mano un bastone con in cima un cuculo o un fiore di loto, la sua pianta sacra. Nel caso vi interessi, l’altro animale sacro alla dea era la mucca, che ha una forte indole materna. Per quel che mi riguarda, se qualcuno mi dicesse: “Ehi, baby, mi ricordi una giovenca”, non credo che lo prenderei come un complimento. La cosa invece non sembrava disturbare Era. Zeus ed Era diedero la bella notizia, e gli dei cominciarono a prepararsi per il più fastoso matrimonio nella storia dei matrimoni. Bisogna proprio compatire Ermes, il messaggero degli dei, a cui toccò recapitare gli inviti. Ogni dio, Titano, mortale, ninfa, satiro e animale della terra fu invitato alle nozze. Spero che le lumache abbiano ricevuto il fatidico cartoncino in tempo. Devono aver impiegato una vita ad arrivare. Fonti diverse vi racconteranno storie diverse su dove si tenne il matrimonio. Come location ci atterremo all’isola di Creta, perché in effetti ha senso: era là, sul Monte Ida, che Zeus era stato nascosto quando era bambino, perciò quella terra aveva un buon karma. Sto ancora cercando di raffigurarmi la logistica, però. Allora, inviti un coniglio selvatico che vive in Sardegna a una festa che si tiene sull’isola di Creta. Cosa si suppone che faccia il poveretto? Che nuoti fin là? Ne uscirebbe come minimo con lo smoking fradicio… Comunque, tutti quelli che erano stati invitati arrivarono, tranne una ninfa decisamente stupida di nome Chelone. Chelone viveva in Arcadia, nella Grecia continentale, in una capanna in riva a un fiume, e si azzardò a buttare via l’invito. — Puah — disse. — Uno stupido matrimonio. Preferisco di gran lunga starmene a casa. Quando Ermes scoprì che non si era fatta vedere, si arrabbiò moltissimo (immagino avesse anche il compito di spuntare la lista degli invitati). Tornò di nuovo in volo a casa di Chelone e la trovò che stava facendo il bagno nel fiume. — Allora, cos’è questa storia? — le chiese. — Non sei ancora vestita. Il matrimonio è già cominciato! — Ehm… — disse Chelone. — Ecco… sono solo un po’ lenta. Arrivo subito! — Davvero? È questa la scusa? — D’accordo, no — ammise lei. — Volevo starmene a casa e basta. Gli occhi di Ermes si incupirono. — Benissimo. Si avvicinò alla capanna di Chelone e la sollevò tutta intera, stile Superman. — Vuoi stare a casa? Va bene, stacci per sempre. E le lanciò la casa addosso. Ma invece di morire, la ninfa cambiò forma. La capanna le crollò sulla schiena e si trasformò in una conchiglia, e Chelone divenne la prima tartaruga al mondo, un animale lentissimo che si porta sempre appresso la casa. Ecco perché in greco chelone vuol dire “tartaruga”. Già, non si può mai sapere. Un giorno o l’altro potreste aver bisogno di questa informazione per partecipare a L’Eredità. Il resto del mondo fu abbastanza intelligente da andare al ricevimento. La sposa e lo sposo arrivarono nel bosco sacro a bordo di un cocchio d’oro trainato da Eo, personificazione dell’aurora, e infatti mentre i due dei si avvicinavano, sulla folla si diffuse una luce rosata, a indicare l’alba di un nuovo giorno. Officiavano la cerimonia le tre Parche. A me la cosa avrebbe innervosito un pochino. Quelle ributtanti vecchie potevano controllare il futuro e tagliarti il filo della vita, quindi era meglio prendere le promesse matrimoniali molto sul serio. Zeus ed Era diventarono marito e moglie, re e regina dell’universo. Tutti fecero loro meravigliosi regali, ma quello che piacque di più a Era fu l’ultimo. La terra rombò, e dal suolo spuntò un alberello: un giovane melo carico di frutti d’oro. Non c’era attaccato alcun biglietto, ma Era sapeva che era un dono di nonna Gea, ancora addormentata, ma probabilmente consapevole che c’era una festa in corso. Era ordinò che il melo fosse portato nel punto più occidentale della terra, dove fu piantato in un meraviglioso giardino proprio ai piedi del Titano Atlante, che stava ancora reggendo la volta del cielo. Mandò anche un drago immortale di nome Ladone a sorvegliare l’albero, insieme a un gruppo di figlie di Atlante chiamate Esperidi, le ninfe del cielo vespertino. Perché Era avesse voluto piantare il suo melo così lontano invece che tenerlo sul Monte Olimpo non lo so. Forse intendeva solo complicare la vita agli eroi che più tardi avrebbero tentato di rubarle le mele. Se così fu, il suo piano funzionò… quasi sempre. Zeus ed Era rimasero felicemente sposati per trecento anni, che per gli dei non è poi così tanto, ma sempre meglio della durata di un matrimonio medio a Hollywood. Insieme ebbero tre figli: un maschio, Ares, che fu sin da subito quello che si suole definire un “bambino problematico”; una femmina, Ebe, che diventò la dea dell’eterna giovinezza; e un’altra bambina, Ilizia, che divenne la dea dei parti. In effetti una programmazione un po’ strana, avere la dea delle nascite come ultimo figlio, dopo che ne hai avuti già due. Un po’ come se Era avesse pensato: “Porca miseria, questa faccenda del partorire fa un male cane! Meglio avere una dea che se ne occupi”. Dopo che fu nato il terzo erede, Zeus cominciò a sentire la crisi del quattrocentesimo anno. Gli tornarono in mente i bei tempi andati in cui era un single che tendeva imboscate alle dee nelle tane di serpente e si divertiva con cose del genere. Così ricominciò a guardarsi intorno e a darsi da fare. Aveva promesso di essere un buon marito, e lo era stato… per un po’. Ma quando sei immortale, tutte quelle promesse sul “finché morte non ci separi” assumono un significato diverso. E più lui flirtava, più Era si faceva scontrosa e sospettosa. Quello che le dava maggiormente fastidio erano tutti quei figli che Zeus aveva dalle altre donne. Continuavano a spuntare come funghi. Lui sosteneva che erano frutto di relazioni precedenti, ma la scusa non reggeva. Alcuni di loro erano mortali, e decisamente non avevano l’aspetto di individui vecchi di trecento anni. Ogni volta che ne compariva uno, Era immaginava gli altri dei che le ridevano dietro, facendo commenti sottovoce su quanto fosse stata sciocca a fidarsi di Zeus. Alla fine esplose. — Continui a fare figli senza di me — gridò a Zeus. — Pensi sia divertente? Pensi che mi faccia piacere che tu non mantenga la promessa? Zeus aggrottò la fronte. — È una domanda trabocchetto? — Vedila come vuoi! — replicò Era. — Anch’io farò figli senza di te, anzi, senza nessun uomo! Avrò un bambino per conto mio! Zeus si grattò la testa. — Ecco, tesoro, non credo che funzioni così. — Bah! — Ed Era marciò fuori dalla sala del trono. Non so come fece, ma dal suo matrimonio con Zeus era diventata la dea dei matrimoni e della maternità, così immagino avesse un certo potere. In ogni caso, per pura forza di volontà, qualche efficace esercizio di respirazione e probabilmente anche un po’ di meditazione orientale e una dieta adeguata, magicamente Era si ritrovò incinta senza l’aiuto di nessuno. Questa la buona notizia. Quella cattiva? Quando il bambino arrivò, sembrava proprio che un aiutino non avrebbe guastato. La testa era deforme, e tutto il corpo coperto di chiazze di pelo ricciuto. Aveva il petto largo e braccia muscolose, ma le gambe erano storte e raggrinzite, una leggermente più lunga dell’altra. Invece di piangere, emetteva grugniti, come se dovesse continuamente andare in bagno. Era il bambino più brutto che la dea avesse mai visto. Anche se era suo, non provò nessun istinto materno: neanche un accenno di amore, solo imbarazzo. Se devo dire la mia, non sono affatto sorpreso che le cose fossero andate così male. Insomma, vuoi avere un figlio per vendetta? È una ragione un po’ contorta, ma comunque il povero bambino non ha colpa. Era si disse: “Non posso farlo vedere agli altri dei. Mi coprirei di ridicolo”. Andò alla finestra aperta della sua camera da letto e guardò giù, verso il fianco del Monte Olimpo. Era decisamente un bel volo. Chi sarebbe mai venuto a sapere che il bambino era scomparso? Poteva sempre dire di non essere mai stata incinta. Falso allarme. Prima che potesse riconsiderare quell’idea terribile, lanciò il bimbo fuori dalla finestra. Agghiacciante, lo so. Come se un figlio fosse una cosa che semplicemente puoi buttare via. Ma lei era fatta così: la coerenza non era il suo forte. Un giorno era la mamma perfetta, quello dopo gettava bambini fuori dalla finestra. Oh, ma il piccolo non morì. Si chiamava Efesto, e vedremo più avanti che cosa gli accadde. Nel frattempo, Era aveva altri problemi di cui occuparsi. La prima volta che un eroe mortale visitò il Monte Olimpo fu una brutta faccenda. Quel mortale si chiamava Issione, e a quanto pare fu il primo umano a capire che si potevano uccidere altri umani in battaglia. Congratulazioni! Hai vinto un premio! Gli dei erano così impressionati che Issione avesse imparato a combattere altri umani con una vera e propria spada, invece che limitarsi a gettare pietre e indirizzare loro grugniti, che lo invitarono a una festa sul Monte Olimpo. Ora penserete che, in una simile circostanza, il tizio si sarebbe comportato al meglio. Niente affatto. Bevve e mangiò troppo. E tutte quelle lodi gli diedero alla testa. Cominciò a pensare che gli dei erano davvero suoi amici, suoi pari, suoi camerati. Un grosso errore. Non importa con quanta gentilezza ti trattino: gli dei non ti vedono mai come loro pari. Tenetelo a mente, per loro siamo gerbilli che hanno la padronanza del fuoco, scarafaggi capaci di usare le armi. Siamo solo dei passatempi. A volte ci riveliamo utili, se hanno bisogno di uccidere qualche piccolo essere insignificante sulla terra. Ma veri amici? Scordatevelo. Per tutta la sera Issione tenne gli occhi fissi su Era, dal momento che era la signora più bella della tavolata. Zeus era troppo impegnato a festeggiare per notarlo, figurarsi per aversene a male. Alla fine Era cominciò a sentirsi davvero a disagio e si scusò. Issione immaginò che fosse un invito a seguirlo. Aveva imparato come uccidere la gente, ma a quanto pare aveva ancora molto da imparare sulle dee. Dopo che lei ebbe lasciato la sala, si trattenne a tavola per qualche minuto, poi annunciò agli dei: — Ragazzi, tutto questo bere mi sta creando qualche problemino. Dov’è il bagno? Uh… gli dei hanno un bagno? — In fondo al corridoio — rispose Zeus. — La prima porta a destra. Ci sono le targhette MORTALI e DEI. Accertati di usare quello giusto. Issione uscì e seguì la direzione presa da Era. La trovò su un balcone, appoggiata alla ringhiera, a guardare le nuvole. — Ciao, bellezza — le disse. Lei sussultò. Probabilmente avrebbe dovuto trasformarlo in una specie di lumaca, o in qualcosa di altrettanto viscido, ma era troppo esterrefatta che quel mortale osasse parlarle. Issione prese il suo silenzio per timidezza. — Ho notato che hai passato tutta la serata a osservarmi. Anch’io penso che tu sia bellissima. Che ne dici di un bacio? La circondò con le braccia e cercò di baciarla. Era ne fu così sconcertata che tutto quello che riuscì a fare fu spingerlo via e fuggire. Lo seminò nei corridoi del palazzo, si chiuse nella propria stanza e aspettò finché non sentì il battito del cuore tornare normale. Perché non lo aveva incenerito? O quantomeno trasformato in lumacone? Era rimasta troppo scioccata. E forse anche un po’ confusa da quelle avance. Erano ormai parecchie centinaia di anni che non aveva a che fare con cose del genere. Una volta sposata, si era completamente tolta dalla testa gli altri uomini. Poteva avere tutti i difetti del mondo, ma di certo non era una fedifraga. Nel suo corpo immortale non aveva nemmeno una cellula infedele. Credeva fermamente e assolutamente che il matrimonio fosse per sempre, nel bene e nel male, ed era per questo che le avventure di Zeus la facevano fremere di rabbia. Una volta che si fu calmata, cominciò a pianificare la vendetta. Avrebbe potuto punire Issione lei stessa, ovvio. Ma perché invece non dirlo a Zeus? E per una volta fare ingelosire lui, tanto per cambiare? Forse, se avesse dovuto difendere il proprio onore, avrebbe cominciato a pensare un po’ più seriamente alle promesse matrimoniali. Si ricompose e tornò alla tavola della cena. Issione era lì seduto che chiacchierava, come se niente fosse. Lei gli sorrise, tanto per fargli vedere che non era turbata. Poi si chinò verso Zeus e bisbigliò: — Mio signore, posso parlarti in privato? Zeus corrugò la fronte. — Sono nei guai? — Non ancora — rispose lei dolcemente. Lo condusse in fondo al corridoio e gli spiegò quello che era successo. Zeus si accigliò, lisciandosi la barba pensieroso. Era aveva sperato che tornasse a passo di marcia nella sala da pranzo e riducesse Issione in cenere su due piedi, cosa che lui non fece. — Mi hai sentito? — gli chiese. — Perché non ti arrabbi? — Ti ho sentito, ti ho sentito. — Zeus si schiarì la voce. — È solo che… ecco, è un ospite alla mia tavola. Ha mangiato il nostro cibo. Non posso incenerirlo senza una buona ragione. — SENZA UNA BUONA RAGIONE? — gridò lei. — Ci ha provato con tua moglie! — Ma sì, ma sì. È davvero molto grave. Eppure, ho ancora bisogno di una prova indiscutibile. — La mia parola non ti basta? — Furiosa, la dea era sul punto di gettare Zeus giù dal balcone e occuparsi lei stessa di Issione, ma il marito alzò una mano per placarla. — Ho un piano — disse. — Vedremo se Issione intendeva davvero disonorarti, o se si è trattato solo della stupida gaffe di un ubriaco. Una volta che avremo le prove, nessuno degli altri dei avrà da obiettare che io punisca questo mortale, anche se è mio ospite. Fidati di me. Se è colpevole, il suo castigo sarà esemplare. Era strinse i pugni. — E sia, fa’ quello che dev’essere fatto. Zeus si sporse dalla ringhiera ed evocò una nuvola, che si condensò e roteò davanti a lui in un piccolo tornado bianco, assumendo una forma umanoide. A poco a poco divenne la replica esatta di Era, solo pallida e fredda. Mi correggo: la replica esatta di Era. Punto. La falsa Era guardò la vera Era. — Salve. — Disgustoso — sibilò la vera Era. — Tu aspetta qui — le ordinò Zeus. Prese la falsa Era e tornò alla festa. Issione ricominciò esattamente da dove si era interrotto e si rimise a flirtare, questa volta con la falsa Era. Con suo sommo piacere, lei ricambiò le attenzioni. Gli fece cenno di seguirla in fondo al salone. E da cosa nacque cosa. Al mattino gli dei, con gli occhi gonfi e barcollando, entrarono nella sala da pranzo per fare colazione. Furono sorpresi di trovare che Issione era rimasto per la notte, e quando gli chiesero perché, lui spiegò, con ammiccamenti e strizzatine d’occhio, che la regina dei cieli lo aveva invitato nei suoi appartamenti… — Ormai ne faccio quello che voglio — si vantò. — Ha detto che sono molto più affascinante di Zeus. Mi renderà immortale, così da poter stare con me per sempre. E andò avanti a millantare quanto fosse figo e che Era voleva mollare Zeus per sposare lui. Nel frattempo arrivò anche Zeus, e silenziosamente andò a piazzarsi alle spalle di Issione. Finalmente questi si accorse che tutti gli dei seduti a tavola si erano zittiti. Ebbe un attimo di esitazione. — È qui dietro di me, vero? — Indovinato! — esclamò Zeus tutto allegro. — E se mai dovessi rubare di nuovo la moglie di un altro, credo che non dovresti vantartene nella sua stessa casa. E dovresti anche assicurarti che sia davvero la moglie, quella che hai rubato, e non un fantoccio di nuvole. Issione si sentì a disagio. — Immagino di essere nei guai. — Solo un pochino — dichiarò il dio del cielo. Nessuno degli altri dei ebbe nulla da obiettare a che punisse il suo ospite. Zeus si fece portare la ruota di scorta di un cocchio e legò Issione ai raggi, tirandogli così tanto gli arti che quasi glieli staccò. Poi incendiò la ruota e la gettò nel cielo come un frisbee. Issione divenne immortale, d’accordo, ma solo per soffrire un’agonia eterna. A tutt’oggi è ancora in orbita, a vorticare e bruciare gridando: — Era! Credevo di piacerti! La parte più bizzarra di tutta la storia? La falsa Era ebbe davvero un bambino. Come può una nuvola partorire un figlio? Non ne ho idea, ma questo figlio fu un tale chiamato Centauro, che a quanto pare si innamorò di un cavallo (di nuovo nessun suggerimento). I loro figli diedero origine alla razza dei centauri, che sono metà umani e metà destrieri. Come vi ho detto all’inizio, io non sarei mai in grado di inventarmi cose così strane. Era sperava che dopo l’incidente di Issione Zeus sarebbe diventato un marito più premuroso, ma rimase delusa. Al contrario, lui pensò di aver difeso con successo l’onore della moglie, e quindi ora si meritava un po’ di svago. Se vi raccontassi tutte le volte che Era cercò vendetta sulle ragazze di Zeus, non basterebbero cent’anni. In un certo senso per lei diventò un lavoro a tempo pieno. Ma una fanciulla mortale le diede particolarmente sui nervi. Semele era una principessa della città greca di Tebe, e sebbene nessuno osasse dirlo a voce alta, tutti sapevano che era la mortale più bella della sua generazione, bella come una dea, forse persino più bella di Era stessa. Zeus cominciò ad andare spesso giù a Tebe “per fare shopping”. Era sospettava, certo, ma non riuscì mai a beccarlo insieme a Semele. Poi un giorno, mentre volteggiava sopra la città sotto forma di nuvola dorata, le capitò di scorgere Zeus (travestito da mortale, ma lei lo riconobbe subito) uscire da una casa nella zona più elegante di Tebe. E un attimo dopo sulla porta comparve Semele, che gli fece un cenno di saluto. Rimase visibile solo per un secondo, ma una cosa fu subito evidente: era decisamente incinta. Era imprecò, ma non poteva semplicemente uccidere la fanciulla lì su due piedi. Pur essendo un furfante di prima categoria, Zeus era comunque un furfante di prima categoria molto potente. Se avesse scoperto che lei aveva ucciso una delle sue ragazze, avrebbe potuto fargliela pagare cara. Doveva ricorrere all’astuzia. Scese fluttuando su Tebe, sempre dentro la sua nuvola, e assunse le sembianze di una vecchia. Bussò alla porta di Semele, pensando di far finta di essere una mendicante, o magari una rappresentante nel suo giro di vendite. La ragazza aprì la porta e disse con un sussulto: — Beroe, sei tu? Era non aveva idea di cosa stesse parlando, ma le diede corda: — Certo, tesoro! Sono io, Beroe, la tua… ecco… — La mia balia di quando ero piccola! — Proprio così! — Oh, come sei invecchiata! — Grazie — borbottò la dea. — Eppure ti riconoscerei ovunque! Ti prego, entra! Era fece un giro per la casa. Fu oltremodo indignata di scoprire che era deliziosa, se non addirittura più bella del suo stesso appartamento sull’Olimpo. Con aria innocente chiese a Semele come fosse venuta in possesso di una dimora così fantastica, che sembrava troppo pretenziosa persino per una principessa. — Oh, è stato il mio ragazzo — rispose la fanciulla illuminandosi d’orgoglio. — È così meraviglioso, mi dà tutto quello che voglio. Guarda questa collana che mi ha appena portato. E le mostrò un girocollo di giada con un pendente d’oro e rubini, molto più bello di qualsiasi cosa Zeus avesse mai regalato a Era. — Ma che meraviglia! — La dea resistette con fatica all’impulso di mollarle un pugno su quei denti perfetti. — E dunque, chi è questo bel tipo? È di queste parti? — Oh… in realtà non dovrei dirlo a nessuno. — Ma io sono la tua vecchia balia Berile! — replicò Era. — Beroe — la corresse Semele. — Proprio quello che volevo dire! Quindi sai che puoi confidarti con me. Semele fremeva di eccitazione. Moriva dalla voglia di raccontarlo a qualcuno, così non ci volle molto a convincerla. — Ecco… si tratta di Zeus — confessò. — Il signore dei cieli. Il re del creato. Era la fissò fingendo incredulità. Poi sospirò di compassione: — Oh, mia povera ragazza. Povera, povera la mia ragazza. Semele la guardò perplessa. Non era esattamente la reazione che si era aspettata. — Ma… mi vedo con il signore dell’universo. Era sbuffò. — Così dice lui. Ma quanti bei soggetti si sono serviti della stessa scusa? A dire la verità, tutti! Come fai a sapere che è davvero un dio e non un qualsiasi vecchio bastardo che finge di essere un dio? Le guance di Semele si imporporarono. — Ma lui ha detto di essere Zeus. E sembra molto… divino. — Ha fatto qualcosa per provarlo? — Be’, ecco, no. Era finse di riflettere sulla faccenda. — Dovresti esserne sicura. È il padre del tuo bambino. Hai detto che farebbe qualsiasi cosa per te? — Certo! Ha promesso! — E allora chiedigli di giurare — le consigliò Era. — Poi digli di rivelarsi a te come si rivela alla moglie Era: nella sua vera forma divina. È l’unico modo per esserne certa. Semele rifletté per un po’. — Sembra pericoloso — mormorò alla fine. — No, se ti ama veramente! Non sei brava quanto Era? — Ma certo. — E altrettanto bella? — Molto di più. Me lo ha detto Zeus. Era strinse così forte le mascelle che si incrinò gli immortali denti. — Ecco, vedi? Se Era può sopportare l’aspetto divino di Zeus, di certo lo puoi fare anche tu! Spero sia veramente Zeus, mia cara. Davvero! Ma devi esserne sicura. È in gioco il futuro di tuo figlio. Quando tornerà? — A dire il vero molto presto! — Bene, allora aspetta il momento giusto — la esortò Era. — Vorrei tanto restare, ma ora devo proprio scappare. Ho… tutte quelle cose da vecchia da fare. — E se ne andò. Un’ora più tardi, Zeus ritornò a casa di Semele. — Ciao, piccola — disse entrando. Immediatamente si accorse che qualcosa non andava. Semele non era corsa da lui per abbracciarlo e baciarlo come al solito. Stava sprofondata nel divano con le braccia incrociate sul grosso ventre. — Ehi… che succede? — chiese il dio. Semele mise il broncio. — Hai detto che faresti di tutto per me. — E lo ripeto! Vuoi un’altra collanina? — No. Voglio qualcosa di diverso. C’è solo una cosa che può farmi felice. Zeus ridacchiò. Forse questa volta Semele voleva un vestito, o un paio di quei gingilli che gli umani avevano appena inventato… come si chiamavano… scarpe? — Tutto quello che desideri — le disse. — Promesso? Il dio allargò le braccia con fare magnanimo. — Giuro sul fiume Stige. Chiedimi qualsiasi cosa, e sarai esaudita. — Bene. — Semele si concesse un sorriso. — Voglio che ti mostri a me nella tua vera forma divina, così come ti mostri a Era. Zeus inspirò a pieni polmoni. — Oh… pessima idea, bambina. Chiedimi qualcos’altro. — No! — Semele si tirò in piedi a fatica. — Hai detto “qualsiasi cosa”. Voglio la prova che sei veramente un dio. Io non sono da meno di Era. Voglio vederti come ti vede lei. — Ma la vera sembianza di un dio… non è cosa che gli umani possano sopportare. Soprattutto gli umani gravidi. Soprattutto gli umani gravidi che vorrebbero vivere per più di qualche secondo. — Posso reggere — disse lei. — So che posso. Zeus non ne era tanto sicuro. A dire il vero, prima di allora non aveva mai provato ad apparire a una mortale nella sua forma divina pura, ma immaginava che per la mortale in questione sarebbe stato come fissare il sole senza occhiali protettivi, o guardare un attore al mattino prima del trucco. Pericoloso. D’altro canto, aveva giurato sullo Stige e non poteva tirarsi indietro. E Semele era una fanciulla testarda. Era figlia del famoso eroe Cadmo. Se pensava di poter reggere la vista della vera forma di un dio, forse poteva riuscirci davvero. — D’accordo. Pronta? — chiese. — Pronta. Il travestimento mortale di Zeus si dissolse in una fiammata, e il dio apparve in tutto il suo splendore, come una vorticante colonna di fuoco e luce, come una supernova nel salotto di Semele. I mobili presero fuoco. La porta si disintegrò. Le ante delle finestre esplosero. Semele non resse. Si vaporizzò, lasciando un’impronta bruciacchiata sul pavimento del salotto. Il bimbo dentro di lei però sopravvisse, probabilmente perché era per metà dio. Il poverino si ritrovò improvvisamente a fluttuare a mezz’aria, là dove poco prima stava la sua bella mamma. Zeus riprese la forma corporea giusto in tempo per afferrarlo prima che cadesse a terra. Ovviamente rimase scioccato dalla morte di Semele, ma capì che in quel momento la cosa più importante era il bambino. Il piccolo non era ancora completamente formato. Avrebbe avuto bisogno di qualche altro mese per svilupparsi del tutto prima di nascere. Zeus pensò in fretta. Tirò fuori il suo fulmine e si praticò un’incisione sulla coscia destra. Doveva fare un male cane, ma lui vi cacciò dentro il bambino proprio come se lo stesse ficcando nella tasca di un paio di pantaloni della mimetica. Poi si ricucì la pelle. Ragazzi… cercate di non ripeterlo a casa. Non funziona. Ma suppongo che per gli dei sia diverso. In qualche modo il bimbo là dentro sopravvisse e continuò a crescere fino al momento della nascita. Nessun dubbio su quello che gli altri dei dissero: — Ehi, Zeus, perché la tua coscia è così gonfia? Dovresti farti dare un’occhiata. Quando il bimbo fu pronto, Zeus tagliò di nuovo la pelle e lo tirò fuori, e quello divenne il dio Dioniso. Della sua storia parleremo più avanti. La sua nascita fu la cosa meno strana che si può raccontare su di lui. Comunque, Era ebbe la sua vendetta su Semele, e vorrei potervi dire che fu quanto di più crudele abbia mai commesso. Purtroppo in quell’occasione aveva solo fatto un po’ di riscaldamento. Un’altra conquista di Zeus fu una fanciulla di nome Egina. A quanto pare doveva aver sentito la storia di Semele, perché non era per nulla ansiosa di diventare l’amichetta di Zeus, anche se il dio continuava a farle la corte e la riempiva di regali. Alla fine la convinse a fuggire con lui su un’isola segreta. — Non lo saprà nessuno — promise. — Ed Era? — chiese Egina. — Lei meno che mai. — Zeus si trasformò in una maestosa aquila e condusse la fanciulla in volo su un’isola che ora porta il suo nome: Egina. La fece quasi franca. Era venne a sapere della storia solo anni dopo, quando Egina era già morta. A quel punto il figlio di Egina e di Zeus era il re dell’isola dove era nato. Non so come fece Era a scoprirlo, ma una volta saputolo si sentì molto indignata per non aver potuto punire Egina personalmente. — Come ha osato morire, togliendomi la possibilità di ucciderla? — ringhiò. — E va bene, riverserò la mia rabbia su suo figlio. Si chiamava Eaco (secondo me ha bisogno di qualche altra vocale nel nome). Comunque, accadde che re Eaco si trovasse sull’orlo della guerra, e quindi nella necessità di chiamare a raccolta gli eserciti per difendere il suo regno. Era allora evocò un enorme serpente velenoso e lo gettò nella sorgente dell’unico fiume dell’isola. Il veleno si sparse in quella che era la sola risorsa d’acqua, e ben presto la maggior parte della popolazione morì. A me sembra equo, non trovate anche voi? Zeus va a letto con una donna mortale, Era trova il figlio della donna e uccide tutti i suoi sudditi. No, niente da ridire! Come potete ben immaginare, Eaco fu travolto dal panico. Andò nel giardino del suo palazzo, da dove si vedeva il cielo azzurro. Cadde in ginocchio e pregò Zeus: — Papà, ascoltami, tra poco la mia terra sarà invasa, e tua moglie ha appena ucciso i miei soldati e quasi tutti i civili. Dal cielo la voce di Zeus tuonò: — Che rottura. Come posso aiutarti? Eaco ci pensò su. Guardò le sue aiuole e vide una fila di formiche che marciava compatta: migliaia di esserini, instancabili e industriosi come… come un esercito. — Lo sai cosa sarebbe fantastico? — disse. — Che tu trasformassi queste formiche in un esercito al mio comando. — Fatto! — tuonò Zeus. Immediatamente l’intera colonia di formiche crebbe fino a diventare un’armata di uomini, migliaia di valenti guerrieri in brillanti armature rosse e nere, già addestrati a marciare in ranghi e a lottare secondo una ferrea disciplina. Non temevano nemico. Erano incredibilmente forti e tenaci. Vennero chiamati Mirmidoni, e diventarono la più famosa unità di combattimento di tutta la Grecia, una specie di Berretti Verdi del mondo antico. Più tardi avrebbero avuto un famoso comandante di nome Achille. Credo che abbiate già sentito parlare di lui, o quantomeno del suo tallone. L’ultima cosa riguardo a Era – e questa davvero non la capisco – era la rapidità con cui poteva trasformarsi da nemica di qualcuno in sua amica, o viceversa. Prendete Poseidone, tanto per fare un esempio. All’inizio i due non andavano per niente d’accordo. Anzi, avevano entrambi posato gli occhi sulla stessa zona della Grecia, il regno di Argo. Capite, a quei tempi era un grosso affare essere il dio protettore di questa o quella città. Come dire, era un onore immenso poter dichiarare di essere il dio di New York. Ma se eri il dio di Scarrafopoli… be’, non era la stessa cosa. (Okay, scusate tanto, abitanti di Scarrafopoli. Comunque ho reso l’idea.) Immagino che Argo fosse un posto molto carino, perché sia Era sia Poseidone volevano esserne i patroni. Il re scelse Era. Probabilmente tra le sue priorità non c’era che la sua gente morisse avvelenata da un serpente. Lei ne fu deliziata, Poseidone un po’ meno. Allagò l’intero reame, e alle proteste di Era rispose: — Benissimo. Faccio ritirare le acque. Faccio ritirare tutto. — Il mare si ritirò, e tutti i ruscelli e i fiumi dell’intera regione si prosciugarono. La dea protestò di nuovo. I due erano ormai sull’orlo di una battaglia epica. Alla fine Poseidone cedette e lasciò che un po’ d’acqua ricomparisse, ma Argo è tutt’oggi un posto molto arido. Era diventò dunque la protettrice di Argo, il che fu molto utile più tardi per un tizio di nome Giasone, che guidò una ciurma di eroi chiamati Argonauti. Ma questa è un’altra storia. Quello che voglio dire è che dopo un po’ Era cambiò completamente atteggiamento. Si sedette a tavolino con Poseidone e decisero che, come leader, Zeus stava sfuggendo al controllo. Ordirono così la prima ribellione olimpica della storia. Ma torneremo su questo quando parleremo di Poseidone. Ora dobbiamo andare a fare una capatina negli Inferi e vedere come sta andando con il nostro stalker preferito: il dio dei morti, Ade. ADE RISTRUTTURA CASA Ade mi fa proprio compassione. No, davvero. Sarà anche un tizio raccapricciante, ma senza dubbio ebbe la sorte peggiore. Pur essendo il primo figlio maschio di Rea, venne sempre ritenuto il più giovane, dal momento che l’ordine di nascita degli dei fu quello secondo il quale furono vomitati dalla pancia di Crono. E come se non bastasse, quando tirarono i dadi per spartirsi il mondo, a lui toccò la parte meno ambita: l’Oltretomba. Certo, fin dall’inizio era un soggetto quantomeno ombroso, quindi si potrebbe dire che fosse destinato a bazzicare le viscere della terra. Sempre meditabondo, sempre vestito di scuro. I capelli neri gli spiovevano sugli occhi come ai personaggi dei manga giapponesi. Una volta diventato il Signore degli Inferi, dal suo incarnato scomparve ogni traccia di colore, perché si era lasciato il mondo mortale alle spalle. Anche se gli altri dei avessero voluto mettersi in contatto con lui (cosa che non volevano), gli Inferi avevano un pessimo collegamento telefonico e niente Wi-Fi. Quando Ade era laggiù, non aveva idea di cosa succedesse nel mondo sopra la sua testa. Le uniche notizie gli arrivavano dagli spiriti appena morti, che gli riferivano anche gli ultimi pettegolezzi. Anzi, nella Grecia dei tempi antichi, ogni volta che invocavi il nome di Ade, dovevi picchiare il pugno per terra, perché era l’unico modo per ottenere la sua attenzione. Per la serie: “Ehi, Ade, sto parlando con te!”. Perché poi dovevi ottenere l’attenzione di Ade? Sinceramente non lo so. Alla fine tutto il mondo sotterraneo finì per essere chiamato proprio Ade, dal nome del dio, il che confonde un po’ le idee; ricordiamoci però che gli Inferi esistevano da ben prima che ci fosse il dio. Il loro nome originario era Erebo, e quando Ade ne prese il comando il posto era decisamente in rovina. Cominciamo con l’impianto idraulico. Nel sottosuolo scorrevano cinque fiumi, e vi assicuro che nessuno era idoneo per farsi un bagno o lavarsi i denti. Il meno pericoloso era il Cocito, il Fiume del Pianto, che sembrava abbastanza tranquillo. Le sue acque blu scuro serpeggiavano placide lungo le pianure dell’Erebo, e sulle loro sponde si potevano trovare un sacco di angoli carini per improvvisare un picnic; ma se ci si avvicinava troppo, si sentivano le grida delle anime tormentate che si agitavano nella corrente. Perché, sapete, il Cocito era alimentato dalle lacrime dei dannati. Soltanto stare lì nei paraggi ti faceva sprofondare in uno stato di depressione. Se poi addirittura toccavi l’acqua… be’, credetemi, te ne pentivi per sempre. Nemmeno tutti i filmati di adorabili cuccioli che circolano in Internet sarebbero bastati a risollevarti l’umore. Il secondo fiume era il Flegetonte, il Fiume del Fuoco. Ruggiva nelle caverne degli Inferi come un torrente di petrolio incandescente, scavando canali nella nera roccia vulcanica, illuminando ogni cosa di una luce rosso sangue e riempiendo l’aria di fumo e lapilli, per poi gettarsi sotto forma di cascata infuocata negli abissi più profondi del Tartaro, che era praticamente la cantina della cantina. Quindi, quando Ade girava il miscelatore della doccia su “caldo”, si ritrovava la faccia ustionata dal Flegetonte. Non c’è da stupirsi che il poveretto fosse sempre di cattivo umore. La cosa assurda era che il Flegetonte non ti uccideva, anche se eri mortale. Certo, ti bruciava come salsa al peperoncino radioattiva fatta soffriggere nell’acido. Ti faceva desiderare di essere morto. Ma in effetti era stato studiato per tenere le sue vittime in vita, così che potessero soffrire per sempre… Evviva! Molti spiriti dannati dovevano nuotare tra i suoi flutti per l’eternità, o essere immersi fino al collo nelle sue acque infuocate. Secondo alcune leggende, il Flegetonte poteva bruciare i tuoi peccati e lasciarti andare, se eri davvero, davvero pentito di quello che avevi fatto. Se volete mettere alla prova questa teoria, prego, saltate pure. Io passo. Il fiume numero tre, l’Acheronte, era il Fiume del Dolore. Doloroso? Indovinato! Avete vinto una merendina. L’Acheronte aveva la sua sorgente nel mondo mortale, nell’Epiro, vicino a un tempio dedicato ai morti. Forse era per quello che i fantasmi vi venivano trascinati dentro e saturavano le acque con la loro sofferenza. L’Acheronte scorreva tortuoso fino a inabissarsi nel sottosuolo e precipitare nell’Erebo, dove riprendeva a scorrere trasformandosi in una distesa scura, fumante e paludosa che provocava dolore a chiunque fosse tanto sfortunato da lambirne le acque o anche solo udirne la corrente. Dopo un breve tratto si divideva in due fiumi più piccoli – il Cocito e lo Stige – che scorrevano in direzioni opposte per poi gettarsi entrambi nel Tartaro. Il numero quattro era quello che a me personalmente piace meno: il Lete, il Fiume dell’Oblio. (Ho alle spalle delle brutte esperienze a proposito di amnesia. Una lunga storia.) Il Lete tuttavia sembrava innocuo. In molti punti era una tranquilla distesa di acque lattiginose che scorrevano in un letto di pietre poco profondo, gorgogliando dolcemente in un modo che ti faceva venire le palpebre pesanti. Avresti potuto pensare di guadarlo senza nessun problema. Il mio consiglio? Non farlo. Una sola goccia dell’acqua del Lete ti avrebbe cancellato la memoria a breve termine. Non avresti ricordato niente di ciò che era successo nell’ultima settimana. Se poi te ne facevi un bicchiere, o ti tuffavi tra i flutti, il risultato sarebbe stata la memoria completamente azzerata. Non avresti ricordato nemmeno il tuo nome, da dove venivi, e persino che gli Yankees di New York sono evidentemente superiori ai Red Sox di Boston. Terrificante, vero? Già. Per alcuni spiriti dei morti, però, il Lete era in realtà una benedizione. Sulle sue rive si raccoglievano sempre folle di fantasmi a bere le sue acque così da poter dimenticare la loro vita precedente, perché non puoi avere nostalgia di quello che non ricordi. Di quando in quando ad alcuni di loro era concesso di reincarnarsi, di rinascere cioè nel mondo mortale in un altro corpo. Se avevi questa possibilità, allora dovevi per forza bere l’acqua del Lete, prima di risalire, così da dimenticare la tua precedente esistenza. Perché, credetemi: chi vorrebbe passare di nuovo attraverso dodici noiosissimi anni di scuola, se si ricorda di averlo già fatto? Lungo quelle stesse rive crescevano i papaveri; ecco perché l’estratto di papavero ha la proprietà di favorire il sonno e lenire il dolore. (Noi lo chiamiamo “oppio”. Però non datevi alle droghe, ragazzi, perché LE DROGHE NON SONO UNA BELLA COSA. Sì, andava inserito qui.) A un certo punto il Lete si curvava intorno all’ingresso di una caverna scura, dove viveva Ipno, il dio del sonno. Com’era l’ambiente? Nessuno l’ha mai descritto, probabilmente perché tutti quelli abbastanza stupidi da entrarci si sono addormentati e non ne sono più usciti. Il quinto fiume del mondo sotterraneo era lo Stige, il Fiume dell’Odio. Era decisamente il corso d’acqua più famoso, ma solo il nome smorzava ogni velleità turistica. “Ragazzi, per le vacanze di primavera andiamo sul Fiume dell’Odio!” “Fantastico!” Lo Stige scorreva nella parte più profonda e oscura degli Inferi. Alcune leggende sostengono che fosse stato originato dalla titanide delle acque, Teti, e che fosse alimentato dalle fonti salate provenienti dal fondo dell’oceano. Lo Stige circondava l’Erebo come un fossato, così per entrare negli Inferi eri costretto per forza ad attraversarlo. (Secondo altre leggende, il fiume da attraversare era l’Acheronte, ma dal momento che lo Stige ne era un ramo, credo siano corrette entrambe le versioni.) Scorreva scuro e pigro, sempre ammantato di nebbia che puzzava di uova marce, e le sue acque erano in grado di corrodere le carni. Mescolate acido solforico con acque di scolo e uno spruzzo di odio liquido, e avrete lo Stige. Quindi ora vi chiederete: perché qualcuno dovrebbe voler andare negli Inferi? Risposta: e che ne so? Ma da che furono creati gli umani, ogni volta che qualcuno moriva, la sua anima scivolava spontaneamente verso l’Erebo, come lemming che saltano giù da un crinale o turisti che invadono Times Square. Puoi dirgli quello che vuoi per convincerli che è una cosa terribilmente stupida: loro continueranno a farlo. Il problema era che queste anime non avevano un mezzo sicuro per attraversare lo Stige. Poche erano riuscite a farlo a nuoto. Alcune ci avevano provato, ma solo per sciogliersi nelle sue acque. La maggior parte vagavano sulla sponda mortale, gemendo e indicando l’altra riva come per dire: “Voglio andare di là!”. Alla fine, un demone molto intraprendente di nome Caronte decise di mettersi in affari. Che cos’è un demone? Non è un vero e proprio diavolo con la forca, la coda e la pelle rossa. I demoni erano piuttosto spiriti immortali, più o meno come dei minori. Alcuni assomigliavano a mostri, altri a esseri umani. Alcuni erano buoni, altri malvagi. Alcuni semplicemente bighellonavano in giro. Questo Caronte era figlio di Nyx, la dea della notte. Poteva assumere svariate sembianze, ma per lo più aveva l’aspetto di un orribile vecchio coperto di stracci, con la barba unta e un cappello a cono. Se fossi stato io e avessi potuto cambiare aspetto, credo che me ne sarei andato in giro con la faccia di Brad Pitt; a Caronte invece non importava un fico secco di far colpo sui fantasmi. Sia come sia, un giorno Caronte capì che tutte quelle anime mortali chiedevano a gran voce di poter raggiungere l’Erebo, quindi si costruì una barca e cominciò a traghettare passeggeri. Ovviamente, non gratis. Accettava oro, argento e la maggior parte delle carte di credito. Dal momento che negli Inferi non esistevano regole, lui ci ricaricava quello che voleva. Se gli piacevi, magari ti trasportava per un paio di monete. Se non gli piacevi, ti chiedeva una fortuna. Se eri così sventurato da essere stato sepolto senza soldi… oh, be’, ti sarebbe toccato vagare sulla sponda mortale dello Stige per l’eternità. Alcune anime scivolavano addirittura indietro nel mondo mortale per perseguitare i vivi come fantasmi. Una volta che avevi attraversato lo Stige, trovavi l’Erebo nella baraonda più totale. Si supponeva che i fantasmi si dividessero in gruppi distinti a seconda di come si erano comportati in vita. Se erano stati dei gran farabutti, andavano nei Campi delle Pene, a godersi qualche speciale tortura per l’eternità. Se erano stati buoni, andavano nei Campi Elisi, che erano come il paradiso, Las Vegas e Disneyland messi insieme. Se in vita non erano stati né particolarmente buoni né particolarmente cattivi, ma si erano limitati a esistere (come fa la maggior parte della gente), venivano mandati a vagare per sempre nel Prato degli Asfodeli, che non era un brutto posto, solo terribilmente noioso. Queste in teoria erano le regole base dello smistamento anime. Purtroppo, prima che se ne occupasse Ade, nessuno vigilava sugli Inferi. Era un po’ come un ordinario giorno di scuola quando tutti i professori sono malati e ci sono solo dei supplenti che non conoscono le regole, quindi ovvio che gli studenti se ne approfittino. Le anime condannate ai Campi delle Pene strisciavano di soppiatto nel Prato degli Asfodeli, e nessuno riusciva a fermarle. Gli spiriti del Prato degli Asfodeli si autoinvitavano alle feste dei Campi Elisi. E qualche nobile, ma davvero stupido, spirito destinato ai Campi Elisi prendeva la direzione sbagliata, finiva nei Campi delle Pene e non riusciva più a uscirne o era troppo educato per protestare. Come se non bastasse, persino gli spiriti che andavano dove si supponeva dovessero andare non sempre meritavano di essere lì, perché prima che Ade prendesse il potere venivi giudicato per la vita dell’aldilà mentre eri ancora vivo. Come funzionava il sistema? Non lo so con certezza. A quanto pare, un comitato di tre giudici viventi ti sottoponeva a un colloquio appena prima che morissi e decideva se indirizzarti ai Campi delle Pene, ai Campi Elisi o agli Asfodeli. Non chiedetemi come facessero a sapere che stavi per morire. Forse lo indovinavano, o forse glielo dicevano gli dei. O magari gridavano semplicemente a qualcuno a caso: “Ehi, tu! Vieni qui! Tocca a te tirare le cuoia!”. Comunque, i giudici ascoltavano quello che avevi da dire e decidevano il tuo destino eterno. Immaginate quindi quello che succedeva. C’era chi mentiva. Chi corrompeva i giudici. Chi si presentava nei suoi vestiti migliori, sorrideva, adulava e si comportava così amabilmente da far credere di essere una persona perbene. Qualcuno addirittura portava testimoni a sostenere: “Ma certo. Costui ha condotto una vita assolutamente onesta. Non ha nemmeno mai torturato nessuno”. Roba di questo genere. Un sacco di brutte persone riusciva a ottenere con l’inganno un posto nei Campi Elisi, e un sacco di brave persone che non leccavano i piedi ai giudici finivano nei Campi delle Pene. Vi siete fatti un’idea? Il mondo dell’aldilà era un gran casino. Quando arrivò, Ade si guardò intorno e disse: — No, no! Così non può funzionare! Allora tornò sull’Olimpo e spiegò la situazione a Zeus. Dover chiedere al fratello l’approvazione per quello che aveva in mente di fare gli rodeva un po’, ma sapeva di aver bisogno del pollice alto dal Grande Capo per qualsiasi cambiamento sostanziale nella vita dopo la morte, soprattutto dal momento che vi erano coinvolti gli umani. Per gli dei, gli uomini erano una proprietà comune. Zeus stette ad ascoltarlo pensieroso, la fronte corrugata. — E dunque cosa proponi? — Be’ — disse Ade — potremmo tenere il comitato dei tre giudici, ma… — Il pubblico potrebbe votare! — lo interruppe Zeus. — Alla fine di ogni stagione, il mortale vincitore potrebbe essere incoronato Idolo dei Campi Elisi! — Ecco, no — replicò Ade. — A dire il vero pensavo che i giudici potrebbero essere spiriti dei morti, piuttosto che dei vivi. E ogni anima mortale dovrebbe essere giudicata solo dopo aver varcato l’aldilà. — Quindi… niente formato gara? Mmmh… peccato. Ade cercò di mantenere la calma. — Capisci, se i giudici sono spiriti sotto il mio controllo, sarà impossibile influenzarli. Le anime che si presenteranno a giudizio saranno spogliate di tutto tranne che della loro essenza. Non potranno fare affidamento su un bell’aspetto o dei begli abiti. Non potranno allungare tangenti ai giudici o chiamare dubbi personaggi a testimoniare. Tutte le loro azioni, buone o cattive, saranno esposte, nude e crude, perché i giudici potranno letteralmente vedere attraverso di loro. Sarà impossibile mentire. — Mi piace — convenne infine Zeus. — Chi sceglieresti come giudici? — Direi tre mortali deceduti che nel mondo di sopra sono stati re — disse Ade. — I re sono abituati a pronunciare giudizi. — Bene — concordò Zeus. — Purché quei re siano tutti figli miei. D’accordo? Ade strinse i denti. Non gli piaceva che suo fratello avesse le mani in pasta dappertutto, ma dal momento che quasi ogni re greco era figlio di Zeus, ne avrebbe comunque avuti un sacco tra cui scegliere. — D’accordo. Zeus annuì. — Come farai a essere sicuro che le sentenze verranno applicate e le anime andranno dove si suppone debbano andare? Ade gli indirizzò un sorriso gelido. — Oh, non ti preoccupare. A questo ho già pensato. Quando tornò nell’Erebo, Ade nominò tre ex re, tutti semidei figli di Zeus, come defunti vip giudicanti: Minosse, Aiace e Radamanto. Poi radunò le tre Furie, gli spiriti della vendetta nati dal sangue di Urano ere ed ere prima, e le assunse come aiutanti, il che fu un’ottima pensata, dato che a nessuno veniva voglia di far arrabbiare una nonnina demoniaca con l’alito cattivo e la frusta in mano. Come la maggior parte dei demoni, le Furie potevano assumere forme diverse, ma di solito si mostravano come ributtanti vecchiacce con lunghi capelli ispidi, tuniche lacere e gigantesche ali di pipistrello. Le loro fruste infuocate provocavano dolori lancinanti sia ai vivi sia ai morti, e potevano volare rendendosi invisibili, così non sapevi mai quando ti sarebbero piombate addosso. Ade le usava per tenere i morti in riga. A volte lasciava che si sbizzarrissero e studiassero nuove torture per le anime dannate più esecrabili. Capitava persino che le scatenasse dietro qualche vivente che aveva commesso un crimine davvero orribile, tipo uccidere un membro della propria famiglia, profanare un tempio o cantare le canzoni dei Journey a una serata karaoke. Il successivo miglioramento che Ade apportò agli Inferi fu di rendere molto più facile alle anime trovare la strada verso l’Erebo. Persuase Ermes, il dio messaggero, a buttare un occhio agli spiriti che si erano persi sulla sponda mortale dello Stige; se scorgeva qualche fantasma con l’aria smarrita, lo rimetteva nella direzione giusta e gli forniva una mappa a colori, omaggio della Camera di Commercio degli Inferi. Una volta che le anime dei morti raggiungevano il fiume Stige, Caronte le trasportava dall’altra parte per la tariffa standard di una moneta d’argento. Ade lo aveva convinto (leggasi minacciato) a far pagare a tutti lo stesso prezzo. Inoltre, tra i mortali in superficie diffuse la notizia che avrebbero fatto meglio a prendere sul serio i riti funebri, o non sarebbe stato loro permesso di entrare nel regno dei morti. Quando uno moriva, la sua famiglia doveva fare offerte agli dei. Dovevano dargli una sepoltura dignitosa e mettergli una moneta sotto la lingua, così che il defunto potesse pagare Caronte. Se non avevi la moneta, finivi di nuovo e per sempre nel mondo mortale in veste di fantasma, cosa oltremodo inutile e noiosa. Come fece Ade a diffondere la notizia tra i mortali? Aveva un esercito di brutti ceffi forniti di ali nere chiamati Oneiroi, o demoni dei sogni, che visitavano i mortali durante il sonno suscitando visioni o incubi. Vi è mai capitato di fare uno di quei sogni dove vi svegliate sconvolti perché vi sembra di cadere? Ecco, sono gli Oneiroi che vi stanno importunando. Probabilmente vi hanno afferrato e poi lasciato andare, così, giusto per dispetto. La prossima volta che vi succede date un pugno al pavimento e gridate: — Ade, di’ al tuo stupido demone di piantarla! Un altro miglioramento apportato da Ade: rafforzò la sicurezza all’ingresso dell’Erebo. Si recò all’Ente Protezione Animali del Tartaro e adottò il cane più grosso e più cattivo che possiate immaginare, un mostro di nome Cerbero, una specie di incrocio tra un pitbull, un rottweiler e un mammut irsuto con la rabbia. Cerbero aveva tre teste, quindi per un eroe mortale che cercasse di intrufolarsi nel regno di Ade o un morto che tentasse di scivolare fuori, le possibilità di essere individuato e divorato si triplicavano. Oltre a zanne e molari affilati come rasoi, a quanto pare aveva una criniera fatta di serpenti, e anche la coda era un serpente. Non posso garantire, perché ho incontrato Cerbero solo una volta. Era buio pesto, e in quell’occasione mi sono concentrato più che altro sul non piagnucolare come un lattante e non bagnarmi i pantaloni. Comunque, una volta che i dipartiti superavano l’entrata, venivano smistati dai tre defunti giudici vip e indirizzati verso la giusta destinazione. Come ho detto prima, la maggior parte non avevano fatto granché nella vita, né in bene né in male, quindi finivano nel Prato degli Asfodeli. Lì continuavano a esistere in sembianza di pallide ombre che potevano solo stridere come pipistrelli e fluttuare qua e là senza meta, cercando di ricordarsi chi fossero e cosa stessero facendo; un po’ come i professori durante la prima ora di lezione, quando non si sono ancora imbottiti di caffè. Se avevi condotto una vita onesta, andavi nei Campi Elisi, un posto gradevole per quanto possa esserlo un posto nell’oscurità degli Inferi. Avevi a disposizione una residenza privata, cibo e bevande a volontà e un servizio a cinque stelle che copriva tutti i tuoi bisogni. Potevi intrattenerti con le altre brave persone e rilassarti per l’eternità. Se i Campi Elisi ti venivano a noia, potevi decidere di bere le acque del Lete e rinascere a una nuova vita mortale. Alcune anime erano così buone che riuscivano a vivere tre vite virtuose di fila. Se eri una di queste, alla fine potevi ritirarti nelle Isole dei Benedetti, una sorta di paradiso privato stile Caraibi in un lago in mezzo ai Campi Elisi. Ma erano pochi quelli così fortunati o tanto virtuosi. Era un po’ come vincere la Lotteria della Brava Persona. Se avevi condotto una vita efferata, meritavi un trattamento speciale: bollire nell’olio per l’eternità, ritrovarti scuoiato, essere inseguito da demoni affamati su un campo di vetri rotti o scivolare su una lama di rasoio gigante dentro una pozza di succo di limone. Sapete, no, il solito tran tran. Gran parte delle punizioni non erano molto creative, ma se riuscivi a far arrabbiare Ade al punto giusto, lui poteva sempre saltarsene fuori con qualche nuovo modo particolarmente interessante di torturare la tua anima immortale. Un paio di esempi? Tantalo, un tizio che si mise davvero in grossi guai. Era un re greco – figlio di Zeus, tanto per cambiare – che era stato invitato a gustare nettare e ambrosia sul Monte Olimpo assieme agli dei. Un grande onore, giusto? Solo che Tantalo era goloso. — Accidenti — disse una volta finito di cenare, accarezzandosi la pancia. — Questa sì che è roba buona! Non è che posso portarmi via gli avanzi da spartire con i miei amici a casa? — Cosa mi tocca sentire! — esclamò Zeus. — Assolutamente no! Questo nettare e questa ambrosia sono merce magica e rara. Non puoi condividerla con nessuno. — Oh… — fece Tantalo con un sorriso forzato. — Certo, capisco. Vabbè… la prossima volta facciamo da me, d’accordo? Avrebbe dovuto lasciar perdere. Avrebbe dovuto ricordarsi cos’era successo a Prometeo quando aveva provato a rubare qualcosa agli dei e a condividerlo con i mortali. Ma Tantalo era arrabbiato. Si sentiva insultato perché gli dei non si fidavano di lui. Non volevano che diventasse famoso come “il mortale che aveva portato l’ambrosia sulla terra”. Più ci pensava, e più gli montava la rabbia. Invitò allora gli dei a un banchetto nel suo palazzo, ma per vendicarsi decise che avrebbe servito loro il pasto più oltraggioso che si potesse immaginare. Solo che non sapeva cosa. Era lì in cucina, a fissare le pentole vuote, quando entrò suo figlio Pelope. — Cosa c’è per cena, papà? — chiese. A Tantalo quel figlio non era mai piaciuto. Non chiedetemi perché. Forse temeva che un giorno o l’altro gli avrebbe usurpato il regno. I re greci erano sempre paranoici riguardo a queste cose. Comunque, Tantalo scoccò al figlio un’occhiata malvagia e tirò fuori un coltello da macellaio. — Buffo che tu me lo chieda proprio ora… Quella sera gli dei si riunirono nel palazzo di Tantalo per la cena, e si videro presentare una casseruola di gustoso stufato. — Che carne è? — chiese Demetra assaggiandolo. — Sa di pollo. Tantalo aveva intenzione di aspettare finché tutti gli dei non avessero mangiato, ma non poté trattenere la ridarella. — Oh… è solo una ricetta di famiglia. Zeus corrugò la fronte e mise giù la forchetta. — Tantalo… che cos’hai fatto? Anche Era allontanò il piatto. — E dov’è tuo figlio Pelope? — A dire la verità — confessò Tantalo — è nello stufato. Sorpresa, razza di idioti! Ah ah ah! Non so che cosa si aspettasse. Credeva forse che gli dei sarebbero scoppiati a ridere e gli avrebbero dato delle gran pacche sulle spalle? “Accidenti, Tantalo, mattacchione che non sei altro. Bella trovata!” Gli Olimpi ne furono orripilati. Dopotutto, soffrivano ancora di stress post-traumatico per essere stati inghiottiti dal padre Crono. Zeus tirò fuori il fulmine, incenerì Tantalo e ne gettò l’anima a Ade. — Trovagli una punizione molto speciale — disse. — Qualcosa che abbia a che fare con il cibo, per cortesia. Ade fu felice di accontentarlo. Immerse Tantalo fino alla vita in una pozza di acqua fresca, con i piedi cementati nel letto del fiume. Sopra la sua testa pendevano i rami di un albero magico su cui maturava ogni sorta di frutti profumati e allettanti. La punizione di Tantalo consisteva, semplicemente, nel restare lì per l’eternità. “Be’” pensò lui “non è poi così male.” Dopo un po’ però gli venne fame. Cercò di afferrare una mela, ma i rami si alzarono, sfuggendo alla sua presa. Allora provò con un mango. Non ebbe miglior fortuna. Cercò di saltare, ma aveva i piedi bloccati. Finse di essere addormentato, così da poter sferrare un attacco a sorpresa alle pesche. Di nuovo niente. Ogni volta era certo che si sarebbe conquistato un frutto, e invece non ce la faceva mai. Quando gli venne sete, raccolse un po’ d’acqua, ma prima che la mano raggiungesse la bocca, l’acqua magicamente evaporò e la mano fu completamente asciutta. Allora si chinò, sperando di dissetarsi direttamente dal fiume, ma l’intera superficie si ritirò davanti a lui. Insomma, per quanto tentasse, non riuscì a bere neanche una goccia. E così divenne sempre più affamato e assetato, anche se cibo e acqua erano vicini, tormentosamente vicini, da cui l’espressione “supplizio di Tantalo”. La prossima volta che volete con tutte le vostre forze qualcosa che è appena fuori dalla vostra portata, state soffrendo il supplizio di Tantalo. Qual è la morale della storia? Non lo so. Forse: non fare a pezzi tuo figlio per servirlo agli ospiti a cena. A me sembra abbastanza ovvio, ma tant’è. Un altro tizio che ricevette una punizione speciale fu Sisifo. Con un nome come il suo, si può ben pensare che avesse qualche problema, ma se non altro non aveva trasformato i figli in stufato. Il problema di Sisifo era che non voleva morire. In effetti credo di poterlo capire. Ogni mattina mi sveglio e penso: “Sai cosa sarebbe bello oggi? Non morire”. Ma Sisifo spinse la cosa ben oltre. Un giorno, alla sua porta si presentò la Morte. E per Morte intendo Thanatos, il dio della morte, l’Oscuro Mietitore, uno dei principali luogotenenti di Ade. Sisifo aprì la porta e si trovò davanti questo tizio massiccio con grandi ali ricoperte di piume nere che torreggiava su di lui. — Buon pomeriggio — disse Thanatos consultando il suo taccuino. — Ho una consegna per Sisifo: una morte dolorosa. Avrei bisogno di una firma. Sei tu Sisifo? Sisifo cercò di nascondere il panico. — Uhm… certo! Vieni, entra! Un attimo solo che prendo una penna. Mentre Thanatos si chinava per passare dalla porta, molto più bassa di lui, Sisifo afferrò l’oggetto più pesante che gli capitò a tiro – un pestello di pietra con cui macinava la farina – e colpì il dio della morte in testa. Thanatos perse i sensi all’istante. Sisifo lo legò come un salame, lo imbavagliò e lo infilò sotto il letto. Quando la signora Sisifo tornò a casa, chiese: — Perché c’è una gigantesca ala nera che spunta da sotto il letto? Sisifo le spiegò cos’era successo. La moglie non ne fu affatto contenta. — Mi sa che questa faccenda ci farà finire nei guai — disse. — Saresti dovuto morire e basta. — Anch’io ti amo, cara — borbottò Sisifo. — Andrà tutto bene, vedrai. Non andò tutto bene. Senza Thanatos a svolgere il proprio lavoro, la gente smise di morire. All’inizio nessuno ebbe da ridire. Se è previsto che tu muoia e non muori, perché dovresti lamentarti? Poi successe che tra due città greche si scatenò un feroce conflitto e Ares, il dio della guerra, cominciò ad avere dei sospetti. Si librò sul campo di battaglia come faceva sempre, pregustando un’eccitante carneficina. Quando i due eserciti si scontrarono, però, nessun soldato venne ucciso. Semplicemente, continuarono a colpirsi e a farsi a pezzi. Sangue che scorreva a fiumi, ma nessuno moriva. — Dov’è la Morte? — gridò Ares. — Senza di lei non c’è divertimento! Si allontanò in volo dal campo di battaglia e cominciò a chiedere in giro per il mondo: — Scusate, per caso avete visto la Morte? Un tipo grande e grosso con le ali nere a cui piace mietere anime? Finalmente qualcuno accennò al fatto di aver visto un tipo simile dirigersi verso la casa del vecchio Sisifo. Ares si presentò alla sua porta. Lo spinse da parte e subito vide l’ala sinistra di Thanatos che sbucava da sotto il letto. Allora tirò fuori il dio della morte, lo ripulì dalla polvere e tagliò le corde che lo legavano. Dopodiché entrambi fissarono Sisifo con espressione molto seria. Il poveretto arretrò in un angolo. — Ecco, amici, sapete, posso spiegare… BUM! Ares e Thanatos lo incenerirono con una doppia fiammata di rabbia divina. Quando l’anima di Sisifo si ritrovò negli Inferi, chissà come riuscì a ottenere udienza da Ade in persona. Il vecchio si inchinò davanti al trono. — Signore, so di aver commesso una cattiva azione. Sono pronto a subire la mia punizione. Ma mia moglie! Non ha organizzato un funerale adeguato! Come posso godere della dannazione eterna sapendo che la mia signora non ha onorato gli dei con i sacrifici che tu hai raccomandato? Ti prego, consentimi di tornare nel mondo quanto basta per sgridarla. Rientrerò subito. Ade si accigliò. Ovviamente era sospettoso, ma aveva sempre pensato che gli spiriti non potessero mentire (e si sbagliava). Oltre tutto, la storia di Sisifo lo faceva fremere di rabbia. Detestava che le persone non prendessero sul serio i riti funebri. E i sacrifici agli dei, poi, erano ancora più importanti! — Va bene — disse. — Vai a sgridare tua moglie, ma non metterci troppo. Quando tornerai, ho qui pronta per te una punizione davvero speciale. — Non vedo l’ora! — esclamò Sisifo. Così il suo spirito tornò nel mondo. Trovò i propri resti polverizzati e riuscì in qualche modo a rimetterli insieme per formare un corpo come si deve. Potete immaginare la sorpresa della moglie quando Sisifo si presentò alla porta vivo e vegeto: — Tesoro, sono tornato! Dopo che la poveretta si fu ripresa dallo svenimento, Sisifo le raccontò di come era furbescamente riuscito a gabbare di nuovo la morte. La moglie non ne fu affatto divertita. — Non puoi ingannare Ade per sempre — lo ammonì. — Stai andando in cerca di guai. — Sono già stato condannato ai Campi delle Pene — disse Sisifo. — Cos’ho da perdere? E poi Ade è molto impegnato. Deve esaminare centinaia di anime ogni giorno. Non si accorgerà nemmeno che non sono tornato. In effetti il piano di Sisifo funzionò per anni. Teneva un basso profilo: se ne stava in casa per la maggior parte della giornata e quando doveva uscire si metteva una barba finta. E poi Ade era davvero impegnato. Si dimenticò di Sisifo, finché un bel giorno Thanatos gli chiese: — Ehi, che cos’hai poi fatto con quel tipo che mi aveva cacciato sotto il letto? — Oh… — fece Ade aggrottando la fronte. — Accidenti! Questa volta a cercare Sisifo mandò il messaggero degli dei. Ermes indossava un elmo, quindi non lo si poteva colpire in testa così facilmente. Il messaggero trascinò di nuovo Sisifo negli Inferi e lo lanciò ai piedi del trono di Ade. Il dio sorrise gelido. — Mentire a me, nientemeno… Oh, ora sì che ho qualcosa di davvero speciale per te! Portò Sisifo in mezzo ai Campi delle Pene, su una brulla collina alta centocinquanta metri, con le pendici inclinate a quarantacinque gradi, perfetta per fare skateboard. Alla base c’era un’enorme pietra rotonda delle dimensioni di una monovolume. — Ecco qua — disse Ade. — Quando sarai riuscito a spingere questa roccia in cima alla collina, te ne potrai andare. La punizione sarà finita. Sisifo sospirò di sollievo. Si era aspettato ben di peggio. Certo, il masso aveva l’aria di essere pesante. Spingerlo fino in cima alla collina sarebbe stata una faticaccia, ma quantomeno non era impossibile. — Grazie, mio signore — disse. — Sei davvero molto clemente. — Certo — replicò Ade con gli occhi che gli brillavano. — Molto clemente. E scomparve in una nuvola nera. Sisifo si mise all’opera. Purtroppo scoprì presto che il lavoro era impossibile. Spingere la roccia gli richiese ogni briciolo di forza, e quando fu quasi arrivato in cima, gli sfuggì. Ogni volta, non importa quanto si impegnasse, la roccia tornava giù rotolando. Oppure lo schiacciava e poi rotolava giù. Se si fermava a riposare, arrivava una delle Furie e lo frustava finché non si rimetteva in moto. Sisifo fu condannato a spingere il masso su per la collina per l’eternità, senza poter mai raggiungere la cima. Un altro lieto fine! Ares, il dio della guerra, poté di nuovo vedere la gente morire. La signora Sisifo finalmente ebbe pace. E Thanatos, il dio della morte, decise di non andare più a suonare i campanelli e chiedere la firma. Da allora si limitò ad avvicinarsi di soppiatto e a prendere l’anima delle sue vittime senza preavviso. Quindi, se stavate pensando di vivere per sempre legando il dio della morte e nascondendolo sotto il letto, ora potete scordarvelo. Fu così, dunque, che Ade riorganizzò il mondo sotterraneo. Sul bordo del Prato degli Asfodeli costruì il suo oscuro palazzo, e una volta sposata Persefone più o meno si sistemò, felice per quanto possa esserlo un dio degli Inferi. Cominciò anche ad allevare una mandria di vacche nere, così da poter avere bistecche e latte fresco, e nominò come mandriano un demone di nome Menete. E infine piantò anche un frutteto di melagrane magiche, per onorare sua moglie. Gli Olimpi raramente gli facevano visita, tranne Ermes quando doveva consegnargli messaggi o anime, ma se capitava di essere nella sala del trono di Ade in un giorno qualunque, si poteva trovare Thanatos che bazzicava da quelle parti, o le Furie, o i tre giudici ex vip. Spesso venivano invitati a palazzo anche i migliori artisti e musicanti morti che vivevano nei Campi Elisi, per intrattenere il re. Persefone e Ade erano una coppia felice? Difficile dirlo. Le leggende non hanno mai chiarito se avessero avuto figli. Pare che Persefone abbia dato alla luce una figlia, Melinoe, che fu il demone dei fantasmi e degli incubi, ma potrebbe essere che Ade non fosse nemmeno suo padre. Secondo altre versioni, pare addirittura che fosse stato Zeus travestito da Ade a generarla, il che ci porta a tutto un altro livello di degrado. Alcuni poemi fanno cenno a Macaria, figlia di Ade e Persefone. Era la dea della buona morte, cioè delle morti pacifiche, in opposizione a quelle dolorose e devastanti, ma su di lei non circolano molte storie. In ogni caso, Ade non fu sempre fedele a Persefone. Dopotutto era un dio, che cosa vi aspettavate? Una volta andò a far visita al Titano Oceano, in fondo al mare. Chissà che cosa aveva da fare laggiù. Forse voleva dare una controllatina alle fonti salate che alimentavano il fiume Stige. Comunque, mentre girava là sotto, gli capitò di incontrare una bellissima ninfa di nome Leuce, figlia di Oceano. Era alta, pallida e affascinante, e fece molto colpo su di lui. Alla fine della visita, Ade la rapì e la condusse negli Inferi. Si trattò solo di una passione passeggera, una follia momentanea, ma potete facilmente immaginare come la prese Persefone quando scoprì che il marito si era portato a casa un souvenir sotto forma di ragazza. — O lei o me — ringhiò furiosa. — E non limitarti a rimandarla nell’oceano. Mi ha rubato il marito. Deve morire! — Uhm… d’accordo — disse Ade. — Va bene, cara! Chissà dove avevo la testa… Corse giù nel Prato degli Asfodeli, dove Leuce lo stava aspettando. — E dunque? — chiese la fanciulla. — Mi hai rapita e mi hai portata qui. Che intenzioni hai? — Se devo dire la verità, non può funzionare — le rispose Ade. — Mia moglie non approva. — Che stress! — borbottò Leuce. — Vabbè, riportami a casa. — Non posso — confessò Ade. — Persefone vuole la tua morte. Leuce diventò ancora più pallida. — Ma questo… questo non è giusto! Sei tu che mi hai rapita! — Va tutto bene — la rassicurò Ade. — Ho un’idea. Invece di ucciderti, ti trasformerò in qualcosa, per esempio una bella piantina. Così vivrai per sempre e io potrò ricordarmi di te. — Ma è una pessima idea! — Preferisci un albero? — rifletté Ade. — No! — Un albero alto, pallido, bianco — decise il dio. — Un albero bello quanto te. — Io… PUF! Leuce divenne il primo pioppo, e Ade ne abbracciò il tronco. — Grazie per aver capito. Non ti dimenticherò mai. Il pioppo si riprodusse molto in fretta, finché il Prato degli Asfodeli non ne fu pieno: un po’ di bellezza in quelle distese oscure. E divenne l’albero sacro di Ade, che cresceva rigoglioso, di preferenza lungo le sponde dei fiumi del mondo sotterraneo, forse perché Leuce ricordava che era venuta dal mare e cercava di ritrovare la strada per tornare a casa. Buona fortuna, Leuce. Dopo questa romantica storia – senza lieto fine – con il pioppo, Ade cominciò a soffrire di depressione. Un giorno decise di farsi una bella passeggiata lungo il Cocito, il Fiume del Pianto, che peraltro è il posto meno adatto per andare a camminare se stai cercando di tirarti su il morale. Là gli capitò di scorgere una deliziosa fanciulla con una tunica verde pastello, seduta vicino all’acqua. Portata dalla brezza sotterranea, gli arrivò la sua fragranza: un dolce e tenue profumo, diverso da qualsiasi altro avesse mai sentito. Ade fece qualche passo ancora e rimase a fissarla estasiato. In genere aveva la tendenza a spaventare le persone, scuro e furtivo com’era; e infatti, quando la fanciulla lo vide, sobbalzò. — Cosa vuoi? — gli chiese. — Uh… ecco. — Gli riusciva difficile pensare. Anche gli occhi della giovane erano verde pallido come il vestito. — Sono Ade. E tu sai di buono. Chi sei? Lei arricciò il naso. — Sono Menta, no? Figlia del fiume Cocito. Ade corrugò la fronte. — I fiumi degli Inferi hanno Naiadi? Non lo sapevo. — Be’, non è che ne siamo orgogliose — borbottò Menta. — Sai, non è facile essere uno spirito della natura di un fiume piangente. Preferirei di gran lunga essere nel mondo lassù, dove potrei godermi la luce del sole e l’aria fresca. — Ti ci porto io — disse Ade. — Dammi solo un bacio, e ti faccio salire in superficie. Menta lo fissò sospettosa. — Perché dovresti? — Perché ti amo — rispose il dio stupidamente, anche se in effetti non aveva incontrato molte belle donne. Oltretutto era primavera, e Persefone era andata a far visita a sua madre, quindi si ritrovava solo. Menta rifletté un po’. Non sapeva cosa pensare di quel dio tenebroso, eppure un viaggio nel mondo di sopra era molto allettante. — D’accordo — disse infine. E lo baciò. Ade la cinse in un abbraccio, e insieme si dissolsero come ombre. Ricomparvero sulle pendici di un monte vicino alla città greca di Pilo. Quando Menta vide il cielo azzurro e il sole e la distesa infinita di colline, le mancò il fiato. Sorrise e strinse a sé Ade, e per circa venti secondi furono molto innamorati. La fragranza di Menta era inebriante. Poi qualcosa cambiò. Ade si irrigidì. Forse l’aria fresca gli aveva schiarito la mente. — Cosa sto facendo? — gemette spingendo via Menta. — È primavera. Mia moglie sarà qui in giro da qualche parte a far crescere l’erba e chissà cos’altro. Ci scoprirà! — E chi se ne importa? — replicò Menta. — Hai detto che mi ami. — Io… io… — balbettò Ade. Gli occhi verdi di Menta erano meravigliosi. Quella fanciulla era carinissima e sapeva di buono, ma Ade capì che il loro amore era senza speranza. Si ricordò dello sguardo assassino negli occhi di Persefone quando aveva saputo di Leuce. — Devo andare un attimo nell’Erebo — disse. — Goditi questo mondo. — Ma poi torni, vero? — chiese Menta. — Ecco… — Ade fece marcia indietro e si dissolse di nuovo nell’ombra. Menta avrebbe dovuto dimenticarlo. Se la sarebbe cavata benissimo lì sopra! Avrebbe potuto trovare un altro fiume a cui legare la propria forza vitale. Avrebbe potuto vivere per sempre nelle belle foreste che tappezzavano le colline della Grecia. E invece no. Troppo facile! Essere stata scaricata sul fianco di quella collina la fece arrabbiare parecchio. Le venne in mente che aveva conquistato Ade senza alcuna fatica, quindi doveva essere proprio bella. E per profumare, profumava davvero. Meritava di essere una regina. — Ade mi ama! — gridò al vento. — Tornerà a prendermi per farmi regina degli Inferi! Io sono molto più bella di Persefone, sono meravigliosa, il mio profumo è più buono e… Il fianco della collina tremò. Erba e fiori cominciarono a roteare in un enorme vortice vegetale a forma di imbuto. Comparve la dea Persefone, un colosso alto quindici metri. A quel punto Menta si accorse di aver fatto un grosso errore. — TU PIÙ CARINA DI ME? — tuonò la dea. — GIÀ, PROPRIO! PERÒ CHE PROFUMI DI BUONO È VERO. MAGARI RIESCO A FARMI VENIRE UN’IDEA PER USARTI ASSIEME ALLE MIE ERBE AROMATICHE! Sollevò un gigantesco piede calzato da un sandalo altrettanto gigantesco e schiacciò Menta. Poi strofinò la suola sul fianco della collina, e su quella scia germogliarono tante piantine verdi. Ogni volta che venivano schiacciate, le tenere foglioline mandavano un profumo meraviglioso. Persefone decise di chiamarle piante di menta, e da allora la collina vicino a Pilo dove crebbero per la prima volta fu denominata Monte Menta. Perciò la prossima volta che vi fate un gelato alla menta con scaglie di cioccolato, ringraziate Persefone, anche se potrebbe non essere proprio gradevole gustare quella roba sapendo che ha origine da una ninfa spiaccicata. In seguito Ade non ebbe molte storie. Se ne stava per lo più nel suo palazzo e badava agli affari suoi. Gli eroi mortali però non lo lasciavano mai in pace. Continuavano a presentarsi laggiù a chiedere qualcosa. Uno voleva il cane Cerbero. Un altro pretendeva che Ade riportasse in vita la sua innamorata. Un altro ancora cercò persino di rapirgli Persefone. Magari quelle storie ve le racconto un’altra volta, perché tutte queste faccende oscure dell’altro mondo mi hanno reso un po’ claustrofobico. Ho bisogno di aria fresca. Facciamo che vi porto nel Mediterraneo, così vi presento mio padre, il solo e unico Poseidone. POSEIDONE È UNO TOSTO D’accordo, sono di parte. Ma se dovete avere un dio greco come genitore, nessuno è meglio di Poseidone. Certo, ho avuto i miei bei problemi con lui. Non è il padre più presente del mondo. Però, dico, nessun dio greco lo è… Almeno Poseidone ha poteri fantastici e un atteggiamento rilassato (il più delle volte). È un tipo incredibilmente tranquillo, considerato quanto sia stata dura per lui da ragazzo. Era il figlio di mezzo, sempre messo a confronto con i fratelli, tipo: “Accidenti, sei bello quasi quanto Zeus! Sei potente quasi quanto Zeus!”. O, a volte: “Be’, in effetti non sei proprio un fallito come Ade!”. Cose del genere a uno possono anche scocciare, dopo un po’ di secoli. Quando Zeus, Poseidone e Ade avevano tirato i dadi per spartirsi il mondo, Poseidone aveva avuto il secondo punteggio migliore. Aveva dovuto accettare che il fratello Zeus diventasse il Signore dell’Universo e gli ordinasse cosa fare per l’eternità, ma non si era lamentato. Lui aveva vinto il mare. E gli andava bene. Gli piaceva stare in spiaggia, gli piaceva nuotare, gli piaceva mangiare pesce. È vero, non era appariscente o potente come Zeus. Non aveva fulmini in mano (che erano gli armamenti nucleari dell’Olimpo). Ma aveva il suo tridente. Poteva provocare tornado, evocare onde di marea e risultare davvero sgradevole. E dato che i mari circondavano completamente la terra, poteva anche causare terremoti. Se era di cattivo umore, poteva radere al suolo una città, o far sprofondare nei flutti intere isole. I Greci lo chiamavano “Scuotitore della Terra”, e si davano un sacco da fare per renderlo contento, perché ovunque tu fossi, in terra o per mare, era decisamente meglio che Poseidone non si arrabbiasse con te. Per fortuna di solito era un tipo calmo. Il suo carattere rifletteva il mare Mediterraneo, dove viveva: un mare su cui, il più delle volte, era facile navigare. Poseidone lasciava che le navi scorrazzassero liberamente. Benediceva i pescatori con reti piene di pesci. Si rilassava in spiaggia, beveva il suo drink con tanto di ombrellino in un guscio di noce di cocco, e di certo non si spaccava la schiena. Nelle belle giornate cavalcava le onde con il suo cocchio d’oro trainato da un tiro di ippocampi bianchi, che erano cavalli dalla criniera d’oro, gli zoccoli di bronzo e la coda di pesce. Ovunque andasse, le creature del mare salivano a giocare intorno alla sua biga, e allora si vedevano squali, orche e calamari giganti divertirsi tutti insieme gorgogliando: — Urrà, Poseidone è tra noi! — o altre amenità del genere. A volte però il mare si arrabbiava, e così Poseidone. Quando succedeva, ecco che diventava un altro. Se eri il capitano di un vascello e ti dimenticavi di fare un sacrificio al dio del mare prima di salpare, ti dimostravi un vero idiota. Poseidone gradiva almeno un toro per nave. Non chiedetemi perché. Forse un giorno aveva detto ai Greci: “Datemi una Red Bull e siamo pari”, e i Greci avevano pensato che si trattasse di un toro rosso in carne e ossa. Se quindi ti dimenticavi di fare un sacrificio, c’erano buone probabilità che la tua nave andasse a sfracellarsi sugli scogli, fosse divorata da un mostro marino o catturata da pirati con gravi problemi di igiene personale. E anche se non viaggiavi mai per mare, non significava che fossi al sicuro. Se la tua città offendeva in qualche modo Poseidone… be’, dovevi prepararti a dare il benvenuto a un uragano di proporzioni epiche. Tutto sommato, però, generalmente Poseidone se ne stava buono. Cercava di ubbidire agli ordini di Zeus, anche se lo seccava di continuo. Ogni volta che loro due cominciavano a discutere, gli altri dei si allacciavano le cinture, perché una lotta tra il cielo e il mare avrebbe potuto fare a pezzi il mondo. Madre Rea dovette percepire la tensione molto presto. Poco dopo che gli dei ebbero preso possesso del mondo, suggerì che Poseidone lasciasse l’Olimpo ed esplorasse i suoi nuovi domini. Lo mandò a vivere sul fondo dell’oceano con una tribù di sciroccati di nome telchini. Fu un consiglio abbastanza strano, dal momento che i telchini erano dei piccoletti decisamente squilibrati. Una volta abitavano la terra, ma poi combinarono qualcosa che fece arrabbiare Zeus, il quale gettò i peggiori di loro nel Tartaro ed esiliò gli altri in fondo al mare. Che cosa facevano? Di preciso non lo so, ma erano noti per praticare la stregoneria e ordire trame bizzarre. Potevano evocare la brina, la pioggia e persino la neve (che in Grecia non si vede molto spesso) e far cadere acqua sulfurea che distruggeva le piante e bruciava le carni: il che, seppur in un modo un po’ schifoso e puzzolente, era davvero figo. Secondo alcune leggende, i telchini avevano inventato la lavorazione dei metalli e fabbricato la falce di Crono su richiesta di Gea. Potrebbe essere vero: erano avidi, e per un buon compenso avrebbero fatto qualsiasi cosa. Dopo che Zeus li fece sprofondare nell’oceano, cambiarono forma e diventarono un incrocio tra un cane, una foca e un essere umano, con muso canino, gambe corte e tozze e mani semipalmate sufficientemente agili per forgiare metalli, ma soprattutto perfette per giocare a ping-pong. Quando Poseidone andò a vivere con loro, i telchini gli fecero vedere il posto e gli insegnarono come funzionava l’oceano: “Questi sono pesci! Questo è corallo!”. Un trucchetto particolarmente infido che gli mostrarono fu in che modo usare il tridente a mo’ di leva. Poseidone imparò a infilare le punte sotto la base di un’isola per rovesciarla e farla scomparire tutt’intera sott’acqua. Nelle battaglie sulla terraferma, poteva fare lo stesso con le montagne. Un paio di volte ne abbatté una proprio in testa ai nemici, schiacciandoli come formiche. Ve l’ho detto che era uno tosto! Alla fine però Poseidone si stancò dei telchini e decise di costruirsi un palazzo tutto per sé. (Bella mossa, papà!) Scese sul fondo del mar Egeo e si servì dei suoi poteri scuoti-terra e solleva-onde per erigere una grande dimora fatta di perle, ciottoli levigati dal mare e conchiglie. I giardini erano pieni di piante marine esotiche, con meduse iridescenti che fluttuavano come lucine di Natale. Per la guardia si serviva di squali bianchi e di sirene come cameriere; e i cancelli d’ingresso erano enormi, perché ogni tanto arrivavano balene e mostri marini a porgere i propri omaggi. Se volete sapere come la penso, la casa di Poseidone era infinitamente più favolosa di quella di Ade o di Zeus, e quando lui era seduto sul suo trono di corallo, era proprio soddisfatto di sé. Tutto il mondo marino era sotto il suo controllo. I pesci lo adoravano. Ogni marinaio del Mediterraneo gli faceva offerte e lo pregava che le traversate fossero tranquille. Si sentiva amato da tutti. A quel punto pensò: “Caspita, perché non salgo in superficie a propormi come protettore di una città dei mortali?”. Come ho già detto, per gli dei non era cosa da poco. Più numerosi erano i mortali che ti pregavano, più forte diventavi. Avere un’intera città dedicata a te – con statue, templi e T-shirt souvenir in tutti i negozi per turisti – era il non plus ultra per sentirti in diritto di vantarti. Poseidone decise di tentare con la capitale dell’Attica, sulla terraferma greca, una delle città più grandi e importanti. Dico: punta alto oppure stattene a casa, giusto? Non appena si materializzò sull’Acropoli della città, che era la fortezza principale sulla cima della collina più elevata, la terra tremò. Apparve avvolto da una roteante colonna di vapore acqueo e sale. Colpì la roccia più vicina con il tridente, la spaccò in due e generò un geyser di acqua salata. — Mirate, mortali! — gridò alla folla. — Io sono Poseidone, e sono venuto per diventare patrono della vostra città! Un’entrata in scena di tutto rispetto. Purtroppo pochi secondi prima era apparsa Atena, la dea della saggezza, a fare la stessa identica offerta. Infatti era lì vicino, nelle sue vesti grigie, l’elmo da battaglia infilato sotto il braccio, intenta a negoziare con gli anziani della città. — Uffa — borbottò Poseidone. — Perché questa è qui a rompere? Alla vista del dio del mare con il minaccioso tridente e dell’enorme geyser che ora spruzzava acqua salata sulla sommità della collina, gli anziani trattennero il fiato. — Signore! — disse uno di loro. — Ecco… vedi… I poveri mortali, nervosissimi, fecero correre lo sguardo da Poseidone ad Atena e viceversa. Non posso certo biasimarli. Non è una bella cosa essere costretti a scegliere tra due dei. Non importa per quale opterai: l’altro molto probabilmente ti schiaccerà sotto un piede come uno scarafaggio. Ma neanche Poseidone sapeva bene cosa fare. Come osava, quell’arrampicatrice di Atena, quella dea di seconda generazione, rubargli l’idea? Fu tentato di spazzarla via con il tridente, ma prima che potesse farlo lei gridò: — Io so come sistemare la cosa senza spargimento di icore! Tipico. Atena aveva sempre qualche idea subdola. A quel punto Poseidone non era per niente interessato alla pace, ma dato che i mortali sembravano molto sollevati, non voleva fare quello che non sa stare al gioco davanti ai suoi futuri seguaci. — Quindi? — mugugnò. — Quale sarebbe il piano? — Una gara — disse Atena. — Ciascuno di noi preparerà un dono per la città e gli anziani giudicheranno quale sarà il migliore. Il dio che darà alla città il dono di maggior valore ne sarà il patrono. L’altro accetterà il giudizio degli anziani e se ne andrà in pace. D’accordo? Migliaia di occhi mortali si girarono verso Poseidone, che aveva ancora una gran voglia di scagliare Atena in mare, ma lei lo aveva messo alle corde. Non poteva dire di no e basta. — E sia — grugnì. La dea gli fece un cenno educato. — Prima i signori. Poseidone si mise a riflettere. Quale poteva essere un dono di valore per quei mortali? Una scatola di perle? Qualche bella medusa come animale da compagnia? O magari una scuderia di balene addomesticate da cavalcare? Mmmh… solo che parcheggiarle in centro poteva essere un problema. Magari un animale di qualche altra forma… qualcosa di forte e veloce ma adatto alla vita sulla terraferma? Poseidone lanciò uno sguardo alle onde che si frangevano sulla spiaggia lì sotto. Le creste spumose si rincorrevano e si rompevano a riva, e fu allora che gli venne un’idea e cominciò a sorridere. — Guardate — disse. Puntò il tridente, e le onde cominciarono a prendere forma. Quando raggiunsero la battigia, erano diventate maestosi animali con quattro lunghe zampe e criniere fluenti. Galopparono dritti sulla spiaggia, nitrendo e impennandosi. — Li chiamerò cavalli! — gridò Poseidone. — Sono forti e veloci, potrete cavalcarli e andare ovunque. Porteranno carichi pesanti e tireranno gli aratri o i carri. Potrete persino portarli in guerra e travolgere i vostri nemici. E oltretutto sono davvero belli. I mortali applaudirono educatamente. I cavalli erano senz’altro un dono di valore, anche se alcuni cittadini sembravano delusi, probabilmente perché speravano nelle meduse da compagnia. Poi tutti si girarono verso Atena. La dea sollevò una mano. Dalle rocce vicine cominciò a germogliare uno stentato arbusto. Aveva foglie grigio-argento e piccoli frutti bitorzoluti delle dimensioni di una verruca. — E questo cosa sarebbe? — disse Poseidone trattenendo a stento le risate. — Un albero di ulivo — rispose Atena. I mortali si agitarono. L’alberello non aveva un’aria molto florida, ma nessuno osava dirlo alla dea. Poseidone ridacchiò. — Okay, bel tentativo. Immagino di sapere chi ha vinto la gara! — Quanta fretta! — replicò Atena. — L’ulivo può anche non sembrare granché, ma necessita di poche cure. Si diffonderà per tutta la campagna, al punto che le olive diventeranno il cibo più importante della Grecia. — Queste cosine nere e bitorzolute? — protestò Poseidone. — Ma sono insignificanti! — Cresceranno a migliaia — spiegò Atena. — E sulla pizza sono buonissime! I mortali di questa città le esporteranno in tutto il mondo e diventeranno ricchi! Useranno l’olio per cucinare e per accendere le lampade. Potranno persino aggiungerci del profumo e usarlo dopo il bagno, come idratante, o utilizzarlo per togliere le macchie che non vengono via sul banco di cucina. — Si girò verso la folla. — Ebbene, quanto dovreste pagare per questo? No, non rispondete! È il mio dono per voi, gratis. Se lo ordinate oggi, avrete anche la mia protezione sulla città, che comporta tonnellate di saggezza, consigli sulle faccende di guerra e un sacco di altri imperdibili benefit. Sarete la città più ricca e importante della Grecia! Tutto quello che chiedo è che sia chiamata come me e che erigiate un tempio a mio nome, con un mutuo pagabile in tre comode rate. La sicurezza di Poseidone cominciò a vacillare. — Un momento… i miei cavalli… Ma i mortali non lo ascoltavano più. Erano molto più interessati a fare soldi, e mentre la campagna intorno a loro era particolarmente adatta a far crescere gli ulivi, era invece troppo collinosa e rocciosa perché i cavalli fossero di una qualche utilità. Ironia della sorte, gli abitanti di quella città alla fine divennero famosi per il commercio via mare del loro olio di oliva, ma rifiutarono la protezione di Poseidone, che del mare era il dio. Forse avrebbe fatto meglio a offrire loro le balene ammaestrate. Così Atena vinse la gara, ed è per questo che la città si chiamò Atene, quando invece avrebbe potuto avere un nome un po’ più figo, per esempio Poseidonopoli. Poseidone se ne andò tempestivamente, e intendo in senso letterale. Dimenticò la promessa di non vendicarsi e quasi distrusse la parte bassa della città con una devastante inondazione, finché gli ateniesi non decisero di costruire sull’Acropoli un tempio che onorasse sia lui sia Atena. Il tempio è ancora là. Se vi capita di andarci, vedrete i segni lasciati dal tridente di Poseidone nel punto in cui aveva colpito la roccia per far scaturire la sorgente di acqua salata. Probabilmente ci sono anche degli ulivi. Dubito invece che vedrete dei cavalli. Dopo quell’esperienza, per Poseidone trovare una città da sponsorizzare divenne praticamente un’ossessione, peraltro mai coronata da successo. Combatté con Era per la città di Argo, e vinse Era. Contese a Zeus l’isola di Egina, e vinse Zeus. Ebbe una disputa con Elio per la città di Corinto e fu a un passo dalla vittoria, ma Zeus disse: — No, ve la dividerete: tu Elio prenderai la città vecchia e l’Acropoli. Tu, Poseidone… vedi quella sottile striscia di terra brulla vicino alla città? Ecco, tu prenderai quella. Poseidone si ritrovava sempre fregato. E più succedeva, più si imbufaliva. E questo è un peccato, perché quando Poseidone si arrabbiava, tendeva a punire chiunque pensava lo stesse insultando. Per esempio, era molto orgoglioso di quei cinquanta spiriti del mare chiamati Nereidi, la cui bellezza era famosa in tutto il mondo. Avevano lunghi e fluttuanti capelli scuri come la notte, occhi verdi come il mare e vesti impalpabili come ragnatele, che in acqua si gonfiavano intorno a loro. Tutti sapevano che erano un vero schianto, e averle nel proprio regno era una cosa che deliziava Poseidone, un po’ come vivere in una città che ha una squadra di calcio vincitrice del campionato. A ogni modo, una regina mortale di nome Cassiopea, là nel Nord Africa, cominciò a vantarsi di essere molto più bella delle Nereidi. Nell’udire una simile assurdità, Poseidone perse la pazienza. Evocò un serpente di mare lungo circa trenta metri, con una bocca in grado di inghiottire una montagna, e lo mandò a terrorizzare le coste dell’Africa. Il mostro imperversò in lungo e in largo, divorando navi, sollevando onde che travolgevano interi villaggi e mugghiando così forte che nessuno riusciva più a dormire. Alla fine, per fermare quegli attacchi, Cassiopea acconsentì a sacrificare la sua stessa figlia, Andromeda, al mostro del mare. Come dire: “Oh, già, colpa mia. Non avrei dovuto vantarmi. Tieni, uccidi pure la mia figliola innocente!”. Vi tranquillizzo subito: mio padre in realtà non lasciò che ciò accadesse. Permise che un eroe salvasse Andromeda e uccidesse il mostro (questa però è un’altra storia), ma persino dopo che Cassiopea morì, Poseidone non dimenticò mai la sua insolenza. La collocò in cielo sotto forma di costellazione, e siccome aveva sostenuto di essere più bella delle Nereidi, girava apparendo a volte a testa in giù, posizione sconveniente per chi pecca di vanità. Ed è anche una costellazione con un aspetto davvero insulso. Dopo di ciò le Nereidi furono molto grate a Poseidone per aver difeso il loro onore. Forse era stato il suo piano fin da subito. Niente è più eccitante di avere cinquanta splendide donne che ti ritengono meraviglioso. La maggior parte delle Nereidi sarebbe stata felicissima di sposare Poseidone; ma ce n’era una che invece lo evitava, perché era molto timida e non voleva nemmeno accettare un passaggio occasionale. E neanche a dirlo, fu su di lei che il dio mise gli occhi. Si chiamava Anfitrite, e la sua idea di paradiso era vivere una vita tranquilla in fondo al mare, senza dei che le chiedessero di uscire o facessero battute volgari sul suo conto quando andava al centro commerciale. Purtroppo Anfitrite era bella. Più cercava di evitare gli dei, più quelli le andavano dietro. Portava i capelli neri raccolti in una retina di perle e seta. Aveva gli occhi scuri come chicchi di caffè, un sorriso gentile e una risata contagiosa. Di solito indossava una tunica bianca molto semplice, e l’unico gioiello che portava era un cerchietto di chele di granchio intorno alla fronte, che non mi sembra una gran raffinatezza, ma immagino che a quei tempi rappresentasse l’ultima moda tra le Nereidi. Poseidone fece di tutto per conquistare il suo cuore: caramelle mou salate, serenate di canto di balena, bouquet di cetrioli di mare, fisalie decorate con magnifici nastri rossi. Anfitrite rifiutò tutte le sue avance. Ogni volta che il dio le si avvicinava, lei arrossiva e nuotava via. Alla fine si spaventò così tanto che scappò una volta per tutte. Poseidone la cercò ovunque, senza successo. Cominciò a pensare che non l’avrebbe mai più rivista, e il suo cuore sprofondò come un sommergibile. Vagava per il palazzo gemendo come una megattera, disorientando tutti i mammiferi marini e facendo venire il mal di testa ai calamari giganti. Le creature marine scelsero allora un dio di nome Delfino perché andasse a parlare con Poseidone e scoprisse cos’era successo. Delfino era il re immortale dei delfini, nonché buon amico del dio del mare. Che aspetto aveva? Quello di un delfino. Acuto, eh? Ecco dunque che Delfino nuotò fino alla sala del trono e cominciò a chiacchierare in delfinese. — Che succede, amico P? Perché quella faccia? — Oh, si tratta di Anfitrite — rispose Poseidone lasciando andare un gran sospiro. — Io l’amo, ma lei è scappata! — Ah. — Delfino la trovò una ragione piuttosto stupida per essere depressi. — Lo sai che ci sono altre quarantanove Nereidi, vero? — Non m’importa! — singhiozzò Poseidone. — Io voglio Anfitrite! — Già, infatti, ti pareva — disse Delfino. — Stammi a sentire, i tuoi gemiti e mugugni stanno mandando a pallino i sonar di tutti. Giusto stamattina due balene azzurre si sono scontrate causando un ritardo di ore sulla Aegean Line dei pendolari. Quindi, che ne dici se ti trovo questa signorina Anfitrite e la convinco a sposarti? Le lacrime di Poseidone si asciugarono all’istante, cosa abbastanza impressionante, dato che era sott’acqua. — Faresti questo per me? — Sono un delfino — rispose Delfino. — Ho un cervello molto grosso. Torno subito. Gli ci volle un po’, ma alla fine localizzò Anfitrite nell’angolo più occidentale del Mediterraneo, vicino al punto dove il Titano Atlante sorreggeva il cielo. Era seduta su un crinale di corallo, ad ammirare il tramonto che filtrava nelle acque profonde e disegnava strisce rosate tra le foreste di alghe. Sul suo palmo si era sistemato un branzino, felice come una pasqua, perché Anfitrite con i pesci ci sapeva davvero fare. Se devo essere sincero, non ho mai pensato che i branzini fossero particolarmente affettuosi, ma loro la adoravano. Delfino capì perché la fanciulla piaceva a Poseidone. Irradiava una dolcezza e una gentilezza difficilmente riscontrabili nella maggior parte degli immortali. Di solito con gli dei succedeva che più invecchiavano e più si comportavano come bambini viziati. Delfino non sapeva esattamente perché, ma quella faccenda del diventare più saggi a mano a mano che si invecchia… ecco, non era il loro caso. Nuotando pigramente, si avvicinò ad Anfitrite. — Ciao. Come butta? Lei non cercò di fuggire. Con Delfino non si era mai sentita minacciata, forse per il suo sorriso da delfino. — Oh, Poseidone continua ad assillarmi — sospirò. — Vuole che lo sposi. Il branzino nuotò disegnando un pigro cerchio intorno alla mano di Anfitrite, poi si sistemò di nuovo sul suo palmo. Delfino dovette reprimere l’impulso di mangiarselo. Trovava i branzini gustosissimi. — Poseidone non è un cattivo ragazzo — provò a convincerla. — Potrebbe capitarti di peggio. — Ma io non voglio sposarmi con nessuno! — protestò Anfitrite. — Sono solo problemi, ed è una cosa che mi spaventa troppo. Ho sentito un sacco di storie sugli dei, su come trattano le loro mogli… — Sì, la maggior parte sono delle gran canaglie — convenne Delfino. — E si fanno un sacco di ragazze anche dopo sposati… — Bah! — fece Anfitrite. — Non è questo che mi preoccupa. Io non sono gelosa. Semplicemente, non voglio essere trattata male. Voglio essere me stessa, fare le mie cose, senza che ci sia un maschio a comandarmi a bacchetta! — Oh, tutto qui? — cinguettò Delfino sollevato. — Perché Poseidone è un bonaccione. Non posso garantire che ti sarà fedele per sempre, ma senz’altro ti tratterà bene, e ti lascerà fare tutto quello che vuoi. Posso parlargli io, estorcergli una promessa. Se non manterrà la parola, dovrà vedersela con me. E piegò le pinne, cosa che credeva lo rendesse molto minaccioso. — Faresti questo per me? — chiese Anfitrite. — Ma certo! — la rassicurò Delfino. — E la cosa più bella è che se sposerai Poseidone, nessuno degli altri dei potrà più infastidirti. Dovranno lasciarti in pace, perché Poseidone è un sacco potente. E potrai anche avere dei figli. I figli sono una cosa meravigliosa. Persino meglio dei branzini. — Davvero? — Anfitrite studiò il branzino che guizzava intorno alla sua mano con l’aria di chi non può credere che possa esistere qualcosa di più bello. — Be’… allora, se prima gli parli tu, e lui promette… — Fidati di me — concluse Delfino. — Io sono tuo alleato. Così tornò da Poseidone e spiegò il patto. Poseidone, sopraffatto dalla gioia, acconsentì immediatamente. Il matrimonio con Anfitrite fu la festa più sontuosa che si fosse mai tenuta sul fondo dell’oceano. Dei, mostri marini, tutte le quarantanove Nereidi sorelle di Anfitrite… sulla lista degli invitati non mancava proprio nessuno. Sopra le loro teste nuotavano le balene, producendo nuvole di krill che componevano le parole: CONGRATULAZIONI POSEIDONE + ANFITRITE, compito decisamente difficile perché le balene non sanno scrivere bene. I delfini si produssero in uno show acrobatico. Le ninfe del mare e le sirene danzarono tutta la notte, mentre le meduse brillavano nel cortile interno del palazzo. Poseidone e Anfitrite formavano una bella coppia. Insieme furono felici, ed ebbero tre figli, tre creature divine. Il primo fu Tritone, che sembrava una sirena, ma al posto di avere una coda da pesce ne aveva due. Diventò l’araldo di Poseidone. Ogni volta che il dio si spostava, Tritone nuotava davanti a lui, soffiando nella sua conchiglia per fargli strada, una cosa tipo: “Arriva il capo! Cercate di mostrarvi tutti molto indaffarati!”. Il secondo figlio di Poseidone e Anfitrite fu Roda, una ninfa marina che divenne la dea protettrice dell’isola di Rodi (chiamata così in suo onore, ovviamente). Finì per sposare Elio. Il terzo figlio, una bambina di nome Cimopolea, era grassa, maldestra e chiassona, e non ebbe mai l’affetto riservato ai fratelli. Mi sento sempre dispiaciuto per lei. Il suo nome significa “Guardaonde”, che fa pensare a un fuoristrada, ma aveva più che altro l’aspetto di un Monster Truck. Alla fine però trovò anche lei la felicità. Divenne la dea delle tempeste marine particolarmente violente e sposò Briareo, uno dei centimani, anche lui grosso e caciarone, a cui non dispiaceva avere per moglie un Monster Truck. Con il passare degli anni Anfitrite scoprì che Delfino aveva avuto ragione. In effetti amava i suoi figli più dei branzini, e Poseidone fu per lo più un bravo marito. È vero che ebbe molte storie con ninfe, donne mortali e quant’altro, ma stranamente la cosa non la infastidiva più di tanto. Finché Poseidone non si mostrava possessivo e non la comandava a bacchetta, e finché era affettuoso con i tre figli, a lei stava bene. Fu persino gentile con i figli semidei di Poseidone, a differenza di altre dee che potrei citare (ehm… Era). Una volta venne in visita Teseo, e Anfitrite lo trattò come un ospite d’onore. Gli fece addirittura dono di un mantello rosso, emblema di regalità. Anche con me è sempre stata carina. Non dava fuori di matto se lasciavo la biancheria sporca nella stanza degli ospiti. Mi preparava i biscotti e, per quanto ne so, non ha mai cercato di uccidermi. Che è più di quanto si possa chiedere a una matrigna immortale. Quanto a Poseidone, è davvero una fortuna che abbia avuto una moglie tollerante, perché furono così tante le fidanzate e i figli nati da altre relazioni… Cos’è, pensavate forse che Zeus fosse il più indaffarato? Negativo. È Poseidone quello che detiene il record del maggior numero di figli semidei. Se cercassi di raccontarvi di tutte le donne con cui è uscito, avremmo bisogno di altre trecento pagine, con indice e tavole dei contenuti a parte. Potremmo chiamarlo Il libricino nero di Poseidone. Ma da parte mia sarebbe un po’ sgradevole parlare delle fiamme di mio padre, quindi mi limiterò a sottolineare i fatti di maggior interesse. La prima fu una principessa greca di nome Coronide. Aveva vaporosi capelli neri e indossava sempre tuniche scure, come se dovesse andare a un funerale, ma non so per quale ragione, Poseidone la riteneva estremamente sexy. Un giorno la seguì su una spiaggia e cercò di flirtare con lei, ma la ragazza si spaventò e corse via. Poseidone, temendo che sparisse come aveva fatto Anfitrite, le corse dietro. — Ehi, torna qui! Voglio solo un bacio! Non voglio ucciderti! Che probabilmente non è la cosa migliore da dire, se stai inseguendo una ragazza. Coronide si spaventò ancora di più e gridò: — Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Corse verso le porte della città, che però erano troppo lontane. Sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta. Scrutò l’orizzonte e in lontananza vide brillare il tetto del tempio di Atena. E dal momento che Atena fu il primo dio che le venne in mente, gridò: — Atena, salvami! Non importa come, ma salvami! Che, di nuovo, probabilmente non è la cosa più saggia da dire. Molto lontano, lassù sull’Olimpo, Atena sentì Coronide gridare il suo nome. Quando si tratta del loro nome, gli dei hanno un udito sopraffino. La dea scorse dunque la povera fanciulla indifesa inseguita da Poseidone e si arrabbiò. — Eh no, questo non si fa, razza di cirripede barbuto — borbottò. Schioccò le dita, ed ecco che giù sulla spiaggia Coronide si trasformò all’istante in un uccello dalle piume nere come la pece: il primo corvo, ed è questa la ragione per cui in greco korone significa “corvo”. L’uccello volò via e lasciò Poseidone sulla spiaggia col cuore spezzato, un palmo di naso e una piuma nera infilata tra i capelli. Ovviamente capì subito che nella trasformazione della principessa in corvo c’era lo zampino di Atena. Era ancora risentito con lei a causa della competizione per la città di Atene. Ora però cominciava davvero a odiarla. Decise di cercare un’occasione per oltraggiarla. Non gli ci volle molto. Ben presto si invaghì di un’altra bellissima fanciulla di nome Medusa. A differenza di Coronide, Medusa era lusingata che il dio del mare le facesse il filo. Dopo una cenetta romantica a lume di candela, passeggiarono sulla spiaggia. Alla fine Poseidone disse: — Senti, perché non ce ne andiamo in qualche posticino appartato? Medusa arrossì. — Oh… non so. Le mie sorelle mi hanno messo in guardia contro gli dei marini come te. — E dai, su! — insistette lui. — Conosco un angolino tranquillo. Ti piacerà. Medusa avrebbe dovuto dire di no, ma Poseidone sapeva essere molto affascinante, quando voleva. La portò in centro, proprio nel tempio di Atena. Essendo notte, era chiuso, ma per il dio non fu un problema aprire le porte. — Sei sicuro che sia una buona idea? — bisbigliò Medusa. — Certo — la rassicurò lui. — Lo avremo tutto per noi. Ora, non voglio giustificare il comportamento di Poseidone. Sapeva benissimo che Atena si sarebbe arrabbiata. Stava usando Medusa per vendicarsi. Purtroppo non aveva considerato il fatto che… “Accidenti, forse Atena riverserà la sua rabbia sulla povera mortale…” Si misero comodi e cominciarono a farsi le coccole ai piedi della statua di Atena, un insulto terribile per la dea, un po’ come se qualcuno ti lasciasse un sacchetto pieno di cacca di cane ancora calda davanti alla porta di casa, suonasse il campanello e scappasse. Non che io abbia mai fatto uno scherzo del genere, ovviamente… Atena guardò giù dall’Olimpo e scorse la scena. — È lo spettacolo più disgustoso che abbia mai visto — ringhiò. — Penso che farò vedere a Poseidone qualcosa di ancora più disgustoso. E architettò la maledizione più atroce e creativa che le fosse mai venuta in mente, e vi assicuro che quando voleva, Atena creativa lo sapeva essere. Giù nel tempio, a Medusa cominciarono a crescere ali di pipistrello e artigli di bronzo. I capelli si trasformarono in un groviglio di serpenti velenosi che si contorcevano. Il viso divenne una maschera così orribile che con una sola occhiata tramutava in pietra chi la guardava. Poseidone aveva gli occhi chiusi. Si stava chinando per un altro bacio, con le labbra già protese, quando udì uno strano rumore sibilante. — Hai fatto una puzzetta, baby? — la prese in giro. Poi aprì gli occhi. E fece un salto indietro, più rapido del salto di una balena. — Che diamine… PER TUTTI GLI DEI! Ho baciato questo… UN COLLUTORIO, PRESTO! DATEMI UN COLLUTORIO! Dal momento che era immortale, non si trasformò in pietra, ma di certo gridò una serie di altre cose che non posso riferire e se ne scappò veloce come un fulmine, senza nemmeno scusarsi con la povera Medusa. La quale non ci mise molto a scoprire il proprio aspetto. Si avvolse la testa nello scialle e sgattaiolò via. Si ridusse a vivere in una caverna lontano da ogni forma di civiltà, con solo le sorelle per compagne. Insieme, le tre vennero chiamate Gorgoni. In seguito, solo per esserle state vicine, le sorelle diventarono mostri come lei. Non erano in grado di trasformare le persone in pietra, ma gli dei decisero di renderle immortali – forse per pietà, o forse per crudeltà – così che potessero prendersi cura di Medusa per sempre senza restare pietrificate. Nel corso degli anni, le Gorgoni causarono ogni tipo di tribolazione agli eroi, ma anche questa è un’altra storia. Alla fine la testa di Medusa divenne uno dei simboli di Atena, come a dire: “Questo è quello che succede se vi mettete contro di me”. Non tutte le relazioni di Poseidone ebbero un epilogo così tragico. Una volta il dio uscì con una fanciulla che si chiamava Eurinome e che era davvero carina. Insieme ebbero un figlio, Bellerofonte, che divenne un grande eroe. Un’altra fiamma di Poseidone, Etra, partorì un eroe ancora più famoso: Teseo. Ma non pensate che tutti gli eroi più importanti fossero figli di Zeus. È solo che il suo ufficio stampa si dà parecchio da fare. Quello che preferisco di Poseidone? Che se davvero gli piacevi, ti conferiva il potere di cambiare forma. Lo fece per una delle sue ragazze, Mestra, che poteva trasformarsi nell’animale che voleva. E diede anche a uno dei suoi nipoti semidei, Periclimeno, la facoltà di combattere sotto forma di serpente o di orso, o persino di sciame d’api. Per quel che mi riguarda, invece, io non posso cambiare forma. Grazie mille, papà. D’altro canto, anche qualche figlio di Poseidone non venne fuori bene. Probabilmente dipendeva dall’umore in cui si trovava in quel momento, o da quello che aveva mangiato a cena; sta di fatto che a volte generava veri e propri mostri. Uno dei suoi figli fu un ciclope divoratore di uomini di nome Polifemo. Un altro fu un orribile gigante di nome Anteo, a cui piaceva spezzare la gente in due. E voi che credete che i vostri fratelli siano cattivi! Poseidone si innamorò anche di una principessa di nome Teofane, talmente bella che tutti i maschi del regno volevano sposarla. Non la lasciavano mai in pace, la seguivano per strada, facevano irruzione a palazzo pretendendo di vederla. Cercavano persino di seguirla in bagno. Era un po’ come una superstar rincorsa dai paparazzi. Nessuna privacy, nessun momento di pace, mai. Alla fine, la situazione divenne così pesante che Teofane si rivolse a Poseidone, che aveva cercato a sua volta di insidiarla. — Se riesci a levarmi di torno i miei pretendenti — disse — sarò la tua ragazza. Solo, toglimi da questa situazione! La terra tremò, e una voce profonda rispose: — NESSUN PROBLEMA. STASERA FATTI TROVARE AL RECINTO DELLE PECORE. La cosa non faceva pensare a un piano particolarmente ben congegnato, ma quando calò la sera, Teofane si coprì il viso con un velo e cercò di scivolare furtiva fuori da palazzo. Fu individuata immediatamente. Sessanta uomini le sciamarono intorno con mazzi di fiori, gridando: — Sposami! Sposa me! Teofane corse verso il recinto delle pecore, riuscendo a evitare un manipolo di pretendenti carichi di scatole di cioccolatini, e poi altri dodici tizi armati di chitarra che volevano farle una serenata. Quando finalmente raggiunse l’ovile, aveva alle calcagna un centinaio di inseguitori. Era così disperata che letteralmente si tuffò nella capanna. Puf! Si ritrovò trasformata all’istante in pecora, e così si poté confondere in mezzo al gregge. Gli innamorati si fermarono di botto e si guardarono intorno costernati. Setacciarono il recinto, ma non riuscirono a individuare Teofane da nessuna parte. Alla fine rinunciarono e tornarono a fare la posta nei pressi del palazzo, immaginando che prima o poi sarebbe dovuta rincasare. — Siano ringraziati gli dei! — belò Teofane. — Prego — disse un grosso ariete proprio di fianco a lei. Teofane deglutì (le pecore deglutiscono?). — Poseidone? L’ariete le fece l’occhiolino. — Ti piace il mio nuovo mantello? L’ho indossato proprio per te. Teofane cominciò ad avere un po’ di nausea. — Suppongo che ora dovrò essere la tua ragazza, giusto? — Una promessa è una promessa — confermò Poseidone. E così se la spassarono un po’ sotto forma di pecore, cosa che non sto ad approfondire, altrimenti rischio che la nausea venga a me. Alcuni mesi dopo la pecora Teofane partorì un ariete magico di nome Crisomallo, che non si sa perché aveva il vello d’oro. In seguito Crisomallo finì scuoiato proprio per il suo vello, che divenne noto come il Vello d’Oro, il che significa che io sono imparentato con una pelle di montone. È questo il motivo per cui è meglio non pensare troppo a chi sono i tuoi parenti nei miti greci. Potrebbe farti impazzire. L’ultima storia riguardo a Poseidone è davvero strappalacrime: come per poco non distrusse l’universo e finì a fare il manovale a paga minima. I fatti: Era aveva deciso che gli dei dovevano ribellarsi a Zeus. Non posso biasimarla, in effetti. Zeus riusciva a essere un rompiscatole galattico. Lei pensava che l’universo avrebbe funzionato molto meglio se fosse stato guidato da un consiglio di Olimpi, una vera e propria democrazia, così radunò alcuni colleghi – Poseidone, Atena e Apollo, il dio del tiro con l’arco – e spiegò loro il suo piano. — Legheremo Zeus come un salame. — E questo sarebbe il piano? — osservò Poseidone perplesso. — Ehi, dico, io vado a letto con lui — puntualizzò Era. — Quando sarà profondamente addormentato e russerà come suo solito, vi farò entrare e lo imprigioneremo. Poi lo costringeremo a rinunciare al trono e governeremo l’universo tutti insieme, come un consiglio di pari. Gli altri erano un po’ titubanti, ma avevano tutte le ragioni per avercela con Zeus. Era di umore instabile, facile alla rabbia, e la sua debolezza per le belle donne aveva causato non pochi grattacapi. Oltretutto, ognuno di loro in fondo pensava: “Insomma, diciamocelo, io potrei governare l’universo molto meglio di lui. Una volta che non ci sarà più, prenderò il potere!”. Poseidone fu quello maggiormente tentato. E perché no? Con il suo fratellone legato come un salame, sarebbe stato il dio più forte del mondo. — Un consiglio di pari — disse. — Certo. Mi piace. — Giusto… — Atena gli lanciò un’occhiata sospettosa. — Un consiglio. — Benissimo — concluse Era. — Procuriamoci una bella corda robusta… di quelle magiche, che si autoregolano. — E dove si comprano? — chiese Apollo. — Al Centro Bricolage? — Io devo avere qualcosa che fa al caso nostro — intervenne Atena. — Figuriamoci — borbottò Poseidone. — Basta! — scattò Era. — Stanotte voi tre vi nasconderete nel corridoio e aspetterete il mio segnale. Quando Zeus sarà addormentato, farò il verso del cuculo. Poseidone non sapeva bene quale fosse il verso del cuculo, ma pensò che quando lo avesse sentito lo avrebbe riconosciuto. Quella sera Era si assicurò che a Zeus venisse servita una cena abbondante e che bevesse soltanto nettare decaffeinato. Quando fu profondamente addormentato, chiamò gli altri. Quelli entrarono di corsa e immobilizzarono il re degli dei legandolo stretto. — Umpf! — grugnì Zeus. — Che succede? E cominciò a divincolarsi. Cercò di raggiungere i suoi fulmini, ma aveva le braccia legate. E i fulmini stavano sulla toeletta dall’altra parte della stanza. — TRADIMENTO! — ruggì. — LIBERATEMI! Si contorse e cercò di cambiare forma per sgusciare via, ma ogni volta che faceva un tentativo, la corda gli si stringeva intorno. Inveì contro gli altri dei, coprendoli di ogni tipo di epiteto ingiurioso. — Che cosa volete? — chiese alla fine. Anche così legato, faceva davvero paura. Gli dei si allontanarono un po’ dal letto. Alla fine fu Poseidone a prendere coraggio. — Zeus, sei un pessimo capo. Vogliamo che tu abdichi, così potremo guidare il cosmo con un consiglio di pari. — Che cosa? — gridò Zeus. — MAI! Era sospirò esasperata. — E va bene! Non abbiamo bisogno di te. Convocheremo il consiglio per conto nostro e ti lasceremo qui a marcire. — Voi, sporchi traditori… — Andiamo — disse Era agli altri. — Verremo a dargli un’occhiata tra qualche giorno per vedere se è diventato più ragionevole. Poseidone pensava che non fosse una buona idea lasciare Zeus incustodito, ma d’altro canto non aveva molta voglia di stare nella stessa stanza con un dio dei fulmini che sbraitava. Gli dei si spostarono quindi nella sala del trono e tennero il loro primo (e ultimo) consiglio della Repubblica Popolare di Olimpo. Molto presto scoprirono che votare su ogni cosa era un gran casino. Ci voleva un sacco di tempo. Solo per decidere il logo per la nuova bandiera dell’Olimpo impiegarono ore! Nel frattempo, una Nereide di nome Teti stava passeggiando lungo il corridoio vicino alla stanza da letto di Zeus. Cosa ci faceva una ninfa del mare sull’Olimpo? Chissà, forse cercava solo di far passare la serata, o era in visita a qualche amica. Non aveva idea che fosse in corso una rivolta, ma quando udì Zeus chiedere aiuto si precipitò nella sua stanza, lo vide legato e disse: — Acc… è un brutto momento? — Teti, grazie al Fato! — gridò Zeus. — Tirami fuori di qui! — E velocemente le spiegò che cos’avevano fatto gli altri dei. — Ti prego — la implorò. — Sei una ninfa marina di buon senso. Liberami, e ti sarò per sempre debitore. Teti inghiottì. Se Poseidone aveva preso parte alla ribellione… be’, era il Signore del Mare, e quindi il suo capo. Ma Zeus era il signore di tutto. Qualunque cosa avesse deciso, si sarebbe fatta almeno un nemico potente. — Se ti libero — disse — promettimi che sarai misericordioso con gli altri dei. — MISERICORDIOSO? — Cerca solo di non buttarli nel Tartaro o di non farli a pezzi, d’accordo? Zeus fumava di rabbia, ma seppur controvoglia promise di essere “misericordioso”. Teti afferrò un paio di forbici dalla toeletta e cercò di tagliare la corda, ma non ci riuscì. I nodi magici erano troppo stretti. — Bruciali con il mio lanciafulmini! — suggerì Zeus. — No… dentro ci sono io. Tutto sommato, a pensarci bene è meglio di no. — Aspetta — disse allora Teti. — Conosco uno che potrebbe essere in grado di aiutarti. Si trasformò in una nuvola di vapore di acqua salata e si precipitò nel mare, dove trovò Briareo, il centimano. Briareo era debitore a Zeus per averlo fatto uscire dal Tartaro, quindi fu felicissimo di prestargli soccorso. In qualche modo Teti riuscì a portare il ragazzone sull’Olimpo senza che gli altri dei se ne accorgessero, e con il suo centinaio di mani molto abili Briareo ebbe presto ragione della corda magica. Zeus schizzò fuori dal letto, afferrò i suoi fulmini ed entrò a passo di marcia nella sala del trono, dove gli altri dei stavano ancora cercando di disegnare il logo della nuova bandiera. BUM! Zeus stroncò ogni ulteriore discussione, e con essa gli dei. Quando ebbe finito di far saltare in aria tutto quello che aveva intorno e di usare gli Olimpi per esercitarsi nella mira, punì i ribelli per il loro tradimento. Mantenne però la promessa fatta a Teti. Non li ridusse in pezzi, né li gettò nel Tartaro. Legò Era e la sospese sull’abisso del Caos, così che potesse contemplare come sarebbe stato cadere nel nulla e dissolversi. Ogni giorno andava a trovarla con il suo fulmine in mano e diceva: — Già, oggi potrebbe essere un buon giorno per bruciare la corda e vederti precipitare. Come avrete notato, il loro era un rapporto basato sulla tenerezza. Alla fine Era riuscì a liberarsi, ma ne parleremo più avanti. Quanto ad Atena, se la cavò senza punizione. Parecchio ingiusto, vero? Solo che aveva una parlantina sciolta. Probabilmente convinse Zeus che lei non aveva niente a che fare con il complotto, e stava solo prendendo tempo in attesa di poterlo liberare. Come un idiota, il sommo dio le credette. Apollo e Poseidone si videro infliggere la punizione peggiore. Furono temporaneamente privati dei loro poteri divini. Non so nemmeno come Zeus potesse fare una cosa del genere, ma evidentemente poteva. Per impartire ai due ex dei una lezione, li mandò a lavorare come operai per il re di Troia, un tizio di nome Laomedonte. Apollo diventò il suo pastore e dovette custodire le mandrie reali. A Poseidone toccò il compito di costruire tutto da solo una nuova cerchia di mura intorno alla città. — Mi stai prendendo in giro? — protestò quando il re gli affidò l’incarico. — Mi ci vorranno anni! Laomedonte sorrise. — È vero… ma ti prometto che la tua fatica sarà ripagata. Ora è meglio se ti metti all’opera! A dire il vero, Laomedonte non aveva alcuna intenzione di pagare Poseidone. Il dio del mare non gli piaceva. Voleva solo assicurarsi manodopera gratis, e per più tempo possibile. Dato che non aveva scelta, Poseidone iniziò il lavoro. Anche senza i poteri divini era comunque straordinario. Era più forte di qualsiasi mortale, e poteva trasportare cinque o sei enormi blocchi di pietra alla volta. Il progetto richiese anni, ma alla fine il dio costruì le mura più solide che mai città umana avesse avuto, rendendo Troia pressoché invincibile. Alla fine, stanco, lacero e molto irritato, marciò nella sala del trono di Laomedonte. — Finito — annunciò. — Finito cosa? — Il re alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo. Erano passati così tanti anni che si era dimenticato completamente di lui. — Oh, giusto! Le mura! Già, sembrano fantastiche. Puoi andare. Poseidone sbatté le palpebre. — Ma… la mia paga? — È questa la tua paga. Puoi andare. Farò sapere a Zeus che hai saldato il tuo debito, e lui ti farà tornare di nuovo dio. Quale ricompensa più preziosa potrebbe esserci? — Ho reso la tua città la più forte della terra — ringhiò Poseidone. — Ho costruito mura in grado di fermare qualsiasi esercito. Mi avevi promesso un compenso, e ora non vuoi pagare? — Sei ancora qui? — replicò Laomedonte. Poseidone uscì dalla sala del trono come un tornado. Zeus lo rese di nuovo dio, ma lui non dimenticò mai l’insulto di Laomedonte. Non poteva distruggere Troia su due piedi; Zeus glielo aveva proibito. Ma mandò un mostro marino a terrorizzare i troiani. E si fece un punto d’onore nell’affondare le navi di Troia ogni volta che ne aveva l’occasione. E quando scoppiò quella scaramuccia chiamata “guerra di Troia”… be’, Poseidone non si schierò propriamente dalla parte dei troiani. Quindi, ragazzi, questo è mio padre: un tipo in genere calmo e pacioccone. Ma se lo si fa arrabbiare, ha la memoria lunga, molto lunga. L’unico dio che serbò rancore per più tempo… già, avete indovinato. Il vecchio Braghe di Tuono in persona. Direi che lo abbiamo lasciato da parte abbastanza. È ora di parlare di Zeus. ZEUS AMMAZZA TUTTI Volete una storia davvero agghiacciante? Allora sentite questa. Zeus era il dio della legge e dell’ordine. Esatto: il tizio che lanciava fulmini a caso quando si arrabbiava e che non era in grado di mantenere le promesse nuziali… Ecco, costui era quello che doveva vigilare affinché i re agissero con saggezza, il consiglio degli anziani fosse rispettato, le promesse venissero mantenute e l’ospitalità agli stranieri fosse garantita. Sarebbe come nominare me il dio dei compiti e del dieci in condotta. Però non era completamente cattivo, credo. A volte si presentava in una casa di mortali sotto sembianze di vagabondo per vedere se la gente lo avrebbe fatto entrare e gli avrebbe dato da mangiare. Se lo trattavano con gentilezza, buon per loro: era dovere di ogni bravo cittadino greco. Se invece gli sbattevano la porta in faccia… be’, sarebbe tornato di lì a poco armato dei suoi fulmini. Anche solo il pensiero che ogni viaggiatore o senzatetto potesse essere Zeus sotto mentite spoglie faceva stare i Greci sul chi vive. Lo stesso con i re. Zeus era il dio dei poteri regali, così controllava i governanti mortali per accertarsi che non abusassero della loro posizione. Ovviamente, un sacco di re combinavano cose tremende e la facevano franca (probabilmente perché Zeus in quel momento era impegnato a dare la caccia a qualche fanciulla e non se ne accorgeva); ma c’era sempre la possibilità che se facevi qualcosa di davvero malvagio, o anche solo di stupido, il dio evocasse tuoni e fulmini divini e ti scaraventasse giù dal trono. Un esempio? Salmoneo. Un tizio che avrebbe dovuto vincere il Primo Premio degli Idioti. Aveva sette fratelli, tutti principi di un regno greco chiamato Tessaglia. Dato che c’erano così tanti principi a ciondolare in giro per il palazzo senza niente da fare se non giocare ai videogiochi e aspettare di ereditare il regno, il re loro padre disse: — Ragazzi, tutti fuori, sciò! Per una volta fate un po’ di moto, e che diamine! Perché non andate a fondare un nuovo regno, o qualcosa del genere? Smettetela di bighellonare e trovatevi un lavoro! I sette principi non avevano poi questa gran voglia di fondare nuovi regni. Era una faticaccia. Ma il loro padre insisteva, e lo stesso facevano le sue guardie pesantemente armate. Ciascuno prese allora un gruppo di coloni e si avventurò nel selvaggio Sud della Grecia. Il principe Salmoneo era pieno di sé. Chiamò il suo nuovo regno Salmonia. Mise i suoi coloni a costruire la capitale, ma lo contrariò molto il fatto che quelli volessero erigere templi agli dei prima di iniziare il palazzo per lui. — Maestà — dissero — prima dobbiamo onorare gli dei. Altrimenti si arrabbiano! Il nuovo re mugugnò. Non è che credesse poi così tanto agli dei. Era intimamente convinto che tutte quelle storie fossero un sacco di sciocchezze inventate dai sacerdoti per tenere la gente in riga. Quella sera Salmoneo sedeva nel suo palazzo ancora in costruzione a guardare i cittadini che lavoravano fino a tarda ora per dare gli ultimi ritocchi al tempio di Zeus, con il suo tetto d’oro e i pavimenti di marmo. Gli arrivava il profumo di cibi prelibati bruciati sui fuochi cerimoniali. — Ecco, per me nessuno cucina pietanze prelibate — borbottò tra sé e sé. — Hanno così tanta paura degli dei e non hanno paura del loro re? Se io fossi un dio, non mi tratterebbero così… D’un tratto gli venne un’idea scellerata. Si ricordò dei giochi che lui e i suoi fratelli solevano fare da bambini in Tessaglia. Si mascheravano e facevano finta di essere dei ed eroi. E lui era sempre l’attore migliore. Chiamò allora il suo più fidato consigliere e gli disse: — Mio fidato consigliere, abbiamo del lavoro da fare. Ci servono arredi scenici e costumi. Il fidato consigliere aggrottò la fronte. — Mettiamo su uno spettacolo, Maestà? Salmoneo sogghignò. — Una specie… Pochi giorni dopo il re era pronto. Indossò il costume, salì sul cocchio decorato di fresco e avanzò per le strade della capitale. — Mirate, mortali! — gridò con quanto fiato aveva in gola. — Io sono Zeus! Un contadino rimase così sbigottito che lasciò cadere un cesto di olive. Una donna capitombolò giù dall’asino. Molti altri cittadini gridarono e fuggirono, temendo di essere travolti e calpestati dai cavalli del re. Salmoneo aveva un aspetto davvero imponente. Indossava una tunica bianca bordata d’oro, e sul suo capo brillava un serto, anch’esso d’oro. Dato che l’uccello sacro di Zeus era l’aquila, aveva fatto dipingere un’aquila su ciascun lato del cocchio. Fissati dietro di lui, e nascosti sotto un telo, c’erano due timpani di ottone. Quando alzava una mano, il fidato consigliere (nascosto anche lui sotto il telo e in posizione alquanto scomoda) faceva rullare i tamburi producendo il brontolio smorzato di un tuono. Salmoneo scorrazzò per le strade gridando: — Sono Zeus! Portatemi offerte di cibo! — Alla fine si fermò sotto i gradini del tempio e girò il cocchio verso la folla che si era radunata. — Voi mi adorerete — ordinò — perché io sono un dio. Uno dei suoi sudditi più coraggiosi gridò: — Assomigli tutto a Salmoneo. — Certo! — concesse lui. — Ma sono anche Zeus! Ho deciso di abitare il corpo del vostro re. Adorando lui, adorerete me. Questo tempio sarà il mio palazzo, porterete qui tutte le vostre offerte. Ma non bruciatele più. È uno spreco. Le mangerò e basta. Qualche suddito più timido cominciò a ubbidire, sistemando cesti di cibo a terra, accanto al cocchio. Un altro gridò: — Perché hai disegnato due polli sul cocchio? — Sono aquile! — gridò Salmoneo scandalizzato. — Sembrano polli — insistette quello. — Taci, mortale! — Salmoneo diede un calcio al suo consigliere sotto il telo, che cominciò subito a percuotere i timpani. — Vedete? — aggiunse. — Posso evocare il tuono! Una donna in fondo alla folla chiese: — Chi c’è sotto quel telo dietro di te? — Nessuno! — sbraitò Salmoneo, mentre una goccia di sudore cominciava a colargli giù per il collo. Non stava andando bene come aveva sperato, così decise di usare qualche elemento scenico. Tirò fuori una torcia accesa dalla confezione di torce da giardino (29,99 euro da Garden – Giardinaggio e Arredo Esterni) e la scagliò contro la donna in mezzo alla folla. Tutti strillarono e si scostarono precipitosamente, ma la torcia cadde sul selciato senza provocare alcun danno. — Ecco! — ruggì Salmoneo. — Vi ho scagliato un fulmine! Non mettetemi alla prova o vi incenerirò! — Ma quella è una torcia da giardino! — gridò qualcuno. — L’hai voluto tu, mortale! — E Salmoneo prese a scagliare torce ardenti tra la gente e a dare calci al consigliere sotto il telo perché facesse rullare i tamburi. Ben presto però la novità si esaurì, e il pubblico cominciò ad arrabbiarsi. — Buuuuu! — gridò qualcuno. — Impostore! — strillò un altro. — FALSO Zeus! — VERO Zeus! — urlò di rimando Salmoneo. — Io SONO Zeus! — PIANTALA, NON SEI ZEUS! — gridò la folla all’unisono. C’era così tanta gente che gridava “Zeus” che a un certo punto sull’Olimpo l’intestatario ufficiale del nome se ne rese conto. Guardò giù e vide un re mortale in un ridicolo costume, che correva in giro su un cocchio con sopra dipinti due polli, scagliando torce che spacciava per fulmini. Il dio del cielo non sapeva se ridere o arrabbiarsi. Decise di arrabbiarsi. Sopra la città nuova di zecca di Salmonia cominciarono a raccogliersi le nuvole, e un vero tuono scosse case e palazzi. Dall’alto tuonò la voce di Zeus: — SONO IO ZEUS. E un lampo di luce squarciò il cielo, riducendo Salmoneo e il suo povero consigliere in due macchie di unto. Quando il fumo si dissolse, non era rimasto altro che un cocchio in fiamme e un timpano mezzo fuso. I mortali di Salmonia applaudirono. Avrebbero voluto dare una festa in onore di Zeus, che li aveva liberati del loro re idiota, ma Zeus non aveva ancora finito. La sua voce rimbombò dal cielo: — ALCUNI DI VOI GLI HANNO PORTATO DELLE OFFERTE. DUNQUE COSTORO GLI HANNO CREDUTO! — No! — gridarono i mortali arretrando e cercando riparo. — Per favore! — NON POSSO PERMETTERE CHE QUESTA CITTÀ CONTINUI A ESISTERE — tuonò Zeus. — SARETE DI ESEMPIO, COSÌ CHE UNA COSA SIMILE NON ACCADA MAI PIÙ. LAMPI IN ARRIVO: CINQUE, QUATTRO, TRE… I mortali si diedero alla fuga in ogni direzione, ma Zeus non concesse loro molto tempo. Alcuni la scamparono, ma quando i fulmini cominciarono a cadere, la maggior parte furono ridotti in cenere o rimasero sepolti sotto le macerie. Zeus spazzò via la città di Salmonia dalla faccia della terra. Nessuno osò ripopolare la zona per un’altra generazione, e tutto per colpa di un cretino con un ridicolo costume da Zeus, un cocchio decorato con dei polli e un mazzo di torce. Uno sterminio di massa. Letteralmente. Ma non fu la punizione peggiore dispensata da Zeus. Perché un giorno decise di distruggere l’intera razza umana. Non so nemmeno il motivo. Probabilmente gli umani si stavano comportando male. Forse non facevano abbastanza sacrifici, o non credevano negli dei, o imprecavano troppo e guidavano oltre i limiti di velocità consentiti. Qualunque fosse la ragione, Zeus si arrabbiò e decise di annientare la specie umana. E dai… quanto potevano essere stati cattivi gli umani? Sono sicuro che non abbiano fatto niente di diverso dal solito. Ma Zeus pensò che il troppo stroppia. Si comportò un po’ come quei professori che ti lasciano fare i tuoi comodi per tutto il quadrimestre e poi un giorno, chissà perché, decidono di colpire con una severità sproporzionata: — E va bene, adesso basta! Da oggi in punizione! Tutta la classe! Voglio dire: amico, ragiona. Ci sono un sacco di opzioni tra zero e bomba atomica. Comunque, Zeus chiamò a raccolta gli dei e diede loro la notizia. — Gli esseri umani sono disgustosi! — gridò. — Li voglio distruggere. La sala del trono rimase in silenzio. Alla fine Demetra chiese: — Tutti? — Tutti — confermò Zeus. — E come? — domandò Ares. Nei suoi occhi cominciò a brillare un bagliore avido. — Fuoco? Fulmini? Potremmo prendere qualche motosega e… — Bombolette di insetticida — lo interruppe Zeus. — Ne facciamo scoppiare qualcuna, ci togliamo di torno per alcuni giorni e… — Ma nessuno ha ancora inventato le bombolette di insetticida — fece notare Era. — Già, giusto — disse Zeus accigliato. — Allora un diluvio. Aprirò i cieli e scaricherò torrenti di pioggia finché non saranno tutti annegati! Poseidone grugnì: — A dire il vero i diluvi sono roba mia. — Allora mi aiuterai tu — propose Zeus. — Ma senza gli umani — commentò Estia dal suo focolare — chi ti adorerà, mio signore? Chi costruirà templi per te e brucerà offerte? — Troveremo una soluzione — replicò Zeus. — Dopotutto questa non è la prima razza umana. Possiamo sempre fabbricarne un’altra. Secondo le antiche leggende, tecnicamente era corretto. Ai tempi di Crono, gli umani erano stati definiti la Razza d’Oro. Ma con ogni probabilità si estinsero, e furono rimpiazzati dalla Razza d’Argento. Quelli agli albori del periodo dell’Olimpo furono chiamati la Razza di Bronzo. Cosa rendeva quegli uomini diversi da noi? Le versioni che circolano sono più di una, ma la cosa principale è: si estinsero tutti, mentre noi… ancora no. — E poi — continuò Zeus — un diluvio è una buona cosa. Una volta ogni tanto va data una bella lavata alla terra con l’idropulitrice, per togliere il sudiciume dai marciapiedi. Un po’ riluttanti, gli dei approvarono il piano, ma molti di loro avevano alcuni umani che gli stavano a cuore, così mandarono in segreto degli avvertimenti sotto forma di sogni o presagi. Grazie a questo, alcuni sopravvissero. I più famosi furono un tizio di nome Deucalione e sua moglie Pirra, re e regina di Tessaglia, nel Nord della Grecia. Deucalione era un umano, ma suo padre era il Titano Prometeo, quello che aveva portato il fuoco agli uomini e adesso era incatenato su una montagna lontanissima a farsi mangiare il fegato da un’aquila. Non so come Prometeo fosse riuscito ad avere un figlio mortale, con quello che gli toccava patire. In effetti, non è facile iscriversi a un sito per cuori solitari quando si è incatenati a una roccia e sottoposti a tortura. A ogni buon conto, in qualche modo Prometeo venne a sapere delle intenzioni di Zeus. Provava ancora grande amore per l’umanità. Soprattutto, non voleva che suo figlio Deucalione annegasse, perché era una brava persona, sempre rispettoso degli dei e attento al benessere dei suoi sudditi. Così lo avvertì in sogno: “Diluvio in arrivo! Raccogli più provviste che puoi nel baule più grosso che riesci a trovare! Sbrigati!”. Deucalione si svegliò in un bagno di sudore freddo. Raccontò il sogno alla moglie, e lei si ricordò di un grosso baule di quercia che tenevano in soffitta. Corsero in cucina, racimolarono un po’ di cibo e dell’acqua e salirono di sopra, avvertendo nel frattempo i loro servi: — Radunate le vostre famiglie. Arriva il diluvio! Andate a rifugiarvi sulle colline! — Perché Deucalione e Pirra erano tipi così, molto perbene. Purtroppo la maggior parte dei servi non li ascoltarono. Dato che il re e la regina stavano diventando vecchi, pensarono che cominciassero a soffrire di demenza senile. Deucalione e Pirra tolsero dal baule i vestiti e altri ninnoli per fare spazio alle provviste. Cominciarono a cadere le prime gocce. In pochi minuti il cielo si trasformò in un’unica, immensa cortina di pioggia grigia. Brillavano i fulmini e i tuoni scuotevano la terra. In meno di un’ora l’intero regno di Tessaglia fu inghiottito dalla piena. Deucalione e Pirra chiusero il loro baule pieno di provviste, si legarono sul coperchio e galleggiarono fuori dal palazzo passando per la finestra della soffitta. Non fu un viaggio confortevole, su e giù per onde alte dodici metri con l’uragano che imperversava, in mezzo a macerie turbinanti, mentre il mondo intero annegava. Il re e la regina si ritrovarono ad aspirare acqua dal naso almeno un milione di volte. Ma il baule funzionò da salvagente e li tenne a galla. Dopo quella che sembrò un’eternità, la pioggia cessò. Le nubi si squarciarono e ricomparve il sole. La piena lentamente si ritirò, e Deucalione e Pirra approdarono con il loro baule sulle pendici del Monte Parnaso. A questo punto qualcuno di voi potrebbe pensare: “Ehi, un tizio scampa a un’alluvione e galleggia mettendosi in salvo, mentre il resto della depravata razza umana annega. Dove ho già sentito una storia simile? Non c’era uno che si chiamava Noè?”. Già, in effetti ogni cultura antica sembra avere la storia di un diluvio. Immagino si sia trattato di una spaventosa calamità naturale, e genti diverse l’hanno ricordata in modo diverso. Forse Noè e Deucalione si sono intravisti in mezzo ai flutti e Deucalione ha esclamato una cosa tipo: “Un’arca! Una coppia di animali di ogni specie! Perché non ci abbiamo pensato noi?”. E la moglie Pirra magari ha risposto: “Perché nel baule non ci sarebbero stati, scimunito!”. Ma è solo un’ipotesi. Alla fine le acque si ritirarono di nuovo nei mari, e la terra cominciò ad asciugarsi. Deucalione fece correre lo sguardo sulle colline vuote di Grecia e disse: — Fantastico. E ora che facciamo? — Prima di tutto — decise Pirra — offriamo sacrifici a Zeus e gli chiediamo di non farlo mai più. Deucalione convenne che era una buona idea, perché un’altra alluvione sarebbe stata proprio una bella scocciatura. Sacrificarono il cibo rimasto, insieme al baule, in un grosso falò, e pregarono Zeus di risparmiarli da un’altra passata di idropulitrice. Sull’Olimpo Zeus era tutto soddisfatto. Era sorpreso che qualcuno fosse sopravvissuto, ma dato che la prima cosa che Deucalione e Pirra avevano fatto era stata onorare lui, gli andava bene. — BASTA ALLUVIONI — tuonò la sua voce dall’alto. — DAL MOMENTO CHE SIETE PERSONE PIE E MI PIACETE, POTETE CHIEDERMI UN FAVORE, E IO LO ESAUDIRÒ. Deucalione si prostrò. — Grazie, potente Zeus! Ti imploriamo, dicci come ripopolare la terra! Mia moglie e io siamo troppo vecchi per avere figli, e non vogliamo essere gli ultimi umani viventi. Lascia che la specie umana ritorni, e questa volta si comporterà bene. Te lo prometto! Il cielo brontolò: — ANDATE ALL’ORACOLO DI DELFI. ESSO VI GUIDERÀ. Era un bel pezzo di strada, ma Deucalione e Pirra se la fecero tutta a piedi. Per puro caso le genti di Delfi erano state avvertite dell’alluvione da un branco di lupi ululanti. Quale fosse stato il dio a mandare i lupi non lo so; sta di fatto che la popolazione si era arrampicata sulla montagna più alta vicino a Delfi ed era sopravvissuta, e adesso era tornata alle proprie faccende, dispensando profezie e roba del genere. Deucalione e Pirra si recarono alla caverna dell’Oracolo, dove su uno sgabello a tre gambe sedeva una vecchia signora, avvolta da una nebbia verde. — Grande Oracolo — esordì Deucalione — ti prego, mostraci come ripopolare la terra. E non intendo come fare figli, perché siamo troppo vecchi per simili stupidaggini! La voce dell’Oracolo fu come un sibilo di serpente: Quando lascerete questo luogo, copritevi la testa e gettatevi alle spalle le ossa di vostra madre mentre camminate, e non voltatevi mai. — Le ossa di mia madre? — Deucalione era scandalizzato. — Ma mia madre è morta e sepolta! Non mi porto dietro le sue ossa! Io le profezie mi limito a pronunciarle, borbottò l’Oracolo. Non le spiego. E ora, sciò! Deucalione e Pirra non erano molto soddisfatti, ma non ebbero altra scelta che andarsene. — Come faremo a gettarci le ossa di nostra madre alle spalle? — chiese Deucalione. Pirra non lo sapeva, ma si coprì la testa con uno scialle, poi diede al marito una sciarpa di scorta perché facesse lo stesso, come aveva ordinato l’Oracolo. Mentre si allontanavano a testa china, Pirra capì che con lo scialle sulla testa poteva vedere solo la terra pochi passi davanti a sé, e quella terra era cosparsa di pietre. Si immobilizzò. — Marito mio, ho un’idea. Le ossa di nostra madre. E se la profezia non intendesse letteralmente le ossa di nostra madre? Che fosse… come si chiamano? Un limerick? — No, i limerick sono poemetti sciocchi — disse Deucalione. — Intendi dire una metafora? — Ecco! E se le ossa di nostra madre fosse una metafora? — Va bene. Ma una metafora per cosa? — La madre di tutto… Madre Terra — suggerì Pirra. — E le sue ossa… — Sarebbero questi sassi? — gridò Deucalione. — Accidenti, sei proprio in gamba! — Per questo mi hai sposata. Così Deucalione e Pirra cominciarono a raccogliere da terra le pietre e a gettarsele alle spalle man mano che avanzavano. Non si guardavano indietro, ma sentivano le pietre rompersi come uova non appena toccavano il terreno. Più tardi scoprirono che ognuna si era trasformata in un essere umano. Quelle scagliate da Deucalione si erano trasformate in uomini, quelle gettate da Pirra in donne. Così Zeus permise che la razza umana ripopolasse la terra. Non so se tutto questo significhi che noi facciamo ancora parte della Razza di Bronzo, o siamo la Razza di Pietra, o la Razza Rolling Stones. Comunque sia, Zeus fu contento di far tornare gli umani nel mondo, perché senza di loro non avrebbe avuto nessuna mortale carina da importunare. Nell’antica Grecia non potevi fare un passo senza incappare in almeno una delle ex ragazze di Zeus. Ci siamo già occupati di parecchie delle sue storie d’amore, quindi penso che non ci sia bisogno di raccontarne altre. Accennerò solo al fatto che Zeus non aveva nessun pudore ed era straordinariamente creativo quando si trattava di corteggiare le donne. Con ogni nuova fiamma si trasformava in qualcosa di diverso, per attirare l’attenzione. Raramente utilizzava due volte lo stesso aspetto. Una volta fece il cascamorto sottoforma di cigno. In un’occasione si presentò a una fidanzata come doccia di luce d’oro. E mise all’angolo altre donne tramutandosi in serpente, aquila, satiro e formica (sul serio, come si possa mettere all’angolo qualcuno quando sei una formica, e come si possa… lasciamo perdere). Qualcuna la ingannò perfino assumendo l’aspetto del marito. Che a mio parere è un trucco di bassissima lega. Uno scherzetto particolarmente subdolo lo fece quando rapì una certa Europa. Si trattava di una principessa. (Ma va’? Non sono sempre principesse?) Un giorno la vide sulla spiaggia che passeggiava con le amiche. Zeus non voleva apparirle nella sua vera forma divina perché: a) Era se ne sarebbe accorta e si sarebbe arrabbiata; b) quando gli dei si mostrano così come sono, le ragazze tendono a scappare, e per una buona ragione; c) aveva davvero voglia di parlare a Europa da sola. Non vi dà fastidio quando volete stare con una ragazza, e quella sembra sempre spostarsi in branco, come i lupi? È una cosa terribilmente seccante. Così Zeus si trasformò in toro e galoppò lungo la spiaggia. Però non era un toro minaccioso. Aveva languidi occhi grigi e il mantello color caramella mou, con una macchia bianca in fronte. Le corna erano di madreperla. Si fermò sul fianco erboso di una collina vicino alla spiaggia e cominciò a pascolare, della serie: “Mmmuuu. Non fate caso a me”. Ovviamente le ragazze fecero subito caso a lui. All’inizio non sapevano cosa pensare. Il toro però non pareva minaccioso. Aveva un’aria tenera e mite, per quanto possano averla i tori. — Andiamo a dare un’occhiata — disse Europa. — Sembra così carino! Le ragazze sciamarono intorno all’animale e cominciarono ad accarezzargli la schiena e a offrirgli ciuffi d’erba. Il toro emetteva dolci suoni gutturali. Lanciò a Europa lo sguardo più dolce e sensuale mai lanciato da un toro e, in linea generale, si comportò in modo amabile e affettuoso. — Che doooooolce! — commentarono le ragazze estasiate. Europa si accorse che, oltre al resto, il toro odorava di buono: un misto di cuoio e spezie. Sentì il bisogno travolgente di tenerlo con sé e portarselo a casa. Toro Zeus le diede dei colpetti col muso sul vestito, poi abbassò la testa e si piegò sulle ginocchia. — Oh, santo cielo! — gridò Europa. — Credo che voglia invitarmi a fare una cavalcata! Di solito le principesse non dovrebbero cavalcare tori, ma questo sembrava così mansueto che Europa gli salì in groppa. — Forza, ragazze! — gridò. — Andiamo… uaaaaaaa! Prima che potesse aiutare le amiche a salire, il toro scattò verso l’oceano. Europa gli si aggrappò al collo, terrorizzata all’idea di finire disarcionata. Ovviamente aveva troppa paura per gettarsi giù, con il bestione che correva al galoppo sfrenato. In un baleno il toro fu una quindicina di metri al largo. Le amiche di Europa la chiamavano disperate, ma la spiaggia si allontanava sempre più, e lei non era una brava nuotatrice. Non aveva idea di dove l’animale la stesse portando; poteva solo tenersi aggrappata e sperare per il meglio. Zeus nuotò fino all’isola di Creta. Una volta là, riprese la sua forma divina e disse: — Finalmente soli! Come stai? Piacere, Zeus. Insomma, una cosa tira l’altra, e dato che Europa non poteva tornare indietro, finì per rimanere a Creta, dove ebbe tre figli da Zeus. Dal momento che a casa nessuno sapeva dove fosse, il suo nome cominciò a significare “le terre di cui non si sa molto”. E alla fine tutti i territori situati a nord furono chiamati dai Greci Europa. Zeus però non faceva sempre così con le donne. Dopo la breve ribellione con cui gli dei avevano cercato di rovesciarlo, passò un po’ di tempo a flirtare con la Nereide Teti, quella che lo aveva liberato. Poi una profezia gli annunciò che Teti avrebbe partorito un figlio che sarebbe stato più grande del padre. La cosa lo scombussolò parecchio. — Un figlio più grande di me? — borbottò. — Non credo proprio! Così smise di corteggiare Teti e la loro relazione finì. In seguito Teti sposò un eroe di nome Peleo, e i due effettivamente ebbero un figlio che fu un eroe più grande del padre. Anzi, finì per essere l’eroe più grande e famoso di tutta la storia greca. Il suo nome era Achille. Così possiamo essere contenti che Zeus non abbia sposato Teti. Non c’è bisogno che ci sia in giro uno Zeus junior formato super. Zeus era di per sé abbastanza potente da affrontare qualunque cosa… Be’, quasi qualunque cosa. L’unica volta che fu messo in riga, imbrogliato e usato come giocattolo fu quando dovette affrontare un mostro di nome Tifone. Le storie su di lui sono alquanto contraddittorie. Non concordano nemmeno sul nome. A volte viene citato come Tifeo, altre come Tifone. A volte Tifeo e Tifone sono considerati due mostri distinti. Per semplificare, io mi atterrò a Tifone. Che aspetto aveva? Difficile dirlo. Era sempre circondato da banchi di nuvole. Grosso, questo era certo. Così grosso che la testa sfiorava il punto più alto del cielo. Aveva forma più o meno umanoide dalla vita in su, mentre le gambe erano simili a due boa constrictor. Ciascuna mano era fornita di un centinaio di dita, che finivano con teste di serpente, ognuna delle quali dotata di occhi feroci e stillante veleno, tanto che quando si arrabbiava spruzzava fiele ovunque. E la cosa oltretutto rendeva praticamente impossibile fargli la manicure. Aveva imponenti ali membranose, capelli lunghi tutti aggrovigliati che puzzavano di fumo vulcanico e una faccia che cambiava continuamente, al punto che pareva ne avesse centinaia, una più brutta dell’altra. Oh, e sputava fuoco, l’ho già detto? Tifone era nato e cresciuto nelle profondità del Tartaro. Suo padre era appunto Tartaro, il dio primordiale degli abissi, e sua mamma la Madre Terra. Immagino sia per questo che Tifone era grosso e malvagio. Chissà com’erano orgogliosi i suoi genitori… Giù nel Tartaro Tifone aveva un’adorabile moglie di nome Echidna. D’accordo, non era poi così adorabile. Era un orrendo mostro di sesso femminile, ma probabilmente andavano molto d’accordo, perché insieme fecero parecchi figli. Anzi, qualunque orribile mostro possiate immaginare era figlio di Tifone ed Echidna. Nonostante ciò, un giorno Tifone si stufò e decise di lasciare la sua confortevole casa negli abissi della dannazione eterna. — Tesoro — disse a Echidna — vado di sopra a distruggere gli dei e a prendere possesso dell’universo. Conto di essere a casa per cena. — È un’idea di tua madre, vero? — si lamentò Echidna. — Non fa altro che comandarti a bacchetta! Dovresti startene a casa. Idra ha bisogno del suo papà. E anche Sfinge! Tifone rabbrividì. Era vero che Madre Terra lo istigava sempre a distruggere gli dei: Gea li odiava fin da quando avevano sconfitto i Titani. Ma questo viaggio in realtà era un’idea sua. Aveva bisogno di una vacanza dai mostruosi figli e dalla mostruosa moglie. Impadronirsi dell’universo era, per così dire… un pretesto. — Ritornerò — promise. — Se tardo, non stare alzata ad aspettarmi. Così Tifone, il gigante delle tempeste, sbucò fuori nel mondo e cominciò a distruggere tutto quello che trovava sul suo cammino. Fu un’impresa pateticamente facile. Rovesciò una montagna e spiaccicò una città. Evocò un uragano e fece sprofondare un’intera isola. — È tutto qui quello che avete? — gridò rivolto all’Olimpo, visibile in lontananza. — Dove sono gli dei? Gli dei, in effetti, si stavano preparando alla guerra… finché non videro le dimensioni di Tifone, e come imperversava sulla terra distruggendo nazioni, mandando a fuoco foreste e trasformando gli oceani in veleno con le sue dita dalla testa di serpente. — Urca… — disse Poseidone deglutendo. — Quel tizio è enorme. — Imponente — osservò Atena, per una volta d’accordo con il dio del mare. — A quanto ci danno le quotazioni? — Ragazzi! — protestò Zeus. — Siamo in dodici, e lui è uno solo! Sconfiggeremo quel Titano. Possiamo farlo! A dire la verità gli tremavano le gambe nei calzari. Anche lui sarebbe voluto scappare, ma era il re degli dei, quindi doveva dare il buon esempio. — Avanti — disse brandendo il suo fulmine migliore. — Alla carica! Gli dei balzarono sui propri cocchi volanti e lo seguirono in battaglia. Gridavano: — Alla carica! — ma erano così nervosi che il grido era più un: — Alla carica! Quando Tifone li vide arrivare, provò un’emozione mai provata prima: gioia. Gli dei erano ridicolmente minuscoli! Distruggerli sarebbe stato così facile da fargli venire il capogiro. Si immaginava già assiso sul trono di Zeus sul Monte Olimpo a governare l’universo, anche se probabilmente avrebbe dovuto procurarsi un trono più grande. — MORITE, IMMORTALI! — gridò, che non era una minaccia molto logica, dal momento che gli immortali non possono morire; ma immagino che Tifone avesse intenzione di ridurli in mucchietti di polvere da spargere negli abissi, cosa che è abbastanza analoga a morire. Comunque, lo scatenato gigante sputò veleno ed eruttò fuoco, ergendosi in tutta la sua altezza, tanto che la testa grattò il cielo. Attorno a lui vorticavano le nuvole. La terra si fuse, e intorno ai suoi serpenteschi piedi i mari ribollirono. Gli dei cambiarono il grido di guerra in: — SCAPPIAMO! AIUTO! MAMMA! Tutti si girarono e fuggirono. Tutti, tranne Zeus. Non fu il loro momento di massima gloria. Secondo alcune leggende si trasformarono in animali per sottrarsi alla collera del gigante. Una versione sostiene addirittura che si nascosero in Egitto, e che mentre erano laggiù, sempre sotto forma di animali, diedero origine a tutti quei miti egizi sugli dei dalla testa di animale. Non so cosa direbbero gli Egizi al riguardo, considerato che i loro miti sono migliaia di anni più vecchi di quelli greci, ma questa è la storia greca. Comunque sia, Zeus fu lasciato solo ad affrontare Tifone. Il dio del cielo urlò dietro agli Olimpi in fuga: — Dico, state facendo sul serio? Tornate qui, pusillanimi! Ma la sua voce fu sovrastata dalla risata di Tifone. — Povero piccolo Zeus, tutto solo! Faresti meglio a scappare anche tu, razza di deucolo, prima che ti schiacci come una formica! Una volta Zeus, per corteggiare una delle sue prede, si era effettivamente trasformato in formica, quindi aveva un debole per le formiche. Tifone non poteva insultarle così! La rabbia gli diede coraggio. — Adesso ti faccio fuori, bamboccione! — gridò. E caricò con la forza della disperazione. Scagliò un fulmine, che andò a colpire il petto di Tifone con la potenza di una bomba all’idrogeno da cinquanta megatoni. Il gigante delle tempeste barcollò all’indietro, ma non cadde. Zeus lo colpì ancora e ancora. Le esplosioni facevano crepitare l’aria, trasformavano l’acqua in vapore e strinavano la crosta terrestre, ma Tifone avanzava imperterrito. Vibrò un colpo al cocchio di Zeus e lo scaraventò giù dal cielo. Mentre il dio cadeva, il gigante lo afferrò con una mano dalle dita di serpente e cominciò a stritolarlo. Zeus cambiò forma, ingrandendosi quanto più possibile, il che era sempre poca cosa in confronto a Tifone. Lottò per liberarsi, ma anche la sua straordinaria forza non servì a nulla contro il gigante. — Lasciami andare! — urlò. — Certo — ringhiò Tifone, sputando fuoco così vicino al viso di Zeus da bruciargli la barba. — Ma non posso lasciarti andare in giro a combinare guai, quindi ho bisogno di un sistema di sicurezza. — Un cosa? Le serpentesche dita di Tifone avvolsero braccia e gambe di Zeus. Le teste dei serpenti affondarono le zanne velenose nella carne degli avambracci e dei polpacci e… Bene. Preparatevi. Sarà un po’ ributtante. … gli strapparono i tendini. Che significa? Ecco, i tendini tengono insieme ossa e muscoli, giusto? Perlomeno, così mi ha spiegato il mio allenatore di pallacanestro. Sono strisce di tessuto connettivo robustissime, un po’ come nastro adesivo naturale. E senza quel nastro adesivo non funziona niente. Tifone strappò via i legamenti immortali, che scintillavano come bianchi cordoni di divino tessuto connettivo (ve l’avevo detto che era ributtante), trasformando Zeus in una bambola disarticolata. Non riusciva più a muovere braccia e gambe. Era completamente inerme, e accecato dal dolore. — Ecco! — gridò Tifone. — Oh, e prendo anche questi fulmini. Saranno degli ottimi stuzzicadenti. Afferrò le saette che pendevano dalla cintura di Zeus. Poi si chinò e prelevò anche quelle di scorta sul cocchio sfasciato e fumante finito su un’isola poco lontana. — Così va bene! Ora sei libero di andare. Puoi divertirti a guardarmi mentre distruggo l’Olimpo e mi impossesso del mondo. Poi torno e ti schiaccio sotto i piedi. Tifone gettò Zeus da parte come un mucchietto di rifiuti. Il Signore dell’Universo atterrò scomposto sul fianco di una montagna e gemette: — Ahia! Il gigante si allontanò, diretto verso l’Olimpo, con i fulmini di Zeus e un mazzo di schifosi tendini riposti al sicuro in tasca (o nel portafoglio, o qualunque cosa fosse di moda indossare tra i giganti delle tempeste a quei tempi). Bene, ragazzi, a questo punto le cose non sembravano mettersi troppo bene per gli dei. O per gli umani. O per qualsiasi cosa vivesse sulla faccia della terra. Zeus giaceva indifeso e sofferente sul fianco di un monte, a guardare Tifone che andava a distruggere l’Olimpo. Allora pensò: “Perché mai ho voluto essere re? È una fregatura”. Nel frattempo, gli altri dei si erano nascosti, e Tifone infuriò per tutto l’universo praticamente incontrastato. A dire il vero un esercito di mostri marini e balene al servizio di Poseidone cercò di fermarlo, ma lui si limitò a toglierli di torno con una pedata e ad avvelenare le acque. Anche altri dei cercarono di opporsi: gli spiriti delle stelle, e Selene, personificazione della luna. Infatti i Greci credevano che le spaccature e i crateri della luna fossero rimasti da quando Selene aveva guidato il suo cocchio in battaglia. Non servì a nulla. I mari continuarono a ribollire. Intere isole vennero distrutte. Il cielo si trasformò in un magma fumante rosso e nero. Ogni tanto Tifone scendeva sulla terra, apriva un enorme crepaccio e vi infilava una mano per tirare fuori una specie di pappa collosa come tuorlo d’uovo. Poi lanciava in giro palle di lava incandescente, mandando a fuoco campi, facendo fondere città e scrivendo graffiti ardenti sul fianco delle montagne, cose tipo: ZEUS CHI LEGGE e TIFONE È STATO QUI. Ce l’avrebbe fatta a conquistare l’Olimpo, figuriamoci, ma fortunatamente un paio di dei decisero di allontanarsi sgattaiolando per le retrovie e di andare a vedere cosa fosse successo a Zeus. Non erano gli dei più coraggiosi. Erano solo i più subdoli. Uno era Ermes il messaggero, che sapeva volare a velocità supersonica ed era abilissimo a restare fuori dallo schermo dei radar. L’altro era un dio minore, un satiro di nome Pan, con zampe pelose e zoccoli caprini, e perciò aveva l’aspetto di un satiro normale, solo che era immortale. Pan era riuscito a nascondersi da Tifone trasformandosi in capra con la coda di pesce. (Perché un travestimento così bislacco? Probabilmente era andato nel panico, non lo so.) Comunque, si era tuffato in mare ed era scappato. Ora si sentiva rimordere la coscienza per essersi comportato da codardo, quindi si fece dare un passaggio da Ermes e insieme volarono in giro finché non scorsero Zeus che giaceva a terra come un fagotto. — Accidenti! — esclamò Ermes quando furono atterrati. — Che ti è successo? Zeus avrebbe voluto dargli una bella lavata di capo per averlo lasciato a combattere Tifone da solo, ma era troppo dolorante e aveva troppo bisogno di aiuto. Riusciva a malapena a parlare, ma riferì del furto dei fulmini e dei tendini che Tifone gli aveva strappato dagli arti. Pan aveva la faccia di uno che sta per vomitare. — Quindi siamo rovinati — disse. — Fine del gioco. — Non possiamo gettare la spugna — replicò Zeus. — Ho bisogno dei miei tendini e dei miei lampi. Se riesco ad avere anche solo un minimo vantaggio su Tifone e a colpirlo a bruciapelo, credo di poterlo neutralizzare. Ma come fare per riavere le mie armi e i miei tendini? Lanciò un’occhiata alla zampogna appesa al collo di Pan. Portarsi dietro uno strumento musicale in battaglia può sembrare stupido, ma il satiro aveva sempre con sé la sua zampogna. Si diceva fosse un musicista molto abile. All’improvviso Zeus ebbe un’idea folle. Si ricordò di come aveva ingannato Crono fino a fargli vomitare gli altri Olimpi, anni prima, quando aveva finto di essere il coppiere e si era conquistato l’apprezzamento dei Titani cantando e danzando… — Dove non riesce la forza — disse — può riuscire l’inganno. — Adoro gli inganni — osservò Ermes. E Zeus illustrò il suo piano. Ermes si caricò in spalla Pan e la Bambola di Pezza Zeus e schizzò alla massima velocità lungo il percorso di distruzione del gigante. Atterrarono nell’entroterra greco, ai piedi del Monte Olimpo, proprio là dove Tifone sarebbe dovuto passare. Ermes depositò Zeus in una caverna poco distante, dove il Signore del Cielo avrebbe aspettato, come un inutile mucchietto di ossa, di vedere se il piano avesse avuto successo o fosse fallito. Ermes si nascose fuori dalla visuale, in un bosco lì vicino, mentre il satiro Pan si mise comodo in un prato aperto, in bella vista, e iniziò a suonare la zampogna. Ben presto il cielo si scurì e la terra tremò. L’aria cominciò a puzzare di acido e sostanze velenose, e gli alberi presero a fondersi. Pan continuò a suonare le sue dolci melodie. All’orizzonte comparve la sagoma scura di Tifone, una roba tipo King Kong, Godzilla e uno di quei malvagi Transformer tutti in uno. Lanciò il suo grido di vittoria e si avvicinò all’Olimpo. L’intero creato rabbrividì. Pan continuò a suonare. Le sue melodie erano come la luce del sole del mattino, come una fresca brezza che accarezza le foglie, come il profumo della tua ragazza che si è appena fatta lo shampoo… Scusate. Mi ero distratto. Cosa stavo dicendo? Ah, giusto… il satiro. La sua musica dunque evocava ogni cosa buona e bella. Quando Tifone si avvicinò, sentì le dolci note fluttuare nell’aria e si fermò perplesso. — Queste non sembrano grida — borbottò tra sé e sé. — E non è nemmeno un’esplosione. Che cos’è, allora? Posso affermare con ragionevole certezza che giù nel Tartaro non avevano molta musica, e se ce l’avevano era più stile canto funebre o death metal. Alla fine Tifone scorse il satiro, comodamente rilassato sul prato, che suonava la zampogna. Avrebbe potuto schiacciarlo come una formica, ovviamente, ma Pan aveva l’aria di chi non ha un pensiero al mondo. Stupito, il mostro si inginocchiò per guardarlo più da vicino. Il mondo rimase alcuni attimi in silenzio, tranne che per la crepitante scia di distruzione dietro il gigante e la dolce musica della zampogna. Tifone non aveva mai sentito niente di più bello. Era certamente meglio della voce irritante di quel mostro di sua moglie e del pianto dei suoi mostruosi figli. Senza volerlo, esalò un profondo sospiro di contentezza, così potente da fare la scriminatura ai capelli di Pan e interrompere la sua melodia. Finalmente il satiro sollevò lo sguardo, ma non sembrava affatto spaventato. (A dire il vero Pan era terrorizzato, ma non lo dava a vedere, probabilmente perché sapeva che lì vicino c’era Ermes pronto a saltare fuori se le cose si fossero messe male.) — Oh, salve — salutò. — Non ti avevo notato. Tifone inclinò l’enorme testa. — Sono alto quanto il cielo, sono avvolto dall’oscurità e sto distruggendo il mondo. Come hai fatto a non notarmi? — Forse perché ero impegnato a suonare. — E Pan ricominciò a soffiare nella zampogna. Subito Tifone sentì l’enorme cuore riempirsi di una gioia quasi più grande di quella che provava quando meditava di distruggere gli dei. — La tua musica mi piace — disse. — Forse potrei risparmiarti la vita. — Grazie — rispose Pan calmo, e tornò alle sue note. — Quando avrò distrutto gli dei, prenderò possesso dell’Olimpo e ti nominerò musico di corte, così potrai suonare per me. Pan si limitò a continuare con la sua dolce melodia. — Avrò bisogno di buona musica — decise Tifone. — Potresti scrivere una grande ballata su di me, un canto che racconti come ho conquistato il mondo! Il satiro smise di suonare e all’improvviso sembrò triste. — Mmmh… se solo… no. No, impossibile. — Che cosa? — tuonò Tifone. Fu davvero difficile per Pan ricordarsi il piano e rimanere calmo, con quel gigante che torreggiava su di lui, le centinaia di dita dalla testa di serpente che gocciolavano veleno e lo guardavano con i loro occhi rossi. “Ermes è qui vicino” continuava a dirsi. “Puoi farcela.” — Ecco, mi piacerebbe un sacco scrivere una ballata su di te — spiegò. — Ma una melodia così maestosa non dovrebbe essere suonata solo da una zampogna. Avrei bisogno di un’arpa. — Puoi avere tutte le arpe del mondo — promise Tifone. — Molto gentile, mio signore — disse Pan — ma avrei bisogno che le corde fossero fatte di tendini molto particolari… molto più forti di quelli di una vacca, o di budella di capra. Altrimenti, ogni volta che cercassi di suonare una canzone sul tuo potere e la tua maestosità, le corde si brucerebbero. Nessuno strumento mortale potrebbe sopportare un suono simile! Il che aveva decisamente senso, per Tifone. Allora ebbe una pensata. — Ho proprio quello che ci vuole! — Prese da terra la sua sacca e ci frugò dentro, tirando fuori i tendini di Zeus. — Puoi usare questi, per farti la tua arpa. — Oh, sono perfetti! — esclamò Pan, che in realtà avrebbe avuto voglia di gridare: “Che schifo!”. — Non appena avrai conquistato l’universo, fabbricherò un’arpa degna della tua ballata. — E sollevando la zampogna, abbozzò qualche nota di una soporifera ninnananna. — Ma sarà una faticaccia terribile, conquistare il mondo, anche per un essere imbattibile come te. Suonò ancora un po’, evocando un pigro pomeriggio, l’ombra fresca di un albero accanto a un ruscello, il dolce dondolio di una comoda amaca. Tifone cominciava a sentirsi le palpebre pesanti. — Già… una faccenda stancante — convenne. — Nessuno si rende conto di quanto io fatichi! — Si sedette, facendo tremare la montagna. — Distruggere città. Avvelenare oceani. Lottare contro la luna. È una cosa che sfinisce! — Sì, mio signore — disse Pan. — Se ti va, posso suonare un po’ di musica mentre riposi per qualche istante, prima della tua vittoriosa ma estenuante ascesa sul Monte Olimpo. — Mmmh. Musica. — Le palpebre di Tifone crollarono. — Magari giusto solo un… zzzzz. La poderosa testa crollò sul petto, e il gigante cominciò a russare. Pan suonò la sua ninnananna più dolce, così che Tifone facesse bei sogni. Nel frattempo, Ermes era strisciato fuori, aveva preso i tendini e aveva frugato di nascosto nella sacca del mostro finché non aveva trovato anche i fulmini di Zeus. Fece un cenno a Pan come per dire: “Continua a suonare”, e poi volò alla caverna dove Zeus aspettava. Riattaccare i tendini alle braccia e alle gambe del dio fu un macello, perché ci vollero molte caute scariche elettriche per saldare il tutto. Un paio di volte Ermes mise qualche tendine al contrario. Quando Zeus cercò di muovere un braccio, si diede una manata dietro la testa. — Scusami! — disse Ermes precipitosamente. — Sistemo subito! Alla fine Zeus tornò normale (essendo un dio immortale guariva presto), e una volta afferrate le sue saette gli montò dentro la rabbia, che lo fece sentire più forte che mai. — Tempo di vendetta — ringhiò. — Io cosa posso fare? — chiese Ermes. — Restare fuori dai piedi — gli ordinò Zeus. — Benissimo. Il Signore degli Dei uscì dalla caverna a passo di marcia e crebbe di dimensioni fino a essere alto quasi la metà di Tifone, che per un dio era tantissimo. Non appena Ermes ebbe prelevato Pan ed entrambi si furono messi al sicuro, Zeus gridò: — SVEGLIA! Colpì Tifone in faccia con un lampo, che fu come sentirsi una stella delle dimensioni di una supernova risalire su per le narici. Il gigante cadde lungo disteso, però Zeus lo colpì di nuovo. Tifone lottò per alzarsi. Era ancora mezzo addormentato, intontito e confuso, e si chiedeva che cosa fosse successo a quel satiro tanto carino e alla sua bella musica. Zeus lo stava colpendo con i fulmini… ma questo era impossibile, giusto? ZAP! RI-ZAP! Tifone batté in ritirata. Tutt’intorno a lui scoppiavano fulmini che gli incenerivano i serpenti delle dita, smembravano le nuvole di oscurità e lo accecavano. Prima che potesse riprendersi, inciampò e cadde in mare. Zeus staccò una montagna dal suolo e gliela tenne sollevata davanti alla faccia. — MANGIATI L’ETNA! — gridò (perché questo era il nome della montagna). Schiacciò Tifone sotto il Monte Etna, e da allora il gigante delle tempeste è intrappolato laggiù, a tuonare sotto megatonnellate di roccia e a causare di quando in quando eruzioni vulcaniche. Fu così che Zeus salvò l’universo, con un piccolo aiuto da parte di Ermes e Pan. Non so se Ermes fu ricompensato, di certo so che a Pan fu data una costellazione per premiare il suo coraggio. Ha la forma di una capra con la coda di pesce, per ricordare le sembianze che aveva assunto quando era scappato da Tifone. Più tardi quella costellazione divenne un segno dello zodiaco e si chiamò Capricorno. E finalmente, urrà, posso smettere di parlare di Zeus. La brutta notizia: è ora di dire due parole su una dea che detesta mio padre, e alla quale non sto tanto simpatico nemmeno io. Ma cercherò di essere imparziale, perché dopotutto è la mamma della mia ragazza, Annabeth: la cara, vecchia, scaltra, terrificante Atena. ATENA ADOTTA UN FAZZOLETTO Dunque, circa un milione di pagine fa ho accennato alla prima moglie di Zeus, Meti, della stirpe dei Titani. Ve la ricordate? No, infatti. Nemmeno io. Sono dovuto tornare indietro a guardare. Tutti quei nomi… Meti, Teti, Temi, e Feta (il formaggio)… A cercare di tenerli a mente c’è da farsi venire il mal di testa. Comunque, ricapitolando: La vera storia degli dei dell’Olimpo, puntate precedenti. Meti era incinta del figlio di Zeus. Le fu profetizzato che il bambino sarebbe stato una femmina, ma se ne avessero avuto un secondo sarebbe stato un maschio, che una volta cresciuto avrebbe preso il posto di Zeus. Nel sentire ciò, Zeus fece la cosa più normale in questi casi: fu preso dal panico e inghiottì la moglie incinta tutta intera. Ta-daaaa! E poi cosa successe? Bene, gli immortali non possono morire, anche quando vengono inghiottiti da altri immortali, così Meti partorì la sua bambina nella pancia di Zeus. (Bah! Ma c’è di peggio…) Alla fine Meti si dissolse in pensiero puro, e dal momento che rappresentava i saggi consigli, si ridusse a essere soltanto una voce fastidiosa nella mente del dio. Quanto alla figlia, crebbe nel corpo di Zeus, nello stesso identico modo in cui precedentemente gli Olimpi erano cresciuti nella pancia di Crono. Una volta adulta (una piccola, molto compressa e molto scomoda adulta) cominciò a cercare il modo di fuggire da lì e arrivare nel mondo. Nessuna delle alternative disponibili sembrava andare bene. Se fosse saltata fuori dalla bocca di Zeus sotto forma di rutto, avrebbero riso tutti dicendo che era stata vomitata. Decisamente poco dignitoso. Se avesse seguito il tratto digestivo di Zeus fino ad arrivare all’altra apertura… per carità! Ancora più disgustoso. Era una dea giovane e forte, quindi avrebbe potuto benissimo squarciare il petto di Zeus, ma poi tutti avrebbero pensato che era uno di quei mostri della serie Alien, e non era l’entrata in scena a cui pensava. Finalmente ebbe un’idea. Si dissolse in pensiero puro – un trucchetto che le aveva insegnato mamma Meti – e viaggiò lungo il midollo spinale di Zeus, su fino al cervello, dove riprese forma. Una volta lì, cominciò a dare calci e pugni e a gridare nel cranio del dio, facendo quanto più baccano possibile. (Aveva un sacco di spazio là dentro, perché secondo me il cervello di Zeus era una cosina minuscola. Però non andate a riferirgli che l’ho detto.) Come potete ben immaginare, Zeus si ritrovò con la testa che gli si spaccava dal dolore. Quella notte non riuscì a dormire a causa di quel continuo martellare. Il mattino dopo si trascinò fino al tavolo della colazione e cercò di mangiare qualcosa, ma continuava a irrigidirsi, gemere e sbattere la forchetta gridando: — BASTA! BASTA! Era e Demetra si scambiarono occhiate preoccupate. — Marito mio — disse Era. — Va tutto bene? — Ho un mal di testa! — ululò Zeus. — Un mal di testa feroce! E tanto perché fosse chiaro, sbatté la faccia sui pancake, cosa che distrusse il piatto e aprì anche una crepa nel tavolo, ma quanto al mal di testa non risolse nulla. — Un’aspirina? — suggerì Apollo (era il dio delle guarigioni). — Una bella tazza di tè? — propose Estia. — Potrei aprirti il cranio — si offrì Efesto, il dio fabbro. — Efesto! — gridò Era. — Non parlare così a tuo padre! — Perché, cos’ho detto? — si stupì lui. — Evidentemente c’è un problema. Potrei aprirgli la calotta cranica e dare un’occhiata. Magari abbassa la pressione. E poi è immortale, no? Non lo ucciderà di certo. — No, grazie… — disse Zeus con una smorfia. — Credo che… All’improvviso, davanti agli occhi cominciarono a danzargli dei puntini rossi. Una frustata di dolore gli si diffuse per tutto il corpo, e nella testa sentì una voce gridare: — FATEMI USCIRE DI QUI! Zeus cadde dalla sedia, contorcendosi tra indicibili sofferenze. — Forza, aprimi il cranio! — gemette. — Tirami fuori questa cosa! Gli altri dei impallidirono. Persino Apollo rimase agghiacciato, e sì che aveva qualcosa come una decina di kit di Primo Intervento dei boy scout. Efesto si alzò. — Perfetto. Vado a prendere la mia lesina (che sostanzialmente era un punteruolo da ghiaccio di dimensioni industriali per fare buchi nelle superfici molto spesse, tipo metallo o teste di dei). — Voi intanto rimettetelo sul trono e tenetelo fermo. Gli Olimpi si prepararono per un intervento di chirurgia cranica d’urgenza. Trascinarono Zeus sul trono e lo sistemarono dritto, mentre Efesto radunava gli attrezzi. Il divino fabbro non perse tempo. Si avvicinò al padre con passo sicuro, gli puntò la lesina in mezzo alla fronte, alzò il martello e… bang! Da allora lo chiamarono Efesto Una Botta e Via. Seppe imprimere la forza giusta per entrare nel cranio senza trasformare il Signore degli Dei in un divino kebab. Dalla punta della lesina al naso di Zeus si aprì una spaccatura abbastanza larga perché ne sgusciasse fuori… Atena. Uscì con un balzo dalla fronte, e davanti agli occhi di tutti crebbe fino a diventare una dea adulta vestita di grigio e con un’armatura da battaglia, un elmo di bronzo e tanto di scudo e spada. Dove si fosse procurata quell’equipaggiamento non lo so. Probabilmente l’aveva creato con la magia, o forse come snack Zeus si mangiava abiti e armi. Comunque sia, la dea fece la sua bella entrata. — Ciao a tutti — disse serafica. — Io sono Atena, dea della guerra e della saggezza. Demetra svenne. Era ne fu scandalizzata: suo marito aveva appena partorito una figlia dalla fronte e lei era assolutamente sicura che non fosse sua. Ares, il dio della guerra, intervenne: — Tu non puoi occuparti di guerra. Quello è il mio lavoro! — Ho detto guerra e saggezza — puntualizzò Atena. — Sorveglierò i combattimenti che richiedono pianificazione, astuzia e un’intelligenza superiore. Tu puoi sempre occuparti di tutti quegli aspetti stupidi, cruenti e maschili della guerra. — Oh, allora va bene — disse Ares. Poi però corrugò la fronte. — Aspetta un attimo… cosa? Intanto Efesto aveva ricucito la spaccatura nella testa di Zeus. Nonostante i dubbi degli altri, il Signore degli Dei insistette perché accogliessero la nuova arrivata nelle loro fila. Fu così che Atena divenne una degli Olimpi. Come avete sentito, era la dea della saggezza, il che comportava dare buoni consigli e offrire utili abilità. Donò ai Greci l’albero di ulivo, insegnò loro a fare di conto, a tessere stoffe, a usare i buoi per tirare l’aratro, a passarsi il filo interdentale dopo ogni pasto, e offrì un sacco di altre utili dritte. Come dea della guerra si occupava molto più di difesa che di offensiva. Combattere non le piaceva, ma sapeva che a volte era necessario. Cercava sempre di vincere grazie a buone strategie e abili trucchi. Si impegnava a limitare le perdite, là dove Ares invece amava la violenza e niente gli piaceva di più che un bel campo di battaglia cosparso di corpi straziati (già, era proprio un tenerone!). L’albero sacro ad Atena era l’ulivo, che fu appunto il grande dono che fece agli ateniesi. I suoi animali sacri erano la civetta e il serpente. Si suppone che la civetta fosse simbolo della saggezza del cielo, e il serpente della saggezza della terra. Se devo dire la mia, non è che l’abbia mai capita, questa. Se le civette fossero sagge, perché dovrebbero andarsene sempre in giro a civettare? E i serpenti non mi sono mai sembrati tanto intelligenti nemmeno loro; ma a quanto pare i Greci pensavano che quando un serpente sibilava era perché sussurrava importanti segreti. “Già, proprio, caro signor greco. Tieni quel serpente a sonagli un po’ più vicino all’orecchio… ha senz’altro qualcosa da dirti.” Nelle statue dell’antica Grecia e nei dipinti, Atena è molto facile da riconoscere. Indossa quasi sempre le stesse cose. L’elmo è decorato da arieti, cavalli, grifoni e sfingi, e sulla sommità ha un’eccentrica piuma stile moicano. Di solito la dea porta lancia e scudo, e indossa una tunica senza maniche modello Sparta, più un mantelletto magico chiamato egida drappeggiato sulle spalle. Secondo le leggende, il manto era foderato di pelle di serpente, aveva applicata sopra la testa di bronzo di Medusa e fungeva da corazza. A volte sentirete descrivere l’egida come lo scudo, piuttosto che il mantello. Io credo che nessuno abbia mai guardato abbastanza da vicino da essere sicuro di come stessero veramente le cose, perché con quella testa di Medusa… Insomma, il nocciolo della questione era costringerti a fuggire urlando. In molte storie Atena offre in dono l’egida al padre, quindi tecnicamente è di Zeus; ma Atena ogni tanto se la fa prestare, per la serie: “Ehi, papà, posso prendere la testa mozzata di Medusa stasera? Esco con gli amici”. “Va bene, tesoro, ma riportala per mezzanotte, e cerca di non pietrificare nessuno.” Uno dei più grossi misteri riguardo ad Atena è perché si chiami Pallade. Per un sacco di tempo ho pensato che fosse Palace Atena, come un hotel di Las Vegas, o magari il rifugio segreto della dea. Persino i Greci non riuscirono mai a mettersi d’accordo sul perché la loro dea preferita avesse il soprannome di Pallade; ecco che cos’ho sentito io al riguardo. Quando Atena era una giovane dea, appena uscita dalla fronte di Zeus, il suo papà la mandò a vivere con le ninfe del lago Tritonio, in Libia, sulle coste nordafricane. — Ti piaceranno — promise Zeus. — Sono donne soldato, proprio come te. Potrebbero persino insegnarti qualche trucco molto utile in battaglia. — Ne dubito — disse Atena. — Perché mi mandi via? Zeus cercò di rimediare un sorriso, cosa non facile, visto che la testa gli faceva ancora un male cane. — Ascolta, mio piccolo muffin guerriero… — Non chiamarmi così! — Sei stata chiusa nella mia pancia per tutta la vita — disse Zeus. — Là avrai la possibilità di imparare un bel po’ di cose sul mondo esterno. E poi darà il tempo agli altri Olimpi di abituarsi all’idea di averti nel consiglio degli dei. Se devo essere sincero, li intimidisci un po’. Sei intelligente e potente. Atena si sentì lusingata, e così accettò di passare un po’ di tempo in Africa. Come Zeus le aveva assicurato, il posto le piacque molto. Le ninfe del lago Tritonio erano grandi lottatrici e atlete straordinarie, forse perché vivevano in un ambiente poco ospitale. Atena imparò un sacco di tecniche di combattimento segrete da ninfe-ninja. E le ninfe pensavano che Atena fosse quanto di più bello esistesse al mondo, dopo l’ambrosia affettata. La sua amica del cuore era Pallade, l’unica ninfa che a volte riusciva a batterla nel corpo a corpo. Avevano gli stessi gusti in fatto di armi e armature e lo stesso senso dell’umorismo. Erano talmente sintonizzate sulla stessa onda di pensiero che potevano finire ciascuna una frase iniziata dall’altra. Diventarono subito BFF (Best Friends Forever). Un giorno Atena e Pallade si stavano allenando sulla sponda del lago, quando a Zeus venne in mente di dare un’occhiata dal cielo per vedere come stava sua figlia. Rimase scioccato. Atena e Pallade lottavano a una tale velocità e con una tale forza che non riuscì a credere che si trattasse solo di una simulazione. Sembrava quasi che Atena dovesse soccombere e finire uccisa! (Sì, lo so che era immortale e quindi non poteva essere uccisa, ma Zeus era un papà iperprotettivo. Nella foga del momento se l’era scordato.) Pallade lanciò il suo giavellotto contro il petto di Atena e il dio reagì d’impulso. Comparve nel cielo proprio dietro la figlia e sollevò l’egida (che al momento aveva lui) così Pallade fu costretta a guardarla. Davanti agli occhi della ninfa comparve la faccia di Medusa. Proprio in quel momento Atena deviò il giavellotto dell’amica e contrattaccò, mirando con la lancia proprio al ventre di Pallade. Normalmente la ninfa non avrebbe avuto nessuna difficoltà a schivare il colpo. Atena infatti si aspettava che si spostasse. Ma questa volta Pallade fu troppo lenta. La lancia le trapassò il ventre e uscì dall’altra parte. La ninfa crollò a terra. Le ninfe sono creature magiche: possono vivere per molto tempo e sopportare tante cose, forse persino la vista di Medusa, ma non sono immortali. Se infilzi una ninfa con una lancia, quella muore. E Pallade morì. Atena cadde in ginocchio, singhiozzando per lo shock e l’orrore. Si mise a cullare il corpo senza vita della sua povera amica e fissò Zeus, che ancora aleggiava nell’aria con l’egida. — PAPÀ! — gli gridò. — PERCHÉ? Vedendo gli occhi grigi della figlia colmi di furore, Zeus quasi si spaventò come quando aveva affrontato il gigante Tifone. — Pensavo… non volevo… ops. E scomparve, ritornando precipitosamente in volo sull’Olimpo. Il dolore di Atena fu immenso. Il corpo della sua amica tornò a dissolversi nelle acque del lago Tritonio, come spesso succedeva alle ninfe acquatiche, ma la dea decise di onorare Pallade con un monumento a lei consacrato. Costruì allora una statua in legno dell’amica e la dipinse con tanta bravura da farla sembrare viva. Poi tagliò un riquadro dell’egida (che, essendo taglia dei, era decisamente enorme) e lo drappeggiò sulle spalle della copia di Pallade. La statua divenne un manufatto molto importante. Finì nella città di Troia, dove fu collocata in un tempio speciale chiamato Palladio, che significa “luogo di Pallade”. Là le donne potevano entrare a chiedere protezione ad Atena, e nessuno si sarebbe azzardato a fare loro del male. Agli uomini invece non era permesso nemmeno guardare la statua. La punizione sarebbe stata la morte. La statua di Pallade somigliava così tanto ad Atena che la gente prese a chiamarla Pallade Atena. Poi cominciò a confondersi e a chiamare la dea Pallade Atena. Ad Atena la cosa piacque. In un certo senso, prendendo il nome dell’amica, teneva viva la sua memoria. Così chiamatela pure Pallade Atena, ma evitate di chiederle se potete prenotare una stanza al Palace Atena. Vi posso dire per esperienza personale che non la considera una battuta divertente. Adesso che ci penso, Atena non ha un gran senso dell’umorismo. Per esempio, il modo in cui gestì la faccenda di Aracne. Tremendo, a dir poco. Aracne era nata senza nessuna particolare agevolazione. Viveva in un regno chiamato Lidia, in quell’area geografica oggi nota come Turchia: niente di speciale, una sorta di Sud Dakota dell’antica Grecia (chiedo scusa, Sud Dakota). I genitori di Aracne erano di bassa estrazione sociale: facevano i tintori di lana, il che significava mescolare per tutto il giorno pezze di stoffa in tini di brodaglia puzzolente e fumante color porpora… l’equivalente del rigirare hamburger da McDonald’s. Morirono quando Aracne era piccola, lasciandola senza amici, senza famiglia e senza denaro. Ciononostante diventò la fanciulla più famosa del regno semplicemente per il suo grande talento. Sapeva tessere come nessun altro. Lo so che state pensando: “Wow! Tessere! Il Sud Dakota comincia a farsi interessante”. Però, ragazzi, provate voi a tessere. È difficilissimo! Dico, avete mai guardato da vicino il tessuto della vostra T-shirt? La prossima volta che siete a una noiosissima lezione di chimica dateci un’occhiata. Il tessuto è fatto di fili, milioni di fili intrecciati su e giù, avanti e indietro. Qualcuno deve prendere la materia prima, tipo lana, cotone o quello che è, pettinarla in modo che le fibre vadano tutte nella stessa direzione, filarla e intrecciarla in piccoli fili sottili. Dopodiché deve allineare un miliardo di questi fili, tutti orizzontali e paralleli l’uno all’altro come corde di chitarra, e intrecciare altri fili in mezzo, avanti e indietro. Certo, ora abbiamo le macchine che lo fanno. Ma immaginate a quei tempi, fare tutto questo a mano. Ci volevano ore e ore per ottenere dieci centimetri quadrati di tessuto. La maggior parte della gente poteva permettersi solo una maglietta e un paio di pantaloni, perché era una fatica improba fabbricarli. Tende e lenzuola? Scordatevele! E tutto questo di un colore solo, per esempio bianco. Volevi un disegno? Allora dovevi programmare quali fili colorare e di che colore, e dovevi sistemarli nella posizione giusta, come un enorme puzzle. Io, con la mia sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività, non ne sarei mai stato in grado. Tessere era il solo modo per ottenere qualcosa di stoffa, quindi a meno che non volessi andartene in giro nudo, facevi meglio a trovarti un bravo tessitore. Aracne faceva sembrare le cose facili. Riusciva a fabbricarti una camicia hawaiana con disegni di fiori e rane e noci di cocco intrecciati nella stoffa, e lo faceva in poco più di cinque minuti. Sapeva tessere tende con fili d’oro e azzurri, così che quando si increspavano sembravano nuvole che si muovevano nel cielo. Quello che più amava fare erano gli arazzi, enormi riquadri di tessuto con motivi artistici da appendere alle pareti. Erano solo per bellezza, e per la maggior parte dei tessitori difficilissimi da realizzare, così difficili che soltanto i re e i calciatori professionisti potevano permetterseli. Aracne invece li faceva solo per piacere, e li regalava alle feste. Tutto questo la rese molto amata e molto famosa. Ben presto la gente del posto prese l’abitudine di raccogliersi ogni giorno davanti alla sua capanna, a vederla lavorare. Persino le ninfe lasciavano i loro boschi e fiumi e rimanevano a fissare a bocca aperta la fanciulla che tesseva, perché i suoi arazzi erano decisamente più belli della natura stessa. Le mani di Aracne sembravano volare. Prendeva un ciuffo di lana, lo filava sino a farlo diventare una fibra, lo tingeva con il colore che aveva deciso e lo fissava con un cappio alla cornice del telaio in meno di un secondo. Quando aveva tutta una serie di fili che andavano su e giù, attaccava quelli perpendicolari a un lungo pezzo di legno chiamato spoletta, che era come un ago da cucito gigante. A questo punto faceva scivolare la spoletta avanti indietro veloce come una palla da tennis, tessendo insieme i fili in un unico pezzo di tessuto bello fitto, come per magia. Avanti, indietro, avanti, indietro: ZAC! Ed ecco che all’improvviso vedevi comparire sulla stoffa l’immagine di un oceano, ma così realistica che le onde sembravano frangersi sulla riva. L’acqua fatta di fili brillava di riflessi metallici azzurri e verdi. I personaggi intessuti sulla spiaggia erano disegnati con tanta bravura che si poteva scorgere l’espressione del viso. Se guardavi con una lente le dune, riuscivi a distinguere ogni singolo granello di sabbia. Praticamente Aracne aveva inventato la tessitura ad alta definizione. — Aracne, sei straordinaria! — disse una delle ninfe, rimasta senza fiato. — Grazie. — La fanciulla si concesse un sorriso compiaciuto e si preparò a tessere il capolavoro successivo. — Deve averti insegnato Atena in persona! — continuò la ninfa. Questo era decisamente un grandissimo complimento. Aracne avrebbe dovuto soltanto chinare il capo, ringraziare e lasciar perdere. Ma era troppo orgogliosa del proprio lavoro. Degli dei non sapeva che farsene. Avevano mai mosso un dito per lei? Si era costruita dal nulla. I suoi genitori erano morti e l’avevano lasciata senza un soldo. Non aveva mai avuto un briciolo di fortuna. — Atena? — sbuffò allora. — Sono stata io a insegnare a me stessa a tessere. La folla si agitò nervosa. — Però — intervenne un tale — dovresti comunque ringraziare Atena per il tuo talento, perché è stata la dea a inventare la tessitura. Senza di lei… — A te non darò mai nessun arazzo! — Aracne colpì l’uomo in faccia con un gomitolo di filo. — Tessere è una faccenda solo mia. Se Atena è così brava, può benissimo venire giù e mettere alla prova le sue capacità contro le mie. E allora vedremo chi ha da insegnare qualcosa a chi. Potete facilmente immaginare cosa accadde. La sfida giunse alle orecchie di Atena. E quando sei una dea, non è che puoi lasciare che qualcuno faccia il tuo nome così e tutto finisca lì. Il giorno dopo Atena scese sulla terra, ma invece di arrivare con dardi infuocati, decise di visitare Aracne in incognito e controllare la situazione. Già, lei era molto attenta a queste cose. Le piaceva affrontare le situazioni direttamente, e trovava giusto dare alle persone una seconda possibilità. Dopotutto a lei era capitato di uccidere per sbaglio la sua migliore amica! Sapeva che ci si può sbagliare. Così assunse le sembianze di una fragile vecchietta e zoppicò verso la capanna di Aracne, unendosi alla folla raccolta ad ammirare l’operato della tessitrice. La mortale era brava. Non c’erano dubbi. Tesseva scene di montagne e cascate, città tremolanti nella calura del pomeriggio, animali che si aggiravano nelle foreste e mostri marini così terrificanti da sembrare sul punto di balzare fuori dal tessuto e lanciare un attacco. La fanciulla sfornava arazzi a velocità disumana, gettandoli alla folla come premi, sparandoli fuori dal suo cannone fabbrica-magliette e rendendo un sacco di spettatori felici con omaggi di grande valore. Non sembrava per niente avida. Voleva solo condividere il proprio lavoro con il mondo. Atena questo lo rispettava. Aracne non veniva da una famiglia ricca, non aveva frequentato una scuola esclusiva. Non godeva di privilegi e aveva raggiunto una posizione solo e unicamente grazie alle sue capacità. La dea decise di concederle il beneficio del dubbio. Si fece dunque largo tra la folla e si rivolse alla fanciulla al lavoro. — Sai, carina — esordì — sarò anche vecchia, ma con l’età ho raggiunto una certa saggezza. Lo vuoi un consiglio? Aracne si limitò a grugnire. Era tutta presa dalla tessitura e non desiderava nessuna perla di saggezza, tuttavia non disse niente. — Tu hai molto talento — continuò Atena. — E non c’è alcun male nel guadagnarsi le lodi di altri umani. Te le meriti! Ma spero che tu abbia tributato ad Atena la giusta riconoscenza per la tua bravura. È stata lei a inventare l’arte della tessitura, dopotutto, ed è lei a garantire ai mortali come te il talento per tessere. Aracne smise di intrecciare i fili e fissò la vecchia signora. — Nessuno mi ha mai garantito niente, nonna. Forse la tua vista è appannata, ma guarda bene questo arazzo. Sono stata io a fabbricarlo. Non ho bisogno di ringraziare nessuno per questa mia fatica! Atena cercò di mantenere la calma. — Sei orgogliosa, e ne hai ben donde. Ma stai offendendo la dea. Se fossi in te le chiederei immediatamente scusa. Sono certa che ti accorderebbe il suo perdono. È molto misericordiosa verso tutti quelli che… — Hai rotto, nonna — sbottò Aracne. — Tieni pure i tuoi consigli per le tue figlie e le tue nipoti. Io non ne ho bisogno. Se ami così tanto Atena, vai a dirle di venire qui a trovarmi, e allora vedremo chi è davvero maestra nell’arte della tessitura! E questo fu quanto. In una fiammata di luce, il travestimento di Atena scomparve, ed ecco che davanti alla folla c’era la dea, con tanto di lancia e scudo che mandavano bagliori. — Atena è venuta — disse. — E accetta la tua sfida. Consiglio dell’esperto: se sei un mortale e davanti a te compare una dea, e vuoi sopravvivere nei minuti successivi, la cosa migliore da fare è prostrarti faccia a terra e mostrarti umile umile. La folla fece esattamente questo, ma Aracne aveva fegato. Ovviamente dentro di sé era terrorizzata. Impallidì, poi arrossì, poi impallidì di nuovo. Ma riuscì a non chinare la testa e a guardare in faccia la dea. — Va bene. Vediamo che cosa sai fare, vecchia signora! — Ohhhhhh! — rumoreggiò la folla. — Che cosa so fare? — ribatté Atena. — La ragazzina che viene dalla Lidia vorrebbe insegnare qualcosa a me? Quando avrò finito, questa gente userà i tuoi arazzi come carta igienica! — Beccati questa! — esclamò la folla. — Oh, davvero? — disse Aracne con una smorfia. — Dev’essere stato parecchio buio dentro la testa di papino, se pensi di poter tessere meglio di me. Probabilmente Zeus ha inghiottito la tua mammina proprio per impedirti di nascere e fare brutte figure. — Tiè! — gridò la folla. — Oh, davvero? — le fece il verso Atena. — Bene, la tua, di mammina… — Prese un respiro profondo. — La sai una cosa? Adesso basta vomitare scemenze. È ora di tessere. Un arazzo a testa. La vincitrice avrà il diritto di vantarsi di essere la più brava. — Ah-ah. — Aracne si mise le mani sui fianchi. — E chi deciderà chi vince? Tu, forse? — Sì — rispose Atena semplicemente. — Prometto sulle rive dello Stige di pronunciare un giudizio imparziale. A meno che tu non voglia lasciar decidere i mortali. Aracne guardò i suoi concittadini e capì che era in una situazione disperata. Ovviamente i mortali avrebbero scelto Atena, non importa quanto fosse bello il suo lavoro. Non volevano certo finire ridotti in cenere o trasformati in facoceri per aver fatto arrabbiare la dea. Aracne non credette nemmeno per un istante che Atena sarebbe stata imparziale, ma forse gli dei dovevano davvero mantenere le loro promesse, se giuravano sulle rive dello Stige. Capì perciò di non avere scelta, quindi decise di accettare. — E sia, Atena. Vuoi che ti presti il mio telaio, o ne hai bisogno di uno speciale con le rotelline di sicurezza? La dea digrignò i denti. — Ho il mio. Grazie. E schioccò le dita. Di fianco al telaio di Aracne ne comparve un altro, circondato di luce. La dea e la mortale si sedettero e cominciarono a lavorare frenetiche. La folla intanto salmodiava: — TESSI! TESSI! — stantuffando i pugni in aria. I Lidici avrebbero dovuto pubblicare annunci e farsi sponsorizzare, perché sarebbe stato lo scontro di tessitura più seguito nella storia televisiva dell’antica Grecia. Risultò poi che gli insulti tra Atena e Aracne continuarono, ma nel linguaggio dei tessitori. Atena tessé una scena di dei in tutta la loro gloria, seduti nella sala del consiglio dell’Olimpo, come a dire: “Noi siamo i migliori. Il resto non conta nulla”. Tratteggiò i templi dell’Acropoli di Atene per mostrare come i mortali saggi avrebbero dovuto onorare gli dei. Poi, tanto per stare sul sicuro, nel tessuto intrecciò alcuni piccoli avvertimenti. Se si guardava da vicino, si vedevano i vari mortali famosi che avevano osato paragonarsi agli dei, e per questo erano stati trasformati in animali o schiacciati come creature arrotate sull’asfalto. Nel frattempo, Aracne tessé una storia diversa. Tratteggiò le cose ridicole o orribili che gli dei avevano fatto nei secoli. Mostrò Zeus trasformato in toro per rapire la principessa Europa. Poseidone sotto sembianze di stallone che inseguiva la bianca giumenta Demetra, e poi la povera Medusa, una fanciulla innocente corteggiata dal dio del mare e trasformata in un mostro orribile da Atena stessa. Fece apparire gli dei come esseri stupidi, malvagi, capricciosi, di nessun aiuto per i mortali… E, mi dispiace dirlo, aveva parecchio materiale tra cui scegliere. Quando gli arazzi furono terminati, la folla piombò nel silenzio, perché entrambi erano meravigliosi. Quello di Atena era così maestoso da togliere il fiato, e ti faceva percepire il potere degli Olimpi. Quello di Aracne era la più graffiante critica agli dei mai formulata, e ti faceva venire voglia di ridere, piangere e arrabbiarti allo stesso tempo, ma era comunque bellissimo. Atena fece correre lo sguardo da un’opera all’altra, cercando di giudicare quale fosse migliore. Alcune storie vi diranno che fu lei a vincere la gara, ma questo non è vero. In effetti fu costretta ad ammettere che i due arazzi erano entrambi di ottima qualità. — È un pareggio — disse a denti stretti. — Il tuo talento, la tua tecnica, l’uso dei colori… Per quanto lo desideri con tutte le mie forze, non riesco a trovare nessun errore. Aracne fece per alzarsi ed esultare, ma il lavoro l’aveva spossata. Le facevano male le mani e la schiena, e si ritrovò piegata dallo sforzo. — E ora che facciamo? Una rivincita? A meno che tu non abbia troppa paura… Alla fine Atena perse la pazienza. Prese la spoletta del suo telaio – un pezzo di legno lungo come una mazza da baseball piatta – e disse: — Ora ti tiro fuori tutta la boria a suon di randellate, per avere insultato gli dei! SBAM! SBAM! SBAM! Colpì Aracne sulla testa, mentre la poveretta correva di qua e di là cercando di nascondersi. All’inizio la folla fu orripilata. Poi fece quello che gli umani spesso fanno quando sono spaventati e nervosi ed è qualcun altro a venire picchiato… cominciò a ridere e a prendere in giro Aracne. — Dagliele, Atena! — gridò uno. — Già, chi è il capo, ora, ragazzina? — disse un altro. Gli stessi mortali che avevano osservato pieni di meraviglia il lavoro di Aracne, ed erano rimasti davanti alla sua capanna per giorni sperando di guadagnarsi qualche arazzo gratis, ora le davano contro, insultandola e schernendola mentre Atena la colpiva. Crudele? Potete scommetterci. Ma se posso dire la mia, quella feccia rappresentava l’umanità esattamente come l’arazzo di Aracne riproduceva il comportamento degli dei. Finalmente la rabbia di Atena si placò. Girandosi vide i mortali che indicavano Aracne sghignazzando, e capì che forse aveva esagerato con la punizione. — Basta! — gridò alla folla. — Fate così in fretta ad abbandonare uno dei vostri? Almeno Aracne ha talento! Cos’avete voi invece di tanto speciale? Mentre Atena era impegnata a rimproverare la gente, Aracne si tirò in piedi a fatica. Le faceva male dappertutto, ma la ferita peggiore era quella nell’orgoglio. Tessere era la sua unica gioia, e Atena gliel’aveva tolta. Non sarebbe più stata capace di trarre piacere dal proprio lavoro. E anche i suoi concittadini, che aveva cercato con tutta se stessa di compiacere, l’avevano rinnegata. Gli occhi le pungevano per la vergogna, l’astio e l’autocommiserazione. Si trascinò al telaio e raccolse un grosso gomitolo di filo, sufficiente per una corda fatta a mano. Fece un cappio e se lo passò intorno al collo, poi lanciò l’altro capo della corda su una trave sopra di lei. Quando Atena e la folla se ne accorsero, Aracne era già appesa lassù a cercare di togliersi la vita. — Sciocca ragazza — disse la dea. Fu travolta dalla pietà, ma nello stesso tempo odiava il suicidio, che riteneva un gesto di vigliaccheria. — Non ti lascerò morire. Continuerai a vivere e a tessere per sempre. E trasformò la fanciulla in un ragno; da allora Aracne e i suoi discendenti non fanno che tessere tele. I ragni odiano Atena, che li ricambia con lo stesso sentimento. Ma odiano anche gli umani, perché Aracne non ha mai dimenticato la vergogna e la rabbia di essere stata messa in ridicolo. Quindi qual è il succo della storia? I vecchi narratori moralisti direbbero: “Non paragonarti mai agli dei, perché non potrai mai essere bravo come loro”. Ma questo non è vero. Perché Aracne brava come loro lo era. Forse la lezione è: “Cerca di capire quando è il momento di vantarti e quando di tenere la bocca chiusa”. Oppure: “A volte la vita non è giusta, anche se sei dotata come Atena”. O forse ancora: “Mai regalare arazzi gratis”. Lascio decidere a voi. Atena strappò le tele di quella competizione, per quanto belle fossero. Perché, onestamente, credo che nessuno sia uscito molto bene da quell’incontro. Potreste esservi fatti l’idea che Atena… be’, come dirla senza essere offensivo… avrebbe dovuto avere la saggezza di una dea, ma anche lei non sempre faceva le scelte più intelligenti. Innanzitutto, era molto permalosa. Per esempio, la volta che inventò il flauto. Un giorno passeggiava nei boschi vicino ad Atene, quando si imbatté in un nido di serpenti sibilanti e pensò: “Accidenti, un fascio di lunghi tubi che fanno rumore”. Ed ecco che le venne l’idea di un nuovo strumento musicale. Svuotò una canna, le fece qualche buco, soffiò dentro una delle estremità e ne trasse una musica incantevole. All’inizio era molto orgogliosa del suo flauto. Non era nemmeno la dea della musica, e tuttavia aveva inventato un suono fantastico. Portò il flauto sull’Olimpo, ansiosa di mostrarlo agli altri dei, ma non appena cominciò a suonare, le dee si misero a ridacchiare e a bisbigliare tra loro. Atena si fermò nel mezzo di una melodia. — Cosa c’è di tanto divertente? — Niente — rispose Afrodite, la dea dell’amore. — La musica è bellissima, mia cara — disse Era sforzandosi di non ridere. Ora, a dire la verità, le altre dee erano un po’ intimidite da Atena, perché era così forte e intelligente. Ma dietro le spalle la prendevano in giro e cercavano di escluderla dalla loro cricca. E Atena dal canto suo le disprezzava. Pensava che fossero sciocche e superficiali. Ma voleva ugualmente integrarsi, e il fatto che la schernissero la faceva davvero arrabbiare. — Perché ridete, allora? — chiese. — Be’… — Demetra soffocò un sorriso. — È solo che quando suoni incroci gli occhi e gonfi le guance, e poi fai quella smorfia buffa con le labbra. — Così… — E Afrodite diede una dimostrazione, facendo la sua migliore imitazione della faccia-da-flauto di Atena, che somigliava un po’ a quella di un’anatra che non riesce ad andare di corpo. Dei e dee scoppiarono a ridere. Atena corse via, profondamente umiliata. Ora direte che, essendo la dea della saggezza, avrebbe dovuto essere capace di riderci sopra anche lei e non lasciarsi condizionare; invece si sentì così avvilita che gettò via il flauto, il quale cadde sulla terra. E lanciò persino una maledizione: — Chiunque oserà suonare ancora quell’affare verrà colpito dalla sfortuna! Quel flauto poi fu raccolto, ma questa è una storia che racconterò più avanti… Dopo quell’episodio, Atena diventò ancora più suscettibile riguardo al proprio aspetto. Come dea della guerra aveva già deciso che non si sarebbe mai sposata. Non aveva nessuna intenzione che un uomo pretendesse di essere il suo signore e padrone, e non aveva tempo per quelle stupidaggini sdolcinate di cui andava sempre cianciando Afrodite. Quindi era molto gelosa della propria privacy. Una sera decise di andare a farsi una nuotata in uno specchio d’acqua nella Grecia centrale, così, per rilassarsi un po’. Nuotava nuda, e mentre era in piedi sotto una cascata a godersi la pace e il silenzio, sentì una specie di singulto strozzato. Guardò verso la riva e vide un mortale, vecchissimo, che la fissava a bocca aperta, gli occhi spalancati come due dracme. Atena strillò. Il vecchio strillò. La dea gli spruzzò l’acqua negli occhi e gridò: — Cecità! L’uomo perse la vista all’istante e per sempre. Gli occhi gli diventarono bianchi. Inciampò all’indietro, sbatté contro un albero e cadde col sedere a terra. — S-s-signora! — gemette. — Mi dispiace! Io non… non… — Chi sei? — gli chiese Atena. Il poveretto spiegò che si chiamava Tiresia. Era capitato da quelle parti solo per una passeggiata dalla vicina città di Tebe. Non aveva idea che lì ci fosse Atena, ed era davvero, davvero dispiaciuto. La rabbia della dea si smorzò, perché era evidente che l’uomo stava dicendo il vero. — Dovrai rimanere cieco — disse — perché nessun mortale può vedermi nuda senza essere punito. Tiresia deglutì. — Uhm… d’accordo. — Tuttavia — continuò Atena — dal momento che è stato un incidente, ti ricompenserò per la tua cecità elargendoti altri doni. — Tipo… un altro paio di occhi? — chiese Tiresia. La dea abbozzò un sorriso. — Una specie. D’ora in avanti sarai in grado di capire il linguaggio degli uccelli. Con il loro aiuto, e con il bastone che ti darò, potrai muoverti quasi come se avessi ancora la vista. Esattamente non so come potesse funzionare. Io mi sarei preoccupato che gli uccelli mi facessero degli scherzi, tipo: “Un po’ più avanti… gira a sinistra… ecco, e ora corri!”. E sarei caduto giù da una collina, o mi sarei scagliato a testa bassa contro un muro. Ma a quanto pare per Tiresia la cosa andò bene, e gli uccelli si presero sempre cura di lui. Questo dimostra anche come Atena fosse in grado di calmarsi e mitigare le punizioni che infliggeva. Una cosa che però non poteva sopportare erano i maschi che la corteggiavano. Il che ci porta alla storia tra lei ed Efesto. Okay, fate un respiro profondo, perché qui la faccenda si fa seria. Efesto era il dio fabbro tutto storpio. Di lui parlerò in seguito. Ora come ora, vi basti sapere che sin da quando aveva aiutato Atena a uscire dalla testa di Zeus aveva una cotta per lei. E questo è plausibile, perché entrambi si occupavano di arti e mestieri, entrambi erano grandi pensatori ed entrambi amavano risolvere problemi meccanici. Il fatto è che Atena odiava le romanticherie, e non voleva nemmeno tenersi per mano con un esponente del genere maschile, figuriamoci sposarlo. Anche se Efesto fosse stato affascinante, Atena lo avrebbe respinto. Ma Efesto era brutto al di là di ogni dire: brutto formato industriale con ributtanza extra. Cercò comunque di flirtare con lei nell’unico modo che conosceva, tipo: “Ehi, baby, vuoi venire a vedere la mia collezione di martelli?” e roba simile. Atena la Gelida provò ad allontanarsi di qualche passo, ma Efesto le zoppicò dietro. Lei non voleva mettersi a correre e urlare, perché non era una fanciulla mortale inerme o una di quelle stupide bambolotte che svenivano e sbattevano le ciglia in continuazione. Lei era la dea della guerra! Continuò quindi a camminare, dicendogli in malo modo di lasciarla in pace. Il poveretto sudava e ansimava come un pazzo, perché non era facile per lui muoversi su quelle sue gambe sciancate. Alla fine si lanciò su Atena e le cinse la vita con le braccia. — Ti prego — la implorò. — Tu sei la donna perfetta per me! Sprofondò il viso nella sua gonna, singhiozzando e facendosi colare il moccio dal naso, e un po’ del suo divino sudore e divino moccio si sparse sulla gamba nuda della dea, dove le falde della gonna si erano aperte, e Atena ovviamente gridò: — Che schifo! Spinse via Efesto con un calcio e afferrò il primo pezzo di tessuto che riuscì a trovare, forse un fazzoletto, o una salvietta, o qualcosa del genere. Si ripulì la gamba dalla schifezza del dio e gettò giù dall’Olimpo il fazzoletto sporco, che fluttuò lentamente fino a depositarsi sulla terra. Poi scappò via. Questa avrebbe potuto essere la fine della storia, ma a quel lembo di stoffa successe una cosa strana. Era impregnato sia dell’essenza di Atena sia di quella di Efesto e, chissà come, quando toccò il terreno divenne un bimbo mortale. Sull’Olimpo Atena lo sentì piangere. Cercò di ignorarlo, ma con sua grande sorpresa dentro di lei cominciò a svegliarsi l’istinto materno. Allora volò giù e prese il bambino. Capì come era stato generato, e sebbene tutta la faccenda le sembrasse ancora disgustosa, non poteva certo dare la colpa al piccolo. — Tecnicamente, immagino che tu sia mio figlio — concluse — anche se sono ancora una dea vergine. Sta di fatto che ti riconosco e ti battezzo Erittonio. (Ha avuto la possibilità di scegliere un nome, e ha tirato fuori questo? Valla a capire.) — Se devo allevarti — continuò — prima di tutto ti renderò immortale. Ho giusto qui una cosa… Prese una cesta e vi sistemò il bambino. Poi creò un serpente magico, e mise nella culla anche quello (questa è decisamente una cosa che non dovete fare, a casa). Il piccolo Erittonio si addormentò felice e contento, con il serpente arrotolato intorno. — Ecco — disse Atena. — Qualche giorno in questa cesta, e il serpente potenzierà le tue qualità divine. Smetterai di essere mortale ed entrerai a pieno titolo nei ranghi degli dei! Chiuse il canestro e lo portò sull’Acropoli di Atene, che era ovviamente il luogo a lei più sacro. Consegnò la cesta alle figlie di Cecrope, il primo re di Atene. — Non apritela! — raccomandò loro. — Deve stare chiusa, o accadranno cose tremende. Le principesse promisero, ma dopo solo una notte cominciarono a incuriosirsi. Erano assolutamente sicure che dentro ci fosse un bambino che gorgogliava, e temevano fosse in pericolo. — Che razza di dea è, quella che mette un bambino dentro una cesta? — borbottò una di loro. — Sarà meglio controllare. Le principesse aprirono il canestro e videro il serpente avvoltolato intorno al bambino. Non so perché la cosa le sconvolse così tanto. Forse scorsero una luce divina, là dentro, o qualcosa del genere, sta di fatto che impazzirono. Lasciarono cadere la cesta e si gettarono dalla rocca dell’Acropoli, dandosi la morte. Quanto al bambino, stava benissimo, ma l’incantesimo era stato rotto prima che potesse diventare immortale. Il serpente scivolò via e Atena andò a cullare il piccolo. Era furiosa, ma dal momento che non poteva punire le principesse, visto che erano morte, si rifece sul loro padre, il re Cecrope. Una volta cresciuto, Erittonio cacciò Cecrope e prese possesso di Atene. Ecco perché i re di Atene amavano dire che discendevano da Efesto e Atena, anche se quest’ultima rimase vergine per l’eternità. Quindi non venite a dirmi che Atena non può avere figli, perché questa storia dimostra il contrario. Oltretutto, io esco con una delle figlie di Atena, e sono sicurissimo che non è saltata fuori da un fazzoletto. Mmmh... Però non gliel’ho mai chiesto. No, lasciamo perdere. Preferisco non saperlo. TUTTI PAZZI PER AFRODITE Dico sul serio. Non ci si può sottrarre. Perché, vedete, Afrodite possedeva una cintura magica che aveva il potere di far innamorare di lei a prima vista. Se la guardavate e lei voleva che vi innamoraste, vi innamoravate. Quanto a me, sono stato fortunato. L’ho guardata, ma immagino che lei non fosse interessata a ottenere le mie attenzioni. Però non la sopporto lo stesso. Qualcuno di voi penserà: “Santo cielo! E sì che è così bella! Perché dovresti odiarla?”. Evidentemente non avete mai avuto occasione di incontrare la signora in questione. Afrodite è stata un problema fin dal momento in cui è emersa dal mare. E intendo dire letteralmente emersa dal mare. Non aveva genitori. Quando nel lontano passato Crono sparse i resti sminuzzati di Urano nel mare, il suo sangue immortale si mescolò con l’acqua salata e formò una macchia schiumosa che si solidificò in una dea. In altre parole, Afrodite nacque sulla scia del primo assassinio, il che dice tutto sulla sua vera natura. Dopo aver fluttuato per un po’ nel Mediterraneo in cerca di un buon approdo, finalmente decise per l’isola di Cipro. Per pesci e delfini fu un bel sollievo, perché quella dea nuda che scivolava sull’acqua circondata dalla sua aura luminosa cominciava a mandarli in paranoia. Afrodite sorse dal mare e prese a incedere sulla spiaggia. Dove camminava sbocciavano fiori, e gli uccelli si radunavano sui rami vicini a cinguettare le loro dolci melodie. Tutt’intorno a lei si rincorrevano coniglietti, scoiattoli, furetti e mille altre creature. Praticamente un cartone animato della Disney. Descrivere Afrodite è difficile, perché era la più bella donna del creato. Per ognuno questo potrebbe significare una cosa diversa. Bionda, bruna o rossa di capelli? Incarnato chiaro o scuro? Occhi azzurri, verdi o neri? Scegliete voi. Semplicemente, figuratevi la donna più attraente che potete immaginare: Afrodite era così. Il suo aspetto mutava per adattarsi alla persona che la guardava. Quel giorno le tre Ore, le dee delle stagioni, casualmente si erano incontrate proprio a Cipro, forse per decidere quali prodotti sistemare nel reparto frutta e verdura del supermercato locale. Di preciso non lo so. Videro Afrodite camminare verso di loro e scordarono tutto il resto. — Accidenti, quanto sei bella! — disse Estate. — Davvero? — chiese Afrodite, anche se lo sapeva già. Voleva solo sentirselo ripetere. — Abbagliante! — confermò Primavera. — Forse dobbiamo portarti a conoscere gli dei dell’Olimpo. — Ci sono altri dei? — Afrodite era stupita. — Io sono la dea dell’amore e della bellezza. Per cosa ci dovrebbe essere bisogno di altri dei? Autunno e Primavera si scambiarono uno sguardo cauto. — Ecco… per una serie di cose — rispose Autunno. — Però prima è meglio se ti mettiamo addosso qualcosa. Non hai freddo? — No — rispose Afrodite. — Perché dovrei coprirmi? Autunno avrebbe voluto gridare: “Perché sei maledettamente bella e fai sentire noi delle schifezze!”. Invece disse: — Se ti presenti così, farai impazzire di desiderio gli dei. E intendo impazzire nel vero senso della parola. — Oh — mormorò Afrodite facendo un po’ il broncio. — Ma non mi sono portata niente da mettermi. A questo pensarono le Ore. Evocarono un guardaroba magico e organizzarono una sfilata di moda. Primavera offrì alla dea un costume da coniglietto di Pasqua. Autunno pensò che sarebbe stata benissimo vestita da strega di Halloween. Entrambe le proposte furono cassate. Alla fine Estate tirò fuori un meraviglioso vestito di velo bianco. Glielo fecero indossare e le posero in testa una sottile corona d’oro; poi le misero gli orecchini e le adornarono il collo con una collana d’oro. Vestita, Afrodite era ancora più bella, cosa che Autunno trovò davvero indisponente; le tre dee delle stagioni si costrinsero però a sorridere. — Perfetto! E ora saliamo sull’Olimpo. Ormai ne sapete abbastanza di dei per immaginare cosa accadde quando comparve Afrodite. Le donne si misero immediatamente in modalità “la odio”. I maschi cominciarono subito a sbavare. — Sarebbe un grande onore per me sposarti — disse Apollo, dio della poesia e del tiro con l’arco. — No, sarebbe un onore per me! — lo sovrastò Ares, il dio della guerra. — Per me! — gridò Poseidone. — Tu sei già sposato! — scattò Zeus. — L’onore sarebbe mio. — Anche tu sei già sposato! — protestò Era. — Con me! — Accidenti! — esclamò Zeus. — Cioè, volevo dire, certo, mia cara. Gli dei litigarono e sgomitarono, poi offrirono ad Afrodite vari doni in cambio della sua mano. Poseidone dimenticò la moglie Anfitrite e promise alla dea dell’amore tutto il pesce alla griglia che sarebbe stata in grado di mangiare, un branco di cavalli e una serie di tridenti unisex da abbinare ai vestiti. Apollo compose qualche brutto haiku in suo onore e promise di darle lezioni gratuite di tiro con l’arco. Ares si offrì di portarla a fare un giro romantico sul cocchio per ammirare i corpi straziati e senza vita dei suoi nemici. Le altre dee erano disgustate. Cominciarono a gridare ai maschi di crescere una buona volta e smetterla di comportarsi da deficienti. L’intero consiglio olimpico era sull’orlo della guerra civile. Nel frattempo, Afrodite se ne stava lì in piedi limitandosi a sbattere le palpebre, come a dire: “Tutte queste scene solo per me?”. Ma nell’intimo la cosa la estasiava. Alla fine Era fece un passo indietro, respirò a fondo e capì che la sua divina famiglia stava per andare in malora. Essendo appunto la dea della famiglia, non poteva permetterlo, anche se il più delle volte avrebbe voluto lei stessa strangolare gli altri dei. Lanciò un’occhiata al capo opposto della stanza, dove un dio non stava partecipando al litigio. Se ne rimaneva seduto nell’ombra, silenzioso e avvilito, ben sapendo di non avere possibilità di competere per Afrodite. Era sorrise. Le era venuta un’idea, e posso dirvi per esperienza personale che quando a Era viene un’idea, è meglio darsela a gambe. Alzò le braccia e intimò: — Silenzio! Gli dei furono così stupiti che smisero di azzuffarsi. — Ho una soluzione — annunciò Era. — Come dea del matrimonio, ho la responsabilità di scegliere il miglior marito per la nostra cara nuova amica Afrodite. Sono certa che il mio consorte, Zeus, sosterrà la mia decisione… se necessario con la forza. — Io? — fece Zeus. — Cioè… certo, cara. Certo! — Bene, e allora? — chiese Ares. — Posso dire, madre, che oggi sei davvero bellissima? Chi sposerà Afrodite? — Mio figlio… — cominciò Era. Ares si illuminò di gioia. Ma la dea puntò il dito verso l’angolo opposto della stanza. — … Efesto, il fabbro. Efesto fu così sorpreso che cadde dal suo scranno, facendo rotolare rumorosamente a terra le stampelle. Mentre il poveretto cercava di tirarsi in piedi, Ares esplose: — Che cosa!? Come può costui sposare costei? E indicò Afrodite, che irradiava luce e osservava piena di orrore il dio fabbro, con le sue gambe malandate, la faccia deforme, la tuta piena di macchie e i resti di parecchi pasti aggrovigliati nella barba. — Insieme sono perfetti — decretò Era. — Una bella donna ha bisogno di un marito che lavori sodo, senza peli sulla lingua e senza troppe smancerie per tenerla con i piedi per terra! Secondo me quella fu la prima volta in cui fu usata l’espressione “con i piedi per terra” riferita a un’entità del cielo. — Oltretutto — continuò Era — Afrodite deve sposarsi immediatamente, o le discussioni a causa sua non finiranno mai. Non possiamo permettere che il consiglio degli dei piombi nel caos per una donna. Vero, Zeus? — Eh? — Zeus si era distratto ad ammirare le bellissime braccia di Afrodite. — Oh! Certo che no, mia cara. Hai assolutamente ragione. Atena, gli occhi accesi di una gioia crudele, si fece avanti. — Credo sia un’ottima idea. E io, dopotutto, sono la dea della saggezza. — Sì! — intervenne anche Demetra. — Afrodite merita un buon marito come Efesto. Gli dei maschi smisero di bofonchiare. Tutti volevano sposare Afrodite, ma dovevano ammettere che Era aveva ragione. Se se la fosse presa un marito decente, gli altri non avrebbero mai smesso di azzuffarsi e di sentirsi offesi. Ma se Afrodite avesse sposato Efesto… insomma, il poverino era uno scherzo della natura. Non si poteva essere gelosi di lui. Per di più, se Afrodite fosse stata costretta a un matrimonio infelice, ognuno di loro avrebbe avuto parecchie chance di diventare il suo amante segreto. — Bene, allora è deciso — disse Zeus. — Efesto, vieni qui! Il dio fabbro avanzò zoppicando. Aveva la faccia del colore dei pomodori maturi. — Efesto, vuoi tu prendere questa donna eccetera eccetera? — chiese Zeus. Efesto si schiarì la voce. — Afrodite, mia signora, lo so che non sono, ecco, molto avvenente… Afrodite non aprì bocca. Era troppo impegnata a essere bella e nauseata allo stesso tempo, cosa non facile. — Non sono un gran ballerino — proseguì Efesto. I sostegni ortopedici di metallo cigolarono. — Non sono spiritoso o affascinante. E non ho neppure un buon odore. Ma prometto di essere un marito amorevole. Sono bravissimo ad aggiustare le cose in casa, e se mai avrai bisogno di una chiave a croce, o di una sabbiatrice… — Puah — fece Afrodite trattenendo un conato di vomito. — Bene, tanto mi basta! — esclamò Zeus. — Vi dichiaro marito e moglie! Così Afrodite sposò Efesto, e la celebre coppia dominò le scene dei tabloid olimpici per qualcosa come mille anni. E vissero felici e contenti? AH AH AH AH AH! No. Afrodite girava il più possibile alla larga dal marito. Non ebbero mai figli. Cioè, Afrodite ebbe un sacco di figli… solo non con Efesto. Subito dopo essersi sposata, cominciò una storia con Ares, che diventò il segreto di Pulcinella del Monte Olimpo. Quando non era impegnata a spassarsela alle spalle del marito, trascorreva il tempo a far disperare gli altri dei e i mortali… cioè, scusate, intendevo dire ad aiutarli a scoprire i piaceri dell’amore! Afrodite prese dunque il proprio posto tra gli Olimpi come dea della bellezza, del piacere, delle frasi dolci, delle telenovelas, dei romanzi strappalacrime e, ovviamente, dell’amore. Per spostarsi, guidava un cocchio d’oro tirato da uno stormo di colombe bianche, anche se a volte, quando gli dei andavano in guerra, viaggiava con il suo amante Ares nel suo cocchio e gli teneva le redini mentre era impegnato ad ammazzare la gente. Aveva un gruppo di attendenti chiamati eroti: piccoli dei alati dell’amore. Il loro leader era Eros, figlio di Afrodite stessa, dio dell’attrazione fisica e killer prezzolato al servizio della mamma. Ogni volta che Afrodite voleva che qualcuno si innamorasse perdutamente, mandava Eros a colpire il povero gonzo con una freccia magica. Più tardi Eros fu chiamato Cupido. Compare ancora oggi in quei zuccherosi biglietti d’auguri di San Valentino. Potrà anche sembrarvi uno stupido, ma se Afrodite ve lo manda dietro, non ci sono santi: può farvi innamorare di chiunque. Se le piacete, vi fa innamorare di qualcuno gentile e attraente. Se invece è arrabbiata, è facile che vi faccia innamorare dell’essere più rivoltante che conoscete, o di un barboncino nano, o di un palo del telefono. Lo scherzo preferito della dea era fare innamorare una persona, ma far sì che non fosse contraccambiata. Quello per lei era il massimo del divertimento. Se vi è mai capitato di avere una cotta per qualcuno che non vi si fila per niente, ecco, è opera di Afrodite. Immagino ritenesse che, facendo così, sempre più persone l’avrebbero implorata con richieste tipo: “Oh, ti prego, fa’ che lui/lei mi noti! Ti offrirò in sacrificio una meravigliosa scatola di cioccolatini, promesso!”. A dire il vero nell’antica Grecia non c’era il cioccolato, ma tanto Afrodite andava pazza per le mele, il suo frutto sacro, forse perché erano così tonde e dolci, proprio come lei (qui inserire verso di vomito). Aveva decine di cose sacre – piante, animali e robe varie – a volte per un motivo particolare, a volte no. La rosa era uno dei suoi fiori, ecco perché viene ancora considerata un regalo romantico. Le piacevano anche i narcisi, e – reggetevi forte – la lattuga. Già. Quest’erba incredibilmente idilliaca era considerata l’ingrediente per eccellenza dell’insalata sacra ad Afrodite. C’era un perché, a cui arriveremo tra poco. Ma se un giorno vi capitasse di preparare un’insalata mista e cominciaste a sentirvi teneri e sdolcinati mentre spezzate le foglie di lattuga, adesso ne sapete il motivo. La pietra sacra ad Afrodite era la perla, dal momento che veniva dal mare proprio come lei. E i suoi animali preferiti erano il coniglio (chissà, forse pensava già alle ragazze coniglietto!) e l’oca, su cui vi capiterà a volte di vederla cavalcare all’amazzone. Perché l’oca? Non lo so. E comunque doveva essere un’oca molto grossa. Tutto quello che so è che se mi fosse mai capitato di vedere Afrodite cavalcare un’oca, sarei scoppiato a ridere. A quel punto probabilmente lei mi avrebbe maledetto, e sarei finito fidanzato con un impala o qualcosa di simile. Afrodite era una dea molto popolare perché tutti desideravano l’amore, ma lei non sempre andava d’accordo con i mortali, e neppure con i suoi compagni dei, se è per questo. Per esempio, una volta si ingelosì di Atena perché tutti lodavano la sua abilità di tessitrice. Ad Afrodite non piaceva che le luci della ribalta fossero puntate su qualcuno che non fosse lei. — Oh, che sarà mai tessere — disse. — Io lo potrei fare benissimo, se solo volessi. — Davvero? — sorrise Atena. — Osi sfidarmi? Non avete mai sentito parlare della grandiosa gara di tessitura tra Atena e Afrodite? Solo perché non fu grandiosa. Fu un totale disastro. La dea dell’amore non sapeva un accidente di tessitura. Non era Atena, e nemmeno Aracne. Non aveva mai fatto niente con le proprie mani, a parte combinare guai. Mentre Atena tesseva un arazzo meraviglioso, Afrodite riuscì a ingarbugliarsi nel filo, con i piedi legati allo sgabello e la testa bloccata contro il telaio. — E comunque tessere non mi piace nemmeno! — sbuffò mentre il marito Efesto tagliava tutto e la liberava. Da allora cercò di non criticare più le altre dee. Anzi, di tanto in tanto addirittura le aiutava. Ho già fatto cenno alla sua cintura magica? La indossava sotto la tunica, così gli innamorati non si rendevano conto di essere stregati. Ma non era una di quelle orrende guaine, fatte di stecche e tessuto che ti comprimono la ciccia. La cintura di Afrodite era una fusciacca leggerissima con sopra ricamate scene di corteggiamenti e storie d’amore, piene di bella gente che faceva belle cose (ovviamente non l’aveva ricamata lei, altrimenti sarebbe sembrata un disegno dell’asilo). Comunque, una volta Era gliela chiese in prestito, una richiesta parecchio audace, considerato che le due non andavano molto d’accordo. — Oh, Afrodite cara — disse Era — mi faresti un grosso favore? Afrodite le rivolse un meraviglioso sorriso. — Ma certo, mia amatissima suocera! Dopo tutto quello che hai fatto per me, come potrei rifiutare? Era strinse gli occhi. — Fantastico. Vorrei che mi prestassi la tua cintura magica. Afrodite si chinò verso di lei. — Ti sei invaghita di qualche bel mortale? — Certo che no! — Era arrossì come un pomodoro. Era la dea del matrimonio, lei non tradiva mai! Riuscì comunque a darsi un contegno. — Cioè… no, assolutamente. È solo che io e Zeus abbiamo litigato. Lui è impossibile, si rifiuta di parlarmi o di stare nella stessa stanza con me. Ma se indossassi la tua cintura… — Saresti irresistibile! — concluse Afrodite. — Oh, cara suocera, sono così felice che tu sia venuta da me a chiedere aiuto. Era da un po’ che cercavo di darti qualche consiglio di bellezza, ma non volevo oltrepassare i limiti del rispetto. È difficile essere una dea così matronale senza sembrare… matronale. Questa volta Era strinse i denti. — Certo, certo… la cintura? Così Afrodite le porse la magica fusciacca dell’amore, ed Era fece subito la pace con Zeus. Omero usa l’espressione “lo abbindolò”. A me personalmente non piace granché farmi abbindolare. Ma nel caso siate dispiaciuti per Zeus, sinceramente io non lo sono. Di quando in quando persino lui chiedeva aiuto ad Afrodite, e non era certo per cose belle o per questioni d’amore. Vi ricordate quando, agli albori della civiltà umana, il Titano Prometeo aveva donato il fuoco agli uomini? Bene, anche dopo che lo aveva punito incatenandolo a una montagna e fornendogli un’aquila mangia-fegato come compagnia, Zeus era ancora arrabbiato. Così si guardò intorno in cerca di altre persone da castigare. E alla fine decise: — La sapete una cosa? Punirò tutti. Tutti i mortali soffriranno per aver accettato in dono il fuoco. E troverò un sistema subdolo, così non se la prenderanno con me per i loro problemi. Farò in modo che diano la colpa alla famiglia di Prometeo… La mia vendetta sarà ancora più dolce! Ora, Prometeo aveva un fratello minore, Epimeteo, che non era esattamente il pulcino più sveglio della covata. Poco prima che Zeus lo trascinasse alla Città delle Torture, Prometeo aveva avvertito suo fratello: — Epimeteo, sta’ in campana. Probabilmente Zeus cercherà di punirti soltanto perché sei imparentato con me. Non accettare mai nessun dono dagli dei! — Campana? — disse Epimeteo. — Ma come faccio a stare in una campana? — Sei senza speranza — borbottò il fratello. — Insomma, vedi di stare attento! Io devo andare, ho questa faccenda con la montagna e l’aquila… Zeus decise di mandare a Epimeteo un regalo-trappola. Se fosse riuscito a farglielo aprire, ne sarebbe uscito uno stormo di spiriti maligni che avrebbero causato ogni tipo di guaio ai mortali. I quali avrebbero chiesto consiglio all’Oracolo, come facevano sempre, e l’Oracolo avrebbe detto: “Oh, tutta colpa di Epimeteo”. E Zeus si sarebbe fatto una bella risata. Il problema era che non riusciva a far accettare a Epimeteo nessun regalo. Il ragazzo ricordava l’avvertimento del fratello e si rifiutava di ritirare pacchetti da sconosciuti o da dei. Zeus gli mandò a casa Ermes con un pacco regalo. Niente da fare. Efesto si truccò da tecnico del satellitare e offrì a Epimeteo un pacchetto Alta Definizione con tutti i canali Premium dedicati allo sport. Epimeteo lo cacciò via. Zeus era così esasperato che cominciò a lamentarsi con gli altri dei: — Quel tizio, Epimeteo. Voglio solo fargli avere un regalino stupido, in modo che lo apra e scateni morte e miseria sulla razza umana! Chiedo troppo? Ma lui è un testone! Qualcuno ha un’idea? Gli dei si agitarono a disagio sui loro troni. Alla fine intervenne Afrodite: — Zeus, signore, forse dovresti tentare un approccio diverso… offrire qualcosa che nessun uomo potrebbe rifiutare. — Ma ho già tentato con la fibra ottica gratis! — replicò lui. — Con tutti i canali sportivi! — No, mio signore — fece Afrodite sbattendo le ciglia. — Intendo dire l’amore. Forse Epimeteo ha bisogno di una moglie. Se tu riuscissi a piazzargli una moglie in casa, lei sì che potrebbe accettare il dono che intendi mandargli. Se tutto viene gestito nel modo giusto… — L’idea mi piace! — A dire la verità Zeus non aveva sentito una sola parola di quello che Afrodite aveva detto, perché era troppo impegnato a guardarla pensando: “Accidenti, quanto è bella”. Ma dato che tutti gli altri dei annuivano, immaginò che il piano dovesse essere buono. Sotto la direzione di Afrodite, gli dei crearono dal nulla la donna perfetta. Efesto fornì l’argilla e le istruzioni tecniche su come costruire il corpo. Atena la dotò di intelligenza e curiosità. Cosa più importante, Afrodite le instillò la bellezza e il fascino, per renderla irresistibile. La chiamarono Pandora, che tradotto liberamente significa “tutti i doni”, ovvero “pacchetto completo”. Alcune leggende sostengono che Pandora sia stata la prima donna creata, e che precedentemente la sua comparsa gli umani fossero tutti maschi. Io non lo so, ma la cosa mi suona poco convincente e anche noiosa. Comunque, era un dieci e lode su tutti i fronti. Afrodite se ne accertò personalmente. Pandora sarebbe stata l’arma perfetta degli dei per seminare guai. La condussero fin sotto la veranda di Epimeteo, suonarono il campanello e corsero a nascondersi ridendo. Quando lui andò ad aprire, vide questa donna bellissima che gli sorrideva. — Ciao, sono Pandora e ti amo. Posso entrare? — Sì — rispose Epimeteo. E si dimenticò completamente dell’avvertimento di Prometeo. Era impensabile che quella bellissima fanciulla facesse parte di qualche inganno! Epimeteo e Pandora si sposarono prima del tempo necessario a dire “matrimonio a Las Vegas”. Gli dei non furono invitati alla cerimonia nuziale, ma Afrodite andò a portare un regalo. Dato che era indirizzato a Pandora, Epimeteo non poteva certo rifiutarlo. Si trattava di un pithos di ceramica, una grossa giara per conservare i cibi, con un tappo in cima e un bel nastro di seta bianca annodato sul manico. — Oh, tesoro, guarda! — disse Pandora. — È perfetto per tenerci l’olio d’oliva! Epimeteo, ancora sospettoso, borbottò: — Io non lo aprirei. — Tuo marito ha ragione — disse Afrodite annuendo. — No, Pandora… il vaso è solo per bellezza. Non aprirlo mai. Potresti pentirti di voler sapere quello che c’è dentro. Ma non appena la dea se ne fu andata, Pandora cominciò a essere divorata dalla curiosità. Non era colpa sua: era stata creata per essere curiosa. Non faceva che pensare a quella giara. Riuscì a trattenersi per parecchi giorni, finché un mattino, quando il marito era fuori in giardino, si sedette davanti al vaso e cominciò a guardarlo, cercando di immaginare cosa ci fosse dentro. Perché gli dei avrebbero dovuto mandarle un regalo e poi dirle di non aprirlo? Non era giusto! — Devo vedere cosa c’è dentro — mugugnò. — Oh, ci saranno senz’altro cose meravigliose! E tirò via il tappo. Non fu meraviglioso. Zeus aveva riempito il vaso fino all’orlo di qualche ziliardo di spiriti maligni, che si riversarono fuori e si sparsero per il mondo, portando miseria, malattia, piede d’atleta, fame, alito cattivo e morte alla razza umana. Improvvisamente essere un mortale fu mille volte peggio di quanto non fosse stato prima, e non era mai stato facile. Probabilmente gli esseri umani si sarebbero uccisi per la disperazione – buttandosi giù dalle montagne come le principesse ateniesi pazze – ma dal vaso uscì anche uno spirito buono, forse perché Zeus aveva avuto un attacco di vergogna. Elpis, lo spirito della speranza, rimase con loro, così non si arresero del tutto. Potevano sempre sperare che le cose migliorassero. Se vi siete mai chiesti perché gli umani soffrono così tanto, è stato tutto per quello stupido vaso. A questo punto in teoria dovremmo dire: “Complimenti, Pandora! Grazie mille!”. A quei tempi, gli scrittori (che erano tutti maschi) dicevano: — Vedete? Questa storia dimostra che le donne sono delle gran piantagrane! È sempre colpa loro! Epimeteo e Pandora, Adamo ed Eva. Questo gioco di dare la colpa alle donne sta andando avanti da un sacco di tempo. Ma non so perché critichiamo Pandora per essere stata curiosa, o per non aver eseguito gli ordini, o chissà cosa. Lei era stata creata per aprire quel vaso… e dagli dei stessi! La vera domanda è: cosa credeva Afrodite? Se sapeva che tutta la faccenda di Pandora avrebbe messo le donne in cattiva luce per l’eternità, perché si era prestata? Se posso dire la mia, ritengo che semplicemente non le importasse nulla delle conseguenze. Voleva rendere bella Pandora. Voleva dimostrare che l’amore sarebbe riuscito là dove gli altri dei avevano fallito, anche se questo avesse comportato un disastro cosmico. Complimenti, Afrodite. Grazie mille! A voler essere giusti, non sempre le sue creazioni riuscivano così male. Una volta ebbe pietà di uno scultore di nome Pigmalione, che viveva a Cipro, l’isola preferita della dea. Questo tizio non era interessato alle donne del posto, secondo lui tutte rozze e maleducate. Uscivano con chiunque avesse un po’ di soldi e un bel cocchio. Non credevano nell’amore vero. Anzi, molte non credevano nemmeno che esistesse Afrodite, il che faceva arrabbiare Pigmalione. Lui era orgoglioso della sua dea “nazionale”, anche se non aveva ancora trovato la sua AG (Anima Gemella). Era assolutamente convinto che là fuori ci fosse qualcuno perfetto per ciascun essere umano. Nel tempo libero, Pigmalione scolpì una statua d’avorio di Afrodite a grandezza naturale, perché la dea era il suo ideale di donna. La statua risultò così bella che gli fece venire le lacrime agli occhi. Per lui, in confronto, tutte le altre donne sembravano brutte. “Oh, perché non posso trovare una donna come questa?” pensava. “Dolce, gentile, amorevole e meravigliosa, proprio come Afrodite!” Temo non conoscesse molto bene la vera personalità della dea. Quando venne il tempo della festa locale in onore di Afrodite, Pigmalione andò al tempio e offrì un grande sacrificio di rose e perle (e probabilmente anche un po’ di lattuga). Era troppo timido per confessare il suo vero desiderio: voleva sposare la fanciulla d’avorio. Ma si rendeva conto che era una cosa stupida. Non si può sposare una statua! Invece pregò: — Oh, Afrodite, fa’ che io trovi una donna meravigliosa come te, bella come la statua d’avorio che ho in laboratorio. Su, sul Monte Olimpo, Afrodite udì la sua supplica. — Oh, ma che dolce! — esclamò con un gran sospiro. Quando Pigmalione tornò a casa, rimase a fissare per un bel po’ la sua statua. E gli venne l’impulso irresistibile di baciarla. — Ma è una follia — si rimproverò. — È solo una statua! Eppure non riuscì a trattenersi. Controllò che nessuno stesse guardando, poi andò verso la fanciulla d’avorio e le piantò un bel bacio sulle labbra. Con sua grande sorpresa, quelle labbra erano calde. La baciò di nuovo, e quando si allontanò, la fanciulla d’avorio non era più d’avorio. Era una donna viva e così bella che Pigmalione si sentì dolere il petto. — Ti amo! — disse lei. Dopo che Pigmalione ebbe ripreso i sensi, chiese alla sua donna perfetta di sposarlo. Si celebrarono le nozze, ebbero un po’ di bambini e vissero felici e contenti. La cosa strana? Che le storie non ci dicono nemmeno come si chiamasse la fanciulla d’avorio. Probabilmente Afrodite direbbe: “Oh, non importa! Assomigliava a me. È tutto quello che avete bisogno di sapere”. Giusto. Dunque Afrodite era una del genere Dio-ce-ne-scampi-e-liberi ma guai-se-non-ci-fosse. A volte aiutava gli dei e i mortali, altre causava un sacco di guai. A un certo punto Zeus cominciò a essere scocciato dalle sue interferenze. Le dava la colpa di tutte le avventure galanti che aveva avuto con le donne mortali, perché era molto più facile che biasimare se stesso. Sedeva sul suo trono mugugnando: — Stupida dea dell’amore, mettermi di nuovo nei guai con mia moglie! Afrodite fa sempre innamorare la gente quando non è il momento. Dovrei fare innamorare lei di un umile mortale, e vedere se la cosa le va a genio. L’idea lo fece sentire molto meglio. Lanciò allora un incantesimo su Afrodite. Non so come. Forse le mise qualcosa nel nettare, o tentò una terapia shock con i suoi fulmini. In ogni caso, la fece innamorare di un mortale di nome Anchise. Anchise era bello, ma era solo un pastore, quindi la dea era fuori dalla sua portata. Ciò nondimeno, un giorno Afrodite guardò giù dall’Olimpo, vide il tizio sdraiato mollemente sull’erba, bello rilassato a badare alle sue pecore, e ne fu profondamente colpita. — Oh, benedetta me! — strillò. — I pastori sono così sexy! Perché non me ne sono accorta prima? Dobbiamo metterci insieme immediatamente. Pensò di usare suo figlio Eros come messaggero. Magari avrebbe potuto portare ad Anchise un biglietto con la domanda: TI PIACE AFRODITE? _ SÌ _ NO. Ma poi decise in modo diverso. Anchise probabilmente avrebbe avuto troppa paura per uscire con la dea dell’amore. Peggio ancora, se gli fosse apparsa nella sua vera forma, avrebbe potuto terrorizzarlo, o addirittura ucciderlo per sbaglio. Il suo povero cuore avrebbe potuto cedere, o avrebbe potuto incendiarsi. Il che avrebbe rovinato il primo appuntamento. Pensò allora di travestirsi da vergine mortale. Si fece un bel bagno caldo, si mise una tunica di seta e si spruzzò di profumo floreale. Poi volò sulla terra e camminò verso Anchise, per la serie: “Trallallà, ero giusto qui che passeggiavo in questo pascolo con il mio miglior abito da sera”. Quando la vide, ad Anchise quasi uscirono gli occhi dalla testa. — Wow. Devi essere una dea. Chi sei… Atena? Artemide? Magari addirittura Afrodite? La dea arrossì. Era molto compiaciuta di essere stata riconosciuta, ma non osava ammettere apertamente la propria identità. — No, stupido. Sono solo una vergine mortale straordinariamente bella. Mi capitava di passare di qui e…oh, wow! Ma tu sei Anchise? Ho sentito parlare di te! Lui la guardò perplesso. — Davvero? — Assolutamente sì! Sono una tua grande fan. Credo proprio che dovremmo sposarci! Anchise avrebbe dovuto capire che c’era sotto qualcosa. Di solito da quelle parti non gli capitavano bellezze mozzafiato che gli chiedevano di sposarlo. Ma si sentiva solo, e in più i suoi continuavano a rompergli le scatole con la faccenda del matrimonio. Chissà cos’avrebbero pensato se avesse portato a casa quella tizia! — Ma certo, benissimo — disse. — Vieni, ti presento i miei. Abitano proprio qui vicino. Una cosa tira l’altra, e Anchise sposò la misteriosa fanciulla mortale. Trascorsero una fantastica luna di miele. Poi un mattino Afrodite si svegliò e scoprì che l’incantesimo di Zeus si era spezzato. Capì quello che aveva fatto e si sentì profondamente imbarazzata. Non aveva previsto che la fregassero convincendola a sposare umili mortali! In teoria era quello che lei faceva fare agli altri dei! Si vestì in fretta, ma Anchise si svegliò proprio mentre si stava allacciando i sandali. Notò che la sua sposa era soffusa di luce. — Tesoro? — chiese. — Sei sicura di non essere una dea? — Oh, Anchise! — pianse Afrodite. — Mi dispiace così tanto! Probabilmente sono stata stregata. Altrimenti non mi sarei mai innamorata di uno come te. — Grazie mille. — Non si tratta di te. Sono io! Non posso sposare un mortale. Sono certa che capirai. Ma non ti preoccupare. Quando nostro figlio sarà nato… — Nostro figlio? — Già — disse la dea. — Io sono molto fertile. Di sicuro sono già incinta. Comunque, il bambino sarà un maschietto. Lo alleverò io finché non avrà cinque anni, dopodiché te lo affiderò. Diventerà un grande principe e ti renderà orgoglioso. Solo, promettimi che non rivelerai a nessuno la vera identità di sua madre! E lui promise. Era un po’ scocciato di essere stato scaricato e di dover divorziare, ma mantenne il segreto. Cinque anni più tardi gli giunse il figlio dall’Olimpo. Si chiamava Enea, e in effetti divenne un grande principe della città di Troia. Più tardi, quando Troia cadde, Enea salpò verso l’Italia e diventò il primo capo di un nuovo popolo, i Romani. Quanto ad Anchise, un giorno che ormai era vecchio e sbadato e se la stava spassando con gli amici, si lasciò scappare che la vera mamma di Enea era Afrodite. La notizia si sparse. La dea dell’amore ne fu mortificata. Andò a lamentarsi con Zeus: — È cominciato tutto per colpa tua! Per pareggiare i conti, Zeus sparò un fulmine e incenerì Anchise per non aver mantenuto la promessa. Un altro lieto fine! Pensate forse che dopo tutto questo Afrodite abbia rinunciato ai mortali? Se la risposta è “no”, allora state imparando. Un’ultima storia su di lei, che mostra come le sue maledizioni potessero anche rivoltarlesi contro. C’era dunque una principessa greca di nome Smirne che si rifiutava di adorare Afrodite, e la dea si arrabbiò talmente tanto che maledisse Smirne facendola… sapete una cosa? È così orribile che non riesco a proseguire. Dirò solo che a un certo punto Smirne si ritrovò incinta, ed era una situazione brutta, ma brutta davvero. Così brutta che quando suo padre lo scoprì, si mise a inseguirla per i boschi sguainando una spada e gridando: — Io ti ammazzo! Ti ammazzo! Smirne implorò gli dei: — Vi prego! Non è colpa mia! Salvatemi! Rendetemi invisibile! Gli dei non la resero invisibile, ma la trasformarono in un albero di mirra. Sono sicuro che Smirne fu loro immensamente grata. Nove mesi dopo l’albero si aprì e ne ruzzolò fuori un bimbo. Quando Afrodite sentì il piccolo vagire nel bosco, le venne qualche senso di colpa. Scese dall’Olimpo e lo raccolse. Era così carino che decise di tenerlo e di allevarlo in segreto. Perché in segreto? Perché Afrodite era una tipa possessiva. Il bambino era adorabile, e lei non voleva condividere il suo amore con nessun altro. Ma dato che i bimbi danno un sacco di lavoro, e Afrodite aveva un’agenda parecchio fitta di impegni, presto si rese conto che non poteva badare al piccolo giorno e notte. Decise allora di affidarlo a qualcuno che gli facesse da baby-sitter. Scelse Persefone, la dea degli Inferi. Potrebbe sembrare una scelta un po’ azzardata, ma Persefone viveva giù nell’Erebo, e così nessuno sull’Olimpo sarebbe mai venuto a sapere del bimbo. Persefone, che si sentiva piuttosto sola, fu felicissima di avere un bel bambino che le tenesse su il morale. E Afrodite pensò che Persefone non costituisse una minaccia: voglio dire, vi prego! Le avete visto i capelli? Come si veste? No, non aveva nulla di cui essere gelosa. Chiamò il bambino Adone e lo tenne in una scatola, che serviva come incubatrice. (Un’altra storia di un bimbo riposto in un contenitore. Non so cosa sia questa moda, ma ripeto: a casa vostra non mettete i bambini nelle scatole, o nelle ceste. Non è così che funziona.) Le due dee si spartivano la custodia del piccolo, spostandolo avanti e indietro tra il covo segreto di Afrodite a Cipro e il palazzo di Persefone negli Inferi; così per tutta l’infanzia Adone si dimenticava sempre dove lasciava i compiti e dov’erano le scarpe da calcio. Alla fine diventò un bellissimo giovanotto. Credetemi, è troppo poco, non rende l’idea. Adone divenne il tizio più bello mai esistito al mondo. Com’era esattamente? Non lo so. Confesso che non faccio molta attenzione ai ragazzi, scusatemi. Immaginatevi solo il più figo, il più stiloso, il primo nella lista delle massime celebrità che potete immaginare. Ecco, Adone era meglio. A un certo punto – e quasi contemporaneamente – Persefone e Afrodite realizzarono che Adone non era più un bambino: era un potenziale fidanzato. E fu allora che cominciarono le lotte. — È mio — disse Persefone. — Sono stata io a badare a lui per la maggior parte del tempo. — Non se ne parla! — protestò Afrodite. — Sono stata io a trovarlo in quell’albero! Oltretutto, è evidente che io gli piaccio di più. Vero, pasticcino? Adone deglutì imbarazzato. — Ecco… Non esisteva la risposta giusta. Dopotutto, voi chi avreste scelto? Afrodite era la dea più bella dell’universo, però, be’… era Afrodite. Tutti volevano stare con lei, ma se eri il suo ragazzo qualsiasi altro uomo al mondo ti avrebbe odiato. E poi, Afrodite non era certo famosa per la sua fedeltà. Persefone a modo suo era molto carina, soprattutto in primavera, quando le era permesso passeggiare sulla terra; ma anni nel sottosuolo l’avevano resa fredda e pallida, persino un po’ inquietante. Di rado si innamorava dei mortali. Decisamente amava Adone, però lui non era certo di voler essere il suo ragazzo, se questo significava restare in quel posto buio che era l’Erebo, circondato da fantasmi e maggiordomi zombie. E poi era sicuro che a Ade la faccenda non sarebbe andata a genio. — Io… non riesco proprio a decidermi — disse allora. — Siete entrambe splendide. Così le due dee lo portarono sul Monte Olimpo e chiesero a Zeus di risolvere la questione. A Zeus luccicarono gli occhi. — Sei un ragazzo fortunato, Adone. Lui tanto fortunato non si sentiva. Gli sembrava di essere l’ultima fetta di torta a una festa di compleanno con una decina di bambini affamati, ma annuì nervosamente. — Sissignore. — La soluzione è semplice — decretò Zeus. — Vi dividerete il suo tempo! Afrodite corrugò la fronte. — Si può fare con un fidanzato? — Ma certo! — rispose Zeus. — Adone passerà un terzo dell’anno con te, un terzo dell’anno con Persefone e un terzo dell’anno per conto suo, a fare quello che gli pare. — E diede una pacca sulla spalla al giovane. — Un uomo deve avere un po’ di tempo per rilassarsi, lontano dalle donne. Ho ragione o no, fratello? — Immagino… immagino di sì, fratello. Lo sguardo di Zeus si incupì. — Non chiamare fratello il Signore dell’Universo. Comunque, direi che è tutto sistemato! Il piano per un po’ funzionò, ma per Persefone il periodo dell’anno da trascorrere con Adone cadeva sempre durante la stagione fredda, così si trovò ad avere la parte peggiore del patto; e a Adone il mondo degli Inferi non piaceva. Doveva passare gran parte del tempo nascosto dentro gli armadi, o infilarsi sotto il letto ogni volta che Ade bussava alla porta, dal momento che il dio non sapeva del fidanzato segreto di Persefone. Alla fine Afrodite conquistò Adone con le sue paroline dolci e il suo fascino. Lo convinse a passare con lei anche la parte di anno libera, e in questo modo si accaparrò due terzi di tempo, il che la portò a guardare Persefone con spocchia. Per un po’ Afrodite e Adone costituirono una coppia felice. Ebbero persino una figlia, che chiamarono Beroe. Come finì la relazione? Male, ovviamente. Un giorno Adone era a caccia nei boschi, cosa che adorava fare quando non era con Afrodite. I suoi cani colsero l’odore di un animale e gli corsero dietro. Adone li seguì armato di lancia. Quando riuscì a raggiungerli, era stanco e senza fiato. Purtroppo i cani avevano braccato un cinghiale, che guarda caso era l’animale più feroce e malvagio che potessero andare a stanare. Alcune storie dicono che fosse stato messo lì dal dio della guerra Ares. La cosa ha senso, dato che si trattava del suo animale sacro, e Ares era il fidanzato divino di Afrodite. Altre versioni dicono che fosse stata Artemide, la dea della caccia, a mettere il cinghiale sul cammino di Adone. O forse fu la stessa Persefone, perché era stata mollata ed era gelosa. Avrebbe potuto essere praticamente qualsiasi divinità perché, come ho detto, quando stai con Afrodite è inevitabile che tutti ti odino. Qualunque fosse il motivo, il cinghiale si lanciò contro Adone e gli conficcò le zanne proprio nel punto più doloroso che potete immaginare, cosa che sarebbe stata divertente, se non fosse stato che Adone cominciò a perdere sangue e morì. Poco dopo ad Afrodite capitò di volare da quelle parti con il suo cocchio tirato dalle colombe. Vide il corpo senza vita di Adone e corse al suo fianco. — No! — gemette. — Mio povero, povero amore! Anche nella morte sei bellissimo. Adagiò il suo corpo su un morbido letto di lattuga, che è il motivo per cui è diventata la sua pianta sacra. Da allora i Greci la chiamarono “cibo dei morti”. Pensavano che se ne mangiavi troppa, saresti diventato apatico e incapace di provare amore, proprio come il defunto Adone. Comunque, Afrodite spruzzò nettare d’oro sul corpo dell’innamorato, che si dissolse trasformandosi in fiori color rosso sangue. Li chiamano anemoni, dalla parola greca anemoi, che significa “venti”. Ogni volta che la brezza li scuoteva, i petali volavano via con un dolce profumo che ricordava ad Afrodite la fragranza di Adone. La dea rimase triste e pianse la sua morte per un’intera giornata. Poi ritornò dal suo boyfriend divino, Ares, proprio quello che avrebbe potuto essere il responsabile. Se volete conoscerlo meglio, passate al prossimo capitolo. Ma portatevi il giubbotto antiproiettile e il fucile. Ares non fa prigionieri. ARES, IL PIÙ MACHO Ecco, Ares è quel tipo lì. Quello che ti ruba i soldi per il panino, che ti prende in giro in autobus, che ti incastra le mutande tra le natiche nello spogliatoio della palestra. Quello che spacca le ossa agli avversari negli incontri di football e prende brutti voti in ogni materia, ma è ugualmente molto popolare perché è divertentissimo quando infila la testa dei piccoletti pelle e ossa dentro il water. Se i bulli, i gangster e i teppisti pregassero un dio, pregherebbero Ares. Già appena nato, i genitori capirono subito che sarebbe stato un piantagrane. Era e Zeus avrebbero tanto desiderato amarlo, perché era il loro primogenito. Ma invece di essere carino e gorgogliare suoni dolci o persino piangere per chiamare la mamma, il piccolo venne fuori già incazzoso, agitando i piccoli pugni. Presentandolo a Zeus, Era faticava a tenerlo in braccio. — Mio signore — disse — il tuo primogenito. Zeus allungò una mano per solleticare il piccolo sotto il mento. Ares afferrò il dito del padre con entrambe le manine e lo torse. Snap! Poi si percosse il minuscolo petto e strillò: — ROAR! Zeus si esaminò l’immortale dito, che ora pendeva con una strana angolazione. — Sai… forse dovremmo assumere una tata. — Buona idea — concordò Era. — Una tata grande e grossa. Con un sacco di pazienza… e una buona copertura sanitaria. Così assunsero una signora di nome Tero. Doveva essere stata una ninfa dei monti, o qualcosa del genere, perché era forte e robusta, e niente riusciva a turbarla. Portò Ares in terra di Tracia, un posto arido e roccioso nella Grecia settentrionale, pieno di neve, montagne frastagliate e tribù bellicose: il luogo perfetto per un neonato dio della guerra. Crescendo, Ares non pianse mai per il biberon o il ciuccio. Lui ruggiva per avere sangue. Molto presto imparò a lanciare sassi agli uccellini per farli cadere in volo. Strappava le ali agli insetti per affinare le sue capacità prensili. Rideva come un matto mentre imparava a camminare pestando fiori e schiacciando animaletti. Nel frattempo, Tero sedeva su un masso lì vicino a leggere i rotocalchi di pettegolezzi olimpici, gridando ogni tanto: — Fai il bravo, piccolo delinquente! Già, giorni felici, quelli. Alla fine Ares divenne adulto e tornò sul Monte Olimpo per prendere possesso del posto che gli spettava di diritto nel comitato degli dei. Ovviamente diventò il dio della guerra (e qui un consiglio da amico: se gli chiedete se è lui il tipo del videogame God of War, sappiate che vi strapperà un braccio e lo userà per prendervi a botte in testa). Diventò anche il dio della violenza, della brama di sangue, delle armi, dei banditi, dei saccheggi, delle città rase al suolo e di tutti quei divertimenti per famiglie dei bei tempi andati. Era anche il dio della forza e del coraggio virile, il che era abbastanza buffo, dal momento che le poche volte che si era trovato davvero coinvolto in un combattimento corpo a corpo con un altro dio era scappato via come un coniglio. Credo sia una cosa tipica dei bulli. Ares fu il primo a darsela a gambe quando il gigante Tifone si mise a distruggere il mondo. Un’altra volta, durante la guerra di Troia, la lancia di un mortale greco lo infilzò nella pancia. Lui ruggì così forte da far sembrare che a gridare fossero diecimila uomini. Poi se ne scappò sull’Olimpo e andò a piangere e a lamentarsi da Zeus: — Non è giusto! Non è giusto! Zeus gli disse di piantarla. — Se non fossi stato mio figlio — mugugnò — ti avrei tolto il titolo di dio e buttato giù a calci anni fa. Non sei altro che un piantagrane! Da scaldare il cuore, l’armonia che regnava nelle famiglie degli dei. Nonostante queste occasionali vigliaccherie, Ares non era certo uno da far arrabbiare. Quando andava in battaglia, indossava un’armatura d’oro che irradiava una luce abbagliante. Gli occhi mandavano fiamme, e se poi aveva anche l’elmo, era troppo spaventoso perché i mortali potessero anche solo guardarlo, figurarsi combatterci. La sua arma preferita era l’asta di bronzo. Lo scudo grondava costantemente sangue e brandelli di carne. Già, lui era proprio così, un tipo amichevole. Quando non aveva voglia di camminare, guidava un cocchio da guerra tirato da quattro cavalli che sputavano fiamme. Di solito tenevano le redini i suoi figli gemelli, Fobo e Deimo (Paura e Panico), che si divertivano a contare tutti quelli che travolgevano: “Cinquanta punti se schiacci quella fila di arcieri! Cento punti se prendi quel vecchio!”. Così capirete perché l’animale sacro di Ares fosse il cinghiale, che carica chiunque, è pressoché impossibile da uccidere e ha un gran brutto carattere. Uno dei suoi uccelli sacri era l’avvoltoio, perché dopo le battaglie banchettava con i cadaveri. Il rettile favorito era invece il serpente velenoso. In molte raffigurazioni vedrete che ne tiene uno in mano, oppure ce l’ha dipinto sullo scudo. Non aveva invece un fiore sacro. Chissà perché… Oltre a un appartamento sull’Olimpo, dove gli piaceva intrattenersi con Afrodite, aveva una fortezza personale sui monti di Tracia. Era la vera, perfetta tana da maschio. Il castello era completamente fatto di ferro: muri di metallo nero, cancelli di metallo, torri scure, torrioni appuntiti e una fortificazione centrale con sbarre alle finestre. Il sole riusciva a malapena a filtrare all’interno: aveva troppa paura per farlo. Corridoi e stanze erano stipati di bottini di guerra: alcuni trofei li aveva pretesi Ares stesso, altri gli erano stati offerti in sacrificio dai guerrieri mortali. Aveva qualcosa come dieci milioni di spade e scudi, abbastanza armature da vestire l’intera popolazione dell’India, montagne di cocchi danneggiati ed equipaggiamenti da assedio, vecchie bandiere, lance e faretre piene di frecce. Se dovesse uscire una serie televisiva incentrata su collezionisti compulsivi che siano anche survivalisti apocalittici, il regista sceglierebbe come ambientazione la fortezza di Ares. C’era anche un sacco di roba di valore. Da sola, la sua collezione di pistole probabilmente valeva una fortuna. Ma la fortezza era custodita da decine di dei minori della guerra, come Tradimento, Rabbia, Minaccia, Furia e Gestacci. Sulla porta Ares aveva anche messo un cartello che avvertiva: NON PREOCCUPATEVI DEL CANE DA GUARDIA, PIUTTOSTO VEDETE DI STARE ATTENTI AL PROPRIETARIO! Tra i Greci non era molto venerato. Nei suoi confronti provavano gli stessi sentimenti che nutriva Zeus verso di lui. Faceva parte della famiglia degli Olimpi: dovevano tollerarlo. A volte lo temevano. Ma era un frignone e un rompiscatole e finiva sempre per ammazzare qualcuno. Certo, c’erano delle eccezioni. Gli abitanti di Sparta? Andavano pazzi per Ares. Ovvio, erano gli “uomini veri” della Grecia, i maschi più maschi che mangiavano chiodi e steroidi a colazione, quindi immagino che la cosa avesse senso. Nel centro della città avevano una statua di Ares tutto incatenato, perché il concetto era che se lo tenevano in ceppi non poteva abbandonarli, per cui avrebbe sempre dato loro coraggio e vittorie. In suo onore, gli spartani facevano anche sacrifici umani, quindi ora capite perché andassero così d’accordo con lui. Purtroppo questi sacrifici compromettevano un filino i flussi turistici verso Sparta. Su in Tracia, le terre settentrionali dove Ares era stato cresciuto, i mortali lo adoravano sotto forma di spada. Chissà, forse dipingevano una faccina sorridente sulla lama e la chiamavano “signor Ares”. Ma quando era il momento di sacrificare pecore, vacche o persone, affilavano la sacra spada, e allora sì che era un vero macello! Un altro fan club di Ares? Il regno delle Amazzoni. Là erano le donne ad avere il potere, e quelle signore sapevano come combattere, credetemi. Le prime Amazzoni erano figlie semidee di Ares. Era stato lui in persona a dare alla regina originaria una cintura magica che conferiva poteri straordinari in battaglia. Le regine successive se la tramandarono di generazione in generazione. Ares buttava sempre un occhio alle Amazzoni, quando andavano in battaglia. Quelle femmine guerriere amavano così tanto il bellicoso paparino che gli costruirono un tempio su un’isola nei paraggi, tempio custodito da alcuni uccelli a lui sacri. Immaginatevi uno stormo di sei milioni di corvi, dotati di penne acuminate come frecce che potevano essere scagliate con forza sufficiente a perforare il cranio di una pecora. Proprio così… l’isola era molto ben custodita. E se questo non vi sembra un tributo sufficientemente amorevole per il dio della guerra, Ares aveva anche due boschi sacri: uno nella Grecia centrale e l’altro in una terra chiamata Colchide, sulle lontane coste orientali del Mar Nero. Erano due tetre foreste di querce dove si poteva andare a pregare per ottenere la vittoria in battaglia; ma bisognava essere parecchio coraggiosi, perché ognuna era protetta da un drago. Anche questi due mostri enormi erano figli di Ares. Chissà chi era la madre. Come aveva fatto un dio ad avere dei draghi per figli? Non lo so, ma non c’erano dubbi che le due bestiole avessero ereditato la personalità del padre. Attaccavano qualunque cosa si muovesse, e adoravano banchettare con carne umana. Se riuscivi a raccogliere uno dei loro denti – che cadevano continuamente, un po’ come i denti degli squali – lo potevi piantare in terra e coltivarti degli sparti, o guerrieri-scheletro. Riuscire a trovare un dente però era una gran botta di fortuna. I draghi non dormivano mai, sputavano veleno, avevano un udito sopraffino e detestavano i mortali che si avvicinavano in cerca di souvenir gratuiti nella Bottega del Regalo del Bosco Sacro. Alla fine furono uccisi entrambi, il che fu una cosa molto triste per… be’, direi solo per Ares. Per prima fu uccisa la cara bestiolina della Grecia centrale. C’era questo tizio di nome Cadmo che se ne andava a spasso alla testa di un pugno di coloni per fondare una nuova città. L’Oracolo di Delfi gli aveva detto di seguire una certa mucca, e quando la bestia fosse caduta sfinita, quello era il luogo dove costruire la sua città. Boh. Voi seguireste un tipo che segue una mucca? A quanto pare ai compagni di Cadmo non sembrava così strano. Gli andarono dietro fino a che l’animale non crollò a terra, e allora applaudirono tutti. — Questo è il punto! — esclamò Cadmo. — Cominciamo i lavori di costruzione! Oh, e che ne dite se uccidiamo la vacca e la sacrifichiamo agli dei? Al che probabilmente la vacca si pentì di essersi fermata, ma ormai era troppo tardi. I coloni si misero al lavoro. Dopo alcune ore, al gruppetto venne caldo e sete. — Ho bisogno di bere! — disse uno. — Qualcuno ha portato delle bibite? Cadmo si accigliò. Lo sapeva che avrebbe dovuto prendere la borsa termica! E non avevano neanche visto un negozio decente lungo la strada. Fece correre lo sguardo all’orizzonte, finché non scorse in lontananza un fitto bosco di querce. — Gli alberi hanno bisogno di parecchia acqua — ragionò. — Laggiù dev’esserci un fiume, o almeno un ruscello. — Indicò alcuni compagni. — Voi cinque andate in quel bosco con qualche secchio e portateci dell’acqua. E se trovate, che ne so, un McDonald’s o roba del genere, anche quello andrebbe benissimo. Come avrete già immaginato, quegli alberi erano il bosco sacro di Ares. Il ruscello c’era, d’accordo. Gorgogliava dentro una grotta proprio in mezzo al bosco, andando a formare una bella pozza di acqua fresca, che si dà il caso fosse anche il posto dove si abbeverava il drago. I cinque entrarono nel bosco con i loro secchi. Trovarono la grotta. — Che cosa sono tutte queste cose aguzze per terra? — chiese uno. — Teste di freccia? — ipotizzò un altro. — Nah, assomigliano a denti di drago — disse un terzo. Tutti risero nervosamente. I draghi non esistono, giusto? Poi comparve il drago e se li mangiò. Solo che uno di loro riuscì a scappare, probabilmente perché la bestia era troppo sazia per corrergli dietro. Il tizio tornò al cantiere gridando terrorizzato: — UN DRAGO! ENORME! CHE MANGIA LA GENTE! Mentre i coloni si radunavano intorno a lui, Cadmo riuscì a calmare il sopravvissuto quel tanto che bastava per ottenere un resoconto completo. Poi afferrò la sua fedele lancia. — Non esiste che un drago qualsiasi si mangi i miei operai — proclamò. Dal fondo della folla un sacerdote si schiarì la voce: — Ecco, signore… Quel bosco ha tutta l’aria di essere un luogo sacro ad Ares. Se uccidi il drago del dio della guerra… — Devo farlo! — insistette Cadmo. — La mucca mi ha detto di costruire la città qui, e non posso avere un drago come vicino! Vorresti tu negare la saggezza di una mucca morta, vecchio? — Oh… no. Certo che no, signore. — E il sacerdote decise di tenere la bocca chiusa. Cadmo marciò nel bosco con la sua lancia, e dal momento che era un vero duro si diresse dritto verso il drago (che era davvero troppo sazio per affrontare un regolare combattimento) e gli conficcò la lancia direttamente nella testa. Subito accanto a Cadmo tremolò una luce e apparve la dea Atena. — Ben fatto, Cadmo! — disse. — Hai ucciso il drago di Ares. Cadmo sbatté le palpebre. — Quindi… non sono nei guai? — Oh, certo che se nei guai, e grossi! — esclamò la dea tutta allegra. — Un giorno Ares avrà la sua vendetta, ma per ora sei sotto la mia protezione. Ho bisogno che tu fondi una grande città, che si chiamerà Tebe. — Nel punto dove è caduta la vacca? Perché l’Oracolo è stato molto preciso. — Sì, sì, lì va bene. Prima, però, le cose importanti. Avrai bisogno di qualche buon guerriero per difendere la tua nuova città. Prendi i denti di questo drago e seminali, proprio come fossero semi. Innaffiali con un po’ di sangue, e vedrai cosa accadrà! E Atena scomparve. Cadmo non era convinto di dover rubare l’apparato dentale del drago, soprattutto visto che sapeva di essere già sulla lista nera di Ares, ma fece come aveva comandato la dea. Quando ebbe finito con la semina dei denti, dal terreno sbucò un bello stuolo di guerrierischeletro super scelti, che diventarono i primi soldati del nuovo esercito tebano. Cadmo costruì la sua città. Per un po’ le cose andarono per il verso giusto. Gli dei gli fornirono persino una dea minore per moglie: Armonia, figlia di Afrodite e Ares stesso. Armonia diventò mortale per condividere la vita con Cadmo, il che era considerato decisamente un grande onore. Dal canto suo, Ares non era per niente contento. Prima di tutto, questo Cadmo aveva ucciso il suo drago. In secondo luogo, gli altri dei si erano assestati sulla posizione: “Oh, no, non puoi ucciderlo! Cadmo è destinato a fondare un’importante città!”. Come se Tebe fosse importante. Per favore! Che razza di nome è Tebe? Non è figo come Sparta. Oltretutto, in Egitto c’era già una città chiamata Tebe, così averne un’altra in Grecia rischiava di creare confusione! Poi, ciliegina sulla torta, gli altri dei avevano decretato che quel bastardo assassino di draghi dovesse sposare sua figlia. Niente affatto divertente. Per il bene della figlia, Ares cercò di rimanere calmo; però odiava il genero. Un giorno vide Cadmo vicino al bosco sacro, che osservava il punto dove anni prima aveva ucciso il drago. Per qualche ragione, la cosa lo fece uscire completamente dai gangheri. Il dio si materializzò davanti al genero. — Che cosa stai guardando, bulletto? Il punto dove hai ucciso il mio drago? I rettili non ti piacciono, eh? Ebbene, la sai una cosa? Ora sarai uno di loro! ZAC! E trasformò Cadmo in serpente. Purtroppo, la regina Armonia arrivava giusto da quelle parti in cerca del marito. Vide quello che era successo e gridò: — Papà! Che cos’hai fatto? — Se l’è meritato! — ringhiò Ares. — Ma io lo amo! Ritrasformalo immediatamente! — Dunque preferisci lui a me? È così? Allora forse ti farà piacere raggiungerlo! — ZAC! E trasformò la sua stessa figlia in un altro serpente, dopodiché il re e la regina di Tebe strisciarono via. Fu così che Ares ebbe la sua vendetta. Ma quando i serpenti Cadmo e Armonia morirono, Zeus mandò le loro anime nei Campi Elisi, così che potessero vivere insieme felici e contenti per l’eternità (però non ditelo ad Ares: probabilmente si precipiterebbe là e li prenderebbe a randellate). Quanto all’altro bosco sacro di Ares, quello in Colchide, laggiù le cose andarono un po’ diversamente. Il re di quelle parti si chiamava Eeta. Il suo unico motivo di fama era che il Vello d’Oro – la magica pelle di montone con cui sono imparentato io – era finito nel suo regno, il che rendeva il luogo immune da malattie, invasioni, crolli del mercato, visite da parte di Justin Bieber e la maggior parte degli altri disastri naturali. Eeta non era figlio di Ares, ma era un fedelissimo della prima ora. Si adoperava con ogni mezzo per scatenare guerre e uccidere quanta più gente possibile, solo per accumulare punti sulla carta fedeltà del Programma Premi di Ares. In breve si era aggiudicato un bel bottino. Ares inviò il suo secondo figlio drago a custodire il Vello d’Oro, appeso a una quercia nel bosco sacro di Eeta. Il drago era mansueto solo con quest’ultimo, e lo lasciava raccogliere i suoi denti. Dopodiché Eeta andava nello speciale campo di Ares e li piantava, per avere soldati freschi ogni volta che ne aveva bisogno. Attenzione: non aveva un trattore qualsiasi. Ares gli aveva dato un aratro particolare trainato da buoi di metallo dal respiro infuocato. E perché si riparasse dal fuoco, gli aveva fornito un’armatura a prova di fiamme, a prova di pallottole e a prova di qualunque altra cosa, che aveva vinto durante la guerra con i giganti (un’altra storia ancora). Come se i buoi di ferro, i guerrieri-scheletro e il drago non fossero sufficiente garanzia di sicurezza, Eeta costruì anche un muro tutt’intorno all’area, così che nessuno potesse avvicinarsi al campo o al bosco. Considerando che il suo regno di Colchide era praticamente ai confini del mondo conosciuto, le probabilità che qualcuno venisse a rubare il Vello d’Oro erano davvero scarse. Ovviamente, a rubare il Vello d’Oro qualcuno venne. Il suo nome era Giasone. Anche questa però è una lunga storia che mi riservo di raccontare in un altro momento. Per adesso lasceremo Eeta in Colchide, tutto tronfio, fiducioso e grande fan di Ares, a pensare: “Oh, quanto sono figo”. Ma nemmeno il dio della guerra poteva passarla liscia uccidendo di continuo. A volte doveva dare spiegazioni agli altri dei. Anzi, fu l’imputato nel primo e unico processo per divino assassinio: l’episodio pilota di Law & Order: Olimpo. Andò così: c’era questo fesso di un semidio figlio di Poseidone di nome Alirrozio. Non ho nessuna intenzione di considerarlo mio fratello. Solo il nome dovrebbe dirvi che era una totale nullità. Ricorda una qualche malattia della gola. Credo che mi limiterò a chiamarlo Al. Comunque, Al viveva ad Atene, e si innamorò di questa bellissima principessa ateniese di nome Alcippe, che si dà il caso fosse figlia di Ares; solo che Alcippe non voleva avere niente a che fare con lui. Un figlio di Poseidone? Che schifo! Al non si dava per vinto. Seguiva Alcippe dappertutto, la stalkerava su Facebook, sabotava i suoi appuntamenti e fondamentalmente si comportava da bastardo. Poi una sera la mise con le spalle al muro in un corridoio. Quando lei cercò di fuggire, la gettò a terra. La ragazza cominciò a gridare, scalciare e implorare aiuto. Alla fine le venne in mente di gridare: — Papà! Ares! La cosa funzionò. In una frazione di secondo comparve Ares, che afferrò il giovanotto e lo staccò con uno strattone da Alcippe. — IMPORTUNARE MIA FIGLIA? — tuonò così forte da far tremare le guance del ragazzo. — Mi dispiace, signore! — si scusò precipitosamente Al. — Rinuncio! Non farmi del male! — Oh, certo che non ti farò del male — replicò Ares. — Ti ucciderò e basta! Tirò fuori un coltellaccio e trasformò Al in un pezzo di formaggio svizzero semidivino. Poi lo scaraventò a terra e, per stare sul sicuro, lo prese a calci per diversi minuti. La scena fu così raccapricciante che rimase sulle prime pagine dei giornali per settimane. I giornalisti mortali si chiedevano: “Violenza divina contro i mortali: è andata troppo oltre?” procurando al Monte Olimpo un bel po’ di fama negativa. Poseidone pretese che Ares fosse processato per omicidio, dal momento che Al era suo figlio. — Ma è stata legittima difesa! — sbottò Ares. — Legittima difesa? — ribatté il dio del mare fumando dalle narici. — Il ragazzo si era arreso, e tu l’hai pugnalato seicento volte e poi gli hai pestato la faccia con i piedi. Come può essere legittima difesa? — Stavo difendendo mia figlia! Quel teppista di tuo figlio stava per aggredirla! Poseidone e Ares si rimboccarono le maniche per prepararsi alla lotta – il che sarebbe stato fantastico, perché mio padre non avrebbe fatto alcuna fatica a disintegrare quell’idiota – ma Zeus li fermò. — Basta! — sbraitò. — Ci sarà un regolare processo, come richiesto. Io sarò il giudice. Gli altri dei saranno la giuria. Il processo contro Ares si svolse su una collina di Atene. Zeus fece le cose in grande: convocò i testimoni ed esaminò le prove. Non so cosa sarebbe successo se Ares fosse stato condannato. Forse Zeus lo avrebbe gettato nel Tartaro, o lo avrebbe destinato a mille anni di servizio civile, a raccogliere spazzatura a bordo autostrada. Alla fine invece gli dei decisero che Ares era innocente. Certo, aveva esagerato un po’ maciullando il corpo di Al in quel modo, ma di fatto lui aveva importunato sua figlia, e questo non era bello. Solo gli dei possono farla franca con cose del genere! La collina dove si tenne il processo è ancora là. Se vi capita di passare per Atene, andate a dare un’occhiata. Si chiama Areopago, “colle di Ares”, e nei tempi antichi gli ateniesi vi costruirono un tribunale dove tenevano i processi per omicidio. Suppongo avessero pensato che se quel posto era stato idoneo a processare Ares, allora lo era anche per i loro assassini mortali armati d’ascia, gli psicopatici e quant’altro. Per come la penso io, sono d’accordo che Ares avesse il diritto di difendere sua figlia, ma continuo a ritenere che Poseidone avrebbe dovuto farlo a polpette, solo perché sarebbe stato uno spettacolo divertentissimo. Un’altra storia sul dio della guerra, perché voglio concludere con qualcosa che lo mostri come un inetto totale (il che, onestamente, non è poi così difficile). Accadde un giorno che due giganti, due fratelli di nome Oto ed Efialte, decisero che volevano distruggere gli dei. Perché? Probabilmente perché li aveva istigati mamma Gea, o forse semplicemente perché si annoiavano. I due gemelli venivano chiamati Aloadi, che significa “distruttori”. Non so se avessero anche costumi da lottatori gemelli. Come la maggior parte dei giganti erano… be’, giganteschi. Cominciarono a smembrare le montagne e a metterle l’una sopra l’altra per fare una torre d’assalto da cui distruggere a sassate il Monte Olimpo, proprio come Zeus aveva distrutto il Monte Otri nei tempi passati. Gli dei guardarono giù dal loro palazzo e videro questi due giganteschi giganti impilare le montagne e farsi sempre più vicini. Allora Zeus disse: — Qualcuno dovrebbe fermarli. — Già — convenne Era. Nessuno si offrì volontario. Era passato poco tempo dal fallimento dell’impresa con il gigante delle tempeste Tifone, e tutti erano ancora un po’ scossi. L’idea di mettersi a combattere contro due massicci giganti non li attirava troppo. Alla fine Era disse: — Ares, tu sei il dio della guerra. Perciò sta a te andare a combatterli. — Io? — fece Ares con un pigolio. — Cioè… ovvio che potrei distruggerli, se solo volessi. Ma perché io? Anche Atena è la dea della guerra. Mandate lei! — Ah, ma io sono saggia — replicò Atena. — Saggia abbastanza da insistere perché lo faccia tu. Ares imprecò, ma non poté controbattere a una logica tanto ferrea. Prese la sua armatura, balzò sul cocchio e si lanciò a zigzag sul fianco dell’Olimpo, gridando e agitando la lancia. I giganti non ne furono affatto impressionati. Si aspettavano un attacco. Anzi, avevano preparato una trappola con un bel mazzo di catene extrastrong che avevano costruito per l’occasione, e che stesero a terra sul percorso del cocchio, coprendole poi con rami, ghiaia e cose così. Quando Ares caricò, i giganti si misero uno da una parte e uno dall’altra e diedero uno strattone a ogni estremità della catena, che si sollevò e fece inciampare i cavalli. BANG! La quadriglia partì in volo. Il cocchio esplose in un milione di pezzi. Ares non aveva la cintura di sicurezza, quindi fece anche lui un volo di qualche centinaio di metri, cadde rovinosamente a terra e si sarebbe rotto il collo, se fosse stato mortale. Mentre era ancora lì intontito, i giganti lo legarono con le enormi catene e lo trascinarono via. — Caspita — notò Atena dando una sbirciata giù dall’Olimpo. — Stanno facendo prigioniero Ares. — Accidenti, un vero peccato — sbadigliò Poseidone. — Dovremmo aiutarlo — suggerì Era, ma persino lei non sembrava troppo convinta. Prima che qualcuno degli dei potesse decidere cosa fare, gli Aloadi sparirono tra le montagne. Portarono Ares in una remota caverna e lo infilarono in un otre di bronzo, dove rimase a soffocare e a sudare per tredici mesi. Per tutto il tempo cercò di rompere le catene, ma erano troppo forti per lui. Urlò e imprecò e minacciò, e quando cominciò a indebolirsi, senza nettare da bere e ambrosia da mangiare, si limitò a piagnucolare implorando di essere liberato. Zeus si guardò bene dall’organizzare una spedizione di salvataggio. Gli Aloadi continuavano a mandare richieste di riscatto. — Apri i cancelli o distruggeremo tuo figlio! Ehi, diciamo sul serio! Va bene, va bene, che ne dici allora di oro per il valore di un milione di dracme? Guarda che gli facciamo del male! Avanti, ragazzi! Abbiamo imprigionato il vostro consanguineo in un vaso! Non lo volete indietro? Dall’Olimpo nessuna risposta. Ares avrebbe potuto prosciugarsi fino a svanire, il che a me sarebbe andato benissimo; ma i gemelli giganti avevano una matrigna di nome Eribea, che era di animo gentile ed ebbe pietà del dio. O forse si era semplicemente rotta di sentirlo piagnucolare. Una sera scivolò fuori dalla caverna e trovò il messaggero degli dei, Ermes. — Ehi — gli disse. — Posso mostrarti dove viene tenuto prigioniero Ares. Potresti intrufolarti dentro e salvarlo. Ermes arricciò il naso. — Devo proprio? — Be’… se non lo fai, i miei figliastri prima o poi si stancheranno di chiedere un riscatto — spiegò Eribea. — E allora completeranno la loro torre d’assedio fatta di montagne e distruggeranno l’Olimpo. Ermes sospirò. — Già, in effetti… e va bene. Così il messaggero degli dei si intrufolò nella grotta e salvò Ares. Insieme tornarono in volo sul Monte Olimpo, dove la vista di Ares pallido e rinsecchito fece montare la rabbia e lo sdegno negli altri dei. Odiavano Ares, ma a nessuno era permesso di trattare un membro dell’Olimpo in quel modo. Così si mobilitarono, e alla fine riuscirono a distruggere i gemelli Aloadi. Quanto ad Ares, presto ritornò al suo peso forma da battaglia e fece finta che l’incidente non fosse mai avvenuto; ma da allora ebbe sempre un occhio di riguardo per i prigionieri di guerra. Se ti azzardavi a maltrattarli, lui ti trovava subito e ti faceva un discorsetto a cuore aperto. Sviluppò anche una profonda fobia per i vasi. Credo che gliene regalerò uno per Natale. EFESTO MI FABBRICA UN LAMA D’ORO (NON SUL SERIO, MA AVREBBE POTUTO BENISSIMO) Se pensavate di vedere l’album di Efesto da piccolo, vi è andata male. Era un neonato così brutto che la sua affettuosa madre Era lo gettò giù dall’Olimpo come un sacchetto di spazzatura. Se qualcuno gli avesse davvero scattato una foto, questa avrebbe mostrato il piccolo Efesto rotolare tra le nuvole con uno sguardo sorpreso, per la serie: “MAMMINA, PERCHÉ?”. E poi cosa accadde? Be’, ovviamente Era sperava di non rivedere mai più il figlioletto. Invece alla fine Efesto tornò indietro come un boomerang, colpendola in testa. A me lui piace un sacco. Il piccolo Efesto cadde in mare, dove fu salvato dalla più influente delle cinquanta Nereidi marine, Teti. Quella che in seguito salvò Zeus quando gli altri dei lo legarono come un salame. Teti era molto dispiaciuta per il povero bimbo. Decise allora di allevarlo in una caverna segreta in fondo al mare. A lei la bruttezza di Efesto non disturbava. Viveva in mezzo a meduse, anguille e rane pescatrici, quindi il piccolo non le sembrava poi malaccio. Certo, aveva le gambe deformi e troppo rachitiche per sopportare il proprio peso senza stampelle o tutori ortopedici. Ed era un po’ troppo peloso, tanto che doveva radersi cinque volte al giorno già da bambino. Il faccino era rosso e bitorzoluto come se vivesse in un alveare di api africane assassine, ma la parte superiore del corpo era forte e robusta. Aveva mani abili e un’intelligenza acuta. Crescendo, sviluppò un notevole talento per l’edilizia e le arti manuali, proprio come i ciclopi. Gli davate un secchiello di Lego, tornavate dopo un’ora ed ecco che il piccolo aveva costruito un missile balistico a lungo raggio. Teti però non voleva impadronirsi del mondo. Lei voleva solo avere tanti gioielli. Così mise Efesto al lavoro per fabbricarle elaborate collane d’oro, stupendi braccialetti di perle e corallo e corone al neon che si accendevano e mandavano sul display messaggi diversi tipo BUON ANNO e VOI SIETE QUI; e infatti, quando andava alle feste, era sempre quella con i monili più appariscenti. Efesto passò nove anni in fondo all’oceano come fabbro personale di Teti. Il lavoro gli piaceva, e voleva bene alla sua matrigna, ma continuava a meditare vendetta nei confronti di Era. Nel tempo libero lavorava a un mobile molto speciale – un dono pericoloso per la sua pericolosa madre – e sognava il giorno in cui avrebbe potuto far ritorno sull’Olimpo. Finalmente ultimò il suo progetto e salutò Teti. — Mia adorata matrigna. — Efesto si inginocchiò ai piedi della Nereide, cosa non facile per via delle gambe storte ingabbiate nei tutori d’oro. — Devo tornare a casa e prendere il mio posto tra gli dei. Teti aveva sempre saputo che quel momento prima o poi sarebbe arrivato, ma pianse comunque. — Non ti apprezzeranno — lo avvertì. — Ti giudicheranno sempre e soltanto per il tuo aspetto. — E allora vuol dire che sono stupidi — concluse Efesto. — Non m’importa di quello che pensa la gente. Mia madre mi ha buttato via. Deve pagare per l’oltraggio. Teti non poté controbattere. Gli augurò buona fortuna ed Efesto intraprese il viaggio verso l’Olimpo. Cavalcava un asino, perché gli asini gli piacevano. Erano brutti, testoni e buffi, ma forti e resistenti. Si identificava in loro. E se sottovalutavi o trattavi male un asino, era facile che ti beccassi un calcio nei denti. Dietro, caracollava una lunga teoria di muli carichi di doni speciali per gli dei. Efesto cavalcò direttamente fin dentro la sala del trono. Tutti gli dei ammutolirono per l’imbarazzo. — E costui chi sarebbe? — chiese Ares. Era fece un singhiozzo strozzato. — Non può essere. — Mammina! — la salutò Efesto con un sorriso. — Sono io, Efesto! A Zeus andò il nettare di traverso. — Ho sentito male, o ti ha appena chiamato “mammina”? Efesto scese a fatica dal suo asino, facendo tintinnare i tutori delle gambe. — Oh, non ti ha mai parlato di me, padre? (In realtà Zeus non era proprio suo padre, dal momento che Era aveva creato il bambino per conto suo; ma Efesto decise di non soffermarsi troppo sui particolari tecnici.) — Probabilmente una semplice disattenzione — si premurò di giustificarla con un sorriso grottesco. — Sai, Era mi ha gettato giù dall’Olimpo appena nato. Ma non ti crucciare. Come potete ben vedere, cari genitori, sono sopravvissuto! — Oh… — balbettò Era. — Che… cosa fantastica. Efesto raccontò di come fosse cresciuto in fondo al mare. — E ho portato dei regali! — Scaricò le some dai muli. — Nuovi troni per tutti! — Troni! — Ares balzò in piedi e cominciò a saltellare tutto eccitato. Gli altri dei furono un po’ più cauti, ma non appena videro i manufatti di Efesto, si entusiasmarono anche loro. Per Zeus ci fu un seggio d’oro massiccio con porta-coppa sui braccioli, supporto lombare e una rastrelliera per i lampi incorporata. Il trono di Demetra era a forma di pannocchia d’oro e d’argento. Poseidone ebbe una sedia da capitano di lungo corso con l’incastro per il tridente e la canna da pesca. Il trono di ferro di Ares era rivestito di pelle e irto di fastidiosi spuntoni, con i braccioli avvolti da fil di ferro. — Stupendo — disse il dio. — È pelle corinzia? — A dire il vero, pelle umana — precisò Efesto. Ad Ares si inumidirono gli occhi. — Questo è il regalo più… che io… che io abbia mai… I nuovi troni avevano in dotazione anche le rotelline, che potevano essere inserite a piacere, così in men che non si dica gli Olimpi si misero a schizzare per il palazzo, volteggiando sui loro seggi. — E tu avresti fatto tutti questi oggetti? — Apollo fece correre la mano lungo lo schienale del suo trono a forma di arpa gigante. — Ma sono meravigliosi! — Già — confermò Efesto. — Sono il dio della metallurgia e delle arti manuali. Sono in grado di fare pressoché qualunque cosa. — Sorrise a Era. — Madre, tu non provi il tuo trono? La dea era rimasta accanto al suo nuovo seggio forgiato in adamantino: un metallo durissimo, extraresistente, di un bianco abbagliante, un incrocio tra l’argento e il diamante. Era la cosa più bella che avesse mai visto, ma aveva un po’ paura a sedercisi sopra. Non riusciva a credere che Efesto fosse così carino con lei. Ciononostante, vedendo gli altri dei roteare per la stanza e divertirsi un mondo, alla fine cedette. — D’accordo, figlio mio. Il trono è davvero bellissimo. Si sedette. Immediatamente funi invisibili si avvolsero intorno a lei, così strette da non farla quasi respirare. — Agghhh — boccheggiò. Cercò di cambiare forma. Niente da fare. Più resisteva, più le funi la stringevano. Cercò di rilassarsi. Le corde invisibili strinsero finché il suo viso non diventò pallido, gli occhi cominciarono a uscire dalle orbite e tutto l’icore che aveva in corpo andò a raccogliersi nelle mani e nei piedi. — Madre? — chiese Ares. — Perché sei seduta così rigida? E perché ti si stanno gonfiando mani e piedi, e stanno brillando come se fossero d’oro? Era riuscì a pigolare solo un flebile: — Aiuto! Gli dei si girarono verso Efesto. — Va bene — brontolò Zeus. — Che cos’hai fatto? Efesto sollevò le sopracciglia cespugliose. — Perché, padre? Pensavo che avresti approvato. Ora avrai una moglie molto più silenziosa. Anzi, a dire il vero non si muoverà mai più da quella sedia. Era squittì allarmata. — Mi hai buttato via — le ricordò Efesto. — Ero brutto e deforme, e per questo mi hai gettato giù dalla montagna. Voglio che tu soffra per questo, madre cara. Pensa a tutte le cose che avrei potuto fare per te se mi avessi trattato bene. Allora forse capirai di esserti disfatta di una cosa di valore. Non bisognerebbe mai giudicare un dio per il suo aspetto. E con questo, Efesto zoppicò verso il suo asino, vi salì in groppa e si allontanò. Nessuno degli dei cercò di fermarlo. Forse erano preoccupati che i loro troni potessero esplodere, o che dai sedili spuntasse qualche lama di frullatore. Efesto raggiunse il mondo mortale e aprì bottega in una città greca. Fabbricava ferri di cavallo, chiodi e altri semplici oggetti che non richiedevano troppa concentrazione. Aveva sperato che la vendetta lo avrebbe fatto stare meglio, ma non era così. Si sentiva persino più svuotato e arrabbiato di prima. Nel frattempo, sull’Olimpo, gli altri dei avevano cominciato a stancarsi dei lamenti di Era. Avevano tentato di tutto per liberarla: pinze trancia-cavi, fulmini, grasso di maiale, WD-40. Niente. Alla fine Zeus disse: — Quando è troppo è troppo. Ares, vai a cercare tuo fratello Efesto e convincilo a liberare sua madre. Ares fece un sorriso crudele. — Oh, lo convincerò, eccome se lo convincerò. Preparò il suo cocchio. Indossò l’armatura d’oro fiammante, afferrò la lancia grondante sangue e lo scudo cosparso di brandelli di carne. I figli Fobo e Deimo fecero partire i cavalli che sputavano fuoco, e il cocchio schizzò giù dall’Olimpo. Corsero attraverso la città dei mortali, suscitando panico e travolgendo chiunque si trovasse sul loro cammino. Alla fine irruppero nel cortile della bottega di Efesto, dove il dio stava aggiustando una teiera. I cavalli si impennarono e lanciarono uno sbuffo di fiamme. Fobo e Deimo scatenarono ondate di puro terrore che causarono sessantacinque infarti nel circondario. Ares puntò la lancia contro Efesto. — TU ORA LIBERERAI ERA! Efesto sollevò gli occhi. — Togliti dai piedi, Ares. — E continuò a martellare la sua teiera. Fobo e Deimo si scambiarono occhiate confuse. La lancia di Ares tentennò. Si era aspettato tutt’altra reazione. Ci provò di nuovo. — LIBERA ERA, O ASSAGGERAI LA MIA FURIA! I cavalli soffiarono fiamme che andarono a circondare Efesto, ma sembrava che al massimo gli facessero il solletico. Il dio fabbro sospirò. — Ares, prima di tutto le minacce non mi piacciono. In secondo luogo, credi forse di essere forte perché non fai altro che combattere? Prova a lavorare in una forgia tutto il giorno. Minacciami ancora, e ti faccio vedere io chi è il più forte. — Fletté le braccia e gonfiò il petto, su cui guizzarono i muscoli. — In terzo luogo — continuò — io sono il dio del fuoco. Devo esserlo, dal momento che fondo metalli per vivere. Ho forgiato armi di ferro e di bronzo nel cuore dei vulcani sottomarini, quindi non cercare di spaventarmi con i tuoi patetici pony. E fece un cenno verso Ares come se volesse scacciare una mosca. Dal suolo si alzò ruggendo una colonna di fuoco che spazzò via il cocchio del dio della guerra. Quando le fiamme si spensero, le criniere dei cavalli erano completamente bruciate. Le ruote del cocchio si erano appiattite fino a diventare ovali. Gli elmi di Fobo e Deimo si erano fusi sulle rispettive teste come uova fritte, e la loro pelle era ricoperta di un sottile strato di polvere di carbone. L’armatura di Ares era avvolta da una nuvola di vapore. L’elegante pennacchio dell’elmo era ridotto a un rimasuglio fumante. — Ultima possibilità: vattene — ribadì Efesto. Ares girò sui tacchi e fuggì con il cocchio che sferragliava sulle ruote malandate, lasciandosi dietro un odore da dio-della-guerra-carbonizzato. Per convincere Efesto a liberare la madre, gli Olimpi provarono allora altre tattiche. Mandarono vari ambasciatori, ma Efesto non si lasciò mai persuadere. Sull’Olimpo, Zeus allargò le braccia e sospirò. — Bene, immagino che Era dovrà stare su quel maledetto trono per sempre. — Mrffff! — protestò lei, mentre le guance si indoravano di icore. Poi si fece avanti l’eroe più improbabile del mondo: Dioniso, il dio del vino. — Non preoccupatevi — disse. — Posso gestire io Efesto. Gli altri dei lo guardarono. — Tu?! — esclamò Ares. — E cosa faresti tu? Lo minacceresti con un bel bicchiere di Chardonnay? Dioniso sorrise. — Aspetta e vedrai. Si diresse in volo sulla terra e si mise a bazzicare la bottega del fabbro. Non chiese niente, non minacciò né cercò di suscitare sensi di colpa. Si limitò a chiacchierare, raccontare storielle e comportarsi da amicone. Ora, la mia esperienza con il signor D è stata del tutto diversa, ma, a quanto pare, quando voleva riusciva a essere simpatico. Un tempo era stato un mortale, e solo da poco era diventato dio, così non era borioso e saccentone come molti altri Olimpi. Non aveva niente in contrario a frequentare i quartieri bassi o i fabbri repellenti. Insomma, con Efesto andò subito d’accordo. Dopo alcune settimane, Dioniso disse: — Amico, tu lavori davvero troppo. Hai bisogno di una pausa! — Lavorare mi piace — bofonchiò Efesto. La verità era che modellare metalli gli toglieva il dolore dalla mente. Nonostante il successo della vendetta contro Era, non riusciva a liberarsi della rabbia e dell’amarezza. Era ancora un paria, un dio emarginato, non più felice di quanto fosse stato prima. — Stasera ti porto fuori — decise Dioniso. — Faremo il giro di tutte le taverne e ti farò conoscere questa cosa che ho creato. Si chiama vino. Efesto aggrottò la fronte. — È una macchina? — Be’, ecco… no — balbettò Dioniso — ma ha una sua utilità. Vedrai. Ora, amici miei… il vino è alcol. È una bevanda per adulti. “E dai, caro Percy Jackson” direte “non potremmo farcene un goccino anche noi?” No, ragazzi, non se ne parla neanche. Il vino è pericoloso. Secondo me, non bisogna berne almeno fino a quando non si hanno trentacinque anni. E anche allora bisognerebbe procurarsi la prescrizione del medico e il permesso dei genitori, e poi bere responsabilmente (diciamo un bicchierino al mese) e non manovrare mai macchinari pesanti sotto il suo effetto! Ecco, credo che questo riassuma i miei rudimenti legali. Procediamo con il racconto. Quella sera Dioniso portò Efesto fuori a bere qualcosa. Bastò poco perché il dio fabbro si ritrovasse a piangere sul suo boccale, vomitando addosso a Dioniso la propria storia. — Ti… ti voglio bene, amico — singhiozzava. — Nessun altro mi capisce. Be’… eccetto questi qui. — E indicò il boccale e le noccioline tostate. — Loro mi capiscono. Ma… nessun altro. — Mmmh. — Dioniso annuì comprensivo. — Dev’essere stata dura vivere in fondo al mare dopo essere stato rifiutato dalla propria madre. — Non ne hai idea. È stato… — Efesto tirò su col naso, in cerca della parola giusta. — È stato duro. — Ci credo — concordò Dioniso. — Sai cosa potrebbe farti sentire meglio? — Dell’altro vino? — ipotizzò Efesto. — Quello senza dubbio. Ma anche perdonare. — Cosa? Sei pazzo? — Era sa essere una megera di prima categoria — proseguì Dioniso. — Credimi, io lo so bene. Ma noi dei siamo una famiglia. Dobbiamo restare uniti. Efesto guardò nella coppa con gli occhi che si incrociavano. — Mi ha buttato via come una vite spanata — mugugnò. — Non so bene cosa sia — disse Dioniso. — Però non puoi fare il muso per sempre. Se continui a tenerti tutto dentro, be’… anche il vino più buono a volte si trasforma in aceto. La vendetta ti ha fatto sentire meglio? — A dire il vero no — ammise Efesto cupo. — Ho bisogno di altro vino. — No — replicò Dioniso con fermezza, e non era proprio da lui rifiutare un bicchiere a qualcuno. — Tu hai bisogno di tornare sull’Olimpo con me in questo esatto istante e liberare Era. Fai il bravo ragazzo. Mostra a tutti che sai essere migliore di lei. Efesto brontolò e borbottò e maledisse la ciotola di noccioline, ma decise che Dioniso aveva ragione. Tornò sull’Olimpo in groppa al suo asino, il che fu davvero pericoloso, in quanto avrebbe potuto essere fermato per GASE (Guida d’Asino in Stato di Ebbrezza). Fortunatamente ci arrivò sano e salvo, anche perché Dioniso gli camminava al fianco. Si avvicinò a Era, mentre intorno si radunavano gli altri dei. — Madre, ti perdono — disse. — Ti lascerò andare, ma tu devi promettere: basta gettare via i figli. Tutti hanno dei pregi, qualunque sia il loro aspetto. Ci stai? — Mpfff — rispose Era. Efesto azionò la leva segreta della disattivazione sulla parte posteriore del trono, e la dea fu libera. Secondo alcune versioni, Efesto pretese un compenso per averla liberata. Probabilmente Poseidone (che odiava Atena) suggerì a Efesto di chiedere a Zeus la mano della dea della saggezza, e questo fu il motivo per cui il dio fabbro dovette correrle dietro nel famoso incidente del fazzoletto. Io non posso confermare niente. Personalmente credo che Efesto fosse semplicemente stanco di tenere il muso a sua madre. Dopo quell’episodio rimase molto amico di Dioniso, smise di portare rancore a Era, e lo stesso fu per lei. Anzi, la volta successiva in cui Efesto si ritrovò nei guai fu proprio per aiutare sua madre. Avanzamento veloce fino a quando gli dei si ribellarono a Zeus. Come senz’altro ricorderete (o forse senz’altro no), una volta che Zeus fu libero punì quelle canaglie dei ribelli. Apollo e Poseidone persero per un po’ i loro poteri di immortali. Era finì legata a penzolare sopra il Caos. Durante tutta la faccenda, Efesto non aveva preso le parti di nessuno. Riteneva che la ribellione fosse un’idea stupida, ma nessuno si era preso la briga di chiedere la sua opinione. Come risultato, Zeus non lo punì. Tuttavia, il dio fabbro non approvava che sua madre rimanesse legata a dondolare sopra l’abisso come un’esca vivente. Sentiva le sue grida giorno e notte. Lo infastidiva che Zeus potesse trattare Era in quel modo e nessuno si opponesse, mentre quando l’aveva legata lui tutti gli avevano dato dell’essere spregevole. E forse, giusto forse, stava cominciando a volerle bene, anche se solo un pochino, quel tanto che bastava per non volerla vedere appesa sopra il magma del Caos. Una sera non riuscì a sopportare oltre. Scese dal letto, afferrò la sua borsa degli attrezzi e andò a salvare la madre. Con l’aiuto di qualche rampino, un’imbracatura di sicurezza, una cesoia, un po’ di corda e ovviamente un grosso rotolo di nastro adesivo, riuscì a tagliare i lacci che la imprigionavano e a tirarla in salvo. Era gli fu immensamente grata. Pianse e lo abbracciò e promise di non definirlo più orrendo o repellente. Zeus invece fu tutt’altro che compiaciuto. Quando scoprì cos’era successo, entrò a passo di marcia nella stanza di Efesto, con l’elettricità che gli crepitava intorno e il viso scuro come una nuvola temporalesca. — SENZA IL MIO PERMESSO?! — tuonò. — Imparerai a rispettare la mia autorità. La maggior parte dei papà avrebbero urlato un po’, o affibbiato una punizione, o confiscato la Xbox. Zeus invece afferrò Efesto per una caviglia, lo rovesciò a testa in giù e lo trascinò verso la finestra più vicina. Ora: Efesto era forte, ma le sue gambe erano deboli. Una volta perso l’equilibrio, non riusciva a difendersi bene. E poi Zeus era nerboruto. Si faceva sei ore di ginnastica toracica in palestra ogni settimana. Gridando: — Sayonara, signor Cacciavite! — fece volare Efesto giù dalla montagna… di nuovo. Efesto impiegò una giornata intera a cadere, il che gli diede un sacco di tempo per riflettere sulla ragione per cui fosse finito con quei genitori così orribili. Alla fine toccò terra con un gran tonfo sull’isola di Lemno. L’impatto non fece granché bene al suo corpo deforme, alle gambe storte o a quella brutta faccia. Si ruppe solo ogni osso del suo corpo immortale e giacque laggiù per un bel po’, incapace di fare qualcos’altro che non fosse provare un accecante, bruciante e devastante dolore. Alla fine fu trovato da una tribù di Sintiani, dei tizi non greci che si guadagnavano da vivere come pirati lungo le coste dell’Egeo. Tra le popolazioni greche avevano una pessima reputazione, eppure con Efesto furono molto gentili. Lo portarono nel loro villaggio e lo curarono come meglio poterono. Da allora Efesto fu il loro patrono. Aprì un’altra bottega a Lemno, che diventò il suo quartier generale. Nei secoli successivi, i Greci continuarono a visitare l’isola per vedere il punto dove Efesto era caduto per la seconda volta. Credevano che lì la terra avesse straordinarie proprietà terapeutiche, forse per via di tutto l’icore divino che aveva impregnato il terreno. Un piccolo grumo di fango di Lemno sulla pelle, e le scottature si placavano, le ferite si rimarginavano. Si pensava che quel terreno potesse curare addirittura il veleno di serpente. Quindi, la prossima volta che vi fate mordere da un cobra, niente paura! Basta prenotare un volo per Lemno e mangiarsi un po’ di fango. Dopodiché starete benissimo. Efesto guarì. E alla fine tornò anche sull’Olimpo. In seguito, sia lui sia Zeus si comportarono in modo molto cauto l’uno con l’altro, e fecero finta che l’episodio “Sayonara, signor Cacciavite” non fosse mai accaduto. Immagino che Zeus fosse dispiaciuto di aver avuto una reazione esagerata, ed Efesto non volesse forzare troppo la mano. Si era davvero stancato di essere scagliato giù dalle montagne. Passava la maggior parte del tempo nelle sue officine di Lemno, o sotto l’oceano, o in altre isole che punteggiavano il Mediterraneo. Ogni volta che si vedeva un vulcano ribollire e fumare e sputacchiare lava, c’erano buone probabilità che Efesto fosse lì a riscaldare le fucine. Dal momento che usava i vulcani per alimentare le sue botteghe, diventò il dio dei vulcani. Anzi, la parola “vulcano” deriva proprio dal suo nome romano, Vulcanus. E no, lui non è uno di quei tizi con le orecchie a punta di Star Wars. O forse era Star Trek ? Non riesco mai a distinguerli… Il suo animale sacro era l’asino, certo, ma gli piacevano anche i cani. E il suo uccello preferito era la gru, probabilmente perché aveva due strane zampe ossute che stonavano con il resto del corpo, un po’ come un certo fabbro. Ma, soprattutto, Efesto era noto per la sua maestria nelle arti manuali. Se vi capita di leggere gli scrittori greci antichi, vedrete che vanno avanti pagine e pagine a descrivere ogni scudo o pezzo di armatura realizzati da Efesto, elencando ogni sfumatura di colore e ogni decorazione, la misura degli anelli di rinforzo che usava, quanti chiodi e zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz. Scusate. Mi sono addormentato al solo pensiero. Ma che Efesto facesse lavori strabilianti è innegabile. I troni per gli dei erano opera sua, e non tutti erano delle trappole! Costruì un parco di treppiedi magici: sgabelli a tre gambe con le rotelle, che correvano per il Monte Olimpo portando drink e antipasti e quant’altro. Se eri sull’Olimpo e dicevi: “Accidenti, dove ho lasciato il mio iPhone?”, subito uno dei treppiedi arrivava, apriva il cassettino, ed ecco lì il tuo telefono. Decisamente comodi, quei piccoletti. Efesto forgiava anche meravigliose armi e armature. Certo, i ciclopi e i telchini erano bravissimi artigiani, ma nessuno riusciva a eguagliare il dio fabbro. Eracle, Achille, tutti i maggiori eroi greci usavano solo equipaggiamenti marca Efesto. E credo che Efesto non pagasse nemmeno la sponsorizzazione. Per gli dei dell’Olimpo costruì cocchi dotati delle migliori sospensioni, trazione integrale, lame rotanti sulle ruote e ogni sorta di optional compresi nel prezzo. Disegnava di tutto, dai gioielli ai palazzi. Costruì per quel tale, il re di Chio, una dimora sotterranea stile bunker segreto. Ma la sua specialità erano gli automi: creature meccaniche che non erano altro che i primi robot. Nella sua officina aveva una truppa di assistenti meccaniche femmine fatte d’oro. Ne costruì quattro anche per il tempio di Apollo, così che potessero cantare le lodi del dio in un’armonia a quattro voci. Per re Alcinoo fabbricò una coppia di cani da guardia, uno d’oro e uno d’argento, che erano molto più intelligenti e feroci dei cani veri. Per il re Laomedonte realizzò un vitigno d’oro che cresceva come le viti vere. Per il re Minosse forgiò un soldato gigante di metallo di nome Talo, che pattugliava i confini del palazzo giorno e notte. Cavalli di metallo, torri di metallo, persone di metallo. Tutto quello che volete. Se mai dovessi diventare re, di sicuro gli chiederò un esercito di lama d’oro giganti che sputano acido. Come non detto, scusate. Mi sono distratto di nuovo. A questo punto probabilmente dovrei dirvi come reagì Efesto quando scoprì che sua moglie Afrodite lo tradiva. È una storia triste, in cui non compare nessun lama, ma Afrodite e Ares alla fine ne uscirono parecchio umiliati, il che è sempre una buona cosa. Afrodite non avrebbe mai sposato Efesto. La dea dell’amore badava solo alla bellezza esteriore, e lui ne era decisamente sprovvisto. Efesto cercò di essere un buon marito. Non servì a nulla. Non appena furono sposati, Afrodite ebbe una tresca con il dio della guerra, e come sempre accade sembrava che l’unico a non saperlo fosse Efesto. Perché non aveva alcun sospetto? Non lo so. Forse si illudeva che Afrodite potesse amarlo. Forse credeva che se avesse fatto tutto come si deve, sarebbe stato così. Certo, si accorgeva che gli altri dei bisbigliavano e ridacchiavano alle sue spalle, ma d’altra parte c’era abituato. Cominciò ad avere qualche dubbio quando Afrodite ebbe il primo figlio. Si aspettava che il bambino fosse deforme come lui, o che almeno avesse qualche suo tratto: la testa sformata, la faccia bitorzoluta, magari la barba. Invece il piccolo Eros era perfetto: bello e proporzionato e con tutto a posto. E in più assomigliava in modo sconcertante ad Ares. “Accidenti” pensò Efesto. “Che strano.” Il successivo figlio di Afrodite fu una bambina, che venne chiamata Armonia, e anche lei non aveva nulla di neppure lontanamente somigliante a Efesto. Il dio fabbro cominciò a sentirsi a disagio. Ogni volta che si riferiva ad Armonia come a “mia figlia”, gli sembrava che gli altri dei soffocassero una risatina. E perché poi Afrodite e Ares continuavano a scambiarsi quelle occhiate piene di sottintesi? Alla fine Elio ebbe pietà di Efesto. Dal suo bolide acchiappa-ragazze su in cielo lui vedeva tutto – anche quello che non avrebbe voluto vedere – e quindi ovviamente era stato testimone del fatto che Afrodite e Ares erano ben più che “soltanto amici”. Una sera prese Efesto da parte e gli disse: — Amico, non c’è un modo delicato per dirtelo, ma sappi che tua moglie ti tradisce. A Efesto parve di essere stato colpito in faccia da un martello di due chili, uno di quei bellissimi martelli con il manico in fibra di vetro e la testa doppia in acciaio temprato. — Mi tradisce? — esclamò. — Impossibile! — Possibilissimo — replicò Elio torvo. — Li ho visti io stesso. Non che stessi spiando! È che, capisci, sarebbe stato difficile sbagliare. Spiegò che Afrodite e Ares entravano di soppiatto nell’appartamento di Efesto mentre questi lavorava nelle sue fucine. E proprio lì, nella sua camera da letto, si abbandonavano a comportamenti oltremodo disdicevoli. Efesto sentì il cuore forgiarsi di nuovo: la disperazione lo sciolse, la rabbia lo surriscaldò. Poi si raffreddò e si indurì in qualcosa di molto più forte e affilato. — Grazie per la dritta — disse a Elio. — C’è qualcosa che posso fare? Vuoi che gli procuri un bell’eritema solare? — No, no — rispose Efesto. — Ci penso io. Ritornò nella sua fucina, dove fabbricò una rete molto speciale. Creò filamenti d’oro sottili come i fili di una ragnatela ma robusti come cavi per sorreggere i ponti, e li sottopose a un incantesimo, in modo che si avviluppassero a qualunque cosa catturassero, si indurissero più in fretta del cemento e immobilizzassero completamente la preda. Poi raggiunse zoppicando la propria stanza e assicurò la rete ai quattro pali del letto, così che pendesse come un baldacchino invisibile. Infine sistemò tra le lenzuola un congegno che sarebbe stato attivato dalla pressione. Sempre zoppicando tornò in salotto, dove Afrodite stava leggendo l’ultimo lacrimevole romanzo d’appendice. — Tesoro, vado a Lemno — le annunciò. — Probabilmente mi fermerò là qualche giorno. — Oh, davvero? — Afrodite alzò gli occhi dal libro. — Hai detto qualche giorno? — Sì. Mi mancherai. Ciao! Afrodite sorrise. — D’accordo. Divertiti! Efesto impacchettò i suoi attrezzi, sellò l’asino e partì. Nel frattempo Ares osservava la scena da un balcone poco distante. Non appena si rese conto che Efesto stava veramente partendo per Lemno, corse giù nell’appartamento del fabbro, dove Afrodite lo stava già aspettando. — Ciao, baby — le disse. — Ti sono mancato? E si ritirarono in camera, dove però non ebbero il tempo di combinare niente. Non appena furono rimasti con solo la biancheria addosso e si furono gettati sul letto, scattò la trappola. La rete cadde su di loro e li avviluppò come carta moschicida. I due si dibatterono strillando. Ve lo giuro, le grida di Ares erano persino più acute di quelle di Afrodite. Ma a quel punto erano incollati al letto, impossibilitati a muoversi o mutare forma. Efesto, che aveva fatto dietrofront, irruppe nella stanza con un’ascia in mano. — Paparino è a casa — ringhiò. Considerò di prendersi tutto il tempo necessario e trasformare la camera da letto in uno scenario da film horror, ma poi cambiò idea. Ritenne che non c’era niente di più disonorevole e imbarazzante che lasciare gli amanti così com’erano: intrappolati in flagranza di tradimento. Afrodite con il trucco tutto colato e i capelli in disordine, le gambe schiacciate in modo grottesco contro il letto come se si fosse spiaccicata su un tergicristallo. Urlante e gemente accanto a lei, Ares indossava solo un paio di calzini rossi e i boxer G.I. Joe. Efesto raggiunse la sala del trono dell’Olimpo, dove gli dei si erano radunati per il pranzo. — Aspettate a mangiare — annunciò. — Devo mostrarvi una cosa che probabilmente vi farà venire la nausea. Incuriositi, gli dei lo seguirono nella sua stanza, dove rimasero a guardare allibiti la nuova opera d’arte che Efesto aveva creato. — Vedete? — disse lui. — Questo è quello che ho ottenuto cercando di essere un buon marito. Nel momento preciso in cui ho voltato le spalle, questi due hanno cominciato i loro intrallazzi. Mia moglie mi odia perché sono brutto e deforme, e perciò se la fa alle mie spalle con quel… quel cretino. E questo mi fa stare male, mi fa venire il vomito. Non è la cosa più disgustosa che vi sia mai capitato di vedere? Gli altri dei rimasero in silenzio. Ermes cominciò a sussultare, nel tentativo di trattenersi. Zeus si disse: “Non devo ridere. Non devo ridere”. Poi incrociò lo sguardo di Demetra, e fu la fine. — A… AH AH AH AH! — Si piegò in due ridendo così forte che a un certo punto pensò che gli si sarebbero incrinate le costole. Gli altri dei si unirono a lui. — I boxer G.I. Joe! — gridò Apollo. — Oh-oh! Non posso crederci… AH AH AH AH! — Afrodite — ridacchiò Atena — sei semplicemente adorabile. Gli dei non riuscivano a smettere di sbellicarsi. Finirono col rotolarsi per terra, asciugandosi le lacrime e facendo foto con i cellulari da postare su Twitter. All’inizio Efesto si arrabbiò moltissimo. Avrebbe voluto gridare di prendere la cosa sul serio. Lui soffriva! Ed era umiliato! Poi fece un respiro profondo e capì: no, erano Afrodite e Ares a essere umiliati. Gli dei avrebbero parlato di quella vicenda per secoli. Ogni volta che i due amanti fossero entrati nella sala del trono, gli Olimpi avrebbero fatto una smorfia e avrebbero cercato di non ridere, ricordando i capelli arruffati di Afrodite e gli stupidi boxer e i calzini rossi di Ares. Ogni volta che qualcuno avesse raccontato storielle imbarazzanti durante le riunioni di famiglia, quella sarebbe stata il premio Pulitzer delle storielle imbarazzanti. Dopo un bel po’, gli dei riuscirono a ricomporsi. — Okay — disse Poseidone asciugandosi gli occhi. — È stato spassoso. Ma ora dovresti liberarli, Efesto. — No — grugnì lui. — Perché non li lasciamo in esposizione permanente? Zeus si schiarì la voce. — Efesto, pensavo avessimo deciso di non usare più né lacci né corde, tra noi. Hai avuto la tua vendetta. Ora lasciali andare. Efesto fissò suo padre. — D’accordo. Afrodite può andare… non appena avrai restituito tutti i doni che ho fabbricato per la sua dote. Non la voglio più in casa mia. Non la voglio nella mia vita. Non è degna di essere mia moglie. Zeus impallidì. A quei tempi, se volevi sposare una donna, dovevi dare alla sua famiglia una montagna di regali, che costituivano la dote. Dal momento che tecnicamente Afrodite non aveva un padre, era stato Zeus a concedere la sua mano, il che significava che si era preso tutti i meravigliosi tesori made in Efesto. Se questi pretendeva la restituzione della dote, significava che il matrimonio era finito. E significava anche che Zeus avrebbe dovuto ridare il tostapane di bronzo, il set da golf, il televisore con schermo al plasma e un sacco di altri giochini divertenti. — Ah… bene — disse. — Efesto può avere indietro la dote. Afrodite è ufficialmente fuori dalla sua vita. — Come se ci fosse mai stata dentro — borbottò lui. Poseidone però era un po’ perplesso. Nonostante i passati screzi, ultimamente con Ares andava abbastanza d’accordo. Si sentiva in dovere di parlare in difesa del dio della guerra, dal momento che non lo faceva nessun altro. — Devi lasciar andare anche Ares — disse. — Mi pare giusto. — Giusto? — sbraitò Efesto. — Mi ha reso ridicolo nella mia stessa camera da letto, e tu parli di giustizia? — Ascolta — insistette Poseidone. — Ti capisco. Solo, chiedi qualsiasi prezzo per pareggiare il debito. Garantisco personalmente per lui. Pagherò io. Ares fece un mugolio lamentoso, ma non osò obiettare. A quel punto la rete d’oro cominciava davvero a irritargli la pelle. — D’accordo — accettò Efesto. — Se Poseidone garantisce il pagamento, a me va bene. Voglio cento vagoni carichi delle migliori armature, armi e attrezzature da guerra provenienti dalla fortezza di Ares, e sarò io a sceglierle di persona. Si trattava di un compenso davvero punitivo, perché Ares amava profondamente i suoi bottini di guerra, ma non poté fare altro che annuire. Efesto lasciò liberi i due amanti. Come si era aspettato, la storia fu narrata e rinarrata intorno alle tavole dell’Olimpo per secoli, e Ares e Afrodite divennero oggetto di scherno e di battute scherzose. Afrodite ed Efesto non vissero più insieme. Tecnicamente erano divorziati? Non lo so. C’è da dire che non erano neanche mai stati sposati ufficialmente. Dopodiché Efesto si sentì libero di avere relazioni con altre donne, e da molte ebbe dei figli. In più, da allora odiò i figli che Afrodite e Ares avevano avuto, anche se non ne avevano colpa, loro… Nella fattispecie, Armonia. L’ho nominata in precedenza. Era la dea minore che divenne mortale e sposò quel tale Cadmo, ed entrambi furono poi trasformati in serpenti. Come se la sfortuna non fosse stata già abbastanza per l’arco di una vita, da Efesto Armonia ebbe anche un regalo di matrimonio maledetto. Il dio fabbro la odiava perché gli ricordava costantemente la tresca di Afrodite con Ares. Non era colpa sua, ma accidenti, persino gli dei più simpatici come lui a volte riescono a essere dei veri bastardi. Quando Armonia sposò Cadmo, come regalo di nozze Efesto le diede una collana. Era il più bel gioiello che si potesse immaginare, con splendidi pendenti di pietre preziose intrecciate in delicata filigrana, ma era anche intriso di potenti malefici. Portò parecchia sfortuna ad Armonia (il che è abbastanza ovvio, dal momento che finì trasformata in serpente), ma quella sfortuna si trasmise anche ai suoi discendenti. Chiunque delle generazioni successive indossasse quella collana incorreva in qualche terribile tragedia. Non entrerò nei dettagli, ma questo dimostra che anche Efesto aveva il suo lato oscuro. Se vi dovesse capitare di trovare qualche collana fatta da lui, assicuratevi di controllare eventuali incisioni. Se c’è scritto: CONGRATULAZIONI ARMONIA, buttatela immediatamente. Dopo Afrodite, la prima relazione che Efesto intrecciò fu con una certa Aglaia. Era una delle Cariti, le tre sorelle divine patrone della grazia e del piacere. Fungevano da cameriere di Afrodite, quindi quando Efesto cominciò a uscire con una di loro, la dea dovette sentirsi parecchio irritata. Come dire: “Proprio così, ti ho mollata e ora esco con la tua cameriera. Pari e patta”. Insomma, Efesto e Aglaia ebbero parecchie figlie divine. Poi Efesto ebbe rapporti amorosi con molte principesse mortali e generò un mucchio di figli semidei, che diventarono re di questa o quella città greca. Ebbe persino un flirt con una ninfa di nome Etna, che era la dea del Monte Etna, in Sicilia. Se volete ricollegare, era la montagna che Zeus utilizzò per schiacciare Tifone, il gigante delle tempeste. Non so perché Efesto volesse uscire con la ninfa di una montagna leggermente schiacciata, sta di fatto che insieme generarono un po’ di figli, detti Palikoi, che erano gli spiriti delle sorgenti calde e dei geyser. Se mai vi capitasse di andare al parco di Yellowstone a vedere l’Old Faithful in azione, ricordatevi di gridare: “Efesto ti saluta! Vedi di telefonare a tuo padre un po’ più spesso, sciagurato!” I figli più degni di interesse furono due gemelli che aveva avuto con una ninfa del mare, Cabiro. Si chiamavano Cabiri, dal nome della madre, ma i loro veri nomi erano Alco ed Eurimedone (tranquilli, non dovrete ricordarveli per la prova d’esame). I Cabiri assomigliavano molto a Efesto, intendendo con questo che erano molto bravi a lavorare i metalli e straordinariamente brutti. A volte vengono descritti come nani, ma forse è solo perché sembravano piccoli in confronto al padre. Lo aiutavano nelle fucine di Lemno e andavano persino in guerra a suo nome. Una volta si unirono a Dioniso nel suo viaggio verso l’India. Poi si misero nei guai e a Efesto toccò andare a salvarli. Sapevate che il dio del vino aveva dichiarato guerra all’India? Ebbene sì. Ci torneremo tra un po’. Adesso come adesso, sento che è arrivato il momento di qualche poesia. Avete voglia di ascoltare qualche poesia? No? Be’, PEGGIO PER VOI. Apollo comincia a spazientirsi. Vuole che scriva il suo capitolo, e dal momento che è il dio più bello dell’Olimpo (anche se se lo dice da solo), non lo si può far aspettare troppo, il Ragazzo d’Oro. APOLLO CANTA, DANZA E AMMAZZA LA GENTE Povera mamma di Apollo! Aspettare un bambino è già abbastanza faticoso (non che io ne sappia qualcosa, ma la mia, di mamma, me l’ha detto un milione di volte). In più la mamma di Apollo, Leto della stirpe dei Titani, incinta di due gemelli, quando cominciò ad avere le doglie non poté andare all’ospedale. Dovette invece correre con tutto il fiato che aveva in gola, passando da un’isola all’altra, inseguita da una dea assetata di vendetta e da un serpente gigante. Vi sorprenderebbe sapere che tutta la faccenda era stata causata da Zeus? Il dio si innamorò di Leto e la convinse che sarebbe stata un’ottima cosa se avessero fatto qualche figlio insieme. — Era non lo scoprirà mai! — la rassicurò. Aveva raccontato la stessa bugia a così tante donne che probabilmente ormai ci credeva anche lui. Ovviamente Era lo scoprì. Lanciò un’occhiata giù dall’Olimpo e vide la bellissima Leto incinta, seduta radiosa in un prato a darsi affettuose pacchette sul ventre gonfio e a cantare ai bimbi non ancora nati. — Come osa essere così felice? — borbottò. — Vediamo se lo sarà anche quando l’avrò condannata al dolore eterno! — La regina dei cieli allargò le braccia e, rivolgendosi alla terra intera sotto di lei, disse: — Ascoltami, mondo! Ascoltami, Madre Gea. Proibisco a ogni luogo che affondi le radici nella terra di accogliere Leto, quando per lei giungerà l’ora del parto. Ogni territorio che oserà opporsi a me sarà maledetto per l’eternità! Leto non avrà giaciglio su cui stendersi, non avrà luogo dove riposare! Sarà costretta a vagare senza un posto dove poter partorire, rimarrà gravida e in travaglio per sempre, a pagare per il crimine di avermi rubato il marito! AH AH AH AH! Esatto: quel giorno Era stava decisamente tirando fuori la Malvagia Strega dell’Ovest che abitava in lei. Un rombo uscì dal terreno. Ogni spirito della natura su ogni territorio che affondasse le radici nella terra promise di non aiutare Leto. Ora probabilmente vi chiederete: perché Leto non poteva semplicemente comprarsi una barca e andare a partorire in mare? Perché non poteva andare sott’acqua, o giù nell’Erebo, o noleggiare un elicottero e far nascere il suo bambino a diecimila metri d’altezza? Per quel poco che ci capisco io, nella maledizione Era aveva incluso tutto questo. Aveva creato una situazione impossibile, in base alla quale Leto avrebbe potuto partorire soltanto sulla terraferma, ma tutta la terraferma non poteva accoglierla. Furba, eh? Quando Leto arrivò al settimo mese di gravidanza, iniziarono i dolori del parto, in anticipo sui tempi. — Oh, santo cielo! — gemette. — Questi bambini non hanno nessuna intenzione di aspettare! Cercò di distendersi, ma la terra tremò. Gli alberi si incendiarono. Nel terreno si aprirono crepacci, e la povera Leto dovette scappare. Prese una barca diretta a un’altra isola, ma lì si ripeté la stessa scena. Tentò in una decina di posti diversi, in tutta la Grecia e oltre. In ogni angolo, le ninfe si rifiutavano di aiutarla. — Ci dispiace — dicevano. — Era ci maledirà per l’eternità se ti lasciamo venire a riva. Non puoi partorire in nessun luogo del mondo che affondi le radici nella terra. — Ma questo significa qualsiasi luogo! — protestò Leto. — Sì, il concetto è quello — risposero le ninfe. Leto vagò da un posto all’altro, il corpo squassato dal dolore, i suoi bambini non ancora nati sempre più impazienti. Si sentiva come se avesse inghiottito un pallone da spiaggia gonfiato a dismisura e una coppia di gatti furiosi. Disperata, si recò a Delfi, che una volta era stato il luogo sacro a sua madre Febe. Sperava che l’Oracolo le avrebbe dato rifugio. Purtroppo la caverna dell’Oracolo era stata occupata da un serpente gigante di nome Pitone. Da dove veniva? Questa vi piacerà. La parola pitone deriva dal greco pytho, che significa “marcescente”. Il mostro Pitone era sorto dal fango marcio e putrescente lasciato dal grande diluvio quando Zeus aveva voluto annegare l’umanità. Simpatico, vero? Comunque, Pitone era arrivato lì e si era detto: “Ehi, ma che caverna carina. Quanti succosi mortali da mangiare!”. E aveva cominciato a papparsi sacerdoti, indovini e pellegrini che venivano a chiedere aiuto. Poi si era acciambellato per un pisolino. Quando Leto giunse alla caverna, trovò un serpente lungo trenta metri e grosso come uno scuolabus comodamente sistemato nel luogo sacro a sua madre. — E tu chi sei? — chiese. — Io sono Pitone — rispose il serpente. — E tu devi essere la mia colazione. E si lanciò verso di lei. Leto fuggì, ma aveva un aspetto talmente appetitoso, così gonfia e grossa e lenta, che Pitone la inseguì per chilometri e chilometri. Un paio di volte stava quasi per prenderla. A fatica Leto riuscì a tornare alla barca. E dov’era Zeus per tutto il tempo? Nascosto. Era aveva uno dei suoi attacchi d’ira regale, e lui non voleva essere il bersaglio della sua collera, così lasciò che fosse Leto a beccarsi tutte le rogne. Che gentile! Leto continuò a navigare, finché le venne un’idea folle. Chiese al capitano della barca su cui si trovava di puntare verso l’isola di Delo. — Ma, mia signora — disse questi — Delo è un’isola galleggiante! Nessuno sa dove sia, si sposta di giorno in giorno. — TROVALA E BASTA! — gridò Leto. Aveva gli occhi iniettati di sangue per i dolori delle doglie. Il capitano deglutì a disagio. — Unica e sola Delo, arriviamo! Parecchi giorni dopo, trovarono il posto. Sembrava una normalissima isola – spiagge, colline, alberi eccetera – solo che Delo non era attaccata alla terra. Galleggiava sulle onde come un salvagente gigante, spostandosi per il Mediterraneo, di tanto in tanto rimbalzando contro altre isole o scivolando sopra ignare balene. A mano a mano che la barca si avvicinava, Leto si costrinse a stare ritta a prua. Il dolore era così forte che faceva fatica persino a pensare, ma invocò comunque il principale spirito della natura dell’isola: — Oh, grande Delo, solo tu puoi aiutarmi! Ti prego, lasciami sbarcare e partorire su di te! L’isola brontolò, e una voce echeggiò dalle colline: — Se lo farò, Era mi darà una strapazzata epica. — Non può farti del male! — gridò Leto. — Nella sua maledizione ha specificato qualsiasi posto al mondo che affondi le radici nella terra. Tu non hai radici! E oltretutto, una volta che i miei figli saranno nati, ti proteggeranno. Due dei dell’Olimpo dalla tua parte. Pensaci. Delo diventerà il loro luogo sacro. Avrai i tuoi grandi templi personali. Potrai sistemarti stabilmente. Soltanto il turismo ti farà guadagnare un sacco di soldi. L’isola ci rifletté un po’ su. Era stanca di galleggiare in giro. Le ninfe delle foreste cominciavano ad avere il mal di mare per il continuo dondolio delle onde. — E va bene — disse la voce. — Approdate pure. Non appena Leto trovò un angolino dove distendersi, il mondo intero tremò, in attesa. Non è cosa di tutti i giorni che nascano due nuovi dei dell’Olimpo. Le dee – tranne ovviamente Era – corsero ad aiutarla con il parto. Leto ebbe due bellissimi bambini: un maschietto, che chiamò Apollo, e una bambina, che chiamò Artemide. Erano nati il settimo giorno del settimo mese, quindi il loro numero sacro fu il tredici. (Sto scherzando! Il sette.) Parleremo dopo di Artemide, perché Apollo non perse tempo ad accaparrarsi le luci della ribalta. Non appena ebbe assaggiato il nettare dal suo biberon, sgusciò via dalle braccia della mamma, si mise ritto sui piedini e sorrise. — Volete un sorso, ragazze? — disse. — Mi chiamo Apollo, e ho bisogno di arco e frecce, immediatamente! E sarebbe perfetto anche uno strumento musicale. Qualcuno ha già inventato la lira? Le dee si scambiarono sguardi perplessi. Persino gli Olimpi non erano abituati a sorridenti neonati in grado di formulare frasi di senso compiuto e di pretendere armi. — Ehm… Io non ho mai sentito parlare della lira — ammise Demetra. Infatti la lira sarebbe stata inventata in tempi successivi, ed è un’altra storia. Apollo alzò le spalle. — D’accordo, può andare bene anche una chitarra, o un ukulele. Solo non un banjo, per favore. Quello non lo so suonare. Le dee corsero a cercare quanto richiesto dal bimbo. Efesto gli costruì un bellissimo arco d’oro e una faretra piena di frecce magiche. Lo strumento musicale più decente che riuscirono a recuperare fu una keras, una sorta di trombetta. Una volta tornate a Delo, Apollo era cresciuto così tanto che sembrava un bambino di cinque anni, sebbene avesse meno di un giorno di vita. Aveva lunghi capelli color dell’oro, una meravigliosa abbronzatura e occhi che brillavano come il sole. Si era procurato una tunica greca intessuta d’oro, tanto che guardarlo quasi accecava la vista. Si appese l’arco e la faretra alle spalle e afferrò la keras. Accennò una dolce melodia, poi cominciò a cantare a cappella. — Io sono Apollo, e sono così figo! La-la-la… qualcosa-che-faccia-rima-con-figo! A dire la verità non ho idea di cosa cantasse, ma annunciò che sarebbe stato il dio del tiro con l’arco, dei canti e della poesia. E annunciò anche che sarebbe stato il dio della profezia, e avrebbe interpretato la volontà di Zeus e le parole dell’Oracolo per i poveri mortali. Quando la canzone finì, le dee applaudirono educatamente, continuando però a pensare che tutta la scena era un po’ bizzarra. L’isola di Delo si rallegrò di avere un nuovo patrono, mise radici e si ancorò sul fondo del mare, così da smettere di spostarsi qua e là. Inoltre, si ricoprì di fiori d’oro in onore del dorato dio Apollo. Se andate a visitare Delo oggi, potrete ancora vedere questi campi di fiori selvatici che crescono tra le rovine, anche se fortunatamente Apollo non ci va più così spesso a suonare la tromba. Apollo crebbe a velocità super. In una settimana era diventato un dio adulto, il che significa che saltò tutta la scuola, ebbe un diploma honoris causa e smise di invecchiare quando raggiunse l’aspetto di un ventunenne. Da allora rimase così per sempre. Mica male, se posso dire la mia. La sua prima impresa fu vendicare la madre per il dolore sofferto mentre cercava di trovare un luogo dove partorire. Purtroppo non poté distruggere Era, dal momento che era la regina dei cieli eccetera, ma quando sentì del serpente Pitone che aveva scacciato sua madre da Delfi, si infuriò. — Torno subito — disse a Leto. Volò a Delfi (sì, sapeva anche volare) e chiamò Pitone fuori dalla grotta. — Ehi tu, lombrico! Il gigantesco serpente aprì gli occhi. — Che vuoi? — Cantarti una canzone che parla di quanto sono figo! — Oh, ti prego. Voglio morire. — D’accordo! — Apollo imbracciò l’arco e colpì Pitone in mezzo agli occhi. Poi cantò la canzone su quanto era figo. Trascinò il corpo del serpente in una fenditura sotto la caverna, dove rimase a marcire per l’eternità, diffondendo ogni genere di profumino. Apollo prese possesso dell’Oracolo di Delfi. Accolse di nuovo sacerdoti e pellegrini. Dal momento che una volta l’Oracolo era appartenuto a sua nonna Febe, da allora fu chiamato Febo Apollo. La somma sacerdotessa che prediceva il futuro fu conosciuta come la Pizia, che vuol dire pitonessa, dal serpente Pitone. O forse fu chiamata così perché vomitava un sacco di schifezze, in tutti i sensi. Sta di fatto che riceveva le sue profezie direttamente da Apollo, e i versi erano sempre indovinelli o poesia-spazzatura, o entrambe le cose. Rimase ad abitare nella caverna dove era morto il serpente. Di solito sedeva su uno sgabello a tre gambe, vicino a una delle enormi spaccature che esalavano putrido gas vulcanico che sapeva di serpenti morti. Se facevate un’offerta, la Pizia prediceva il futuro o rispondeva alle domande. Questo non significava però che la risposta fosse comprensibile. Se lo era, probabilmente non risultava piacevole. Apollo rivendicò il suo posto tra gli dei dell’Olimpo, e persino Era non osò obiettare. Il fatto è che aveva un aspetto decisamente… divino. Era alto e muscoloso, nonché abbronzato come un bagnino di Baywatch. Teneva i capelli lunghi ma legati in una crocchia, così che non gli dessero fastidio quando tirava con l’arco. Se ne andava a spasso per l’Olimpo nelle sue vesti luminose, sempre armato di arco e frecce, facendo l’occhiolino alle signore e dando il cinque ai ragazzi, o a volte facendo l’occhiolino ai ragazzi e dando il cinque alle signore. Per lui era lo stesso. Era convinto che tutti lo adorassero. Se la cavava egregiamente sia con la poesia sia con la musica… o almeno, ad alcuni le sue composizioni piacevano. Personalmente io sono più un tipo da rock’n’roll, ma comunque… Apollo era sempre molto richiesto alle feste, perché sapeva intrattenere con canzoni, predire il futuro e persino prodursi in piccoli numeri di abilità con l’arco, come colpire una decina di palline da ping-pong con un solo tiro o far saltare una coppa di vino dalla testa di Dioniso. Divenne anche il dio dei pastori e dei mandriani. Perché? Ora ve lo spiego. Ovviamente gli piacevano i migliori tagli di carne. Allevava i bovini più pregiati del mondo. Tutti volevano rubarglieli, ma lui li sorvegliava a vista. Se qualcuno si avvicinava alla sua mandria sacra, rischiava di scatenare la Terza guerra mondiale (delle mucche). Quando si arrabbiava, non stava a perdere tempo. Poteva punire qualunque mortale in qualsiasi punto del mondo semplicemente imbracciando l’arco e scoccando una freccia. Quella disegnava un arco nel cielo e trovava il bersaglio, non importa quanto lontano fosse. Se Apollo si trovava dalle parti della Grecia e qualcuno in Spagna borbottava: “Apollo è stupido!”… BAM! Uno spagnolo morto. E la freccia era anche invisibile, così gli altri mortali non capivano cosa lo avesse colpito. Nell’antica Grecia, ogni volta che qualcuno moriva all’improvviso, si riteneva fosse stato colpito da Apollo, forse per punizione, forse per aver favorito qualche suo nemico. Detto questo, so che ora rimarrete un po’ perplessi, perché Apollo era anche il dio… della guarigione. Se avevate bisogno di un cerotto o di una pastiglia per il mal di testa, Apollo provvedeva. Ma aveva anche potere su pestilenze ed epidemie. Era in grado di curare o sterminare un intero esercito, un’intera nazione. Se si arrabbiava, scoccava una freccia speciale, che esplodeva in un vapore venefico e diffondeva vaiolo, colera o antrace. Se dovesse mai verificarsi un’apocalisse di zombie, ora sapete a chi dare la colpa. Apollo era il dio di così tante cose, e così diverse, che persino i Greci si confondevano. Per esempio, capitava loro di dire: — Mmmh, ho dimenticato chi è il dio dell’arte di fare i cesti… Mah, dev’essere Apollo! Forse è per questo che più tardi i Greci e i Romani cominciarono a chiamarlo il dio del sole. In effetti, quel lavoro era competenza di Elio, ma i mortali praticamente si dimenticarono di costui e decisero di affibbiare ad Apollo il carro del sole. Dal momento che Apollo era così luminoso e dorato, proprio come il sole, la cosa può avere senso. In questo libro, però, non penseremo a lui come al dio del sole. Il nostro amico ha già abbastanza carne al fuoco. In più, l’idea di Apollo che guida il carro del sole mi terrorizza, perché era sempre lì che parlava al cellulare, con la radio a tutto volume e gli altoparlanti che facevano vibrare il cocchio. Sempre con gli occhiali da sole, sempre a marcare stretto le ragazze, sempre ad abbordarle. Comunque, i suoi simboli erano l’arco e le frecce, e fin qui non c’è da stupirsi. Poi, quando fu inventata la lira (una specie di piccola arpa), andò ad aggiungersi anche quella. Una cosa importante da tenere presente: Apollo non era uno da sottovalutare. Un giorno poteva essere il dio dei limerick, delle canzoncine orecchiabili e delle lezioni di pronto soccorso. Il giorno dopo era il dio delle armi chimiche e delle epidemie devastanti. E voi pensavate che fosse solo Poseidone ad avere una personalità dissociata… Apollo non uccideva senza motivo. È solo che non aveva poi bisogno di tutti questi motivi. Esempio: una volta mamma Leto venne a fargli visita a Delfi. Lungo il viaggio fu importunata da un gigante di nome Tizio. Lo so. Nome terribile, Tizio. Purtroppo non posso farci niente. Comunque, Tizio era un gran pezzo di bastardo. Era uno dei figli di Zeus più mostruosi. Sua madre era una principessa mortale, Elara; ma quando si trovò incinta, Zeus ebbe la brillante idea di nasconderla da Era rinchiudendola in una grotta sotterranea. Qualcosa che aveva a che fare con i vapori presenti nella caverna fece sì che il bimbo non ancora nato di Elara si sviluppasse in modo così esagerato e orrendo che il corpo della madre semplicemente non riuscì a contenerlo. E… BUM! Elara morì. Il piccolo invece continuò a crescere e la caverna stessa diventò la sua incubatrice. A quel punto Gea, anche lei una tipa mica da ridere, decise di essere la madre surrogata di Tizio. Completò la sua formazione sul versante lato oscuro. Quando Tizio finalmente emerse dalla terra, sembrava pochissimo figlio di Zeus e tantissimo figlio del mostro di Frankenstein. Comunque sia, Era si accorse di lui e decise che avrebbe potuto usare quel gigante per procurarsi la tanto agognata vendetta su Leto. — Ehi, Tizio — gli disse un giorno. — Sangue! — gridò lui. — Carne e sangue! — Appunto — continuò Era. — Entrambi molto buoni. Ma che ne diresti anche di una bella moglie? — Carne! — D’accordo. Forse dopo. Presto passerà di qui una donna diretta a Delfi. Sappi che lei adora quando giganti grandi e grossi cercano di rapirla e trascinarla nel loro covo sotterraneo. Ti interessa? Tizio si grattò il testone. — Sangue? — Be’, certo, perché no — sorrise Era. — Se dovesse resistere, prenditi pure tutto il sangue che vuoi! Tizio acconsentì, così Era lo premiò con un biscotto e lo lasciò appostato in attesa sulla strada per Delfi. Ed ecco arrivare Leto. Subito Tizio fece un balzo per afferrarla. Ma grazie alle precedenti esperienze con Pitone, Leto ormai sapeva tutto di fughe dai mostri, e questa volta oltretutto non era incinta. Schivò il gigante e schizzò verso Delfi alla massima velocità. — Ehi, figlio — gridò. — Che ne diresti di un aiutino? Apollo sentì il richiamo della madre. Afferrò l’arco e scoccò. ZIPPP. Tizio crollò a terra con una freccia d’oro conficcata nel cuore. Per Apollo però fu una vendetta troppo rapida. Allora andò a fare visita a Ade nel mondo degli Inferi e disse: — Questo tizio, Tizio… Secondo me è ancora considerato un semidio mortale. Ma non ne sono del tutto sicuro. Comunque, se il suo spirito si fa vivo, torturalo per me. Qualcosa di forte… Per esempio, come quello che ha fatto Zeus con Prometeo. Però non con un’aquila. Magari con qualche avvoltoio… o roba del genere. — Avvoltoi o roba del genere? — chiese Ade. — Già! Sarebbe perfetto! Ade non fu particolarmente creativo, perché seguì alla lettera il suggerimento di Apollo. Quando lo spirito di Tizio si presentò, il gigante fu accusato di aver assalito Leto e fu inviato ai Campi delle Pene, dove fu incatenato, fornito di un fegato che si rigenerava e sventrato in modo che gli avvoltoi potessero banchettare su di lui per l’eternità (secondo me, Prometeo ha poi fatto causa per violazione di copyright). Un’altra volta Apollo vendicò un insulto con uno sterminio di massa. La cosa più normale del mondo, vero? La regina di Tebe, una signora di nome Niobe, aveva quattordici figli: sette maschi e sette femmine. Erano tutti in ottima salute e molto belli, oltre che bravi a scuola, quindi Niobe non faceva altro che vantarsi. Probabilmente avete già conosciuto mamme così. Uno dice: “Sai, ieri nella partita di calcio ho fatto un gol”. E loro dicono: “Ma che bella cosa. I miei quattordici figli sono tutti capitani delle loro squadre, prendono sempre dieci e in più suonano il violino”. Ecco, Niobe era una tipa del genere. Un giorno la città di Tebe organizzò una festa in onore di Leto. I sacerdoti la lodavano per la sua bellezza e il suo coraggio, e per aver partorito non uno, ma due meravigliosi dei, Apollo e Artemide. A mano a mano che la preghiera andava avanti, la regina Niobe non poté resistere. — Che sarà mai! — esclamò rivolta al pubblico. — Io dico che Leto non ha fatto niente di più bello né di più coraggioso di quello che ho fatto io. E oltretutto lei ha solo due figli. Io ne ho addirittura quattordici, e tutti bellissimi! Oookay. Pessima mossa. Apollo e Artemide, che erano in giro per il mondo, udirono l’insulto e arrivarono in volo, gli archi imbracciati. Discesero su Tebe, e sulla città dilagò un’ondata di terrore. Tutti gli abitanti furono trasformati in pietra, tranne la regina e la sua famiglia. — Orgogliosa dei tuoi figli? — tuonò Apollo. — Forse dobbiamo mettere le cose nella giusta prospettiva… E scoccò sette frecce d’oro, uccidendo su due piedi i figli di Niobe. E Artemide infilzò le sette figlie. Il marito di Niobe, il re, lanciò un grido disperato, estrasse la spada e caricò Apollo, così il dio colpì anche lui. Niobe ne fu devastata. Scappò su un monte in Asia Minore – l’area geografica attualmente chiamata Turchia – e pianse per anni e anni, finché non si trasformò in roccia. I Greci erano soliti andare a visitare un punto sul Monte Sipilo dove si ergeva una consunta figura di donna in pietra calcarea dai cui occhi sgorgava acqua. Magari è ancora lì. Quanto ai suoi cari defunti, non furono sepolti per nove giorni. I corpi giacquero sulle strade di Tebe, ad attirare le mosche, imputridire e puzzare, mentre il resto degli abitanti della città erano ridotti in statue. Alla fine Zeus ebbe pietà di Tebe. Liberò i suoi abitanti e permise loro di dare sepoltura alla famiglia reale. A Tebe nessuno insultò mai più Leto, ma d’altro canto sono sicuro che Apollo e Artemide non furono mai molto popolari, laggiù. E comunque Apollo sapeva escogitare sempre nuove e terrificanti punizioni. La più orribile fu quella ai danni del satiro Marsia. Questo tizio con le zampe di capra viveva in Frigia, sempre in Asia Minore, abbastanza vicino al punto dove Niobe si era trasformata in pietra. Un giorno, stava trottando lungo le sponde del fiume badando ai fatti propri, quando scorse uno strano strumento in mezzo all’erba. Si dà il caso fosse il flauto fabbricato da Atena, il primo flauto al mondo. Forse ricorderete che le altre dee l’avevano presa in giro per le smorfie che faceva quando lo suonava, così lei lo aveva gettato giù dall’Olimpo e aveva giurato che chiunque lo avesse suonato avrebbe avuto in sorte un terribile destino. Bene, il povero Marsia non ne sapeva niente: Atena mica ci aveva messo sopra una targhetta di avvertimento. Il satiro prese il flauto e cominciò a suonare. Dal momento che lo aveva riempito il fiato di una dea, lo strumento produceva note meravigliose. In un attimo Marsia imparò la tecnica e cominciò a suonare così bene che, in un raggio di parecchi chilometri, tutte le ninfe della natura vennero ad ascoltarlo. Da lì al firmare autografi non ci volle molto. Scalò anche le classifiche della locale hitparade, rimanendo al primo posto per sei settimane. Il suo canale YouTube aveva milioni di visualizzazioni, e il suo primo album vinse il Disco di Platino in Asia Minore. Va bene, forse sto esagerando. Però è vero che la sua musica lo rese popolare e la sua fama si diffuse ovunque. Ad Apollo tutto questo non piacque. Lui era rimasto solo cinque settimane al primo posto della hit-parade. Non poteva permettere che sulla copertina di “Rolling Stones” ci fosse un qualche stupido satiro, mentre avrebbe dovuto esserci lui. Scese allora in Frigia e si librò invisibile sulla folla che si era radunata ad ascoltare Marsia suonare. Il tizio era bravo, non ci pioveva, e questo fece arrabbiare Apollo ancora di più. Rimase lì ad ascoltare e aspettare, sapendo che era solo questione di tempo… Ed ecco che una ninfa con occhi come due stelle, che stava nella prima fila, gridò: — Marsia, sei il nuovo Apollo! La lode eccitò Marsia, che fece l’occhiolino alla ninfa: — Grazie, pupa. Ma dimmi, dai, quale ti piace di più, la mia musica o quella di Apollo? Il pubblico applaudì selvaggiamente. E a quel punto Apollo comparve sul palco in un lampo di luce dorata. Sulla folla piombò il silenzio. — Bella domanda, Marsia! — gridò il dio. — Si tratta di una sfida? Perché per me aveva tutta l’aria di una sfida. — Ehm… Apollo, signore… Io non… Io credevo… — Una gara di musica, hai detto? — Apollo fece un sorriso da un orecchio all’altro. — Accetto! Lasceremo che sia il pubblico a scegliere chi è il migliore e, giusto per rendere la cosa più interessante, il vincitore avrà il diritto di infliggere al perdente qualsiasi punizione! Potrà chiedere qualsiasi prezzo! Come ti sembra? Marsia si fece pallido, ma la folla applaudì e levò urla di approvazione. Strano come, in un batter d’occhio, un concerto di flauto possa trasformarsi in un’esecuzione pubblica. Marsia non aveva molta scelta, quindi suonò meglio che poté. La sua musica fece salire le lacrime agli occhi delle ninfe. I satiri presenti tra il pubblico piansero, sollevarono le torce in aria e belarono come capretti. Apollo si esibì subito dopo, accompagnandosi con la sua lira (che a quel punto era stata inventata, e tra poco vi dirò di più). Strimpellò e cantò e si lanciò in un lunghissimo assolo. Le ragazze della prima fila svennero. Il pubblico ruggì di entusiasmo. Era impossibile dire chi fosse il vincitore. Entrambi i musicisti avevano pari talento. — Bene… — Apollo si grattò la testa. — Spareggio, allora. Vediamo chi sa fare il miglior virtuosismo. Marsia batté le palpebre. — Virtuosismo? — Ma certo. Qualche mossa elegante! Un po’ di interpretazione! Sai cosa intendo, no? Apollo si portò la lira dietro la testa e suonò un motivo senza nemmeno guardare le corde. La folla impazzì. Poi fece mulinare le braccia. Si esibì in una scivolata sulle ginocchia sopra il palco pizzicando sedici note, quindi premette il pulsante riverbero della lira e si lanciò nel più acuto e lacerante assolo mai sentito, mentre il pubblico lo sospingeva di nuovo al centro del palco. Ci volle un’ora perché gli applausi si spegnessero. Apollo sorrise a Marsia. — Tu sei capace? — Con un flauto? — Marsia si mise a piangere. — Certo che no! Non è giusto! — E allora ho vinto io! — concluse Apollo. — E ho proprio qui la punizione giusta per te. Vedi, Marsia, tu credi di essere speciale, ma sei solo una moda passeggera. Sono io quello che resterà famoso per sempre. Io sono immortale, e tu invece? Solo roba che luccica, non oro vero. Gratta la superficie, e sotto sei solo un altro satiro mortale: carne e sangue. E ora lo dimostrerò alla folla. Marsia fece un passo indietro. Sentiva in bocca un gusto come di marcio. — Dio Apollo, accetta le mie scuse per… — Ora ti scuoio vivo! — esclamò Apollo allegramente. — Ti tolgo tutta la pelle, così potremo vedere cosa c’è sotto! Raccapricciante? Già. Marsia soffrì una morte orrenda solo perché avevo osato suonare bene come Apollo. Il suo corpo fu sepolto in una caverna non lontano dal luogo dove si era tenuta la gara, e il suo sangue divenne un fiume che zampillava lungo il fianco della collina. Apollo fece la copertina di “Rolling Stones”. Con quella faccia sorridente, chi l’avrebbe mai detto che in casa aveva alle finestre tendine di pelle di satiro? Ultima cosa riguardo ad Apollo: era uno scapolo impenitente, un vero dongiovanni. Dico, un pluriomicida psicopatico che suona la lira? Niente di più affascinante! Secondo alcuni racconti uscì con tutte e nove le Muse, le dee che vegliavano sui vari tipi di arte, come la tragedia, la commedia, il film-documentario e quant’altro. Apollo non sapeva scegliere tra loro. Erano tutte adorabili; decise allora di non sposarsi mai, si limitò ad amoreggiare con questa o con quella. Solo una volta fu tentato di venir meno alla promessa. Si innamorò, e ne ebbe il cuore spezzato, e fu solo colpa sua. Un pomeriggio stava attraversando il palazzo sull’Olimpo quando si imbatté in Eros, il figlio di Afrodite. L’arciere dell’amore era seduto sul davanzale di una finestra a sostituire la corda del suo arco. Il ragazzo sembrava così giovane, e il suo arco così minuscolo, che Apollo scoppiò a ridere. — Oh, dei del cielo! — esclamò asciugandosi una lacrima. — E tu quello lo chiami arco? Quelle sembrano piuttosto freccette. Come fanno a colpire qualcosa? Dentro di sé Eros ribolliva, ma riuscì a mettere insieme un sorriso. — Me la cavo. — Questo è un arco, ragazzino! — Apollo tirò fuori il suo arco d’oro, quello che gli aveva fatto Efesto. — Quando mi vedono arrivare, i miei nemici tremano. Posso distruggere chiunque, a qualsiasi distanza, con una sola freccia! E tu, be’, immagino che sarai un terrificante cacciatore di gerbilli. E se ne andò baldanzoso, sempre sghignazzando. Eros digrignò i denti e borbottò tra sé e sé: — Ne riparleremo, signor Sbruffone. Tu potrai anche abbattere i nemici, ma io posso abbattere te. Il mattino dopo Apollo stava passeggiando lungo un fiume in Tessaglia, suonando la sua lira e godendosi i raggi del sole, quando Eros scoccò una freccia e lo colpì dritto al cuore. Per caso stava facendo il bagno lì vicino una Naiade, una delle figlie dello spirito del fiume locale. Si chiamava Dafne. Secondo i canoni universali, Dafne era bella. Lo era la maggior parte delle Naiadi. Ma nel momento in cui Apollo la vide, pensò che fosse addirittura più sexy di Afrodite. Improvvisamente tutte le altre donne con cui era uscito gli parvero delle nullità. Decise che doveva sposare Dafne. Purtroppo, come molte ninfe intelligenti, Dafne aveva già da tempo giurato di non uscire con gli dei, perché alle loro ragazze succedevano sempre brutte cose. Forse non sempre. Diciamo il novantanove virgola nove per cento delle volte. — Ciao, bellezza! — la salutò Apollo. — Come ti chiami? Dafne uscì precipitosamente dall’acqua e si avvolse nella tunica. — Mi chiamo… Mi chiamo Dafne. Ti prego, vattene. — Oh, Dafne-ti-prego-vattene — disse Apollo — io ti amo! Sposami, e farò di te la Naiade più felice dell’universo. — No. — Insisto! Avanti, lasciati baciare. Ti dimostrerò il mio amore e… ehi, dove stai andando? Dafne fuggì di corsa. Apollo era veloce, ma Dafne lo era ancora di più. Il dio infatti era appesantito dall’arco e dalla lira, ed era accecato dall’amore, così continuava a fermarsi per comporre nuovi haiku in onore della sua nuova fiamma. Alla fine però Dafne cominciò a essere stanca. Arrivò in cima a un crinale che dava su una profonda gola e vide Apollo che stava risalendo la china dietro di lei. Non poteva tornare sui propri passi. Il che le lasciava due opzioni: saltare verso la morte o acconsentire a sposare il dio. Sentendolo declamare poesie d’amore, pensò che saltare nel vuoto aveva una certa attrattiva. Disperata, provò un ultimo espediente: — O Gea, protettrice di tutti gli spiriti della natura, ascoltami! Salvami da questo dio. Gea ebbe pietà di lei. Proprio mentre Apollo raggiungeva il crinale e gettava le braccia intorno alla Naiade, Dafne si trasformò in un albero di alloro. Il dio si ritrovò ad abbracciare un tronco, ad accarezzare braccia che si erano trasformate in rami, a far scorrere le mani tra capelli che erano diventati foglie. Scoppiò in un pianto disperato. — Oh, bellissima Naiade! Non ti dimenticherò mai. Sei stata il mio vero e unico amore. Saresti dovuta diventare mia moglie! Non sono riuscito a farti innamorare, ma da ora fino alla fine dei tempi sarai un simbolo di vittoria. Le tue foglie mi cingeranno il capo, e darò così inizio a una nuova moda! Questo il motivo per cui nei dipinti si vedono spesso Greci e Romani che portano sulla testa serti di alloro. Un’usanza che prese piede grazie ad Apollo. L’alloro divenne un segno di onore. Se si vinceva una gara o un evento sportivo, si doveva indossare l’alloro. Se si conquistava una nazione nemica, altro alloro! Se ci si stancava di compiere imprese straordinarie e si avevano già abbastanza serti da riempire un materasso, ci si poteva ritirare e riposare sugli allori! Tutto questo solo perché Apollo si era vantato del suo grosso, stupido arco d’oro. Eros rise per ultimo, ma in linea di massima Apollo aveva ragione a vantarsi. Che fosse il miglior arciere del mondo era indiscutibile. Soltanto una persona era brava quanto lui, e forse migliore. Si trattava di sua sorella Artemide. Se volete leggere di lei, benissimo. Ma, dico a voi maschi: cercate di comportarvi bene. Vi avverto fin da ora: Artemide non ha nessun senso dell’umorismo. ARTEMIDE SGUINZAGLIA IL MAIALE DELLA MORTE Non è che Artemide odiasse proprio tutti i maschi. Soltanto la maggior parte. Dal preciso istante in cui nacque, elaborò un concetto fondamentale: “I maschi sono disgustosi”. C’è da dire che aveva passato sette mesi nell’utero con il suo gemello, in attesa di nascere. Tutto quel tempo con Apollo avrebbe dato a chiunque una brutta impressione del genere maschile. Artemide nacque per prima, probabilmente perché non ne poteva più. Crebbe immediatamente fino alle dimensioni di una bambina di sei anni e si guardò intorno, scrutando le altre dee che si erano radunate ad aiutare Leto. — Bene — annunciò. — Ci penserò io ad assistere mio fratello mentre nasce. Sarà un rompiscatole. Mettete a bollire dell’acqua! E portate altre pezze! Io penserò a disinfettare. E così aiutò il suo gemello a venire al mondo. Da allora divenne la dea delle nascite, la protettrice dei neonati e dei bambini (insieme all’altra dea dei parti, Ilizia; facevano a turno). Non appena Apollo nacque e cominciò a danzare intorno e a cantare la propria bellezza, Artemide si limitò a fare un passo indietro e ad alzare gli occhi al cielo. — È sempre così — confidò a Estia. — Sette mesi con lui in quell’utero, e non è mai stato zitto un minuto. Estia fece un sorriso comprensivo. — E tu, cara? Sei anche tu capace di danzare e cantare? — Ehm, no. Però ho un sacco di progetti. Potresti portarmi da mio padre? Estia volò con la piccola Artemide sul Monte Olimpo, dove papà Zeus, assiso sul trono, stava ascoltando il rapporto settimanale degli dei del vento sulla formazione delle nuvole. Era una faccenda così noiosa che fu ben felice di vedersi offrire una distrazione. — Ehi, guardate! — esclamò interrompendo la presentazione PowerPoint del Vento del Sud riguardante le zone a bassa pressione. — È Estia… e con una bambina. Entrate! Estia avanzò nel salone portando Artemide per mano. — Divino Zeus, ecco la tua nuova figlia, Artemide. Possiamo tornare più tardi, se sei impegnato. — Impegnato? — Zeus si schiarì la voce. — No, no! Sono cose importanti, i bollettini meteorologici, ma che diamine, possono aspettare! Cacciò via gli dei del vento e aprì le braccia ad Artemide. — Vieni da papà, piccolina! Fatti guardare! Artemide indossava un semplice chitone, una specie di T-shirt al ginocchio con una corda in vita. Aveva i capelli nero corvino lunghi fino alle spalle e occhi grigio argento che colpivano per la loro intensità. E uso la parola “colpivano” perché l’impressione era che se Artemide si fosse arrabbiata, saresti potuto morire all’istante. Aveva meno di un giorno, ma sembrava già in età da scuola elementare. Anche per una bambina di nove o dieci anni era piuttosto alta. Avrebbe potuto essere il capitano della squadra di basket di quarta senza nessuna fatica. Nell’avvicinarsi al trono, scoccò a Zeus un sorriso smagliante che gli fece sciogliere il cuore. — Paparino! — gli disse gettandosi tra le sue braccia. — Ti voglio bene, ti voglio bene! Sei il miglior papà del mondo! Magari i maschi non le piacevano, di certo però sapeva come conquistare il padre. Zeus fece una risatina. — Accidenti, che delizia! Sei la piccola dea più carina che io abbia mai visto. Di’ a papà Zeus cosa vuoi come regalo di compleanno, tesoruccio mio, e sarà tuo. Artemide sgranò gli occhi. — Qualsiasi cosa? — Qualsiasi cosa! Lo prometto sul fiume Stige! Parole magiche! Magari gli dei avrebbero dovuto essere un po’ più sgamati nel non lasciarsi sfuggire promesse frettolose e impulsive sul fiume Stige; Zeus invece a quanto sembra non imparava mai. Ora avrebbe dovuto dare ad Artemide qualunque cosa lei avesse voluto. Ci sono bambine che avrebbero chiesto un pony, o un nuovo cellulare, o una giornata di shopping con le amiche al centro commerciale. Altre avrebbero scelto un biglietto in prima fila per il concerto della band più in voga del momento, o un appuntamento con qualche ragazzo davvero figo, che ne so, per esempio Percy Jackson, o un tipo come lui. (Embè? Potrebbe succedere.) Ad Artemide tutte queste cose non interessavano. Lei sapeva esattamente quello che voleva. Forse perché mamma Leto non aveva potuto fermarsi per partorire e aveva dovuto vagare di isola in isola. Forse perché il serpente Pitone l’aveva quasi divorata prima che i gemelli nascessero. Qualunque fosse la ragione, Artemide aveva uno spirito irrequieto. Voleva girare il mondo e cacciare le creature feroci, e non voleva assolutamente rimanere incinta. Aveva visto quanti problemi la cosa aveva causato a sua madre. Era felicissima di assistere ai parti, ma non intendeva viverli in prima persona. — Fa’ che io resti vergine per sempre, padre — disse giocherellando con le dita nella barba di Zeus. — Non voglio sposarmi mai. Voglio un arco e delle frecce… no, aspetta. Sai una cosa? Cancella questo punto; se tu mi dai arco e frecce, potrebbero non essere della migliore qualità. Andrò a trovare i ciclopi e chiederò loro di fabbricarmi delle armi su misura. Tu però puoi garantirmi una schiera di seguaci: ninfe dell’oceano, ninfe dei fiumi, ninfe dei boschi… e che diamine, perché non anche fanciulle mortali? Qualunque ragazza voglia unirsi potrà diventare mia seguace, fintanto che rimarrà vergine come me. Probabilmente dovranno prendere la decisione intorno ai nove anni, prima che comincino a interessarsi ai ragazzi, perché dopo saranno distratte e non mi risulteranno di alcuna utilità. Credo che possiamo cominciare con ottanta seguaci, che te ne pare? E vedremo come va. Potranno cacciare con me, scuoiare le mie prede, prendersi cura dei miei cani da caccia. Ah, ecco, dimenticavo: voglio dei cani da caccia! Fece un respiro profondo. — E voglio anche avere il diritto di cacciare qualsiasi animale pericoloso in qualsiasi posto del mondo. Voglio che tutte le montagne siano a me consacrate, perché è lì che passerò la maggior parte del tempo, nei boschi inesplorati. Quanto alle città… non lo so. Scegline pure una qualsiasi come mia sede speciale. Visiterò i luoghi abitati solo quando le donne avranno bisogno del mio aiuto durante il parto, o quando i bambini avranno bisogno di una protettrice. — Sorrise a Zeus con i suoi grandi occhi d’argento. — E… be’, penso sia tutto. Zeus sbatté le palpebre, momentaneamente spiazzato. Poi scoppiò a ridere. — Sei proprio mia figlia! Pensi in grande! — La baciò in fronte e la mise a terra. — Sai, quando arriva un figlio come te, vale assolutamente la pena affrontare la furia di Era. Avrai tutto quello che hai chiesto, tesoro. Ma non solo questo: ti darò un sacco di città. Ho la sensazione che diventerai molto famosa! Zeus aveva ragione. Artemide fu venerata dalle persone più disparate: donne gravide, bambini, genitori, giovani vergini in cerca di protezione da maschi assatanati, e ovviamente tutti quelli che andavano a caccia, che a quei tempi erano parecchi. Maschio o femmina che fossi, se cacciavi Artemide era al tuo fianco: sempre che non buttassi spazzatura in giro per la campagna e utilizzassi davvero le prede che cacciavi. Ma era anche la dea degli animali selvaggi, quindi, se ti lasciavi prendere la mano e ne uccidevi troppi senza un valido motivo, veniva a farti un discorsetto in privato. Dopo aver parlato con Zeus, Artemide andò dai ciclopi, che lavoravano in una delle fucine di Efesto, sull’isola di Lipari. Li convinse a fabbricarle uno speciale arco d’argento e una faretra piena di frecce magiche d’oro e d’argento. Poi andò a far visita a Pan, il dio satiro della natura incontaminata. Scelse i migliori cani selvaggi da lui allevati, perché formassero la sua muta. Alcuni erano bianchi e neri, altri fulvi, altri ancora chiazzati come dalmata, ma tutti erano feroci. Correvano più forte del vento, ed erano ciascuno abbastanza forte da abbattere un leone adulto. Immaginatevi cosa potevano fare in branco. Dopodiché Artemide chiamò a raccolta il suo gruppo di seguaci. Non fu difficile. Un sacco di ninfe e fanciulle mortali gradivano l’idea di vivere libere nei boschi senza doversi preoccupare del matrimonio. Voi adesso penserete: “Be’, però prima o poi sposarsi non dovrebbe essere male!”. Già, ma a quei tempi la maggior parte delle fanciulle non poteva scegliere il marito. Era loro padre che semplicemente diceva: “Bene, tu sposerai quel tipo. Mi ha offerto la dote più ricca”. Non importava se era grasso, vecchio e brutto, o se puzzava di formaggio stagionato. Non avevano altra scelta che sposarlo. Le seguaci di Artemide non dovevano angustiarsi per cose del genere. E non dovevano nemmeno mai guardarsi le spalle per paura che qualche dio afflitto da pene d’amore tendesse loro un agguato. Le Cacciatrici di Artemide erano off-limits. Chiunque tentasse di rapirle, o anche solo di flirtare con loro, si sarebbe ritrovato dalla parte sbagliata dell’arco d’argento della dea. Di solito Artemide portava con sé circa venti seguaci per ogni battuta di caccia. Perché non è che si possa strisciare vicino a una preda con ottanta fanciulle al seguito. Il resto di loro o cacciava in gruppi separati, o rimaneva al campo a squartare le prede, conciare le pelli, accendere i fuochi… Insomma, tutte quelle cose che i patiti della natura fanno quando campeggiano. Io sono di Manhattan. Mica le so, queste cose. Ben presto Artemide si accorse che avrebbe dovuto percorrere lunghe distanze e spostarsi in fretta, talvolta molto più in fretta di quanto persino una dea potesse fare muovendosi a piedi. Così decise che avere un cocchio sarebbe stata una bella idea. Solo che non sapeva bene che tipo di animali avrebbero potuto tirarlo. I cavalli erano roba da Poseidone. Oltretutto erano stati addomesticati. Lei voleva qualcosa di selvaggio e veloce. Poi un giorno scorse un branco di cervi. Ora penserete: “Wow, cervi. Che figata”. Ma in questo branco di cervi c’erano cinque enormi femmine adulte delle dimensioni di un toro, con zoccoli e corna di oro massiccio. Come faceva Artemide a sapere che era oro massiccio e non semplicemente placcato? Be’, essendo la dea degli animali selvaggi, lo sapeva e basta. Si girò verso le sue seguaci e disse: — Quelle nobili cerve sarebbero meravigliose, attaccate al mio cocchio. Avanti, catturiamole, ragazze! Ora, Artemide preferiva non uccidere animali indifesi come i cervi. In genere uccideva quelli che attaccavano gli umani, come orsi, leoni o tassi furiosi. Aveva però un sacco di tattiche efficaci per catturare le bestie senza far loro del male. Tra le sue seguaci c’era una ninfa di nome Britomarti, così brava a tessere reti che alla fine Artemide la rese una dea minore, la Signora delle Reti. (Se giocava a pallacanestro? Non lo so.) Britomarti sistemò dei lacci e una rete sapientemente nascosti. Poi le seguaci di Artemide cominciarono a fare un gran rumore. Proprio come avevano sperato, la maggior parte dei cervi di taglia normale scapparono, ma le cerve giganti con le corna d’oro si voltarono per affrontare il nemico e proteggere il branco. Quattro di loro caricarono a testa bassa, finendo proprio dentro la rete, e furono catturate, ma all’ultimo momento la più sveglia si girò e si mise in salvo. — Mia signora — disse Britomarti — dobbiamo inseguirla? Artemide sorrise. — No, per tirare il mio cocchio quattro sono sufficienti. Quella si è meritata la libertà. È un animale furbo! D’ora in avanti avrà la mia benedizione. Proibisco a qualsiasi cacciatore di farle del male. La fortunata cerva visse a lungo. Diventò famosa per avere eletto a suo territorio una zona della Grecia chiamata Cerinea, e quindi fu chiamata la Cerva di Cerinea. In seguito fu ordinato a Ercole di catturarla, ma anche questa è un’altra storia. Ora Artemide aveva tutto quello che le serviva: le armi, le seguaci, i cani da caccia e il cocchio trainato da cerve magiche con corna da quattordici carati. Trascorreva il tempo a vagare per le montagne, a cacciare mostri e a punire chiunque si dimostrasse crudele senza motivo verso gli animali o non rispettasse la natura. A volte compariva in qualche città per dare un’occhiata ai bambini, aiutare le madri a partorire e magari fare un po’ di reclutamento tra le giovinette che volevano unirsi alla caccia. Per molti versi lei e il fratello Apollo erano simili. Erano arcieri dannatamente abili. Se Artemide era la protettrice delle giovani vergini, Apollo era il protettore dei giovanotti. Entrambi avevano potere di guarigione. Entrambi potevano punire i mortali irrispettosi con un’inaspettata freccia avvelenata o una tragica pestilenza. Più tardi Artemide divenne nota anche come dea della luna, prendendo il posto di Selene, così come Apollo prese il posto di Elio. A volte vi capiterà di vederla con una falce di luna sulla fascia intorno al capo, il che può significare che, okay, è la dea della luna, ma anche che potrebbe avere un boomerang appiccicato in fronte. Facciamo che ci atteniamo alla prima versione. Per altri aspetti però Artemide era molto diversa dal fratello. Apollo usciva con tutte. Artemide non aveva tempo per simili futilità. Era completamente immune dalla magia dell’amore. A suo fratello piaceva suonare. Artemide preferiva il canto dei grilli di notte, gli scoppiettii dei fuochi di campo, lo stridere delle civette e il gorgoglio dei ruscelli. Apollo adorava essere al centro dell’attenzione. Artemide preferiva scivolare nei boschi selvaggi ed essere lasciata in pace, sola con le sue seguaci. I suoi simboli? Sorpresa sorpresa: l’arco, il cervo e a volte la falce di luna. Ora magari penserete che solo le donne la venerassero, invece era rispettata anche dagli uomini. Gli spartani la invocavano per avere una buona caccia, la vittoria nelle gare di tiro con l’arco e roba simile. Attenzione, particolare truculento: per onorarla legavano un giovinetto all’altare della dea e lo frustavano fino a che il suo sangue non schizzava tutt’intorno. Perché pensassero che questo avrebbe fatto felice Artemide proprio non lo so. Ho già detto che gli spartani erano completamente fuori di testa? Altri in Grecia le sacrificavano capre, o persino cani. Cani? Artemide amava i cani. E di nuovo, perché glieli sacrificassero non lo so. Si spera che la dea abbia dimostrato il suo disappunto mandando a quegli idioti una qualche pestilenza. Era molto popolare in tutta la Grecia, ma il suo tempio più imponente si trovava nella città di Efeso, in Asia Minore. Erano state le Amazzoni a fondare quel luogo, il che ha senso. Una nazione di donne guerriere? Totalmente in linea con Artemide. La dea era per lo più dedita alla caccia, ma quando c’era bisogno era anche un’eccellente guerriera. Per esempio quando gli Aloadi, i due giganti gemelli, attaccarono l’Olimpo impilando montagne per costruire una torre d’assedio, fu lei che li sconfisse. Le cose andarono così. Dopo che Ares, il dio della guerra, fu liberato da quel vaso di bronzo, i giganti gemelli cominciarono a fare i bulli blaterando che avrebbero conquistato l’Olimpo e reso gli dei loro schiavi. Efialte voleva in moglie Era, e Oto voleva costringere Artemide a sposarlo. Quando la cosa le giunse all’orecchio, la dea della caccia disse: — Va bene. Quei due devono morire, e subito. Avrebbe potuto abbatterli da lontano con il suo arco, ma preferì affrontare la faccenda personalmente e su un piano ravvicinato, così da poter vedere la sofferenza sulle loro facce. Si precipitò giù dalla montagna e li bersagliò con un nugolo di frecce, colpendoli alle gambe, alle mani e in altri punti molto sensibili. I due giganti cercarono di infilzarla con le loro enormi lance, ma lei era troppo veloce. Alla fine si lanciò in mezzo a loro. Quelli cominciarono a menare colpi, ma lei li schivava all’ultimo istante, e i due finirono per trafiggersi a vicenda. Fine della storia. Giganti morti. Problema risolto. L’episodio andò a costituire la più clamorosa svista de Le più buffe Battaglie dell’Olimpo. Per la maggior parte del tempo, però, Artemide lasciava che fossero gli animali selvaggi a uccidere per lei. Una volta, nella città greca di Calidone, un certo re Eneo si dimenticò di fare sacrifici adeguati alla dea. Era tempo di raccolto, e gli abitanti dovevano offrire i primi frutti delle loro fatiche agli dei. Versarono olio di oliva per Atena. Bruciarono grano per Demetra. E sacrificarono spiedini di pesce con salsa tartara a Poseidone. Si dimenticarono però di Artemide. Lei voleva solo qualche mela dei loro frutteti. Si sarebbe persino accontentata di un paio di limoni. Ma il suo altare rimase vuoto. — E va bene — brontolò. — Potrò anche essere disonorata, ma non rimarrò invendicata. Ed evocò il maiale più feroce nella storia dei maiali. Questo verro selvaggio aveva la stazza di un rinoceronte, gli occhi iniettati di sangue e fiammeggianti. La cotenna spessa come acciaio era ricoperta di setole acuminate come lance, quindi anche solo se ti si strofinava contro ti faceva a pezzi. Dalla bocca eruttava fulmini e nuvole di acido, che facevano avvizzire e bruciare tutto quello che trovavano sul loro percorso, e le zanne enormi e affilate come rasoi… be’, se arrivavi abbastanza vicino da vedere le zanne, eri già spacciato. Per farla breve, era il Maiale della Morte. Artemide lo sguinzagliò per i campi, dove la belva sradicò frutteti, devastò prati e uccise tutti gli animali, gli agricoltori e quei soldati abbastanza stupidi da provare a combatterlo. A quel punto, re Eneo era parecchio rammaricato di non aver offerto ad Artemide almeno qualche mela. Si rivolse al figlio Meleagro e gli disse: — Tu sei il miglior cacciatore del regno, figlio mio! Che cosa dovremmo fare? — Cacciare il verro! — rispose Meleagro. — Artemide è la dea della caccia, giusto? L’unico modo per farci perdonare sarà organizzare la più grossa e pericolosa battuta di caccia della storia. Se abbatteremo il maiale con coraggio e destrezza, lei ci perdonerà di sicuro. Re Eneo aggrottò la fronte. — Oppure si arrabbierà ancora di più. Oltretutto, temo che non riuscirai a uccidere quel mostro da solo! — Da solo no — convenne Meleagro. — Convocherò i migliori cacciatori della Grecia! Il re sparse la voce e offrì ricchi premi e cotillon. In breve tempo, i cacciatori di tutto il mondo affluirono a Calidone. Si prepararono per la Prima e Auspicabilmente Ultima Caccia Annuale al Verro di Calidone. Artemide non rese loro le cose facili. Un tizio di nome Mopso, che era il più bravo lanciatore d’asta di tutta la Grecia, scagliò la sua lancia al verro con una forza sufficiente a trapassare uno scudo di bronzo. Artemide fece in modo che la punta della lancia cadesse a metà volo. L’arma si limitò a rimbalzare innocua sulla bestia. Un altro cacciatore di nome Anceo gli rise dietro. — Non è questo il modo di combattere il Maiale della Morte! Guarda e impara! — Brandì la sua ascia a doppia lama. — Ti faccio vedere io come combatte un vero uomo! Il porcello di quella femminuccia non può competere con me. Caricò tenendo l’ascia alta sopra la testa, e il maiale gli conficcò le zanne proprio nell’inguine. Il giovane morì, e fu per sempre ricordato come il Depallizzato Prodigio. Alla fine fu il principe Meleagro in persona a sgozzare il verro, con l’aiuto dei suoi amici. L’impresa fu coraggiosa, ma Artemide non era ancora soddisfatta. Instillò l’invidia negli altri cacciatori. Meleagro scotennò il verro e ne appese la pelle a palazzo, annunciando che sarebbe stata assegnata come premio per la partita di caccia, ma a quel punto scoppiò una rissa per decidere a chi davvero spettasse il merito dell’uccisione. La disputa si trasformò in una guerra civile su larga scala. Morirono a centinaia, e tutto perché il re aveva dimenticato di offrire ad Artemide qualche frutto. Dico, sono solo dodici dei. La prossima volta fatti una lista da spuntare, Eneo. Quindi, le cose stavano così. Se ti dimenticavi di fare sacrifici, Artemide poteva anche ucciderti. Ma se volevi garantirti una morte davvero dolorosa, allora non dovevi fare altro che invadere il suo spazio personale. Un cacciatore di nome Atteone commise questo errore. La cosa pazzesca era che lui Artemide la rispettava davvero. Le sacrificava offerte con estrema puntualità, le dedicava le sue prede migliori, faceva di tutto per essere sempre un buon cacciatore. Era stato allevato e addestrato da Chirone in persona, il famoso centauro che aveva fatto da maestro ai migliori eroi greci (ehm, a me, per esempio). Atteone aveva una muta di cinquanta cani. Quando non stava nella caverna di Chirone a imparare tutte quelle cose da eroi, era in giro con i suoi cani, a inseguire creature pericolose e a portare a casa bacon di maiale. Una sera era sui monti, esausto dopo una pesante giornata di caccia. Si distese per dormire su una roccia che sporgeva sopra un lago con una cascata. I suoi cani si acciambellarono nell’erba dietro di lui. Si tirò la coperta sulla testa e si mise a dormire. Si svegliò solo il mattino dopo al suono di voci. Atteone si strofinò gli occhi ancora mezzo addormentato, guardò il lago e credette di sognare. Sotto la cascata stava facendo il bagno un gruppo di meravigliose fanciulle… senza vestiti. E la più bella assomigliava in tutto e per tutto alle statue di Artemide che aveva visto nei templi. Era alta, con i capelli neri e brillanti occhi color argento. La vista di lei che si immergeva gli fece ruggire il sangue nelle orecchie. Ora, se a quel punto fosse semplicemente strisciato via, tutto sarebbe andato per il meglio. Artemide non si era accorta di lui. Atteone avrebbe potuto allontanarsi di soppiatto e vivere fino a una veneranda età con il suo segreto, e considerarsi fortunato. Voglio dire… non l’aveva importunata, non ancora. Non era stata sua intenzione spiare. E invece no. Ovviamente no. Continuò a guardare, e si innamorò di Artemide. Decise che doveva sposarla. Certo, sapeva che la dea aveva fatto voto di eterna verginità. Ma non aveva ancora conosciuto lui! Atteone la rispettava. Le aveva sempre fatto sacrifici. Adorava cacciare e amava gli animali… avevano così tanto in comune. Come aveva fatto a non pensarci prima? Saltò su dal punto dove aveva dormito e gridò: — Scusa, mia signora! Le seguaci di Artemide cominciarono a strillare e a correre precipitosamente a riva per recuperare vestiti e archi. Artemide strinse gli occhi. Non fece nessun tentativo di coprirsi. Camminò verso Atteone scivolando sull’acqua. — Chi sei? — chiese. — Atteone, mia signora. Sono un abile cacciatore, e ti ho sempre venerata. — Davvero? — Artemide non sembrava troppo impressionata. — Eppure osi spiarmi mentre faccio il bagno. — È… è stato un incidente. — Ad Atteone cominciò a prudere il collo, come se fosse stato assalito da un nugolo di mosche. Ora non si sentiva più così fiducioso, ma era troppo tardi per fare marcia indietro. — La tua bellezza… mi ha spinto a parlarti. Devo averti! Sposami, ti scongiuro! Artemide inclinò il capo. Un’aura argentea cominciò a brillare intorno al suo corpo. — Tu devi avermi — disse. — Credi che io sia una tua preda? — N-no, mia signora. — Tu pensi di essere il cacciatore e io una qualunque preda da conquistare con la tua muta di cani? — Ecco, no. Ma… — Lascia che ti illumini, allora, Atteone — proseguì la dea. — Io sono il cacciatore. Io sono sempre il cacciatore. E tu sei la preda. Nessun uomo che mi abbia visto nuda può continuare a vivere. Il corpo di Atteone si rattrappì per il dolore. La fronte si aprì, e ne spuntarono due grosse corna. Le dita si fusero insieme a formare due zoccoli. La schiena si inarcò e si allungò. Le gambe si assottigliarono. I calzari si ridussero e si indurirono fino a diventare anch’essi zoccoli. Atteone divenne un bellissimo maschio di cervo. Artemide emise un fischio acuto. La muta di cinquanta cani di Atteone si destò dal sonno. Non sentivano da nessuna parte l’odore del padrone, ma accidenti, quel cervo enorme sapeva davvero di buono! Atteone cercò di intimare loro di stare fermi, ma era senza voce. E quelli non lo riconobbero. Il poveretto fece un balzo, come farebbe qualsiasi cervo; i cani però furono fin troppo veloci. E sbranarono il loro vecchio padrone, riducendolo a brandelli. Quando ebbero finito, si guardarono intorno, ma non videro Atteone da nessuna parte. Allora latrarono e guairono con tristi gemiti, e alla fine presero la strada di casa, diretti alla caverna di Chirone. Il centauro vide i brandelli dei vestiti di Atteone impigliati nei loro denti e il sangue sulla loro pelliccia, e capì cos’era accaduto. Aveva avvertito quello stupido ragazzo di non mettersi nei guai con Artemide! Per consolare i cani, costruì con i resti dei vestiti del cacciatore un fantoccio con le sue sembianze, come uno spaventapasseri, affinché le povere bestie si illudessero che il padrone era ancora lì con loro. Immagino fosse stato gentile da parte di Chirone, per il bene dei cani, ma mi chiedo se non abbia uno spaventapasseri con la faccia di Percy Jackson infilato in un armadio da qualche parte, per le emergenze. Non sono certo di volerlo sapere. Quella non fu l’unica volta in cui un maschio scorse Artemide fare il bagno. La volta successiva si trattò di un ragazzo di nome Sipriote, che stava semplicemente passeggiando in giro e capitò nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quando vide la dea nuda, gridò per la sorpresa, ma era solo un bambino. Non le chiese di sposarlo. Non fece altro che cadere sulle ginocchia e implorare pietà. — Ti prego, signora — gemette. — Non intendevo farlo. Non trasformarmi in un cervo per farmi sbranare dai cani! Artemide si sentì a disagio. Dopotutto era la protettrice dei bambini! — Vedi, Sipriote — disse — il problema è che nessun maschio può vedermi nuda e continuare a vivere. — Ma… ma… — E dal momento che tu un maschio lo sei, devo ucciderti. A meno che, ovviamente, tu non sia un maschio… Sipriote sbatté le palpebre. — Vuoi dire… un momento. Cosa? — Morte o cambio di sesso. A te la scelta. Non c’era molto da scegliere. Sipriote non voleva morire. E così… swam! Artemide lo trasformò in una lei, e la fanciulla Sipriote visse da allora felice e contenta tra le Cacciatrici di Artemide. Assurdo? Oh, vedrete che adesso lo sarà ancora di più! Un’altra volta una delle seguaci di Artemide, una fanciulla di nome Callisto, catturò l’attenzione di Zeus. Ora, come abbiamo detto, le seguaci di Artemide in teoria dovevano essere off-limits, ma qui stiamo parlando di Zeus. E poi Callisto era davvero uno sballo. A quel tempo era la seguace preferita di Artemide. Le due erano molto simili: entrambe forti e veloci, per niente interessate ai ragazzi. Erano diventate migliori amiche non appena Callisto si era unita alla squadra. Come tutte le seguaci di Artemide, aveva giurato di rimanere vergine per sempre, ma Zeus la pensava diversamente. Un giorno guardò giù dall’Olimpo e la vide sola in una radura, che si rilassava godendosi il sole. — È la mia occasione! — si disse. — Devo solo escogitare qualcosa per arrivarle tanto vicino che non possa scappare. La ragazza è veloce. Mmmh… Cambiò forma e assunse le sembianze di Artemide. Lo so, lo so: una carognata, vero? Ma come ho già detto, il nostro non aveva nessun pudore quando si trattava di conquistare una fanciulla. Poteva addirittura fare finta di essere la sua stessa figlia. La falsa Artemide avanzò lentamente nella radura. — Ciao, Callisto. Che fai di bello? — Mia signora! — Callisto balzò in piedi. — Stavo solo riposando. — Posso unirmi a te? — chiese la falsa Artemide. Callisto notò qualcosa di strano nello sguardo della dea, tuttavia disse: — Uhm… ma certo. La falsa Artemide si avvicinò ancora di più. Prese Callisto per mano. — Sei molto bella, lo sai? E la baciò, e non sto parlando di un bacino amichevole sulla guancia. Callisto si divincolò e cercò di respingerla, ma Zeus la tenne stretta, ed era decisamente più forte di lei. — Mia signora! — strillò la fanciulla. — Che cosa stai facendo? Zeus riprese il suo vero aspetto, e Callisto strillò ancora più forte. — Su, su — disse il dio del cielo. — Non c’è nessun bisogno che Artemide lo sappia, mia cara. Sarà il nostro piccolo segreto. E così, ancora una volta, Zeus dimostrò di essere un individuo divinamente schifoso. Già, ovvio che potrebbe sentirmi e arrabbiarsi. Non sarebbe certo la prima volta che mi capita. Ma, dico, chiamiamo le cose con il loro nome. Se la vera Artemide fosse stata a portata d’orecchio, sarebbe arrivata di corsa ad aiutare Callisto. Purtroppo la fanciulla era sola. E Zeus poté fare i suoi porci comodi. Dopodiché, Callisto si vergognava troppo per dire qualcosa. Temeva che, in qualche modo, fosse stata colpa sua. Suggerimento per le ragazze: se venite assalite da un bastardo, non è mai colpa vostra. Spargete la voce. Callisto tenne il segreto più a lungo che poté. Provò a fingere che non fosse accaduto nulla. Purtroppo, si ritrovò incinta. Non poteva nasconderlo per sempre. Alcuni mesi dopo, al termine di un’afosa giornata passata a cacciare mostri, Artemide e la sua banda andarono a nuotare. Si tuffarono tutte nel lago, tranne Callisto. — Cosa c’è che non va? — la chiamò Artemide. — Avanti, vieni! Callisto arrossì. Si mise le mani sul ventre, che cominciava a ingrossarsi. Non osava togliersi i vestiti, perché la dea se ne sarebbe accorta. Ma Artemide fiutò il problema comunque. Improvvisamente capì perché negli ultimi tempi Callisto era sempre così triste e assente. Il cuore le sprofondò nel petto. — Proprio tu, Callisto? — disse. — Di tutte le mie seguaci, proprio tu hai infranto il voto? — N-non volevo! — si disperò la fanciulla. Una lacrima le rotolò giù per la guancia. — Chi è stato? — chiese Artemide. — Un affascinante guerriero? Un eroe dalle parole dolci? Mio fratello Apollo? Oh, no… ti prego, dimmi che non è stato lui! — Sei stata… sei stata tu! — pianse Callisto. Artemide le scoccò un’occhiata gelida. — Senti senti. Racconta un po’. Callisto le raccontò di come Zeus le fosse apparso sotto le sue sembianze. La dea fremette di rabbia. Avrebbe voluto strangolare suo padre, ma non è che si possa fare molto quando tuo papà è il re dell’universo. Guardò Callisto e scosse la testa, piena di compassione. — Eri la mia prediletta — disse. — Se fossi venuta subito da me, avrei potuto aiutarti. Ti avrei trovato un marito ricco e bello e ti avrei lasciato iniziare una nuova vita, in una città di tua scelta. Ti avrei permesso di ritirarti dal gruppo con onore. Avresti potuto andartene in pace. L’aggressione di Zeus non è stata colpa tua. Callisto singhiozzò: — Ma io non volevo perderti! Volevo stare qui! Artemide si sentì spezzare il cuore, ma non voleva darlo a vedere. Le regole erano regole, e non poteva permettere che fossero infrante, nemmeno dalla sua migliore amica. — Callisto, il tuo crimine è stato tenere il segreto. Con la tua mancanza di onestà mi hai disonorata, e con me le tue compagne. Perdendo la verginità hai contaminato il nostro gruppo. E questo non posso perdonarlo. — Ma… ma, Artemide… — Basta così! — La dea le puntò contro un dito, e la giovinetta cominciò a trasformarsi. Crebbe di dimensioni. Le sue gambe si fecero più corte e più grosse. I vestiti, che erano serviti a mascherare le sue condizioni, diventarono uno spesso e soffocante mantello di pelliccia scura. Callisto si trasformò in un orso bruno. Quando provò a parlare, riuscì solo a emettere un ringhio. — Ora vai — disse Artemide cercando di non piangere. — La tua nuova forma ti ricorderà che non potrai mai comparire davanti ai miei occhi. Se ti vedrò ancora, dovrò ucciderti. VATTENE. Callisto caracollò via tra gli alberi. Partorì un bambino umano che chiamò Arcade e che ritornò nel mondo dei mortali e alla fine diventò un re. Ma di lì a poco la poveretta fu uccisa dai cacciatori. Zeus provò un po’ di rimorso. La trasformò in una costellazione, l’Orsa Maggiore o Grande Carro, come se questo potesse ripagare il fatto di averle rovinato la vita. Stranamente, dopo l’incidente con Callisto i due migliori amici di Artemide furono entrambi ragazzi. Forse si era immaginata che non potessero ferirla più di quanto avesse fatto Callisto o, in caso contrario, almeno non ne sarebbe stata sorpresa, dal momento che i maschi sono bastardi per natura. O forse cercava solo di provare a se stessa che non sarebbe mai venuta meno al suo voto di verginità, persino con i ragazzi più interessanti che avesse potuto incontrare. Il suo primo amico maschio fu Orione, che aveva un passato oscuro. Innanzitutto era un gigante. Per essere un gigante però era piccolo, solo due metri circa di altezza, ed era umanoide quel tanto che bastava per passare quasi per un mortale. Aveva lavorato a lungo per il re di Chio come cacciatore reale. Poi si era messo nei guai con la figlia del re. Quando costui lo aveva scoperto, lo aveva accecato con un ferro rovente. E poi lo aveva allontanato dal suo regno. Orione aveva errato per la Grecia fino a incappare nel dio fabbro Efesto, a cui aveva raccontato la sua tragica storia. Si era mostrato sinceramente dispiaciuto, così Efesto – che di tragedie e seconde possibilità ne sapeva parecchio – aveva costruito degli occhi meccanici che avevano permesso al gigante di tornare a vedere. Dopodiché Orione si ritirò a Delo, dove incontrò Artemide. La dea pensò che fosse un tipo per bene. Non cercava di nascondere i suoi passati crimini, e in più era un abile cacciatore. Gli anni di cecità avevano acuito gli altri suoi sensi, e gli occhi meccanici gli permettevano una perfetta visione notturna e una mira eccezionale. Fu il primo maschio che si aggiunse alle Cacciatrici di Artemide. Non so bene come si sentissero le altre seguaci al riguardo. Le Cacciatrici non erano mai state corteggiate, fino a quel momento. Ma Orione non tentò mai nulla di sconveniente. Quando le ragazze andavano a fare il bagno, lui si teneva a distanza. Le aiutava con le faccende proprio come se fosse una di loro. Ben presto divenne amicissimo di Artemide. L’unico problema: Orione era un po’ troppo bravo nella caccia. Un giorno era in giro da solo e si lasciò prendere la mano. Colpì sedici orsi, dodici leoni e parecchi mostri di cui non sapeva nemmeno il nome. Poi cominciò a uccidere bestie innocue: cervi, conigli, scoiattoli, uccelli, vombati. Forse si era solo distratto. Forse lo aveva fatto impazzire Apollo, perché ad Apollo non piaceva che il tizio passasse così tanto tempo con sua sorella. Comunque, ben presto Orione si ritrovò con una montagna di carcasse di vombato impilate in giro. Si impiastricciò la faccia con sangue di scoiattolo, si mise delle foglie nei capelli e cominciò a gridare: — Ucciderò tutti gli animali del mondo! Tutti! Morite, stupide creature pelose! Questo comportamento non si conciliava molto con la dichiarazione di amicizia delle Cacciatrici nei confronti della natura. E non fece nemmeno piacere a Gea, la Madre Terra. Orione gridava così forte che attirò la sua attenzione, anche se stava dormendo, tanto che borbottò tra sé e sé: — Chi è che vuoi uccidere, razza di idiota? Beccati questo. E da una spaccatura del terreno proprio dietro a Orione emerse uno scorpione enorme. Il gigante si girò e si prese una bella puntura velenosa nel petto. Questa fu la fine di Orione. Artemide andò a cercarlo, e quando trovò il suo corpo freddo e senza vita circondato (per qualche bizzarra ragione) da migliaia di piccole creature pelose morte, il suo cuore si spezzò di nuovo. Questa volta fu lei a creare una costellazione. Mise Orione nel cielo, con uno scorpione vicino, così che la sua storia rimanesse per sempre. Credo che la morale sia: non massacrare coniglietti, scoiattoli e vombati. Non ti hanno fatto niente, e potresti scoprire che hanno un grosso scorpione per amico. L’ultimo migliore amico di Artemide fu un principe di nome Ippolito. Il giovanotto era bello e affascinante, ma le storie romantiche non lo interessavano neanche un po’. Voleva solo passare il tempo cacciando. In altre parole, era l’uomo perfetto per Artemide. Lo accolse nella squadra, il che dev’essere stata una sfida per qualcuna delle sue seguaci. Il ragazzo era un po’ troppo attraente, e la cosa gli si ritorse contro. Tuttavia, Ippolito era un seguace modello. Tenne sempre fede ai voti e non diede mai una seconda occhiata alle signore. Non piaceva a tutti, però. Sull’Olimpo, Afrodite si sentì offesa. — Vogliamo scherzare? — gemette. — Un ragazzo sexy come quello che se ne sta con ottanta bellissime donne e non mostra nessun interesse? Ma è un insulto! È inaccettabile! La volta successiva che Ippolito tornò a casa a trovare suo padre, il re Teseo (che è tutta un’altra storia), iniziarono un’accesa discussione. Il re voleva che Ippolito si sposasse, avesse dei figli, portasse avanti il nome di famiglia quando fosse diventato re e bla-bla-bla. Ippolito disse: — No! Voglio stare con Artemide e il suo gruppo! Teseo replicò irritato: — Se le vuoi così tanto bene, perché non sposi lei? — Perché è una dea vergine, papà! Non ascolti mai quello che dico! La discussione si fece sempre più accesa, perché dall’Olimpo Afrodite stava infiammando i toni. Certo, era la dea dell’amore, ma a voler ben vedere non c’è molta differenza tra l’amore e l’odio. Vanno entrambi fuori controllo facilmente, e l’uno si trasforma nell’altro. Fidatevi. So quello che dico. Alla fine, Teseo sguainò la spada e uccise il figlio. Ooops! Ovviamente se ne vergognò moltissimo. Sistemò il corpo del principe nella cripta reale e si allontanò per piangerlo in privato. Nel frattempo, ad Artemide arrivò la notizia e corse alla tomba. Piangendo di rabbia, sollevò il corpo di Ippolito. — No! No, no, no! Non perderò mai più un altro migliore amico. Mai più! Si allontanò come un fulmine dalla città, portando con sé il corpo. Setacciò tutta la Grecia finché non trovò il miglior medico del mondo, Esculapio. Era figlio di Apollo, il dio della guarigione, ma era un guaritore persino migliore del padre. Probabilmente perché passava tutto il suo tempo a guarire davvero, mentre Apollo correva dietro alle ragazze e dava concerti nel parco. — Zia Artemide! — la salutò Esculapio. — Che piacere vederti! Artemide distese il corpo di Ippolito ai suoi piedi. — Esculapio, ho bisogno che tu lo guarisca. Per favore! È troppo persino per i miei poteri. — Mmmh — fece Esculapio. — Che cos’ha che non va? — È morto — disse Artemide. — Si tratta di una condizione grave. Quasi sempre fatale. Ma vedrò cosa posso fare. Esculapio mescolò qualche erba, mise a bollire una pozione e la fece inghiottire a forza al principe morto, che immediatamente si svegliò. — Sia ringraziato il Fato! — esclamò Artemide. — Esculapio, sei il migliore! — Figurati, nessun problema. A dire il vero un problema ci fu. Afrodite andò a lamentarsi da Zeus. Sì, era proprio una carogna. Poi si lamentò anche Ade: Esculapio non poteva andarsene in giro a far resuscitare i morti. Avrebbe causato il caos sia nel mondo mortale che in quello degli Inferi. Zeus si dichiarò d’accordo. Colpì Esculapio con un fulmine e lo uccise, che è la ragione per cui oggi non potete andare da un dottore e chiedergli di resuscitare i vostri cari estinti. Il dio del cielo dichiarò questo livello della medicina off-limits. Quanto a Ippolito, Artemide si assicurò che rimanesse sano e salvo. Lo spedì in Italia, dove diventò un sacerdote in uno dei suoi templi sacri e visse fino a veneranda età. Da allora Artemide decise che non si sarebbe più affezionata a nessuno dei suoi seguaci. Era troppo pericoloso per loro. E diventò anche molto cauta a far entrare altri maschi nella squadra. A me va bene. Artemide mi sta simpatica, ma non voglio immischiarmi troppo con la natura. E poi non mi piace cacciare. Le ragazze sì che mi piacciono, ma alla mia non andrebbe poi così tanto che io frequentassi ottanta bellissime fanciulle là in mezzo alla natura selvaggia. È un tipo possessivo, che ci volete fare. ERMES RISCHIA IL RIFORMATORIO Sarebbe molto più rapido elencare le cose di cui Ermes non era il dio, perché lui aveva le mani in pasta ovunque. Era il dio dei viaggi, quindi il patrono di chiunque usasse le strade, e cioè mercanti, messaggeri, ambasciatori, rappresentanti e mandriani che portavano le loro bestie al mercato. Ma anche banditi, ladri, vagabondi e tutte quelle fastidiose comitive di pensionati che si dirigevano a sud per l’inverno. Poi aveva il compito di guidare le anime dei morti nell’altro mondo. Era il corriere FedEx personale di Zeus e portava i messaggi del capo ovunque, consegna garantita nelle dodici ore. Era poi il dio (tenetevi forte) del commercio, delle lingue, dei furti, dei cheeseburger, degli imbrogli, dei discorsi eloquenti, delle feste, dei cheeseburger, dell’ospitalità, dei cani da guardia, degli uccelli del malaugurio, della ginnastica, delle gare d’atletica, dei cheeseburger, dei cheeseburger e della predizione del futuro con i dadi. Sì, ho infilato dentro i cheeseburger solo per vedere se stavate attenti. E poi ho fame. Fondamentalmente, Ermes si occupava di tutte le cose e le persone che si possono incontrare viaggiando, sia buone sia cattive. Quindi se dovete mettervi in viaggio, auguratevi che Ermes sia di buon umore, altrimenti finirete per dormire in aeroporto o rimanere bloccati per strada con una gomma a terra. Dal momento che tutti nell’antica Grecia prima o poi avevano necessità di viaggiare, Ermes era un personaggio importante e molto rispettato. Difficile credere che fosse nato in una caverna e fosse stato arrestato alla tenera età di dodici ore. La sua mamma, Maia, cercò fin da subito di tenerlo lontano dai guai. Maia era la figlia di Atlante e quindi apparteneva alla stirpe dei Titani; quando capì che aspettava un figlio di Zeus (il che l’ha resa… fatemi pensare… la ragazza numero 458? Qualcuno di voi ha per caso tenuto il conto?) cercò di proteggersi in modo da non finire come la maggior parte delle conquiste del dio: maledetta e vessata da Era. Si nascose perciò in una caverna sul Monte Cillene, nella Grecia centrale, dove partorì il piccolo Ermes, tanto carino. Capì subito che suo figlio era un dio, così si disse che doveva stare molto attenta. Non si riesce mai a prevedere quando un dio bambino comincerà a danzare e cantare e ammazzare la gente (aveva sentito Leto). Maia nutrì il piccolo Ermes e lo fasciò stretto, così che non potesse muoversi o cacciarsi nei guai. Lo sistemò in un cesto di vimini come culla e cominciò a cantargli una ninnananna che narrava di dei e dei loro animali preferiti, perché persino allora le canzoncine per bambini parlavano di animali della fattoria e cose del genere. Cantò di Artemide e dei suoi cani, di Poseidone e dei suoi cavalli, di Apollo e della sua mandria di vacche sacre, i ruminanti più belli e gustosi del mondo. Finalmente Ermes si addormentò. Maia allora si trascinò a letto e crollò, perché partorire era stata una faticaccia. Non appena Ermes sentì la mamma russare, aprì gli occhi. Il dio infante cominciò ad agitarsi nelle fasce. — Porca miseria — mormorò. — Sono nato da meno di mezz’ora, e sono già in camicia di forza? La mamma proprio non si fida di me. Furba, la ragazza. A furia di dimenarsi si liberò e saltò fuori dalla culla. Aveva sì l’aspetto di un neonato, ma solo perché non era ancora pronto per cominciare a crescere. Pensò che un bimbo avrebbe potuto passarla liscia meglio che un ragazzino più grande. Si stiracchiò le braccia, fece qualche saltello e si liberò del pannolino. — Tutto questo cantare di mucche mi ha fatto venire fame — disse. — Potrei andare a cercarmi una bistecca! Trotterellò fuori dalla caverna, immaginando che non sarebbe stato troppo difficile trovare la mandria di Apollo. Aveva fatto solo pochi passi, quando inciampò in qualcosa di duro. — Ahia! Si inginocchiò e si accorse che aveva urtato contro una tartaruga. — Ciao, piccolina — disse. — Sei il primo animale che incontro. Quindi direi che sarai una delle mie creature sacre. Ti piacerebbe? La tartaruga si limitò a fissarlo. — Ma che bel guscio hai. — Fece scivolare le dita sul dorso della bestiola. — Che ne dici di venire con me dentro la caverna così posso guardarti meglio? Non voglio farti male. Per essere un neonato, Ermes era molto forte. A dire il vero, era molto forte a prescindere. Sollevò la tartaruga e la portò dentro. Guardandone il guscio, all’improvviso gli venne un’idea. Si ricordò di come la voce della madre era riecheggiata nella caverna mentre gli cantava la ninnananna, assumendo un tono più pieno e vibrante. Gli era piaciuto molto. Quel guscio di tartaruga poteva amplificare i suoni nello stesso modo, come una caverna in miniatura, se dentro non ci fosse stata la tartaruga. — La sai una cosa, piccolina? — disse Ermes. — Ho cambiato idea. Temo che dovrò farti male. Allerta voltastomaco: Ermes tagliò le zampe e la testa della tartaruga, e tirò fuori quello che restava con il mestolo per la minestra della mamma. (Ehi, mi dispiace. A quei tempi la gente macellava gli animali in continuazione, per la carne, la pelle o qualunque altra cosa. È per questo che la mia amica Piper è diventata vegetariana.) Comunque, una volta che Ermes ebbe svuotato il guscio, vi soffiò dentro. Il suono riecheggiò profondamente, ma non era proprio quello che lui voleva. Fuori dalla caverna sentiva gufi, grilli, rane e un sacco di altre piccole creature che producevano suoni con tonalità diverse tutte allo stesso tempo. Ermes voleva qualcosa del genere: un insieme di suoni simultanei. Accanto al fuoco scorse alcuni tendini di pecora lunghi e robusti che Maia aveva messo lì per farli seccare e usarli poi per cucire o per chissà cosa. — Mmmh — si disse Ermes. Tese uno dei tendini tenendone un capo sotto il piede e l’altro in mano. Con la mano libera lo pizzicò, e il budello vibrò. Più tesa teneva la corda improvvisata, più alta era la nota. — Ecco, perfetto! — esclamò. — Così funzionerà. Lanciò uno sguardo alla mamma per assicurarsi che dormisse ancora, poi si mise al lavoro. Dal telaio prese due caviglie di legno e le inserì nel guscio della tartaruga, in modo che sporgessero dal buco del collo come corna. Quindi fissò una terza caviglia in cima, orizzontale tra le due laterali, così che il tutto sembrava una specie di porta da calcio. Dalla cima del collo alla base del guscio tese sette stringhe di budello. Poi le accordò su diverse tonalità. Quando provò a pizzicarle, il suono che ne uscì fu sublime. Ermes aveva inventato il primo strumento a corda, che decise di chiamare lira. Se avesse passato qualche altra ora a lavorare, probabilmente avrebbe inventato la chitarra acustica, il violoncello e anche il Fender Stratocaster; adesso però aveva fame. Nascose la sua nuova lira tra le coperte della culla e uscì a cercare quelle gustose mucche. Si arrampicò in cima al Monte Cillene – no, niente di eccezionale per un bimbetto nudo – e dall’alto scrutò la Grecia, osservando e tendendo l’orecchio. Di notte Apollo teneva le sue vacche ben nascoste in un pascolo segreto in Pieria, qualche centinaio di chilometri a nord del Cillene, ma Ermes aveva sensi sopraffini. Immediatamente udì un muggito lontano: — Muuuu. Un’altra mucca avvertì: — Shhh. Siamo nascoste! La prima si scusò: — Chiedo venia. Là sulla cima del Monte, Ermes sorrise. — Ah! Vi ho viste, vacche. Qualche centinaio di chilometri? Nessun problema! Ermes li fece di corsa in un’ora circa: dev’essere stato uno spettacolo davvero strano, un neonato che attraversava a razzo la Grecia, le mani ancora imbrattate di sangue di tartaruga. Ma per fortuna era notte, e nessuno lo vide. Quando arrivò al pascolo segreto, alla vista di così tante giovenche belle grasse gli venne l’acquolina in bocca. Erano centinaia, e brucavano l’erba alta tra le pendici di un monte e le coste sabbiose del Mediterraneo. — Non voglio fare l’ingordo — disse. — Magari ne prendo solo una cinquantina. Ma come faccio a coprire le mie tracce? Non poteva semplicemente mettere cinquanta mucche in un sacco e strisciare via. E se le avesse raggruppate insieme, per Apollo sarebbe stato facile seguire le orme degli zoccoli di una mandria così cospicua. Ermes guardò la spiaggia. Poi l’occhio gli cadde su un cespuglio di mirto lì vicino. Senza quasi rendersene conto, spezzò qualche frasca verde dell’albero. Si ricordò che nella caverna di Maia la sua culla era un cesto di vimini, e così cominciò a intrecciare rami e rametti fino a formare due grosse forme ovali. Se le fissò ai piedi e inventò le prime racchette da neve, il che è abbastanza sconcertante, dal momento che in Grecia non nevicava mai. Ermes fece qualche passo sull’erba, poi sulla sabbia. Le racchette lasciavano orme larghe e indistinte che mascheravano completamente la forma dei suoi piedi. “Perfetto” pensò. “Questo terrà al riparo me. E quanto alle vacche…” Con le nuove calzature ai piedi gironzolò per il prato. Riuscì a separare la mandria, isolando le cinquanta bestie più grasse. Poi le guidò, facendole procedere in diagonale, verso la spiaggia. Una volta che ebbero raggiunto la sabbia, Ermes schioccò le dita e fischiò per avere l’attenzione delle vacche. Quando tutte e cinquanta lo guardarono, con la coda rivolta all’oceano, ordinò: — Bene, ragazze. Ora indietro! Indietro! Mai provato a far camminare cinquanta vacche all’indietro? Non è facile. Ermes continuò a tenere calamitata la loro attenzione, fischiando e facendo il rumore degli avvisatori di retromarcia – bip, bip, bip – sempre agitando le braccia e avanzando verso l’acqua. Le vacche retrocessero fino ad arrivare al bagnasciuga. Poi Ermes le fece girare e le guidò per un centinaio di metri in mezzo alle onde, prima di lasciarle tornare di nuovo sulla terra asciutta. Quando si guardò indietro, si sentì fiero del suo trucco. Sembrava che cinquanta vacche fossero uscite dal mare e si fossero unite al grosso della mandria. Nessuno sarebbe stato in grado di dire dove le bestie mancanti fossero andate. Ermes non aveva lasciato orme che portassero a lui. Condusse le vacche a sud, attraverso la campagna greca. A questo punto era ormai mezzanotte passata, quindi ritenne che non correva il rischio di essere visto. Purtroppo invece un mortale, un vecchio contadino di nome Batto, era nei campi a potare le sue vigne. Forse soffriva di insonnia, o forse le potava sempre di notte; in ogni caso, quando scorse quel bambinetto che guidava cinquanta vacche giù per la strada, gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite. — Cosa? — biascicò. — Come? Ermes fece un sorriso forzato. Prese in considerazione l’idea di uccidere il vecchio. Non voleva testimoni. Però lui era un ladro, non un assassino. E oltretutto aveva già le mani sporche del sangue di una tartaruga innocente. — Sto solo facendo fare una passeggiata alle mie vacche. Come ti chiami, nonno? — Batto. — Il vecchio non riusciva a credere a quella conversazione con un neonato. Forse era ancora a letto e stava sognando. — Bene, Batto — disse Ermes — sarebbe meglio che tu dimenticassi di avermi visto. Se qualcuno te lo dovesse chiedere, io non sono mai passato di qui. Fallo, e io ti garantisco le mie benedizioni, quando prenderò posto sull’Olimpo, d’accordo? — Ehm… d’accordo. — Fantastico. E, scusa, quello che hai alla cintura è un coltello? Me lo presti? Batto consegnò al dio bambino il suo coltello da potatura, ed Ermes fece proseguire le vacche. Finalmente trovò una bella caverna dove nasconderle. Ne chiuse dentro quarantotto per poterle mangiare più tardi, o magari venderle al mercato nero. Poi si servì del coltello del vecchio per macellare le ultime due. Ci risiamo. Di nuovo un quadretto abbastanza raccapricciante: un bimbo in fasce armato di coltello che sgozza due mucche. Ma Ermes non era uno di stomaco delicato. Accese un fuoco e sacrificò le parti migliori della carne agli dei dell’Olimpo (compreso se stesso, naturalmente). Poi mise dell’altra carne su uno spiedo, la arrostì e si rimpinzò ben bene con quel pasto delizioso. — Ah, che bontà! — Liberò un bel rutto. — Ragazzi, si sta facendo tardi. O forse presto, mi sa. Meglio che torni a casa. Si ripulì in un ruscello che scorreva lì vicino, perché pensò che alla mamma non sarebbe piaciuto vedere il suo bimbo appena nato coperto di sangue. Poi prese un paio di ossa di bovino, le ripulì all’interno facendone due flauti e le unì a un’estremità in modo da formare una “V” e poterle suonare simultaneamente (perché un flauto solo è una noia mortale). Quindi si incamminò tranquillo verso casa con la pancia piena, suonando una musica dolce col suo nuovo flauto doppio per tenersi sveglio. Arrivò alla caverna di Maia appena prima dell’alba, si infilò di nuovo nella culla e nascose il flauto a “V” sotto le coperte, insieme alla lira. E finalmente si addormentò. Anche per un neonato di stirpe divina, era stata una prima notte molto lunga. Il mattino successivo, Apollo volò a Pieria a contare le giovenche. Gli piaceva sempre cominciare la giornata ammirando il suo bestiame. Quando si accorse che ne mancavano cinquanta, diede fuori di matto e cominciò a correre intorno gridando: — Muccheeee! Qui, muccherelle mie! — Trovò le orme che uscivano dal mare, come se le bestie fossero andate a farsi una nuotata e poi fossero tornate, ma non aveva senso. Vide anche delle depressioni grosse ma superficiali nella sabbia, come se qualcuno molto leggero ma con il cinquantadue di scarpe avesse passeggiato lì in giro, però anche questo non aveva senso. Cercò per quasi tutta la mattina, finché alla fine incappò nel vecchio agricoltore Batto, che stava ancora potando le sue viti. Dopo l’incontro con il “neonato parlante” non era più riuscito a prendere sonno. — Ehi, vecchio! — lo chiamò Apollo. — Hai per caso visto cinquanta giovenche passare da queste parti? Magari guidate da un gigante molto leggero con scarpe enormi? Batto rabbrividì. Non era bravo a mentire, e Apollo si accorse immediatamente che il contadino cercava di nascondere qualcosa. — Forse dovrei aggiungere — disse allora — che sono un dio. Credo che ti convenga dirmi la verità. Batto lasciò andare un sospiro. — Era un bambino. Apollo corrugò la fronte. — Un cosa? E Batto gli raccontò tutta la storia, talmente assurda che Apollo decise che doveva essere vera. A quanto gli risultava, recentemente c’era un solo dio neonato. Aveva sentito voci che la sera prima Maia aveva partorito sul Monte Cillene (faceva sempre il possibile per tenersi aggiornato sugli ultimi pettegolezzi). Era abbastanza improbabile che un neonato potesse essere responsabile di un furto di vacche messo in atto a centinaia di chilometri di distanza, ma se è per questo lui stesso aveva cominciato a danzare e a cantare appena uscito dall’utero, quindi non era impossibile. Volò fino alla caverna di Maia e la svegliò. — Tuo figlio ha rubato le mie bestie! — le disse. Maia si strofinò gli occhi e guardò il piccolo Ermes che giaceva ancora nella sua culla, avvolto nelle coperte… anche se effettivamente il suo pancino sembrava molto più grosso. E poi cos’era quel baffo di ketchup sul mento? — Ehm, forse sei venuto a cercare il bambino sbagliato — rispose. — È stato qui tutta la notte. Apollo sbuffò. — Deve essere stato lui. Guarda quella traccia di salsa sul mento! Probabilmente le mie vacche sono nascoste qui in giro da qualche parte. Maia si strinse nelle spalle. — Cerca pure, accomodati. Apollo setacciò e devastò tutta la caverna, frugando dentro i vasi, dietro il telaio, sotto i pagliericci. Incredibile a dirsi, in nessuno di quei posti erano nascoste cinquanta vacche. Alla fine marciò verso la culla del bimbo. — Va bene, ragazzino, confessa. Dove sono le mie bestie? Ermes aprì gli occhi e assunse un’aria il più innocente possibile. — Ghe ghee? — Bel tentativo — grugnì Apollo. — Hai l’alito che puzza di bistecca. Ermes sibilò un’imprecazione a denti stretti. Lo sapeva che avrebbe dovuto succhiare qualche mentina. — Caro cugino Apollo — disse allora in tono vivace — buongiorno! Pensi che io ti abbia rubato le giovenche? Non vedi che sono solo un bambino? Apollo strinse i pugni. — Dove sono, piccolo delinquente? — Non ne ho idea — rispose Ermes angelico. — Come potrebbe un piccoletto come me nascondere cinquanta vacche? — Ah! — gridò Apollo. — Non ho mai detto che erano cinquanta! — Uff, cacca di tartaruga! — borbottò Ermes. — Sei in arresto per furto! — dichiarò Apollo. — Ora verrai con me sul Monte Olimpo, dove sarai giudicato da Zeus. Sollevò la culla tutt’intera e volò sull’Olimpo. Quando la sistemò davanti a Zeus e spiegò che quel neonato era un ladro di bestiame, gli altri dei cominciarono a ridacchiare; ma Zeus li zittì. — Questo bambino è mio figlio — disse. — Sono certo che è capace di qualsiasi cosa. Ebbene, Ermes, hai rubato le mucche di Apollo? Ermes si mise in piedi nella culla. — No, padre. Zeus sollevò un sopracciglio. Poi, con aria indifferente, prese un fulmine dalla rastrelliera e ne saggiò la punta. — Ti do un secondo per riconsiderare la tua risposta. Hai rubato le mucche di Apollo? — Sì, padre. Ma a essere esatti, ne ho uccise solo due. Le altre sono sane e salve. E quando le ho macellate, metà della carne l’ho sacrificata agli dei. — E poi ti sei rimpinzato! — grugnì Apollo. — Be’, sono anch’io un dio! — protestò Ermes. — Ma tutti voi ne avete avuta una porzione, ovviamente! Non mi dimenticherei mai di rendere onore ai miei parenti. Gli dei borbottarono tra loro e annuirono. Il bimbo poteva anche essere un ladro, ma almeno era un ladro rispettoso. — È ridicolo! — gridò Apollo. — Padre Zeus, me le ha rubate. Sbattilo in riformatorio! Mandalo a ingrossare le fila di quelli in catene! Zeus trattenne un sorriso. Sapeva di dover essere equo, ma allo stesso tempo non poteva non ammirare l’audacia di Ermes. — Ermes, mostrerai subito ad Apollo dove hai nascosto le sue vacche. Poi gli corrisponderai qualunque prezzo lui ti chiederà per le due che hai ucciso. — Lo getterò nel Tartaro! — gridò Apollo. — Quello sarà il giusto risarcimento! Zeus si strinse nelle spalle. — Vedetevela tra voi. E ora toglietevi di torno. Ermes sospirò: — Come desideri, padre. Apollo, portami. Io faccio da navigatore. Apollo prese la culla e volò via. Il dio bambino lo indirizzò fino alla caverna segreta dove aveva nascosto le vacche, ma fece in modo di fare un giro lungo. Stava pensando freneticamente a come evitare la punizione. Quando Apollo vide le vacche si calmò un poco, ma era ancora furioso con il cuginetto. — Tempo di Tartaro — ringhiò. — Ti scaglierò talmente in fondo all’abisso… Ermes tirò fuori la lira da sotto le coperte della culla e cominciò a strimpellare. Apollo si fermò di botto ad ascoltare, ammaliato. Non osò interrompere finché Ermes non ebbe finito. — Cosa… dove… come… — Oh, questa? — rispose Ermes con noncuranza. — L’ho chiamata lira. L’ho inventata ieri sera. Fece scorrere di nuovo le dita sulle corde, creando una cascata di note meravigliose. — Devo averla — decise Apollo. — Io sono il dio della musica. Ti prego! Devo… devo averla! — Oh, ma non stavi per gettarmi nel Tartaro? — replicò Ermes con voce velata di tristezza. — Avrò bisogno della mia lira per tenermi allegro laggiù in quell’oscurità. — Dimentica il Tartaro — disse Apollo. — Dammi la lira e la chiudiamo qui. — Mmmh — fece Ermes. — E posso tenermi anche le altre vacche? — Che cosa?! — trasecolò Apollo. Ermes strimpellò un’altra melodia, brillante come la luce del sole attraverso le fronde degli alberi. — Sì, sì! — capitolò Apollo. — E va bene, tieniti le vacche. Basta che mi dai quella lira. — Magnifico! — Ed Ermes gettò la lira ad Apollo. Poi il divino piccoletto tirò fuori il flauto doppio, che aveva deciso di chiamare “siringa”. Non appena ebbe cominciato a suonare, ad Apollo cadde la mascella. — Non dirmi che hai inventato anche quello! — Eh? — Ermes fece una pausa. — Oh, ma certo. Giusto una sciocchezzuola che mi è venuta in mente dopo cena. È in vendita… a un buon prezzo. Suonò un pezzo di Mozart e alcune battute degli One Direction, e Apollo gridò: — Devo averlo! Le ragazze impazziranno per una cosa del genere! Ti offro… ecco, a casa mia ho qualche bell’articolo magico: un bastone da messaggero che non uso, un paio di scarpe volanti, una spada. Puoi averli tutti e tre. Ermes prese in considerazione l’offerta. — Mettici dentro anche il potere della profezia, ed è affare fatto. Apollo si rabbuiò. — Non posso. Profetizzare è di mia competenza. Senti, facciamo così: io ti do il potere di predire la sorte con i dadi. Niente di eclatante, ma è un buon trucco da tirare fuori alle feste, e ci puoi fare un bel gruzzoletto. — Affare fatto. — Affare fatto! Così Apollo ed Ermes finirono per diventare amici. Apollo si dimenticò della faccenda del furto delle mucche. E non gli importò nemmeno di essere stato fregato alla grande sul prezzo della lira e del flauto siringa. Ermes ebbe la sua personale mandria di vacche, che fu la ragione per cui diventò il dio dei mandriani. Si guadagnò un paio di sandali alati che lo resero più veloce di qualsiasi altro dio. Ottenne una spada d’oro e diamanti, con una lama così affilata che poteva fare a fette pressoché qualunque cosa. Poi ebbe un bastone da araldo, come quello che i messaggeri umani portavano a prova della loro immunità diplomatica quando viaggiavano di città in città, solo che il suo era magico. Di solito un bastone da araldo aveva due nastri bianchi avvolti intorno. Quello di Ermes aveva invece due serpenti vivi. Aveva anche il potere di far addormentare o svegliare chiunque, il che era molto utile per un dio dei ladri. Il bastone divenne noto come il caduceo (solo perché sapevo che avevate bisogno di un’altra parola astrusa da ricordare). Oh, e il vecchio Batto che aveva spiattellato la storia di Ermes? Il dio messaggero ritornò alla fattoria e lo trasformò in una colonna di pietra. Batto è ancora là, a sorvegliare la strada, e a desiderare di non aver mai visto quello stupido bimbetto ladro di bestiame. Ermes crebbe fino a diventare adulto (in un paio di giorni, essendo un dio, solita storia). In genere si presentava come un affascinante giovinetto con riccioli neri e appena un accenno di baffetti. Ovviamente però, come gli altri dei, poteva assumere l’aspetto che voleva. Diventò il messaggero di Zeus, e talvolta sbrigò per lui anche qualche sporca faccenda segreta. E naturalmente era l’aspetto del suo lavoro che preferiva! Nella fattispecie, una volta Zeus si innamorò di una ninfa dei fiumi di nome Io (esatto, il nome era questo: una “I” e una “O”; immagino fosse nata in una famiglia così povera da non potersi permettere le consonanti). Era bella da togliere il fiato, e Zeus fece una fatica tremenda a convincerla a uscire con lui. Se ne stava sempre insieme a un gruppetto di ninfe sue amiche, così non poteva neanche tenderle un’imboscata. E ignorava completamente i suoi SMS. Lui le mandava sempre fiori e dolciumi, e orchestrò anche un meraviglioso temporale per impressionarla. Ci lavorò su per settimane e settimane… insomma, non pensava ad altro che a lei. Alla fine la ninfa acconsentì a incontrarlo da solo in un bosco, e ovviamente Zeus esclamò: — Siììì! Purtroppo Era ebbe sentore di quello che stava succedendo. Probabilmente gliel’aveva detto un’altra ninfa. Comunque, Zeus si materializzò nella radura dove Io lo stava aspettando, vestita con una meravigliosa tunica di un bianco abbagliante. La ninfa sorrise e lo salutò: — Ciao, bellissimo. Zeus per poco non si mise a mugolare di eccitazione, ma non appena le prese la mano, udì una voce familiare dagli alberi. — Zeus! — strillò Era. — Dove sei, traditore? Lui gridò a sua volta e trasformò Io nella prima cosa che gli venne in mente: una mucca. Non proprio carino, trasformare la tua ragazza in una giovenca. Come se fosse una normale associazione di idee, tipo: cioccolato/delizioso, luce del sole/calore, Io/mucca! O forse la voce di Era gli aveva fatto pensare alle mucche, che erano le sue creature sacre. Comunque sia, quando Era entrò furiosa nella radura, trovò Zeus appoggiato con aria noncurante a una grossa giovenca bianca. La dea strinse gli occhi. — Che cosa stavi facendo? — Eh? Oh, ciao tesoro! Niente. Assolutamente niente. — E quella vacca? — Vacca? — Zeus sembrò notare Io per la prima volta. — Oh, questa vacca? Boh, niente. Perché? Era strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. — Questa vacca non potrebbe per caso essere una delle tue fidanzatine opportunamente trasformata? — Ah ah! Avanti, cara. Sai che non farei mai… ehm… ecco, no, certo che no. — E allora perché è qui? Sul viso di Zeus cominciò a colare una goccia di sudore. Preso dal panico gli uscì: — È un regalo! Per te! — Un regalo? — Ebbene sì. — Zeus cercò di sorridere. — Visto che… le mucche sono i tuoi animali sacri, giusto? Volevo farti una sorpresa. Ma se non ti piace, la posso restituire al negozio di mucche. Era pensò che Zeus fosse proprio un mucchio di letame, molto più grosso di quello che avrebbe potuto produrre la giovenca. Tuttavia decise di stare al gioco. — Ma perché, figurati! Grazie, caro — disse. — È meravigliosa. Me la porto via subito. — D-davvero? — Certo. — Era gli indirizzò un sorriso gelido. Poi si fece materializzare in mano una corda magica e la mise al collo della povera Io. — Credo che la sistemerò nel mio bosco sacro a Micene, dove sarà al sicuro e ben custodita. Come si chiama? — Ehm… Io. — Vieni, allora, Io. — La dea portò via la mucca, canticchiando: — Io, Io, andiam con brio, tu e io lungo il pendio. Non appena si fu allontanata, Zeus maledisse la propria dannata sfortuna. Prese a calci qualche pietra ed evocò un paio di fulmini per incendiare alcuni alberi. — Ci sono andato così vicino! — gridò. — Devo riprendermi quella mucca. Chi conosco che sia in grado di rubare dei bovini? Ovviamente il pensiero corse subito a Ermes. Quando gli spiegò il problema, il dio messaggero sorrise. — Non preoccuparti, capo. Mi introdurrò furtivamente nel bosco sacro e… — Non sarà così semplice — lo avvertì Zeus. — Era ha detto che la giovenca sarà ben custodita. E io temo di sapere a cosa si riferisse. Ha appena assunto un nuovo gigante che lavora per lei, un tizio di nome Argo. — E allora? — replicò Ermes. — Gli scivolerò dietro di nascosto, oppure lo ucciderò. Ho la mia portentosa spada. Zeus scosse il capo. — Guarda che è grosso, forte e veloce. Non riuscirai a sconfiggerlo in un combattimento leale, persino con la tua spada. E quanto a strisciargli alle spalle… non c’è modo. È fornito di occhi anche dietro la testa. Ermes rise. — Questa l’ho già sentita. — No, intendo dire letteralmente: ha gli occhi sulla nuca. E sulle braccia, sulle gambe e su tutto il corpo. Centinaia di occhi. — Ma è disgustoso! — Lo so. E non riposa mai, e guarda sempre in ogni direzione. Se è lui a fare la guardia a Io… Ermes si grattò la testa. — Non ti preoccupare, capo. Escogiterò qualcosa. — E volò via. Quando arrivò al bosco sacro di Era, vide Io, la vacca bianca, legata a un ulivo. Accanto a lei c’era il gigante Argo. Proprio come aveva detto Zeus, Argo era interamente coperto di occhi, tutti che ammiccavano e guardavano in giro come luci psichedeliche, tanto che a Ermes cominciò a girare la testa. Il gigante era alto almeno tre metri, ed era evidente che faceva parecchia palestra. Aveva in mano una grossa clava di legno, con spuntoni di ferro in cima. Ermes si chiese se avesse gli occhi anche sui palmi delle mani, e se in quel caso si ritrovasse con gli occhi neri per dover tenere in mano la clava tutto il giorno. Il messaggero degli dei cambiò forma e assunse l’aspetto di un semplice pastore mortale. Trasformò il suo caduceo in un normale bastone di legno, poi si mise a bighellonare nel bosco, fischiettando con noncuranza. Quando vide Argo, si finse molto sorpreso. — Oh, ciao! — lo salutò con un sorriso. — Caspita, se sei alto! Argo sbatté le palpebre parecchie centinaia di volte. Era abituato che lo prendessero in giro per i suoi occhi, e invece questo pastore non sembrava né terrorizzato né disgustato. E quindi non sapeva bene cosa pensare. Ermes si asciugò la fronte. — Caldo oggi, vero? Ti dispiace se mi siedo un po’ a riposare? Senza aspettare il permesso, si mise comodo sull’erba. Appoggiò il bastone vicino a sé e, cercando di non farsi vedere, gli ordinò di lanciare la sua magia su Argo. Il caduceo emise onde di sonnolenza, così che il gigante cominciò a sentirsi come ci si sente subito dopo pranzo in una giornata afosa. “DORMI” sembrava dire il caduceo. Argo però era grande e grosso, e aveva tanti occhi. Era stato selezionato apposta per non addormentarsi. Ermes pensò che ci sarebbe voluto un po’. Doveva guadagnare tempo. — Ragazzi, che giornata ho passato! — disse al gigante tirando fuori una borraccia d’acqua. — Unisciti a me, amico, e te la racconto! Ben felice di spartire con te quest’acqua ghiacciata! Argo aveva una sete tremenda. Se n’era stato lì impalato sotto il sole cocente per tutto il giorno a guardare quella stupida mucca, come gli aveva ordinato Era. Solo che la mucca era noiosissima. Lui però era in servizio. Scosse la testa, che era l’unica cosa che potesse fare. Non gli piaceva parlare, perché facendolo avrebbe rivelato la presenza di occhi anche dentro la bocca e su tutta la lingua. Ermes cominciò a chiacchierare. Era il dio dei viaggi, quindi conosceva un sacco di storielle. Aveva sentito barzellette provenienti da tutto il mondo. E i messaggeri dovevano avere una bella parlantina, quindi sapeva bene come intrattenere. Aggiornò Argo sugli ultimi pettegolezzi riguardo agli dei. — Ho sentito che questo dio Ermes ha rubato le vacche sacre di Apollo! — disse con un gran sorriso. E prese a raccontare la storia come se fosse successa a qualcun altro. Nel frattempo, il caduceo continuava a mandare ondate di magia, che riempivano l’aria di un pesante strato di sonnolenza, come una morbida coperta. Dopo mezz’ora Argo lasciò cadere la clava. Si sedette accanto a Ermes e accettò un po’ d’acqua. Il dio continuò a scherzare con lui, raccontandogli vari aneddoti, finché al gigante sembrò che fossero amici di lunga data. “DORMI” diceva intanto il caduceo. Dopo un’altra ora, le palpebre di Argo cominciarono a farsi pesanti. Sapeva che in teoria lui era in servizio, ma non riusciva a ricordare perché. La sua mente scivolava attraverso le meravigliose storie che Ermes gli stava raccontando. Alla fine il dio cominciò a intonare una ninnananna. — Questa me la canticchiava mia mamma quando ero piccolo. — E cantò la stessa canzoncina che aveva sentito nella culla la notte in cui era nato, che parlava dei cani di Artemide, dei cavalli di Poseidone e delle vacche di Apollo. La testa di Argo cadde una volta, poi due, poi… bam! Tutti gli occhi si chiusero, e il gigante cominciò a russare della grossa. Ermes proseguì il suo canto. Molto lentamente si alzò in piedi ed estrasse la spada. Scivolò silenzioso dietro ad Argo e gli tagliò la testa. — Notte notteee! — gli disse tutto allegro (ritiro quello che ho detto prima: Ermes era un assassino). Poi slegò la vacca e la riportò a Zeus. Era si infuriò, ma non aveva prove di quanto era successo. Zeus invece ne fu deliziato. Ed Ermes si guadagnò un bell’incentivo nella busta paga, il mese successivo. Povera Io… Una volta che Zeus si stancò di amoreggiare con lei, Era la trasformò permanentemente in mucca e inviò un tafano a pungerla per il resto della sua vita, così Io doveva muoversi continuamente, vagando di regione in regione. Purtroppo, c’est la vache! Per lo meno Ermes ebbe la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro. DIONISO CONQUISTA IL MONDO GRAZIE A UNA BEVANDA RINFRESCANTE Questo me lo sono tenuto per ultimo, perché è molto facile che mi trasformi in un delfino se dico sul suo conto qualcosa che non gli va a genio. E, onestamente, non so se potrò dire qualcosa di buono. Perché davvero in questo senso brancolo nel buio. Vi ricordate che un po’ di tempo fa vi ho raccontato della principessa Semele, che si ritrovò vaporizzata mentre era incinta del figlio di Zeus? Bene, sta di fatto che Zeus dovette salvare il bimbo prematuro cucendoselo dentro la coscia destra. (Sì, solo un’altra noiosa giornata nella vita di un dio.) Alcuni mesi dopo, il bambino cominciava a essere troppo grosso e scomodo nella gamba di Zeus, quindi il padre ritenne che fosse pronto per nascere. Tolse i punti e, incredibilmente, il neonato saltò fuori vivo e vegeto. Zeus lo avvolse in una coperta, ma non sapeva niente di come si allevano i bambini, così mandò a chiamare Ermes. — Senti un po’ — gli disse — porta questo piccino nel mondo mortale. Credo che Semele avesse una sorella, o qualche altro parente. Trovala e chiedile di badare a questo bimbo finché non sarà un po’ più grandicello. — Agli ordini, capo. — Ermes prese il piccolo e lo esaminò. — È un dio, un semidio o che cosa? — Ancora non lo so bene — rispose Zeus. — Bisognerà aspettare. Nel frattempo, non ho alcuna intenzione di cambiare pannolini. — Ricevuto. Come si chiama? In quel momento il bambino cominciò a piangere e a strillare. — Per adesso — decise Zeus — chiamiamolo Bacco. Ermes scoppiò a ridere. — Bacco… da baccano? Carino. — Un’altra cosa — aggiunse Zeus. — Era lo cercherà. Non ha potuto fargli niente mentre era dentro la mia coscia, ma ora si accorgerà che la protuberanza che avevo si è sgonfiata. — Già, era un bozzo piuttosto evidente. — Forse sarebbe meglio che sua zia lo allevasse come se fosse una bambina, almeno per un po’. Questo potrebbe depistare Era. Ermes corrugò la fronte. Non capiva come la cosa sarebbe potuta tornare utile. Non era facile prendere per il naso Era, ma lui era troppo saggio per mettersi a discutere con il suo capo. — Capito — disse. — Vado! Non ebbe problemi a trovare gli zii di Bacco, Ino e Atamante, che acconsentirono ad allevare il piccolo insieme ai loro figli. Il fanciullo crebbe alla velocità normale dei mortali, non ai ritmi accelerati degli dei. Tutti convennero che doveva essere un semidio, ma questo non fece altro che accrescere il timore di Zeus che Era avrebbe cercato di farlo a pezzi. Come richiesto, Ino e Atamante vestirono Bacco con abiti da bambina, per nascondere la sua identità. Durante i primi anni di vita, il piccolo ne fu alquanto confuso. Non sapeva perché i genitori adottivi lo chiamassero con un nome maschile in privato e con uno femminile in pubblico. All’inizio pensò che fosse così per tutti i bambini. Poi, quando ebbe tre anni, Era colpì. In qualche modo aveva scoperto dove viveva il bimbo, ed era volata giù dall’Olimpo in cerca di vendetta. Quando Zeus scoprì cosa stava succedendo, ebbe a disposizione solo pochi secondi per agire. In un baleno trasformò Bacco in una capra, così Era non lo notò, ma i genitori adottivi non furono altrettanto fortunati. La dea li individuò e inflisse loro una forma di pazzia violenta. Zio Atamante pensò che suo figlio maggiore, Learco, fosse un cervo e lo uccise con arco e frecce. Zia Ino pensò che il figlio più giovane, Melicerte, avesse bisogno di un bagno caldo – molto caldo – e lo annegò in una tinozza piena di acqua bollente. Poi Ino e Atamante si accorsero di quello che avevano fatto. Disperati, si gettarono dalla cima di un colle e morirono sfracellati. Quella Era… tutta sani valori familiari! Zeus riuscì a recuperare Bacco e a trasformarlo di nuovo in un bambino, ma l’esperienza continuò a ossessionare il piccolo. Aveva imparato che la pazzia può essere usata come un’arma. E aveva imparato anche che le capre sono brave bestie (anzi, la capra divenne uno dei suoi animali sacri). E aveva imparato che non si può nascondere quello che si è semplicemente mettendosi degli abiti diversi. Più tardi diventò il dio di tutti quelli che si sentivano confusi riguardo al proprio sesso, perché sapeva cosa voleva dire. Comunque, Zeus si guardò intorno in cerca di una nuova famiglia adottiva. E con sua grande sorpresa scoprì che, dopo aver sentito quello che Era aveva fatto a Ino e Atamante, non c’erano molti volontari. Allora salì sul Monte Nisa, nella Grecia continentale, e convinse le ninfe che vi abitavano ad allevare Bacco. Promise loro di renderle immortali se gli avessero fatto questo favore, offerta difficile da rifiutare. Il giovane Bacco divenne noto come il divino figlio di Zeus che viveva sul Nisa, abbreviato in Dio di Nisa, che alla fine diventò il suo nuovo nome: Dioniso, anche se veniva ancora chiamato Bacco il Rumoroso, soprattutto dopo che aveva mangiato fagioli o cavoli. Tanto vi basti sapere. Dioniso crebbe sul Monte Nisa con le ninfe per matrigne e i satiri per patrigni. I satiri erano creature decisamente selvagge e casiniste (senza offesa per i miei amici satiri), quindi non ci si può sorprendere se Dioniso risultò un soggetto piuttosto fuori dall’ordinario. Di quando in quando giocava con i bambini mortali di una fattoria vicina, e divenne famoso per i suoi giochi magici con le piante. Presto scoprì che poteva produrre un nettare spremendo tutto quello che proveniva da una pianta: rametti, foglie, corteccia, radici e quant’altro. Sciroppo di cipresso? Pronto. Estratto di finocchio? Ecco qua! Gli altri bambini lo sfidavano dicendogli: — Scommetto che non riesci a fare una bevanda da quel cespuglio pieno di spine! Dioniso prendeva una pietra, schiacciava qualche ramo, e dalla pianta cominciava a stillare una linfa dorata. Lui la raccoglieva in coppe, ci aggiungeva un po’ d’acqua, qualche ombrellino di carta e voilà, succo al seltz ghiacciato per tutti. Un modo carino per intrattenere gli ospiti… ma nessuna delle sue ricette ebbe successo. Il distillato di finocchio dopotutto non piaceva granché. Un giorno Dioniso era in giro per i boschi con il suo migliore amico, un giovane satiro di nome Ampelo. I due scorsero uno spesso tralcio rampicante avvinto intorno al ramo di un olmo, che si alzava per almeno sei metri sopra le loro teste. Dioniso si fermò di botto. — Che ti prende? — chiese Ampelo. — Quel rampicante lassù — disse Dioniso. — Che pianta è? Il satiro corrugò la fronte. A lui non sembrava niente di speciale. Era nodosa e ruvida, con grosse foglie verdi, senza fiori né frutti dai colori sgargianti. — Be’, edera non è. E nemmeno caprifoglio. Non lo so. Mai vista prima. Dai, andiamo! Ma Dioniso se ne restava lì impalato. Quella pianta aveva un non so che… qualcosa che avrebbe potuto cambiare il mondo. — Devo vederla più da vicino. — Cercò di scalare il tronco dell’olmo, ma non valeva molto come arrampicatore. Si ritrovò subito col sedere a terra, tra le foglie. Ampelo rise. — Se ti interessa così tanto, vado a prendertela io. Arrampicarsi è roba da satiri. Dioniso sentì un improvviso brivido di paura. Non voleva che Ampelo salisse lassù. Ma voleva anche quel tralcio. — Stai attento — gli raccomandò. Ampelo alzò gli occhi al cielo. — E dai. Mi sono arrampicato su alberi ben più alti di questo! Il giovane satiro cominciò a scalare il tronco, e ben presto si trovò a cavalcioni di un ramo. — Un gioco da ragazzi! — esclamò. E cominciò a staccare il rampicante, lasciandone cadere l’estremità verso Dioniso come se fosse una corda. — Ce l’hai? Dioniso allungò una mano e afferrò il tralcio. Quello che successe dopo non è chiaro. Forse Dioniso tirò troppo forte. Forse Ampelo si chinò troppo verso il basso. Comunque sia, perse l’equilibrio e cadde, impigliandosi nel rampicante. Sei metri non sono tantissimi, ma neppure pochi. Il poveretto batté la testa su una roccia e si sentì un crac straziante. Dioniso gridò di orrore. Abbracciò l’amico, ma gli occhi del satiro erano già vuoti. Non respirava più. Una chiazza di sangue gli imbrattava i capelli e macchiava le foglie della pianta. Ampelo era morto. Dioniso pianse tutte le sue lacrime. Se non avesse voluto quello stupido rampicante, il suo amico sarebbe stato ancora vivo. Provava tristezza mista a rabbia. Guardò il sangue del satiro sulle foglie verdi e ringhiò: — Pagherai per questo, ignota pianta. Porterai i frutti più dolci, per ripagarmi di questa amara perdita. PRODUCI FRUTTI! Il rampicante tremò, e il corpo di Ampelo si dissolse in nebbia. Il suo sangue venne assorbito dalla pianta, e spuntarono grappoli di piccoli frutti, che maturarono all’istante fino a diventare color rosso scuro. Dioniso aveva creato il primo grappolo d’uva. Si asciugò le lacrime. Doveva fare in modo che la morte dell’amico significasse qualcosa. Doveva imparare a usare quella nuova pianta. I grappoli avevano un aspetto succoso, così ne colse parecchi. Li portò fino al letto di un vicino ruscello, dove trovò due grosse pietre piatte. Schiacciò i grappoli tra le pietre, inventando il primo torchio da vino. Poi raccolse il succo nella coppa che portava sempre appesa alla cintura. Tenne il liquido alla luce del sole e vi instillò un po’ di magia, agitandolo con movimento circolare finché quello non fermentò trasformandosi in qualcos’altro. Qualcosa di nuovo. Dioniso bevve un sorso, e le sue papille gustative per poco non esplosero. — Questa è proprio roba buona — fu il verdetto. Lo chiamò “vino”. Ne fece abbastanza da riempire la sua fiasca, poi guardò un’ultima volta con nostalgia il punto dove Ampelo era morto. La pianta di vite era cresciuta a ritmo incredibile, invadendo tutto il bosco come per rivalsa, producendo tantissimi frutti. Dioniso fece un cenno di assenso, soddisfatto. Fosse stato per lui, il mondo intero si sarebbe dovuto riempire di viti in onore di Ampelo. Tornò alla caverna sul Monte Nisa. Mostrò la sua scoperta a una delle matrigne, una ninfa di nome Ambrosia. (Sì, il nome del cibo degli dei. Non so perché. Perlomeno è meglio di Biscottino o Capelli d’Angelo.) Ambrosia bevve un sorso di vino e subito sgranò gli occhi. — Ma è delizioso! Dov’è Ampelo? — Oh… — Dioniso chinò la testa. — È morto, è caduto da un albero. — Che cosa terribile! — Ambrosia bevve un altro sorso. — Ma questa roba è proprio buona! Di lì a poco si spartiva il vino con le sue amiche ninfe. Arrivarono anche i satiri, a vedere cosa fosse tutto quel ridere. Ben presto l’intera montagna si trasformò in una festa colossale, con canti e danze, torce da giardino e un sacco di vino. Dioniso continuava a produrne e a mescerlo. Quasi non ce la faceva a tener dietro alle richieste. Alla fine insegnò ai satiri e alle ninfe come farselo da soli, e prima dell’alba tutti erano esperti vignaioli. Ben presto i satiri scoprirono che se bevevano troppo vino si ubriacavano. Non riuscivano più a pensare in modo sensato, vedere bene o camminare dritto. Per qualche ragione, trovarono tutto questo molto divertente. E così continuarono a bere. Uno dei satiri più anziani, Sileno, circondò con un braccio le spalle di Dioniso. — Tu, signore, sei un dio! No, dico davvero. Il dio del… come si chiama questa roba, che non me lo ricordo già più? — Vino — disse Dioniso. — Il dio del vino! — esclamò Sileno con un ruttino. — Un altro bicchiere? Bene, ragazzi, questo è un altro buon momento per ricordarvi che il vino è per i grandi! Ha un gusto orribile, ed è davvero in grado di incasinarvi la vita. Cercate di non cedere alla tentazione prima di avere almeno quarant’anni! “Accidenti, Percy, razza di piagnone, a noi sembra che i satiri si divertissero un mondo, quando bevevano vino!” Già, l’impressione è questa, ragazzi. Ma i satiri possono essere parecchio stupidi (di nuovo senza offesa per il mio amico Grover). E poi non li avete visti il mattino dopo, quando si ritrovarono con un mal di testa atroce, in giro per il bosco a vomitare l’anima. Ciononostante, alla fine furono così entusiasti di quello che aveva fatto Dioniso che decisero che doveva essere davvero un dio. La sua invenzione era troppo fantastica. Forse ora starete pensando: d’accordo, si tratta solo di vino. Che sarà mai. Che cosa rende Dioniso così straordinario da fargli meritare il titolo di dio? Se avessi inventato l’insalata di tonno, avrei dovuto essere un dio anch’io? Il vino però fu un’enorme conquista nel mondo delle bevande. Certo, la gente beveva acqua, ma l’acqua poteva anche uccidere. Soprattutto nelle città, dove capitava che fosse piena di batteri e sudiciume e… vabbè, meglio che non mi addentri troppo nei particolari. Basti dire che spesso l’acqua era una schifezza. Nessuno aveva ancora inventato la Schweppes, e nemmeno il tè o il caffè, quindi dovevi rimanere sull’acqua o sul latte. E anche il latte, dovevi berlo in fretta, prima che inacidisse, perché non c’erano frigoriferi. Ed ecco che ti arriva Dioniso e inventa il vino. Finché lo tenevi ben chiuso in bottiglia non succedeva niente. A volte, se lo lasciavi riposare per qualche anno, diventava persino più buono. Lo si poteva annacquare, così che non fosse troppo forte, e l’alcol uccideva anche i germi e le altre schifezze, quindi era molto più sicuro da bere che non l’acqua normale. Si poteva persino insaporire con miele per renderlo più dolce, o modificarne l’aroma utilizzando tipi diversi di uva. Praticamente diventò la bevanda principale dell’antica Grecia. Non solo. Se ne bevevi poco, il vino ti rendeva saggio. Se ne bevevi troppo, ti faceva venire le vertigini e perdere la ragione. Alcuni credevano persino di avere delle visioni, se ne trangugiavano abbastanza. (Ripeto: non prendete esempio. Non vedrete gli dei greci. Potreste invece avere una visione ravvicinata del vostro WC mentre vomitate.) La notizia dell’esistenza di una nuova bevanda si sparse velocemente. Le ninfe e i satiri viaggiarono in lungo e in largo, decantando a chiunque volesse ascoltare la magnificenza del vino e del dio che lo aveva inventato, Dioniso. Allestirono persino dei chioschi di assaggio lungo le strade. Offrivano kit per neofiti, che comprendevano una piccola vite in vaso e un manuale di istruzioni per costruire un torchio, nonché l’accesso gratis a un sito Internet con un customer service. Dioniso diventò famoso. Anche i comuni mortali cominciarono ad affluire sul Monte Nisa ogni sera. Ovviamente bevevano troppo e si ubriacavano, ma non era solo per divertimento. I seguaci di Dioniso si consideravano persone pie. Iniziarono a chiamarsi baccanti – il gruppo di Bacco – e fare festa era il loro modo di andare in chiesa. Ritenevano che li avvicinasse di più agli dei, perché Dioniso era destinato a essere il dodicesimo dio dell’Olimpo. E Dioniso come si sentiva riguardo a tutta la faccenda? Un po’ nervoso. Era ancora giovane e insicuro. Non era certo di essere un vero dio. D’altro canto era molto felice di vedere la gente apprezzare la sua nuova bevanda. Diffondendo la conoscenza del vino, immaginava di fare qualcosa di buono per il mondo, il che lo consolava un po’ dei dispiaceri che aveva dovuto affrontare: la mamma morta prima della sua nascita, Era che aveva fatto impazzire i suoi genitori adottivi, e ovviamente la scomparsa del suo migliore amico Ampelo. Poi un giorno i suoi seguaci si radunarono intorno a lui e se ne uscirono con un’idea. — Dobbiamo riuscire a fare tendenza — dichiarò uno dei satiri. — Dovremmo andare nella più grande città dei dintorni e convincere il re a darci man forte. Puoi offrirti come loro patrono. Ti costruiranno un tempio, e la tua fama si diffonderà ancora più velocemente! Il re più vicino era un tizio di nome Licurgo, che governava una città marittima ai piedi del Monte Nisa. I satiri suggerirono di cominciare da lì, per potenziare i commerci locali e così via. Dioniso non era sicuro di essere pronto ad andare in onda in prima serata, ma i suoi seguaci erano entusiasti. Non avrebbero mai accettato un rifiuto. — È una grande idea! — gli dissero. Come Dioniso presto scoprì, fu invece una pessima idea. Licurgo era uno sciagurato. Gli piaceva frustare animali indifesi come cani, cavalli, criceti e qualsiasi altra creatura incontrasse sul proprio cammino. Anzi, aveva una frusta speciale fatta apposta per quello scopo: tre metri di pelle nera intrecciata con spine di ferro e schegge di vetro. Se non gli capitavano sotto le mani i criceti, frustava gli schiavi. A volte, solo per divertimento, sferzava i suoi sudditi quando si presentavano davanti al trono con qualche richiesta. — Mio signore, AHIIII! Il mio vicino mi ha ucciso il cavallo e AHIIII! Vorrei che mi rimborsasse il danno. AHIIII! AHIIII! La cosa rendeva le udienze molto veloci. Dioniso e i suoi seguaci non lo sapevano. Avevano passato tutto il tempo a fare feste sul Monte Nisa. Marciarono nella città in un’allegra processione, offrendo grappoli gratis, piantine di vite, bicchieri di vino, suonando cimbali, intonando canti e inciampando nei pedoni di passaggio. Dioniso notò i visi nervosi degli abitanti. Molti di loro avevano le cicatrici delle frustate. La cosa non gli piacque, ma i suoi seguaci lo annunciavano in veste di dio, cantando le sue lodi e danzando intorno a lui. Lo avevano rivestito di costosi abiti color porpora e gli avevano posato sul capo una corona di foglie di vite. In teoria era il più recente dio dell’Olimpo, Signore del Vino e dei Festeggiamenti. Se fosse corso via, molto probabilmente avrebbe rovinato l’effetto. Il gruppo avanzò verso il palazzo reale. Licurgo non era avvezzo a vedere centinaia di satiri e ninfe irrompere in casa sua in assetto da festa solenne. Per qualche istante rimase troppo stupito per reagire. Dioniso si avvicinò al trono, ripassandosi mentalmente il discorsetto. — Re Licurgo — disse. — Sono Dioniso, il re del vino, e questi sono i miei seguaci. Il re lo fissò. Quel ragazzo sembrava non avere più di quattordici o quindici anni, con quei capelli lunghi e neri e il viso così bello, decisamente femmineo, secondo lui. — Tu saresti un dio — rispose in tono piatto. — Capisco. Ed esattamente cosa sarebbe questo vino? I seguaci di Dioniso sollevarono le coppe in un brindisi. Alcuni deposero viti in vaso e bottiglie di vino ai piedi del trono. — È una nuova bevanda — spiegò Dioniso. — Ma è qualcosa di più di una semplice bevanda. È un’esperienza mistica! E cominciò a illustrare le tante virtù del vino. Licurgo però sollevò la mano a intimare il silenzio. — Perché siete qui? — chiese. — Che cosa volete da me? — Solo condividere la nostra conoscenza del vino — rispose Dioniso. — Se consentirai alla tua gente di apprendere l’arte della coltivazione della vite e della produzione del vino, il tuo regno prospererà. E io sarò il dio protettore della tua città. Tutto quello che ti chiedo è di erigere un tempio in mio onore. Licurgo storse le labbra. Era tanto tempo che non gli veniva la tentazione di ridere. — Un tempio. È tutto? Dioniso spostò il peso da un piede all’altro. — Ehm, sì. — Bene, giovane dio, anch’io ho inventato qualcosa. Ti piacerebbe vedere di che si tratta? La chiamo la nuova frusta correttiva. La uso per sbarazzarmi di chi mi fa perdere tempo! E cominciò a frustare tutti e tutto. Frustava di santa ragione qualunque cosa gli capitasse a tiro. I seguaci di Dioniso si sparpagliarono qua e là; non si erano aspettati uno scontro, e non potevano certo difendersi con grappoli e bicchieri. La maggior parte indossava tuniche succinte, quindi le frustate facevano davvero male. La matrigna di Dioniso, Ambrosia, venne colpita in faccia e cadde ai suoi piedi, stecchita. — NOOOOO! Le guardie di palazzo si fecero avanti, circondando i satiri e le ninfe, e li arrestarono. Dioniso scappò, inseguito dai soldati. Stava quasi per essere catturato, ma riuscì a gettarsi da un balcone e tuffarsi nell’oceano, dove la Nereide Teti capitò a proposito a salvarlo. Fece in modo che potesse respirare sott’acqua e gli guarì le ferite, nell’attesa che le guardie del re abbandonassero le ricerche. Mentre la ninfa del mare lo curava, Dioniso piangeva amaramente. — Teti, non combino mai niente di buono! Chiunque mi stia vicino muore o viene punito per il semplice fatto di credere in me. Teti gli accarezzò affettuosamente i capelli. — Non darti per vinto, Dioniso. Non devi permettere che degli invidiosi mortali intralcino il tuo cammino. Torna da Licurgo e fagli vedere che non può mancarti di rispetto in questo modo. — Ma lui ha la frusta! — Anche tu possiedi delle armi. Dioniso ci pensò su. Nello stomaco sentì che cominciava a bruciargli un fuoco, come era successo quando aveva bevuto il primo sorso di vino. — Hai ragione. Grazie, Teti. — Vai e distruggili, campione. Dioniso uscì dal mare a passo di marcia e si diresse al palazzo di Licurgo. Fu quello il momento in cui da semidio diventò un dio fatto e finito? Di preciso non lo sa nessuno. La sua trasformazione fu graduale, ma acquistava sempre più potere a mano a mano che i suoi seguaci aumentavano di numero, e quando decise di affrontare Licurgo fu la prima volta in cui credette in se stesso tanto quanto i baccanti credevano in lui. Re Licurgo era seduto sul suo trono, a parlare con il figlio maggiore, il principe Driado, che era arrivato in quel momento e si chiedeva perché ci fossero tutti quei cadaveri di ninfe e satiri sparsi sul pavimento. Dioniso entrò come una furia, bagnato fradicio e con occhi di acciaio. Licurgo fu ancora più sorpreso di quanto non lo fosse stato la prima volta. — Di nuovo tu? — esclamò. — Tutti i tuoi seguaci sono morti o in prigione. Vuoi unirti a loro? — Ora tu libererai quelli che sono rimasti, e subito — disse Dioniso. Licurgo rise. — Altrimenti? — Altrimenti il tuo regno diverrà sterile. Nessuna vite crescerà. Nessun frutto maturerà. Nessuna pianta di nessun tipo fiorirà. — Ah! È tutto? — No — aggiunse Dioniso, gelido. — E tu sarai colpito dalla pazzia. Ti rifiuti? — Mi rifiuto! — ghignò Licurgo. — Quindi, questa pazzia… AHIA! Il re si piegò in due per il dolore. Poi si rimise dritto di scatto e lanciò un grido in falsetto. Preoccupato, il figlio Driado gli afferrò un braccio. — Papà! Stai bene? Licurgo lo guardò, ma vide solo una colonna di tralci di vite che si contorcevano. Pieno di orrore, arretrò incespicando. — Viti! Ne vedo dappertutto! L’uva ci sta invadendo! Strappò un’ascia bipenne alla guardia più vicina e tagliò la colonna di tralci. — Papà! — gemette la vite. — Muori, maledetta uva! — Licurgo colpì e menò fendenti finché il gemito non cessò. La vite giaceva a pezzi tutt’intorno ai suoi piedi. La vista si schiarì, e il re vide che cosa aveva fatto. Scoppiò in singhiozzi e cadde in ginocchio, mentre l’ascia grondava del sangue di suo figlio. Se Dioniso provò rammarico, non lo diede a vedere. Dopotutto, Era gli aveva insegnato come usare la pazzia per punire i suoi nemici. Aveva imparato alla perfezione. — Licurgo, questo è il prezzo per la tua insolenza — disse. — Finché non libererai i miei seguaci e mi riconoscerai come dio, l’intero tuo regno avrà a soffrirne. — Uccidetelo! — gridò il re. Le guardie fecero per avventarsi su di lui, ma a Dioniso bastò uno sguardo perché quelle arretrassero. Nei suoi occhi avevano visto il potere e la rabbia di un dio. — Il vostro re non si inchinerà mai a me — disse loro Dioniso. — La vostra terra soffrirà fino a quando lui non sarà… destituito. Pensateci. E uscì da palazzo a lunghi passi. Nei giorni seguenti tutto il territorio avvizzì. Nelle città e nei campi le piante appassirono. I frutti marcirono. Il pane si coprì di muffa. L’acqua nei pozzi divenne calda e putrida. I contadini non riuscivano a coltivare più niente. Gli abitanti delle città non avevano di che sfamare i propri familiari. Alla fine, dopo due settimane, le guardie reali invasero il palazzo e catturarono Licurgo. Nessuno protestò. Il re non era mai piaciuto a nessuno. Lo trascinarono urlante e scalciante nella piazza della città e gli legarono ciascun arto a un cavallo, che poi frustarono sulla groppa. I quattro cavalli scattarono al galoppo in quattro direzioni diverse. Già, la morte del re fu davvero atroce. Gli abitanti liberarono i seguaci di Dioniso, e immediatamente le piante ripresero a crescere e i fiori a sbocciare. Le viti ricoprirono i muri del palazzo, caricandosi di succosi grappoli d’uva. I cittadini impararono a produrre il vino. Cominciarono anche a costruire un tempio dedicato a Dioniso. Fu così che il dio ottenne la sua prima vittoria. Dopo di ciò, decise di mettersi all’opera. Radunò i suoi seguaci e cominciò il Grande Tour Mondiale della Follia e degli Assaggi di Vino (il signor D non lo ammetterà mai, ma ha ancora parecchie T-shirt invendute in uno scatolone nell’armadio, tutte misura small). Alcune città accolsero Dioniso e il suo esercito di baccanti ubriachi senza opporre resistenza. In questo caso, era tutto uno scoppiare di allegria e facce sorridenti. La città distribuiva vino gratis e diffondeva l’arte di produrlo. I baccanti davano grandi feste. Tutti rendevano onore a Dioniso, e il mattino dopo l’esercito se ne andava lasciando dietro di sé qualche bicchiere rotto, cappellini di carta stropicciati e un sacco di gente col mal di testa. Non tutti però apprezzavano il nuovo dio e i suoi seguaci. Il re Penteo di Tebe non si fidava di Dioniso. La sua schiera di avvinazzati aveva un’aria pericolosa e sembrava fuori controllo. Ma Penteo aveva sentito cos’era successo a Licurgo, così quando Dioniso venne a fargli visita fece buon viso a cattiva sorte. — Dammi un po’ di tempo per riflettere sulla tua offerta — disse. Dioniso si inchinò. — Non c’è problema. Ci sistemeremo nei boschi a oriente, dove terremo i nostri festeggiamenti notturni. Ti inviterei anche a unirti a noi, ma… — e sorrise misteriosamente — … non sono aperti ai non credenti. Però fidati di me: ti perdi una festa con i fiocchi! Torneremo domattina per avere la tua risposta. La schiera si allontanò tranquilla e si accampò nel bosco. Re Penteo ardeva di curiosità. Che cos’aveva in mente il nuovo dio? Aveva qualche arma segreta? Perché i festini erano interdetti ai non adepti? Le sue spie gli riferirono che molti sudditi avevano già accettato Dioniso come dio senza aspettare il suo permesso. Erano centinaia quelli che programmavano di allontanarsi di soppiatto quella sera e unirsi ai bagordi. — Devo sapere di più di questa nuova minaccia — brontolò Penteo. — E non posso basarmi su notizie di seconda mano. Troppi miei sudditi credono già in questo dio! Devo andare io stesso a spiare il campo di Dioniso. Le guardie lo avvertirono che era una cattiva idea, ma il re non le ascoltò. Si mise il suo completo nero da ninja, si imbrattò il viso di grasso e cenere e scivolò fuori dalla città. Quando giunse ai margini dell’accampamento di Dioniso, si arrampicò su un albero e rimase a osservare la bisboccia con un misto di ammirazione e orrore. I party dei baccanti erano diventati piuttosto selvaggi, a mano a mano che l’esercito si spostava lungo la Grecia. Alcuni mortali, ninfe e satiri si accontentavano di bere vino e ascoltare musica. Altri mettevano in scena pezzi teatrali molto chiassosi, perché Dioniso era diventato anche il dio protettore del teatro. Ma un sacco di seguaci si lasciavano prendere un po’ troppo la mano. Accendevano falò e ci saltavano dentro, per puro divertimento. Altri si ubriacavano e organizzavano mortali corpo a corpo. Altri… be’, lascerò che usiate la vostra immaginazione. Personalmente non ho mai partecipato a una delle feste del signor D. Se ci andassi, la mamma mi metterebbe in castigo per l’eternità. In ogni caso, accadevano cose davvero folli. I seguaci più fanatici erano un gruppo di donne chiamate Menadi. Durante quei festini, si esaltavano così tanto che non sentivano più il dolore e perdevano completamente il controllo. In poche parole, facevano tutto quello che gli saltava in testa. Bisognava stare molto attenti quando c’erano loro in giro, perché potevano passare da un umore super allegro a uno super incazzoso nel giro di un secondo. Erano forti e crudeli… Immaginate trenta Hulk femmine ubriache con unghie affilate come rasoi, e vi sarete fatti un’idea. Operavano come guardie del corpo di Dioniso e come truppe d’assalto, così nessuno avrebbe più osato prendere a frustate il dio. Quella sera danzavano intorno a lui, che stava seduto sul suo trono intagliato in un tronco, e beveva vino levando il calice per brindare ai suoi seguaci. Indossava la solita tenuta: tunica rossa e corona di foglie di edera. Come simbolo di potere reggeva uno scettro speciale chiamato tirso, con una pigna sulla sommità e il fusto intrecciato di foglie di vite. Se non vi suona molto come arma, probabilmente non siete mai stati schiaffeggiati sulla testa da una pigna infilzata su un bastone. Comunque, dal suo albero Penteo osservò i bagordi, e cominciò a capire che questo nuovo dio era molto più potente di quanto avesse creduto. Mescolati alla folla, danzavano centinaia di suoi sudditi. Poi scorse una vecchia che chiacchierava con un satiro accanto a un falò, e il cuore gli divenne di piombo. — Madre? — gemette. Non aveva parlato a voce troppo alta, ma chissà come il dio percepì la sua presenza. All’altro estremo della radura, Dioniso si alzò con aria indifferente. Vuotò la sua coppa di vino e si diresse a passo tranquillo verso l’albero. Penteo non osò muoversi. Sapeva che se avesse cercato di fuggire non ce l’avrebbe mai fatta. Dioniso fece un balzo e afferrò un grosso ramo. Era più massiccio di qualsiasi ramo un essere umano avrebbe potuto piegare, ma lui lo tirò giù con estrema facilità. Il re Penteo si ritrovò completamente allo scoperto. La musica si arrestò. Centinaia di baccanti puntarono gli occhi alla spia sull’albero. — Ma guardate un po’ qui — disse Dioniso. — Il re è entrato di soppiatto e si fa beffe dei nostri riti sacri. — Si girò verso le Menadi e gli altri partecipanti. — Ehi, amici, facciamogli un po’ vedere come trattiamo noi gli intrusi! La folla si accalcò sotto l’albero. Tirarono giù Penteo e lo fecero letteralmente a pezzi. Persino la mamma del re, travolta dallo spirito della festa, si unì al divertimento. Fu proprio così: vino, musica, danze, un raccapricciante delitto. Dioniso sapeva decisamente come allestire uno spettacolo. Dopo quell’incidente non furono molte le città che gli opposero resistenza. Ebbe qualche piccolo guaio ad Atene, ma una volta spiegata la situazione (facendo impazzire parecchie donne ateniesi) la città gli diede il benvenuto e istituì una festa annuale in suo onore. Dioniso viaggiò persino in Egitto e in Siria, diffondendo la buona novella del vino. Certo, qua e là ebbe qualche problema, ma se stessi qui a raccontarvi di ogni volta che fece impazzire un re o lo scuoiò vivo, non ci basterebbe un’intera giornata. Per lui la vita non era altro che un’unica, infinita bisboccia. Era fece un ultimo tentativo di distruggerlo, e per poco non ci riuscì. Lo isolò dalla sua schiera di seguaci e lo fece impazzire, ma Dioniso ebbe la meglio. Cavalcò su un asino parlante fino all’Oracolo di Dodona, dove Zeus lo curò (lunga storia, e per favore non chiedetemi dove avesse preso l’asino parlante). Poi un giorno si sposò. Successe solo perché era stato catturato dai pirati. La sera prima che succedesse, avevano organizzato un party stratosferico sulle coste dell’Italia. Il mattino successivo si era svegliato con un mal di testa intollerabile. Mentre il resto del campo era ancora immerso nel sonno, Dioniso incespicò fino alla spiaggia per andare in bagno. (Certo che anche gli dei vanno in bagno. O perlomeno credo… Sapete una cosa? Andiamo avanti e basta.) Comunque, il bisogno era davvero impellente. Rimase lì per un bel po’ a sbrigare le sue faccende, con lo sguardo perso sull’oceano. D’un tratto all’orizzonte comparve un vascello, che si avvicinava sempre di più, le vele nere gonfie e un gagliardetto, anche quello nero, che sventolava in cima all’albero maestro. Sotto gli occhi di Dioniso, la nave gettò l’ancora, e una barca a remi venne a riva. Ne scese una mezza decina di tizi dall’aspetto torvo, che marciarono verso di lui. — Arrrrgh! — disse uno sguainando la spada. Dioniso sorrise. — Ma tu pensa! Per caso siete pirati? Ne aveva sentito parlare, ma non ne aveva mai incontrato uno. Era terribilmente eccitato. I pirati si guardarono l’un l’altro, momentaneamente confusi. — Proprio così, bricconcello — rispose quello con la spada. — Io sono il capitano di questi incalliti lupi di mare. E tu ovviamente sei un ricco principe, quindi ti prendiamo come ostaggio! (Nota per me: far controllare da qualcuno il mio gergo piratesco, prima di pubblicare. È passato parecchio tempo da quando ho visto Pirati dei Caraibi). Dioniso batté le mani entusiasta. — Oh, ma è fantastico! — Si gettò uno sguardo alle spalle, verso le dune di sabbia. — Il mio esercito sta ancora dormendo. Probabilmente posso approfittare di qualche ora prima che si sveglino. A quell’accenno a un esercito il capitano strinse gli occhi, ma oltre la cima delle dune non riusciva a scorgere nessuno, così decise che il giovane principe probabilmente bluffava. Ricco, Dioniso lo sembrava. I poveri non indossavano tuniche color porpora o corone di foglie di vite. Non avevano mani ben curate, capelli neri fluenti e denti perfetti. Anzi, il capitano non aveva mai visto nessuno tanto carino. — Muoviamoci, allora! — ordinò. — Sali sulla barca! — Fantastico! — esclamò Dioniso correndo verso la barchetta a remi. — Posso fare un giro sul vostro vascello? Mi lasciate camminare sul ponte? I pirati lo portarono a bordo e salparono. Cercarono di legarlo, ma le corde continuavano a cadere, comunque tentassero di annodarle. Il capitano gli chiese chi fosse suo padre, così da poter chiedere un bel riscatto. — Mmmh? — fece Dioniso esaminando il sartiame. — Ah, sì, mio padre è Zeus. La risposta mise i pirati molto a disagio. Alla fine l’ufficiale di rotta non ne poté più. — Ma non vedete che è un dio? Insomma, nessun mortale avrebbe un aspetto così… carino. — Grazie! — Dioniso si illuminò. — Il segreto è vino tutti i giorni e un sacco di feste. L’ufficiale corrugò la fronte. — Dovremmo portarlo indietro e lasciarlo andare. Mi sa che questa faccenda non finisce bene. — Chiudi il becco! — gridò il capitano. — È nostro prigioniero e ce lo terremo! — Ma quanto mi piacete, ragazzi! — disse Dioniso. — Solo che tutta questa agitazione mi ha messo addosso una gran stanchezza. Posso farmi un pisolino? Poi magari lucido il ponte, o qualcos’altro. Si acciambellò su un rotolo di corda e cominciò subito a russare. Dal momento che non erano stati in grado di legarlo, lo lasciarono dormire. Quando finalmente si svegliò, il sole era ormai alto in cielo. — Ragazzi? — Dioniso si alzò in piedi stropicciandosi gli occhi. — Si sta facendo tardi. Il mio esercito sarà preoccupato. Possiamo tornare? — Tornare? — Il capitano rise. — Sei nostro prigioniero. Visto che non hai intenzione di dirci chi è il tuo vero padre, ti porteremo a Creta per venderti come schiavo! Dioniso a quel punto si era stufato di giocare ai pirati. E dai pisolini si svegliava sempre di malumore. — Ve l’ho già detto, mio padre è Zeus. Ora girate la barca. — Altrimenti? — chiese il capitano. — Che fai, mi uccidi? La barca cominciò a gemere. Dal ponte germogliarono tralci di vite che si abbarbicarono all’albero maestro. Mentre le foglie ricoprivano le vele e avviluppavano il sartiame, i pirati si misero a urlare spaventati. L’equipaggio correva di qua e di là in preda al panico, scivolando sui grappoli d’uva. — Calmatevi! — gridava il capitano. — Sono solo piantine! — Poi ringhiò a Dioniso: — Porti più guai di quanto vali, giovane principe. È ora che tu muoia! E avanzò con la spada sguainata. Dioniso non aveva mai provato a cambiare forma prima di allora, ma grande fu la sua euforia nello scoprire che ci riusciva. Improvvisamente il capitano si trovò a dover fronteggiare un orso di duecentocinquanta chili. Dioniso l’Orso ruggì, e il capitano lasciò cadere la spada correndo via, ma scivolò sui grappoli. Il resto dell’equipaggio si sparpagliò dirigendosi a prua, quando improvvisamente sul casseretto comparve la sagoma di un’enorme tigre ringhiante e pronta al balzo. Era solo un’illusione, ma i pirati ne furono terrorizzati. Ovunque si girassero, Dioniso creava un diverso predatore fantasma: un leone, un leopardo, un’antilope-giaguaro… quello che volete voi. Alla fine i pirati si tuffarono fuori bordo. Dioniso decise che l’oceano era un buon posto per loro, così li trasformò in delfini, e quelli nuotarono lontano. Se vi capitasse mai di vedere un delfino con una benda su un occhio che grida: “All’arrembaggio, compagni!”, ora sapete da dove viene. L’unico pirata risparmiato fu l’ufficiale di rotta, che era rimasto alla ruota del timone, troppo spaventato per muoversi. Dioniso gli sorrise. — Tu sei l’unico che mi ha riconosciuto come dio. Mi piaci. L’ufficiale emise un verso stridulo. — Potresti portarmi indietro, per favore? — chiese Dioniso. — M-m-m-mio signore — riuscì ad articolare l’ufficiale. — Lo farei, ma senza equipaggio non posso alzare le vele. Oltretutto le viti sul sartiame… — Oh, giusto. — Dioniso si grattò la testa. — Mi dispiace per tutto questo. — Fece correre lo sguardo sulle acque. A circa un miglio verso est scorse una piccola isola. — Che ne dici di dirigerci laggiù? — Ecco, dovrebbe essere Nasso, mio signore. Credo che… — Perfetto. Potresti semplicemente lasciarmi lì? Troverò il modo di tornare al mio esercito. Così Dioniso finì sull’isola di Nasso, disabitata tranne che per una bellissima fanciulla, che il dio sorprese a piangere sulla sponda di un ruscello, nel bosco. Aveva un’aria talmente disperata che si sedette accanto a lei e le prese la mano. — Mia cara, cosa c’è che non va? La fanciulla non parve neppure stupita, come se ormai non le importasse più di niente. — Il mio… il mio ragazzo mi ha lasciata — singhiozzò. Il cuore di Dioniso si torse fino a diventare un pretzel. Nonostante gli occhi rossi gonfi di pianto e i capelli arruffati, la fanciulla era stupenda. — E chi mai al mondo sarebbe così stupido da mollarti? — chiese. — Si chiama… si chiama Teseo — rispose la fanciulla. — Sono la principessa Arianna, comunque. E raccontò a Dioniso la sua triste storia: come aveva aiutato il bel giovanotto a fuggire da un luogo intricato costruito da suo padre, luogo in seguito chiamato Labirinto. Teseo aveva ucciso il Minotauro e bla-bla-bla. Si tratta di tutta un’altra storia. Alla fine aveva promesso di portare Arianna a casa con sé, ad Atene. Ma lungo il viaggio si era fermato a Nasso per fare rifornimento di acqua fresca, l’aveva scaricata sulla spiaggia e aveva alzato le vele. E voi pensate che rompere via SMS sia una bastardata! Dioniso si arrabbiò parecchio. Se Teseo gli fosse stato a tiro, lo avrebbe trasformato in un mucchietto di grappoli e li avrebbe pestati sotto i piedi. Cercò di confortare Arianna. Evocò vino e cibo, e si misero a chiacchierare. Dioniso era di buona compagnia. Dopo un po’ la fanciulla cominciò a sorridere. Quando lui le raccontò dei pirati, scoppiò persino a ridere (credo avesse uno strano senso dell’umorismo). In un battibaleno si innamorarono. — Ti porterò con me, mia cara — promise Dioniso. — E non ti lascerò mai. Quando ascenderò al trono sull’Olimpo, tu sarai mia regina per l’eternità. Mantenne la promessa. Sposò Arianna, e quando fu finalmente riconosciuto come dio e diventò il dodicesimo olimpio, rese sua moglie immortale. Oh, certo, ebbe ancora qualche flirt con le mortali. Dopotutto era un dio. Ma stando alle leggende greche, vissero per sempre felici e contenti. L’ultima grande avventura di Dioniso sulla terra, prima di diventare dio a tempo pieno: decise di invadere l’India. Perché? Perché no? Aveva viaggiato in lungo e in largo per il Mediterraneo, in Egitto e in Siria, ma ogni volta che cercava di portare la buona novella del vino verso l’Est più lontano, veniva sempre fermato da indigeni locali infuriati. Forse perché la Mesopotamia era dove avevano inventato la birra. Probabilmente non volevano bevande competitive. Comunque, Dioniso decise di fare un ultimo tentativo per espandere il suo mercato. Per quanto ne sapevano i Greci, l’India era praticamente la fine del mondo, quindi Dioniso decise di andare là, conquistarla, insegnare tutto sul vino e tornarsene a casa, preferibilmente in tempo per cena. I suoi seguaci ubriachi si raccolsero a migliaia. Alcune storie dicono che si unì alla spedizione anche Ercole, e che durante il viaggio ci fu qualche importante gara di bevute. Altre dicono che i figli gemelli di Efesto, i Cabiri, si lanciarono in battaglia su un cocchio meccanico e combatterono con coraggio. Un paio di volte furono fin troppo coraggiosi e si ritrovarono circondati dai nemici, e a quel punto dovette intervenire Efesto in persona a irrorare il nemico con il suo divino lanciafiamme e salvare i figlioli. Dioniso procedeva alla testa delle sue schiere in un cocchio d’oro trainato da due centauri. In Siria parecchie città si arresero. L’esercito si fece strada fino al fiume Eufrate e costruì un ponte per attraversarlo: era la prima volta che la Grecia arrivava così lontano. Quel ponte non c’è più. Che cosa vi aspettavate? Era stato costruito da un pugno di ubriaconi. Probabilmente crollò nel giro di una settimana. Tutto andava per il meglio… finché non raggiunsero l’India. Gli indiani sì che sapevano combattere! Anch’essi avevano la loro magia, i loro dei, il loro arsenale di micidiali armi segrete. I loro sacerdoti sacri, i bramini, si sedevano sul campo di battaglia con l’aria di essere pacifici come nessun altro, e l’esercito di Dioniso avanzava in massa, pensando che il nemico si stesse arrendendo. Non appena i Greci si avvicinavano, gli indiani lanciavano loro grappoli di bombe d’artificio, ondate di fiamme e luce accecante, esplosioni massicce che seminavano il panico fra le truppe. Dopo alcune dure battaglie, Dioniso riuscì finalmente a raggiungere il Gange, che era il fiume sacro dell’India. Assaltò un’ultima fortezza: un enorme castello su una collina alta come l’Acropoli di Atene. I suoi centauri e satiri tentarono un attacco frontale arrampicandosi sulle rocce, ma gli indiani provocarono alcune esplosioni magiche così potenti che le prime linee greche si vaporizzarono. Probabilmente sui fianchi delle alture dove si tenne la battaglia sono ancora visibili i negativi di satiri e centauri bruciati. A quel punto Dioniso decise che quando era troppo era troppo. Con l’India era meglio chiudere. Aveva introdotto il vino. Aveva raccolto un delizioso assortimento di esotici gattoni predatori, tipo tigri e leopardi. Aveva persino eletto il leopardo a suo animale sacro e lanciato una nuova moda: quella di indossare una pelle di leopardo come mantello. L’esercito aveva raccolto un buon bottino. Avevano conosciuto persone molto interessanti, ne avevano ucciso la maggior parte, e in linea di massima si erano divertiti un sacco. Dioniso costruì un paio di colonne sulle rive del Gange per dimostrare che era stato lì. Si accomiatò dagli indiani con un addio lacrimoso e riprese il viaggio verso la Grecia. All’Oracolo di Delfi lasciò molti tesori in onore degli dei, e per parecchio tempo continuarono a esserci grosse ciotole d’argento nella camera del tesoro di Delfi con incise le parole: PRESE AGLI INDIANI DA DIONISO, FIGLIO DI ZEUS E SEMELE. (L’ha detto uno degli antichi scrittori greci. Non me lo sto inventando.) Finalmente Dioniso salì sul Monte Olimpo e diventò l’ultimo degli dei maggiori. Parte la colonna sonora, scorrono i titoli di coda. La cinepresa fa una panoramica della sala del trono dell’Olimpo, dove dodici dei piroettano in giro sui loro troni con le rotelle. STACCO! Fiuuu. Ce l’abbiamo fatta, ragazzi. Dodici olimpi: abbiamo collezionato l’intero set, più qualche dio extra, come Persefone e Ade! Ora, se volete scusarmi, vado a dormire. Mi sento come se fossi reduce da una delle bisbocce di Dioniso, e ho un mal di testa che mi spacca le tempie. EPILOGO Bene. Questi sono gli elementi fondamentali. So che qualcuno di voi avrà da ridire: “Ehi, guarda che ti sei dimenticato di parlare di Grovieropulos, il dio dei topi! E anche di Pacchianos, il dio delle cose di pessimo gusto.” O non so chi altro. Per favore, vediamo di capirci. Là fuori ci sono almeno altri diecimila dei. Con la mia sindrome da deficit dell’attenzione non riesco a metterli tutti in un unico libro. Certo, potrei raccontarvi di Gea che ha dato origine a un esercito di giganti per distruggere l’Olimpo. O di come Cupido si è fatto la ragazza. O di come Ecate si è aggiudicata una donnola scoreggiona. Ma ci vorrebbe un altro libro. (E vi prego di non suggerire niente all’editore. Scrivere di questa roba non è un passatempo, è una FATICACCIA!) Qui abbiamo fatto una carrellata sugli attori principali. Ora probabilmente ne sapete abbastanza per non essere ridotti a mucchietti di cenere se mai dovesse capitarvi di incappare in uno qualsiasi dei dodici Olimpi. Probabilmente. Per quel che mi riguarda, sono in ritardo a un appuntamento con la mia ragazza. Mi sa che Annabeth mi ammazza. Spero che le storie vi siano piaciute. In bocca al lupo, semidei. Pace e bene da Manhattan, Percy Jackson Indice Il libro L’autore Frontespizio Introduzione L’inizio di tutta la faccenda L’Età dell’Oro del cannibalismo Gli Olimpi sfondano qualche testa Zeus Estia sceglie lo Scapolo Numero Zero Demetra si trasforma in Gran-zilla Persefone sposa il suo stalker (o Demetra – La vendetta) Era dà rifugio a un piccolo cuculo Ade ristruttura casa Poseidone è uno tosto Zeus ammazza tutti Atena adotta un fazzoletto Tutti pazzi per Afrodite Ares, il più macho Efesto mi fabbrica un lama d’oro (non sul serio, ma avrebbe potuto benissimo) Apollo canta, danza e ammazza la gente Artemide sguinzaglia il Maiale della Morte Ermes rischia il riformatorio Dioniso conquista il mondo grazie a una bevanda rinfrescante Epilogo