Staziella carità sorger lo feo
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Staziella carità sorger lo feo
“Staziella carità sorger lo feo”: dipinti, sculture e arredi tra antica e nuova sede Carlenrica Spantigati Alessandria, 1988 C hi visita la cattedrale alessandrina intitolata a S. Pietro viene colpito dal predominante aspetto tardo ottocento che le vicende storiche dell’edificio hanno determinato. E forse nel rimpiangere l’antica, gotica, sede scomparsa si può essere spinti a sottovalutare l’apparato decorativo del secolo scorso. Lungi dall’essere di secondaria importanza esso è invece di notevole qualità e da legare ai nomi di Carlo Costa e soprattutto di Enrico Gamba, realizzatore delle parti figurate. L’altro livello esecutivo si può agevolmente cogliere nella zona terminale della chiesa – cupola, volta del presbiterio, cappella della salve – nelle parti cioè risparmiate dall’incendio del 1925 che rese necessari rifacimenti e riprese ad opera di Giorgio Boasso e Luigi Morgari. (1) Questi, con affreschi della navata e con alcune variazioni attuate sui dipinti di Gamba, seppero in realtà assai ben riconnettersi al modello preesistente, pervenendo ad omogenee soluzioni d’insieme. L’intervento di Gamba, professore all’Accademia Albertina di Torino, è indissolubilmente connesso alla ristrutturazione di Mella e Ferrari d’Orsara, con i quali l’artista collaborava in quegli anni anche in altre impegnative realizzazioni come nel duomo di Chieri. (2) E con le quattro monumentali figure di Fede, Speranza, Carità e Religione, affrescate da Gamba sui pennacchi della cupola, dialogano le ventiquattro statue dei santi patroni delle città della Lega Lombarda poste nel tamburo, suggestive per collocazione ma di più modesto livello. Vale però la pena di soffermarsi su queste ultime per dare spazio a qualche considerazione sul clima culturale che connota gli anni del rifacimento di Mella. Tali statue non rientravano originariamente all’interno di un omogeneo progetto decorativo, ma la loro realizzazione e collocazione trae spunto dalle manifestazioni per la ricorrenza del settimo centenario di quella gloriosa battaglia di Legnano che nel 1176 aveva segnato la definitiva vittoria dei comuni della Lega su Federico Barbarossa. Volentieri il comitato all’uopo formato a Bologna aderisce ad una proposta di Alessandria – chiamata a farne parte ma in crisi finanziaria per l’onere che la cattedrale in quegli anni costituiva – ed elegge a sede della celebrazione la città fondata proprio per la Lega. (3) In quei decenni nei quali l’avvenuta unità nazionale spronava ancora a magnificare le imprese dei liberi comuni – che Carducci consacrava nella “Canzone di Legnano” o con “Sui campi di Marengo la notte del Sabato santo 1175” – Alessandria dunque poteva vantare la gloria della propria fondazione ed esaltarla nel tempio cittadino in un indissolubile connubio fra storia e religiosità. (4) Si era ovviamente affrontato il problema dell’apparato decorativo già a seguito dell’intervento di Valizzone a inizio Ottocento: purtroppo le successive riprese, anche recenti, non consentono di apprezzare appieno gli affreschi a monocromo con Storie di S. Pietro e l’Eterno eseguiti tra il 1820 ed il 1822 da Luigi Vacca in facciata, cui si accompagnano le statue del Redentore con i quattro evangelisti del coronamento, donate dal canonico Cuneo nel 1827 e opere di Bernardo Ergenti. (5) La cattedrale, dunque, nel corso del XIX secolo è anch’essa investita da quella netta “piemontesizzazione” del gusto che coinvolge la città: ai dipinti del Vacca o di Gamba occorrerebbe infatti idealmente affiancare quelli eseguiti da Gonin nel teatro municipale e di cui resta la decorazione del foyer, sopravvissuto al bombardamento dell’ultima guerra ed attualmente inglobato nel palazzo del comune. (6) Alle presenze di artisti importanti dalla capitale fa riscontro d’altronde anche l’attività di personaggi alessandrini, ed in cattedrale è il caso di Baudolino Rivolta cui si deve l’affresco con la Consegna delle chiavi a Pietro sulla volta della sacrestia. Un ambiente questo che, nonostante gli attuali, evidenti, problemi di conservazione, propone un suggestivo esempio di sistemazione ottocentesca complessiva posta in atto tra il 1846 ed il 1850 con l’affresco citato ed i severi armadi a parete, eseguiti da Giovanni Maggi e Andrea Bonari su disegno dell’ingegner Giovanni Bocca. (7) Ma nel compiere il percorso interno alla cattedrale viene spontaneo chiedersi quale fosse invece l’aspetto dell’antica sede, e se tale immagine di decoro e di arredo sia stata veramente cancellata per sempre lasciandoci solo il rammarico di un sogno perduto ed uno sterile rimpianto. Provvisti di alcuni solidi punti di partenza e con una nutrita serie di indizi, abbiamo intrapreso l’avventuroso cammino alla ricerca dei tasselli superstiti, nella speranza di poterli almeno parzialmente ricomporre. (8) Due sono stati gli originari indizi di indagine, il reperimento di fonti che rievocassero le trascorse condizioni e il vaglio sistematico degli oggetti esistenti. Una prima traccia era fornita dalle succitate ma circostanziate indicazioni del Chenna, cui sono state affiancate fonti manoscritte dalle quali sono emersi dati interessanti anche se talora apparentemente in contrasto. (9) Dalla seconda metà del Cinquecento le relazioni delle Visite pastorali descrivono, sia pure sommariamente, l’interno della chiesa, e si è ovviamente partiti dalla più antica conservata, quella della visita compiuta nel 1565 da Gerolamo Gallarati. (10) L’interesse del visitatore non è certo puntato sull’arredo o su dati artistici: qui, come altrove, a pochi anni dalla conclusione del Concilio di Trento, si tratta di riprendere saldamente in mano la situazione e la gestione di una struttura ecclesiastica che si era andata deteriorando. Lo stato della cattedrale di Alessandria non si differenzia da quello di tante altre sedi italiane ed il quadro è desolante, con i numerosi altari per lo più spogli e con lo stesso altar maggiore fornito di tovaglie “frustae et vetustae … consumptae”. Minuziosamente il vescovo Gallarati registra il patronato di ogni singola cappella o altare, mentre non si sofferma invece con specifici riferimenti su quegli oggetti significativi per devozione, fatta eccezione per l’accenno alla cappella della Madonna “ubi … singulis diebus sabati … Salve Regina canitur in sero”. (11) Quali dunque gli oggetti all’epoca già esistenti? Con l’aiuto delle visite successive è possibile localizzarli. Prima fra tutte la Madonna col Bambino detta dell’Uscetto perché sita nella cappella di S. Silvestro, di patronato dei Baschiatis, continua alla porta laterale sinistra della chiesa. (12) La tradizione che fa capo al Ghilini, riportata da G. Amato, vuole che il dipinto sia stato trovato nel 1542, abbandonato in cattedrale da uno sconosciuto, e le visite pastorali dei Se e Settecento evidenziano la devozione che ad esso viene tributata. (13) L’opera, oggi nella cappella di S. Pio V, si presenta assai ridipinta per antichi restauri che ne hanno anche ampliato le dimensioni originali, ma sembra da datare al XIV secolo come prodotto di botteghe bizantine provinciali. (14) Nell’andito della stessa porta laterale doveva essere poi il grande Crocifisso ligneo ora nella prima cappella destra. (15) La tradizione alessandrina lo dice proveniente da Santa Maria di Castello e per questa sua sede originaria lo ritiene già esistente nell’XI secolo, fatto evidentemente negato dai caratteri stilistici dell’opera che farebbero propendere per una datazione al XV secolo. In tal senso infatti indirizzano l’impianto generale del corpo di Cristo – con le braccia distese, i piedi raccolti e le gambe flesse – la forte accentuazione della resa naturalistica del busto e la caratterizzazione dei tratti del volto. Manca oggi un dettagliata conoscenza dei pur numerosi crocifissi lignei antichi presenti in area alessandrina, ma l’esemplare in esame si può agevolmente porre in relazione con il Crocifisso della cattedrale di Tortona, mentre in soccorso per una datazione più ragionata vengono il quattrocentesco Crocefisso di Santa Maria di Castello e quello di S. Michele a Trino. (16) Attualmente la lettura dell’opera risulta però sfalsata da pesanti interventi di “restauro” così che l’ipotesi di datazione potrebbe risultare eccessivamente avanzata, ed a ciò si aggiunge la copertura in lamina di rame che occulta parzialmente la scultura dalla vita in giù, copertura resasi necessaria nel XVIII secolo per porre freno all’eccessivo – e distruttivo – amore dei fedeli, usi ad asportare delle scaglie per devozione personale. A documentare l’aspetto del Crocefisso prima di tale intervento protettivo resta la bella incisione dedicata nel 1734 al vescovo Giovanni Mercurio Arborio Gattinara. (17) Nelle visite pastorali di fine Cinquecento non compare ormai più invece il monumentale Crocefisso in lamina d’argento e di rame dorato della fine del XII secolo: esso infatti era già definitivamente trasmigrato nella cattedrale di S. Evasio a Casale, prezioso bottino della battaglia vinta dai casalesi guidati da Facino Cane nel 1403. (18) Come il Crocefisso ligneo, dovrebbe provenire da Santa Maria di Castello la Madonna ai piedi della croce e sorretta da S. Giovanni Evangelista, la Madonna cioè della Salve. Anche in questo caso la provenienza è divenuta garanzia di particolare antichità, finendo con l’essere considerata prova della preesistenza del simulacro alla fondazione di Alessandria. Il discorso è particolarmente complesso proprio per il gruppo in esame le cui prime notizie certe risalgono al 1489, anno che con le prodigiose manifestazioni segna l’inizio di quella straordinaria venerazione ancor oggi ben viva. (19) D’altro canto la copia in terracotta rimasta in sito, e che dovrebbe costituire la prova della reale provenienza del gruppo ligneo da Santa Maria di Castello, è stilisticamente da datare anch’essa sullo scorcio del XV secolo. (20) Certo non è facile districarsi fra quanto in passato è stato detto, soprattutto poi quando le affermazioni scaturiscono dal più autentico rispetto per una statua così amata, ma qualche dubbio su di una datazione particolarmente antica era già stato sollevato nell’Ottocento. Giovanni Battista Rossi infatti, che aveva avuto l’occasione di sentire il parere di Brilla, lo scultore savonese che restaurò il simulacro a seguito dell’incendio del 1876, ne sottolinea la materia, “vero tiglio nostrano”, e cautamente avanza l’ipotesi di una datazione “quattrocentesca, cioè del secolo XIV”. (21) Il gruppo si impone oggi all’attenzione con l’aspetto segnatamente ottocentesco datogli da Antonio Brilla appunto, ma fortunatamente l’intervento fu sostanzialmente di superficie, consistendo in un limitato rifacimento della composizione nella parte sinistra e in una totale pesante ridipintura generale con l’aggiunta degli occhi in pasta di vetro. (22) Al di sotto di tale ripresa emerge però un impianto dichiaratamente quattrocentesco e se ci si sofferma sui volti dei sue personaggi si colgono dati che li accumunano ad esempi della seconda del secolo. In tale direzione puntano l’acconciatura della Vergine, il taglio del suo abito dalla cinta fortemente rialzata, il viso dal naso affilato, dalla bocca piccola e dal mento tondeggiante: tutto indirizza nettamente verso sculture lombarde del secondo Quattrocento , la Pietà della Madonna del Sasso ad Orselina sopra Locarno – databile intorno al 1485 – o la Madonna col Bambino di S. Vittore ad Intra del 1481. (23) Una datazione tra il 1470 ed il 1480, di poco antecedente il fatto prodigioso, sarebbe quindi la più plausibile e chiarirebbe il perché del silenzio dei documenti antecedenti al 1489. Ecco quindi raggruppato un piccolo nucleo di opere antiche, ma la cattedrale era veramente così “squallidam” come le visite tardo cinquecentesche ci indurrebbero a credere? In soccorso viene un’altra serie di documenti, quella degli inventari delle suppellettili, conservati, pur con qualche soluzione di continuità, a partire dalla fine del XV secolo. (24) Il quadro che ne emerge è di una straordinaria ricchezza di paramenti raffinati e di argenti preziosi, costantemente contrassegnati dagli stemmi – le armi – della città e delle nobili famiglie alessandrine, a dimostrazione di una attivissima partecipazione alla dotazione della sede simbolo e riferimento dell’intera comunità. A tale concorso contribuiscono due grandi vescovi di fine Quattrocento, il domenicano novarese Marco Cattaneo o De Capitaneis, la cu lapide sepolcrale è tutt’ora visibile nel corridoio della sacrestia, ed il milanese Gian Antonio Sangiorgio. (25) Gli inventari ricordano numerosi oggetti con le insegne del reverendissimo vescovo Marco ed è giunto fino a noi il “calix magnus … cum armis communis et ipsius dicti episcopi” registrato nel 1484. Si tratta di un raffinato lavoro d’oreficeria lombarda tardo quattrocentesca con le immagini degli apostoli realizzate a niello sotto coppa e sul piede. (26) Nulla invece è sopravvissuto delle “sacra supellectili … et pretiosissimis aliquot vestibus auro, et serico mira variegate contextis” che Chenna, riprendendo lo Schiavina, ricorda donati nel 1497 alla cattedrale dal vescovo Sangiorgio. Anzi Chenna aggiunge in proposito che un pallio, un piviale e due tonacelle si erano conservati fino al 1783, anno “in cui resi quasi per vetustà di niun uso furono disfatti, sebbene il piviale massime ornato di varie immagini di santi ricamate, meritasse forse pel pregio anche di sua antichità d’essere tuttora conservato”. (27) Del cospicuo numero di immagini ricamate nell’antico corredo tessile della cattedrale sopravvivono oggi i tre bei medaglioni di santi, riapplicati su di una pianeta a ricami d’oro del XIX secolo, che l’analisi stilistica induce però a datare piuttosto tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo. Con i santi Pietro e Paolo figura anche S. Antonio abate, stilisticamente in parte divergente ma purtroppo assai compromesso nel volto, e ciò potrebbe far riconnettere i medaglioni alla figura dell’arcidiacono Antonio Arnuzzi, vicario generale a più riprese tra il 1584 ed il 1612, quello stesso che nel 1609 dona il calice d’argento sbalzato e cesellato con la Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Antonio abate sul piede. (29) Ma, identificato il nucleo di oggetti più antichi, torniamo a seguire cronologicamente le vicende della cattedrale soprattutto con quanto è giunto fino a noi. Precise indicazioni sono desumibili dalle iniziative del vescovo Ottaviano Paravicini, personaggio di spicco della chiesa post-tridentina, ben conscio dell’importanza anche programmatica che l’immagine della cattedrale doveva fornire ai fedeli. (30) Egli stesso, nella Visitatio ad limina del 1591, sottolinea il proprio personale impegno per la sede alessandrina che “squallidam et omnino inornatam reperii”. (31) Ciò nonostante Ottavio Paravicini non ritiene necessario procedere ad una risistemazione dell’altar maggiore che, benché spoglio di suppellettili, doveva come struttura risultargli rispondente alle esigenze di decoro. Poco prima, infatti, intorno al 1546, esso era stato oggetto di un impegnativo intervento del comune, con l’allogazione a Callisto Piazza della pala raffigurante S. Pietro in cattedra. L’attuale collocazione del dipinto, nell’abside sopra la zona centrale del coro, rende difficile registrarne l’importanza ed immaginarne l’effetto nella sistemazione originaria, peraltro già limitatamente modificata nel 1581. (32) La pala, seguendo le indicazioni del Rossi, era corredata da una ricca cornice e di una predella con cinque storiette del santo titolare: a proposito dio quest’ultima Giovanni Romano ha recentemente avanzato l’ipotesi che le due tavolette raffiguranti i santi Baudolino e Valerio, ora alla pinacoteca civica di Alessandria, ne costituissero originariamente gli estremi. (33) Possiamo immaginare l’altare maggiore all’epoca del vescovo Parravicini seguendo le descrizioni di alcune visite pastorali degli anni successivi, con il tabernacolo in legno dorato, adorno di molte figure e statue, alcune bisognose di riparazioni nel 1627. (34) Un’ipotesi suggestiva, ma da scartare in base a quanto dice il documento stesso, è quella di riconnettere all’altare maggiore della cattedrale l’impegno che nel 1545 un artista contrae, probabilmente con il comune, per un’ancona con numerose figure ed ornamenti intagliati, dorati e policromi, con abbondante uso di avorio, “colori finissimi” e azzurro oltremarino, un’ancona per la quale si richiede la bellezza di 350 scudi. (35) Purtroppo l’artista non si firma, ma ancor più sfortunatamente per noi non è a tutt’oggi reperibile il disegno al quale il documento fa esplicito riferimento. Per tornare al dipinto di Callisto Piazza, ignoriamo il motivo specifico della scelta del pittore lodigiano da parte della comunità alessandrina, ma tale scelta, comunque, attesta un ben preciso aggiornamento culturale. D’altro canto con la pala dell’altare maggiore si resta fedeli ad un indirizzo artistico in ambito lombardo coerente con la situazione politica della città, dipendente dal ducato milanese e retta da vescovi di provenienza, appunto, lombarda. Forse però le presenze pittoriche non dovevano originariamente risultare così univocamente indirizzate, a giudicare almeno dai labili indizi forniti dalle fonti ottocentesche che parlano di opere del genovese Semino esistenti anticamente in cattedrale. Né i dati ci soccorrono per immaginare quale fosse stilisticamente il cinquecento polittico già nella cappella della Purificazione, poi trasferito in quella di S. Giuseppe dove, pur menomato ella tavola centrale raffigurante la Purificazione della Vergine – rimossa nel 1703 per far luogo alla statua del santo titolare – risulta conservare fino alla demolizione del 1803 i laterali con i santi Perpetuo, Gerolamo, Teobaldo e Caterina. (36) Nessuna menzione invece delle fonti sull’arredo della cappella di S. Bartolomeo, detta del Crocefisso a partire dalla fine del Cinquecento, di patronato dei Merlani Varzi. Secondo Amato ne proverebbe il piccolo bassorilievo marmoreo centinato con il Crocefisso, S. Giovanni evangelista e un devoto attualmente murato presso la porta di accesso alla sacrestia. La foggia dell’abito del donatore conferma la datazione verso la fine del Cinquecento, suggerita dall’impianto monumentale del piccolo rilievo, dai panneggi rigonfi, dalla figura del Cristo che indirizza verso i cantieri di scultura lombardi e genovesi. (37) Esaminando più nel dettaglio gli interventi direttamente attuati dal vescovo Ottaviano Paravicini emerge chiaramente la volontà di definire con una migliore sistemazione ed un maggior decoro i luoghi deputati al culto. È sua infatti la decisione di far trasferire il prodigioso simulacro della Salve nella cappella dell’abside laterale sinistra, già della Purificazione: (38) in questo modo il vescovo ottiene di concentrare nello stesso luogo, a sinistra dell’altare maggiore ed in posizione quindi privilegiata, gli oggetti degni di maggior venerazione, trovandosi anche la cappella della vera croce nella zona sinistra della stessa abside. Ma proprio le prestigiose reliquie alessandrine, quelle del Legno della vera croce, e quella della Spina della corona di Cristo, esigono un’attenzione particolare, tanto più che la loro documentata provenienza le porrebbe al di sopra di ogni sospetto sul piano dell’accertazione della veridicità. (39) Ed ecco che nel 1590 Ottavio Paravicini fa predisporre un nuovo altare, scrivendo al vicario Ottavio Saraceni che è necessario “iconam fieri et collocari, satis quidem scultura, auroque decoratam, et accomodatam”. (40) Nulla resta di tale sistemazione, che non per forma ma per materia possiamo immaginare non lontana dalla coeva ancona delle reliquie in S. Croce a Bosco Marengo, ma essa doveva godere comunque di attenzioni particolari per il culto, tanto che a partire dal 1594 le visite pastorali ne registrano con minuziosa cura la complessa organizzazione della custodia. (41) Le iniziative di Ottavio Paravicini hanno dato avvio ad un processo che si concluderà di lì a poco con altri, prestigiosi, interventi attuati durante il vescovado dei suoi successori, Pietro Odescalchi, ed il nipote, Erasmo Paravicini. (42) L’interesse e l’attenzione riportata alle sacre reliquie fa sì che nel 1602 il comune decida di far eseguire ad un orefice, certamente lombardo, tal Gio Tradato, il nuovo reliquiario d’argento per la Santa Spina. Questa, in forma di ostensorio ambrosiano, propone il miglior repertorio dell’oreficeria milanese tra fine Cinquecento e primo Seicento: il piede polilobato, con gli stemmi della città alternati a motivi di frutta che ritornano sul coperchio, le teste di cherubi sulla coppa, le sottili erme che connotano i montanti, trovano le loro più precise rispondenze nell’ambito di quella vasta produzione promossa a Milano dall’arcivescovo Federico Borromeo. (43) E poco dopo, nel 1619, come attesta la scritta incisa sul retro, le famiglie alessandrine depositarie delle chiavi della custodia della vera Croce, fanno realizzare il nuovo, straordinario, reliquiario d’argento in forma di ancona. L’impianto è di chiaro sapore architettonico: lo denunciano la forma dei piedi, la struttura dei montanti con gli angeli cariatidi, le teste di cherubi di profilo a raccordare la base con il corpo centrale, la forma e la scansione della cimasa. E tutto riporta nuovamente a quel grande fervore di rinnovamento che caratterizza la Milano borromaica, ma conviene sottolineare come il diretto antecedente del reliquiario alessandrino sia costituito dal reliquiario fatto eseguire nel 1610 proprio da Federico Borromeo e donato alla collegiata di Arona dove si conserva tuttora con il suo disegno preparatorio. (44) Sulla base della nostra ancoretta figurano gli stemmi delle otto famiglie alessandrine cui è demandata, come si è detto, la custodia della reliquia dal 1208, anno in cui Opizio de Riversati la donò alla città avendola sottratta nel sacco di Costantinopoli. E, particolare importante, nel reliquiario trova posto la cassetta duecentesca, foderata di prezioso broccato a grandi foglie d’oro su fondo purpureo, con la crocetta decorata al centro ed ai terminali dei bracci da piccole formelle in smalto con motivi geometrici. (45) Con un vescovato di quasi un trentennio è Erasmo Paravicini a segnare la definitiva trasformazione in senso “riformato” della chiesa: ripetute con scadenze assai ravvicinate sono le sue visite pastorali che dimostrano come la precisa volontà di rinnovamento si sia scontrata con l’inerzia, se non proprio l’ostilità, dei detentori a diverso titolo, in primo luogo le famiglie dal cui patronato dipendono le singole cappelle. (46) Da Erasmo la cattedrale viene riccamente dotata di suppellettili, in particolare di paramenti. L’uso, e con esso l’usura, ha determinato la totale scomparsa del corredo tessile, come è avvenuto più in generale per gli arredi liturgici più antichi, (47) mentre per gli argenti si può forse annoverare un calice di primo seicento, anche se la presenza sul piede di un santo francescano con S. Giovanni Battista e due altri santi non identificati potrebbero farne ipotizzare la provenienza ottocentesca da una sede conventuale soppressa. (48) Per la cattedrale venne invece sicuramente eseguita la croce professionale in lamina d’argento, opera dell’oreficeria lombarda databile tra la fine del cinquecento e gli inizi del secolo successivo, parte integrante della ricca dotazione della cappella di S. Giuseppe. (49) Si deve ora attendere l’ultimo decennio del seicento per assistere in cattedrale ad una massiccia ripresa di interventi che, scalati nell’arco di un cinquantennio, mirano a quell’adeguamento che il mutato gusto tardo barocco esige. Non è ancora ben chiaro se l’iniziativa di commemorare coi busto-ritratto tre vescovi della seconda metà del seicento risponda o meno ad un più vasto progetto generale successivamente interrotto. Primo in ordine di realizzazione è il busto di Deodato Scaglia fatto eseguire nel 1691, a poco più di trent’anni dalla morte, dal nipote, abate Giacinto Scaglia; segue nel 1694, quello di Alberto Mugiasca, voluto dal capitolo in segno di tangibile riconoscenza per il generoso lascito alla cattedrale su quale ci soffermeremo più avanti; ultimo quello di Carlo Ciceri eseguito per iniziativa del nipote Vincenzo nel 1699. (50) La dettagliata Visita pastorale del 1730 di monsignor Giovanni Mercurio Arborio Gattinara li ricorda sul muro di prospetto alla sacrestia, quasi ad incorniciare la porta, mentre la stessa visita ricorda un quarto busto, quello del patrizio Giacomo Filippo Sacco, posto nel 1698 sul prospetto della cappella di S. Giuseppe. (51) L’attuale collocazione – che ha raggruppato le quattro sculture nell’ambulacro dietro l’altare maggiore – certo non ne consente la necessaria valorizzazione. Pure si tratta di una straordinaria parata di ritratti, stilisticamente di alto livello qualitativo, per i quali si fa tradizionalmente il nome di Giacomo Filippo Parodi, estendendo con buona credibilità l’attribuzione riportata dalle fonti per il busto di Giacomo Sacco e per la statua a figura intera di S. Giuseppe. Questa, ricordata con ammirazione dal Batoli, venne collocata nella omonima cappella il 25 novembre 1703, rimuovendo, come si è detto, la tavola centrale del preesistente polittico della Purificazione della Vergine. (52) Oggi, nella cappella che fronteggia quella della Madonna della Salve, (53) il bel S. Giuseppe ha forse perso la considerazione che aveva originariamente circondato, ma ancor più negletto è il gruppo scultoreo all’incirca coevo composto dal Crocefisso marmoreo sorretto da una coppia di angeli e adorato dai santi Baudolino e Pio a grandezza naturale. Le moderne vicende del gruppo attestano una sua progressiva perdita di importanza all’interno della cattedrale ricostruita, dapprima smembrato con l’utilizzo delle due figure di santi ad affiancare il Crocefisso ligneo quattrocentesco, poi ricomposto, ma nell’ambulacro, così da risultare in pratica occultato ai più. (54) Pure si trattava dell’imponente coronamento del nuovo altar maggiore realizzato nel 1695 con i fondi del lascito di monsignor Mugiasca, un altare di preziosi marmi policromi costantemente descritto con accenti elogiativi nelle visite pastorali settecentesche. (55) Ora occorre compiere un certo sforzo di immaginazione per ricomporre quell’immagine solenne, fortunatamente soccorsi dal fatto che anche l’altare è stato tuttavia conservato e lo si può ammirare, nonostante alcune alterazioni delle dimensioni originarie, nell’attuale cappella dell’Immacolata. (56) La tipologia dell’altare, dalle dominanti cromatiche chiare e con le due grandi teste di angeli in sostituzione delle volute laterali, evoca i coevi esempi liguri, il che può indirettamente confermare la tradizionale attribuzione al Parodi delle statue che lo adornavano. Stupisce in un così ristretto volgere di anni il succedersi di tanto impegnative realizzazioni, tutte per di più omogeneamente orientate nel campo della scultura, ed occorrerà in futuro procedere nell’indagine per chiarire le motivazioni che hanno spinto la committenza in tale direzione. Già in vita il vescovo Alberto Mugiasca aveva tangibilmente dimostrato la propria cura nei confronti della cattedrale con una serie di doni alla cappella di S. Giuseppe ormai divenuta anche come dimensioni una vera “chiesa dentro la chiesa” e luogo deputato alle celebrazioni ordinarie dei vescovi alessandrini. Di tali doni resta il bastone pastorale cui la riargentatura voluta da monsignor Salvaj nel 1878 conferisce forse un aspetto eccessivamente lustro e moderno. (57) È però con il lascito di monsignor Mugiasca che si compiono opere cospicue: l’altar maggiore, la sostituzione degli stalli del coro, l’edificazione della nuova sacrestia, ma anche una ricca dotazione di arredi. Tra questi, conservato nella quasi totalità dei suoi componenti, spicca l’eccezionale apparato pontificale in broccato d’oro e d’argento fatto eseguire a Milano e destinato alla festività del Corpus Domini. (58) Con tutta probabilità è da legare a questo momento ed al nuovo altare maggiore il calice riccamente elaborato che propone sul piede proprio i santi Baudolino e Pio ad affiancare S. Pietro, santo titolare della chiesa, calice sempre ricordato negli inventari in coppia con un altro, stilisticamente posteriore ed in uso per i pontificali, con i santi Pietro, Paolo e Giovanni evangelista. (59) Ancora agli arredi e alle preziose suppellettili provvede il successore di Alberto Mugiasca, l’alessandrino Carlo Ottaviano Guasco: suoi doni munifici sono alcuni paramenti tra i quali l’apparamento in uso per le messe ed i vespri pontificali in broccato d’oro e seta tuttora conservato se pur non integralmente. (60) I radicali mutamenti politici che segnano la vita della città agli inizi del settecento trovano il loro corrispettivo anche nelle strutture ecclesiastiche alessandrine. Se fino ad ora la guida della diocesi era stata caratterizzata da stretti legami con l’ambito lombardo – milanese e comasco per lo più – nel 1706 si verifica una brusca inversione di rotta. Proprio a partire dall’anno che precede l’effettivo passaggio di Alessandria ai Savoia vediamo avvicendarsi tre vescovi la cui appartenenza alle più note famiglie nobili sabaude è un chiaro segnale di nuovo corso: Francesco Arborio Gattinara, Carlo Vincenzo Ferreri – imparentato con i Ferreri d’Ormea – e Giovanni Mercurio Arborio Gattinara. (61) E se l’attuale stadio della ricerca non ha potuto ancora ben evidenziare per il passato il pur consistente apporto fornito alla vita della cattedrale dal clero locale, dagli arcidiaconi, dai vicari, dai singoli canonici di cui pure si posseggono frammentari indizi, è a partire dal XVIII secolo appunto che meglio si stagliano le figure eminenti dei sacerdoti alessandrini, Lorenzo Burgonzio e Giuseppe Antonio Chenna innanzi tutto. (62) Si è sempre considerato Palazzo Ghilini quale modello esemplare dell’avvenuto mutamento politico ed i legami che uniscono l’edificio alessandrino, progettato da Benedetto Alfieri, agli esempi torinesi sono ormai fatto acquisito. (63) Ma sfugge per lo più , perché cancellata alla vista dalla demolizione del 1803, la corrispondente immagine che la cattedrale andava assumendo nel secondo decennio del secolo. La cappella della Salve, quelle di S. Andrea e di S. Giuseppe tra il 1714 ed il 24 avevano infatti mutato aspetto con decorazioni affrescate dall’astigiano Carlo Alberti in collaborazione con Giovanni Antonio Giovannini per le quadrature. Conosciamo più dettagliatamente, anche per ciò che riguarda l’iconografia, le pitture che ornavano la cappella di S. Giuseppe grazie alla descrizione che l calzolaio Luigi Giulini ne dà prima del suo abbattimento, ma certo i tre interventi delle stesse maestranze dovettero essere sostanzialmente omogenei. (64) E dobbiamo immaginare la decorazione scenografica ed illusionistica sul riferimento di quanto invece si è conservato dell’Aliberti, con altri quadraturisti, ad Asti, una decorazione che dovette in qualche misura porsi a contrasto con i profani affreschi del Cucci in Palazzo Ghilini e che poté costituire il precedente per i più tardi affreschi dei fratelli Pozzi in S. Lorenzo. (65) Né è di poco conto immaginare l’effetto dell’apparato decorativo affrescato in rapporto anche alla successiva realizzazione delle tele per il sepolcro che annualmente si “costruiva” durante la settimana santa: un impianto propriamente teatrale ed affidato a specialisti del campo, a quei Galliari cioè, largamente attivi per le scenografie dei più prestigiosi teatri. Il Rossi descrive dettagliatamente l’insieme ora perduto, ma non fornisce alcun indizio per riconnettervi, come vuole Amato, la bella tela raffigurante Daniele nella fossa dei leoni che riceve il cibo da Abacuc, tela la cui lettura è fortemente osteggiata dal precario stato di conservazione, ma che parrebbe realmente prossima ai modi dei Galliari. (66) Il decennio che aveva visto realizzarsi le grandi decorazioni affrescate da Aliberti e Giovannini in cattedrale si colloca all’interno del vescovato di Francesco Arborio Gattinara, che resse la diocesi dall’aprile 1706 al giugno 1727, quando passò alla sede di Torino. (67) Non conosciamo ancora con precisione i committenti di tali decorazioni, ma certo dovrà aver giocato l’influenza proprio di monsignor Gattinara, dal momento che egli stesso si era fatto promotore in prima persona degli affreschi nella galleria e nella cappella del Palazzo Vescovile affidati almeno parzialmente alle stesse maestranze. (68) Su di un altro fronte interviene invece Carlo Vincenzo Ferreri nella sua pur breve presenza alessandrina, con il dono ad Alessandria del corpo di S. Deodato inviatogli da Roma entro un’urna reliquiario dal marchese d’Ormea, primo ministro del re di Sardegna, quello stesso che nel 1742, alla morte del presule ed in qualità di suo erede, dono alla cattedrale alcuni preziosi paramenti del defunto. (69) La considerazione che monsignor Ferreri aveva per l’amministrazione della cattedrale si era inoltre concretizzata nella concessione da lui fatta al capitolo della mazza d’argento nel 1728: se ne conserva purtroppo solo l’esemplare di rame argentato fatto eseguire nel 1793 in sostituzione dell’originale, consegnato alla Zecca con altri argenti delle chiese cittadine in esecuzione di un ordine regio in soccorso alle esauste finanze sabaude. (70) I documenti reperiti relativi a questa vicenda restituiscono l’elenco delle suppellettili cedute, logicamente, con grande riluttanza: ne sono esclusi i vasi sacri, gli oggetti indispensabili per il culto ed i reliquiari, che comprendevano anche quello di S. Pio V, grande mostra d’argento realizzata tra il 1730 ed il 40 la cui preziosa decorazione sbalzata e cesellata si inserisce ad alto livello nella produzione piemontese dell’epoca. (71) L’Ansaldi riferisce della vivace polemica scaturita nel 1793 a proposito della cassa d’argento del simulacro della Salve, polemica che si conclude con l’assimilazione della cassa ai reliquiari e la conseguente esenzione dalla consegna alla Zecca. (72) L’imponente manufatto oggi sotto i nostri occhi si deve al lavoro che Antonio Testore, argentiere ed orafo alessandrino, eseguì a seguito dell’incendio del 1876 di cui si è già fatta menzione, (73) ma il Testore ripropone sostanzialmente il modello originale realizzato nel 1761 da un altro artefice alessandrino, l’argentiere Giovanni Battista Ceresa. In quell’anno infatti, per iniziativa del canonico Macedonio Gallea, amministratore della cappella, e con il concorso della famiglie alessandrine, particolarmente del marchese Vittorio Amedeo Ghilini, si era provveduto a sostituire la preesistente cassa in legno intagliato e dorato con la superba arca d’argento , cui si aggiunsero nel 1792 la corona e nel 1828 i putti a sorreggerla. (74) Preme a questo punto sottolineare che se con il passaggio all’amministrazione sabauda riconoscevamo per via documentaria l’attività degli argentieri alessandrini attraverso il deposito dei loro marchi e punzoni, ora tale attività comincia a prendere corpo e forma, e ancor più con il reperimento e l’individuazione di altri oggetti conservati in cattedrale sui quali si tornerà in seguito. (75) Da Giovanni Mercurio Arborio Gattinara alla fine del secolo con Giovanni Tommaso De Rossi si propongono dapprima, si consolidano poi, nuove attenzioni e nuovi modelli anche culturali. Se Mercurio Gattinara nella visita pastorale del 1730 si sofferma a registrare le iscrizioni e soprattutto impone una diversa attenzione per l’archivio, che dovrà d’ora in avanti essere corredato di un proprio inventario, è poi monsignor De Rossi a trasformare la visita pastorale in una dettagliata e minutissima descrizione di tutto l’esistente ed a sollecitare più in generale l’interesse per i documenti e per il patrimonio librario. Il suo impegno per la salvaguardia della ricca biblioteca dei Gesuiti è fatto noto, ma per il discorso che qui interessa occorre segnalare che l’avvenuta soppressione nel 1789 della Compagnia di Gesù è occasione per il trasferimento in cattedrale di un piccolo ma scelto gruppo di aredi sacri tra i quali il bel calice di primo settecento con l’Immacolata e i santi Giuseppe e Francesco Saverio sul piede, (76) e forse analoga provenienza ha pure il “grembiale ad uso de’ Pontificali colle armi di Monsignor De Rossi” tuttora conservato in cattedrale. (77) A quattro vescovi che tengono al sede alessandrina tra il 1650 e il 1750 circa è dedicato il primo nucleo di ritratti cui si aggiungeranno via via quelli dei successori per costituire una variata galleria nella quale si inseriscono pure alcuni ritratti di canonici benefattori della cattedrale con lasciti cospicui o con particolare impegno personale come Giacomo Ghilini, il decano Toledo o, in anni più vicini a noi, i canonici Ansaldi e Cuneo. (78) Sullo scorcio del XVII secolo la chiesa si presenta rinnovata e ricca di arredi: lo dimostra il confronto tra il già citato inventario del 1655 e quelli del 1760 e del 1773, in particolare per quanto riguarda i paramenti. Nel documento seicentesco essi, ancora quelli con le armi Sangiorgio o Paravicini, sono definiti frusti, logori, usati, mentre nelle registrazioni di secondo settecento figurano i nuovi, connotati dalle armi Mugiasca, Guasco, Gattinara, Miroglio. Dei paramenti più grandiosi si è già detto, ma vale la pena sottolineare come il patrimonio tessile della cattedrale sia cospicuo e dotato di una vasta gamma di esemplari, talora singoli piviali o pianete giunti a noi nell’articolata varietà di tessuti e decorazioni. Si segnalano la pianeta verde con motivi decorativi da legare al gusto per le cineserie, il piviale verde ancora guarnito dei suoi fiocchi di seta a legare il capino, le numerose pianete ricamate in seta, le due tonacelle rosa con delicate capannule d’argento, già registrate tra i beni della cappella della Salve, o il pontificale di tela d’argento color cremisi, di proprietà della cappella di S. Giuseppe. (79) Le due cappelle principali e la Compagnia del santissimo Sacramento, che ha sede presso la cappella della salve, si rivelano particolarmente ben dotate: ne sono ancor oggi testimonianza le tre cartegloria in tartaruga con decorazioni d’argento databili alla prima metà del secolo e che ripropongono i modelli più illustri dei reliquiari ad ancoretta presenti nelle più prestigiose sedi europee anche laiche. (80) Ad esse vanno affiancati la nuova pisside realizzata tra il 1753 ed il 1760 con decorazioni floreali sul coperchio e sulla sottocoppa, recante il punzone dell’assaggiatore Bartolomeo Pagliani, ed il bellissimo ostensorio ornato di pietre sulla mostra, entrambi registrati nel 1760 tra i beni della Compagnia del santissimo Sacramento. (81) E come lo scadere del XVII secolo aveva segnato un momento di particolare interesse per la scultura, così il settecento si chiude con il dono del marchese Ambrogio Ghilini del busto in marmo di S. Pietro attualmente conservato in sacrestia che riporta successivamente una attribuzione a Comolli improbabile per motivi di datazione. (82) Ma siamo ormai giunti al drammatico sconvolgimento della demolizione, che inesorabilmente cancella la struttura architettonica, le decorazioni affrescate, i numerosi ornamenti in stucco, ma che altrettanto inesorabilmente disperde tanta parte di arredo mobile. Se si scorrono infatti gli inventari redatti alla vigilia dell’abbattimento balza agli occhi la registrazione di tanti quadri e sculture, purtroppo senza annotazioni di epoca e d’autore, o di apparati lignei mai ricomparsi. Se però sono stati salvati alla ricostruzione ottocentesca quei pezzi considerati più significativi, e i pertinenza della fabbriceria o del capitolo, si può forse sperare che le mancanze non siano in assoluto sinonimo di cancellazione totale: lo suggerisce il fatto che con gli inventari si conservano presso l’archivio di stato di Alessandria anche le ricevute immediatamente successive che attestano come le singole famiglie titolari dei patronati sulle cappelle si siano affrettate a ritirare dalla chiesa i beni mobili di loro proprietà. E forse in qualche palazzo o in cappelle decentrate qualcosa potrebbe quindi ancora sopravvivere. (83) Sulle peregrinazioni di parrocchia e capitolo in questa occasione e nel successivo momento di completa ristrutturazione della nuova sede ad adopera del Mella si sofferma lungamente Giovanni Battista Rossi, (84) e giova notare come la riappropriazione di una degno dimora comporti alcuni interventi di rinnovamento anche sul fronte dell’arredo. È del 1828 il dono da parte dell’autore del ben Pio V dipinto da Francesco Mensi nel suo soggiorno di studio fiorentino, quadro che Mensi stesso provvide a restaurare con ampliamenti nella fascia inferiore per la definitiva sistemazione nel 1874 nell’attuale cappella. (85) Ed ancora di Mensi è il ritratto di monsignor D’Angennes che si inserisce nella già citata galleria di ritratti di vescovi ora conservata nella sacrestia dei canonici. Monsignor D’Angennes cura con attenzione il riassestamento della cattedrale cui dona nel giugno 1828 un paramento pontificale rosso spolinato d’oro fatto eseguire a Parigi. (86) E sempre nella prima metà del secolo la cattedrale si va ridotando e rinnovando. Ne sono testimonianza il calice punzonato degli assaggiatori Giuseppe Fontana e Matteo Promis, quello eseguito dal torinese Pietro Borrani, quello di Giovanni Baglione che la scritta sul piede data al 1833 e lega al vescovo Dionisio Andrea Pasio. (87) O ancora l’ostensorio di primissimo ottocento di Carlo Giuseppe Ceresa e, se si vuol puntare l’attenzione su questa interessante bottega di argentieri alessandrini, il secchiello eseguito dall’omonimo nipote intorno al 1840. (88) E per restare in tema di botteghe cittadine il turibolo, anch’esso all’incirca di metà secolo, di Angelo Maria Vedani, che marchia col proprio punzone anche la coppia di lampade votive donate da Carlo Alberto alla Madonna della Salve nel 1843 in occasione della solenne imposizione al simulacro della corona vaticana. (89) Un altro Ceresa, sarebbe invece l’autore dell’altro importante dono alla Vergine, quello della coppia di lampade triangolari sorrette da grifi che il municipio offre nel 1837 in adempimento al voto fatto due anni prima nell’infuriare dell’epidemia di colera. (90) Proprio questi oggetti, eseguiti a detta del Rossi su disegno di Leopoldo Valizzone, attestano lo straordinario livello qualitativo raggiunto dai Ceresa e non sfigurano certo neppure al confronto delle più affermate botteghe torinesi quale quella di Carlo Balbino cui si deve assegnare il bel servizio per la lavanda delle mani dai particolari decorativi degni degli oggetti di corte. (91) Anzi piace notare come questi raffinati esempi ridimensionino sul piano artistico un dono storicamente importantissimo qual è quello del servizio di calice, ampolline e vassoio decorati con smalti di gusto neogotico e marchiati C. Triouller offerti da Napoleone III alla città nel 1859 alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza. (92) Si è verificata frattanto una situazione che pare compensare sia pur limitatamente lo squasso prodotto dall’abbattimento napoleonico. Se ne erano colte le avvisaglie già a fine settecento con il trasferimento di oggetti dalla soppressa sede gesuitica ma è nel corso dell’ottocento che la cattedrale assume il ruolo di luogo deputato ad accogliere i più importanti esempi d’arte religiosa dalle sedi conventuali soppresse. Per restare nel campo degli argenti la chiesa acquisisce alcuni antichi e straordinari reliquiari come la coppia in forma di ostensorio dedicata ai santi Baudolino e Valerio, da datare tra il 1585 e il 1600 e provenienti dalla domenicana rettoria di S. Baudolino. (93) Nel 1803-4 il comune affida in deposito il Braccio-reliquiario di S. Sebastiano, opera di oreficeria genovese del 1639 e fino ad allora conservato in S. Siro, mentre è nel 1868 con la seconda tornata di soppressioni, legata alle leggi Rattizzi-Siccardi, che si aggiunge il settecentesco reliquiario di S. Francesco da Paola, secondo gli studi di Amato fatto eseguire a Roma dal cardinale Tommaso Ghilini. (94) Naturalmente alcuni arredi furono recuperati proprio da S. Marco nella sua “trasformazione” in cattedrale, come sarebbe essere il caso dei due armadi, ora nella sacrestia dei canonici, il cui intaglio è assai prossimo a quello di due porte del corridoio che fiancheggia il lato destro della chiesa. (95) Ma preme sottolineare come più in generale il recupero dalle sedi delle corporazioni religiose soppresse veda l’intervento attivo di singoli cittadini: Angelo Massola dona nel 1810 alla cattedrale il coro ligneo intarsiato recuperato addirittura dalle monache di S. Anastasio di Asti, il capitano delle Regie Cacce, Domenico Oliva, dona nel 1849 alcuni dipinti recuperati da S. Siro e il canonico Stefano Berta consegna a fine secolo due dipinti già nella chiesa del Beato Amedeo in Cittadella. (96) In fatto di pittura le acquisizioni qualitativamente più alte provengono innanzitutto da S. Francesco dei Minori conventuali, di cui si segnala in particolare la seicentesca tela – ora nell’andito presso la cappella della Salve – con il Crocefisso tra la Madonna e S. Giuseppe da Copertino (97) mentre dalla collezione privata di Francesco Guasco di Bisio perviene nel 1848 il Giuseppe ebreo venduto dai fratelli, opera di Giovanni Battista Varlone, attualmente nell’aula capitolare. (98) Ma è soprattutto llo straordinario nucleo di dipinti di Guglielmo Caccia il Moncalvo a colpire per consistenza e qualità. Si tratta delle quattro piccole tele ora nella cappella dell’Immacolata con storie delle Vergine e di Cristo e dei due superbi dipinti raffiguranti lo Sposalizio e la Morte della Vergine collocati nell’aula capitolare. Databili agli inizi del secondo decennio del seicento si accompagnano alla più tarda Annunciazione sempre del Moncalvo conservata nella sacrestia dei canonici e dovrebbero tutti provenire dalle monache Agostiniane della Santissima Annunziata della cui sede la cattedrale aveva temporaneamente usufruito nel 1803. (99) Certo oggi può colpire – e forse in senso eccessivamente negativo – una certa sensazione di disomogeneità soprattutto nell’organizzazione distributiva del patrimonio artistico della chiesa, ma il filo conduttore di queste pagine ha voluto dipanarsi in una sorta di percorso storico in cui oggetti di tematiche e materiali diversi, superstiti dell’antica cattedrale, fatti eseguire per la nuova sede, o salvati da chiese oggi scomparse, possano trovare una ricomposizione più equilibrata e soprattutto una più consapevole valorizzazione. 1. Al vercellese Carlo Costa si deve l’impianto decorativo, a Gamba spettano gli affreschi della cupola – con le tre virtù teologali e la religione, gli evangelisti e i dottori della Chiesa – il Transito di S. Giuseppe sul prospetto della omonima cappella e il ciclo mariano nella cappella della Salve coi l’intervento novecentesco ha cancellato i fondi paesaggistici. Anche la fase del 1926-28 si distingue tra parti propriamente decorative, affidate al Boasso, e parti figurative eseguite dal Morgari: tre storie di S. Pietro sulla volta della navata centrale, quattro monocromi con composizioni simboliche, i profeti del presbiterio, gli episodi storici legati alle origini della città in controfacciata e l’iconograficamente complessa figurazione sul fronte della cappella della Salve (la Vergine, Pio V e la battaglia di Lepanto, il dono della reliquia della Vera croce). Purtroppo nel nostro secolo è invalsa l’abitudine a riprese e rifacimenti poco rispettosi delle decorazioni ottonovecentesche e si auspica che l’intervento di risanamento parzialmente avviato nelle navate laterali venga invece condotto con cautela e rigore metodologico. Assai compromessi da riprese successive sono i 5 riquadri con Storie di S. Pietro dipinti ad encausto da Costantino Sereno nel 1887. 2. Per una analisi dettagliata dell’intervento architettonico si rimanda qui al saggio di Vinari mentre per l’attività del Gamba cf F. Dal masso, 1982 e M. Lamberti, in Cultura …, 1980, pp. 1444-1445. La connessione con i lavori a Chieri è assai stretta tanto che Ferrari d’Orsara aveva preso contatti personali ed informali con Gamba prima ancora che venissero ufficialmente avviate le trattative da parte della Commissione istituita per gestire la complessa ristrutturazione. Ciò risulta dai verbali della Commissione stessa (ACCAL, Registro dei verbali della Commissione pei ristauri della chiesa cattedrale, seduta del 29 novembre 1876) attraverso i quali si può agevolmente seguire la vicenda dell’apparato pittorico: le difficoltà economiche connesse all’impegno dell’intera impresa sono serie e si formulano accordi con i pittori per dilazioni nel pagamento. A fronte di una richiesta preventiva di L. 9000, Gamba chiede un supplemento di L. 2000 probabilmente a causa di un ampliamento del progetto che prevedeva inizialmente solo 47 medaglioni. A proposito va segnalato però che l’onere relativo alla cappella della Salve è assunto dalla “Signore Patrone”. 3. Le vicende che conducono alla scelta definitiva sono fedelmente riportate in Riapertura … 1879, ma ancora assai utile è G. B. Rossi, 1877, pp. 187-198. Delle statue, realizzate in cemento idraulico e poste in sito nel marzo 1877, 22 furono eseguite a Bologna da Federico Monti, con il concorso dei colleghi Putti e Demarca, S. Eusebio, protettore di Vercelli, fu realizzato nella città stessa sotto la direzione del Mella, e a Parma si eseguì la statua del protettore, S. Ilario. 4. Il contesto culturale cui si fa riferimento emerge ben chiaro dalla lettura del testo di G. B. Rossi, datato 1877, ma edito ad evidenza in anni successivi poiché l’autore si riferisce esplicitamente anche a fatti del 1882. Ed in connessione con tale contesto, ad Alessandria, come in altre città, si assiste ad un fervore di ricerca sulla storia locale che si identifica talora con il tentativo di operare per la tutela e la conservazione del patrimonio artistico. Se ne veda una prima ricostruzione storica in C. Spantigati, in Il Museo …, 1986, pp. 13-32 o si scorrano le pagine del Rossi, notando come al pur ampiamente elogiato lavoro di Mella e Ferrari d’Orsara si accompagni il rammarico per le parziali distruzioni e dispersioni che esso comportò. Significativo è ad esempio il riferimento alla scomparsa di affreschi dell’antica S. Marco raffiguranti soldati con lance ma “il martello degli operai non diede agio o tempo di poter decifrare o raccogliere”. Il “vigilantissimo prefetto conte Veglio” accorse comunque per recuperare “alcuni avanzi sebbene rotti” dei reperti scultorei per destinarli al progettato museo di antichità (G. B. Rossi, 1877, pp. 161-164). Per il prefetto Veglio di Castelletto ed il museo storico, oltre al mio testo già citato, si veda G. Ieni, in Il Museo …, 1986, pp. 85-99, dove si analizza anche il quattrocentesco Angelo annunziante di F. Filiberti sopravvissuto a questa sventura e ora conservato ptresso il museo civico. 5. G. Amato, 1986, p. 29. Per L. Vacca cf F. Dal masso, in Cultura …, 1980, p. 1492; per le statue si veda G. Ieni. 6. C. Spantigati, 1988, p. 60. 7. La documentazione relativa agli armadi è in ACVAL, De Paroeciis, vol. V – L – 6 e comprende anche un bel disegno progettuale del prospetto. Difficile è per ora il giudizio sull’attività di Baudolino Rivolta che sembra assai discontinua: di ottimo livello i bozzetti con allegorie delle arti per una decorazione non identificata e quello raffigurante la chiesa di S. Martino durante la demolizione, tutti conservati presso la pinacoteca civica di cui Rivolta fu per brevissimo tempo direttore (cf Spantigati, in Il museo …, 1986, pp. 15 e 30, G. Ieni, ib., p. 89). Assai meno felici invece alcuni dipinti di soggetto sacro, come Le anime purganti in cattedrale, terza cappella destra, mentre di miglior esito l’Angelo custode del palazzo vescovile che rivela la stessa ripresa di classicismo neocinquecentesco presente nell’affresco della sacrestia. Analoga discontinuità si può rilevare nei ritratti , e si veda il ritratto di A. Patria presso l’ospedale dei Santi Antonio e Biagio, scheda 0A per l’ICCD a cura di M. P. Soffiantino, 1984, 01/34265, Soprintendenza BB. AA. SS. Ricordiamo infine che l’affresco della sacrestia si realizza a scapito della precedente Apoteosi di S. Domenico, bellissimo affresco barocco a detta del Rossi (1877, pp. 93-95, con giudizi non proprio favorevoli al Rivolta). 8. Il lavoro all’interno della cattedrale, lungo e minuzioso, ha potuto contare sulla solidarietà e sull’apporto di chi, a diverso titolo, ne ha la cura. 9. G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 26-70; naturalmente le pagine sulla cattedrale sono state integrate con le notizie che in più punti lo stesso Chenna forniva nel tracciare le biografie dei singoli vescovi al tomo I, 1785. Per le fonti manoscritte cf infra e il testo di A. Barberis. 10. Per quanto attiene la cattedrale, le Visite pastorali erano già state oggetto di ricerca della tesi di M. Annone, 1980-81 che ha costituito un fondamentale punto di partenza. In questa occasione esse sono state però verificate anche direttamente presso ACVAL, grazie alla collaborazione di G. Subbrero. Purtroppo non sono più reperibili gli atti della visita compiuta da A. Baglione nel 1570 dai quali, secondo il Chenna (tomo I, 1785, vit., 288), “si vede essere proceduto con una scrupolosa esattezza minutissima”. G. Gallarati, nipote del cardinale Giovanni Morone, è attento interprete delle normative emerse dal Concilio di Trento: su sua iniziativa nel 1566 viene fondato il seminario e si attua la ridistribuzione del numero di parrocchie cittadine, cf G. A. Chenna, tono I, 1785, pp. 282-285. 11. Visita pastorale di G. Gallarati, 1565, f. 2v. La cappella è di patronato dei Robutti ed è contigua a quella della Consolata di patronato degli Stortiglioni. Occorre notare però che il termine “capella” ricorre nella visita anche nel caso di semplici altari, come sembra di dover ritenere questi. Più dettagliatamente per le vicende costruttive, i rifacimenti, la distribuzione interna e gli altari dell’antica cattedrale si rimanda al saggio di G. Ieni. 12. Visita pastorale di G. Gonfalonieri, delegato del vescovo Ottavio Paravicini, 1594 (f. 3: “Sancti Silvestri nunc vulgo dicitur la Madonna del Uschietto”). Con la visita compiuta nel 1612, E. Paravicini ordina che vengano riparati la balaustra ed il pavimento (f. 2v.), mentre nel 1627 il vicario S. Lanzavecchia, delegato alla visita dal medesimo vescovo, giudica lo stato della cappella complessivamente soddisfacente (f. 4r.). 13. G. Amato, 1986, p. 19 con la definizione di stile bizantino del XII secolo, ma anche G. A. Chenna, t. II, 1786, p. 39. Nella visita pastorale di Giovanni Mercurio Arborio Gattinara del 1730 (f. 14r.) l’altare è detto “varijs operibus ligneis, et picturis deornatum” e la visita di mons. De Rossi del 1760 (f. 29v.) descrive minuziosamente la cappella: l’icona è fronteggiata dalla statua lignea policroma dell’Assunta circondata da altre piccole figure di santi, mentre alle pareti laterali, entro nicchie, sono le statue dei santi Domenico e Francesco; la cappella sembra essere interamente affrescata e “conspiciuntur duae telae pictae ex opere, ut creditur, celebrj Moncalvi”. 14. Il modello iconografico è quello della Glykophilousa, cioè della madre affettuosa. Le ridipinture, come si è detto, consentono solo riscontri generici, ma tutto pare indirizzare in ambito bizantino provinciale, anche se non è da escludere l’ipotesi di una elaborazione ad opera di una bottega veneziana. Utili dati sul modello iconografico e sulla sua diffusione anche in Italia sono in V. N. Lazarev, 1971, pp. 275-329. 15. La prima menzione precisa è però solo nella visita pastorale di mons. Gattinara del 1730 (ff. 14v e 15r). 16. Sull atradizionale provenienza cf G. B. Rossi, 1877, p. 73. Per il Crocefisso di Trino cf C. Bertolotto, in Inventario …, 1980, pp. 94-95; il Crocefisso di Santa Maria di Castello (scheda 0A per l’ICCD di A. Dalerba, 1974, 01/6245, Soprintendenza BB.AA.SS), anteriore al nostro si lega al prototipo di Baldino di Surso a Pavia databile al 1464 (cf A. Peroni, 1965 e M. Maritano – I. Scaranari, in Giacomo Jaquerio …, 1979, pp. 264-265, ma si veda anche C. Bertolotto, in Guida …, 1979, p. 25, per i crocefissi di area astigiana. 17. L’incisione, firmata G. l’. Poer F., si conserva in ASAL, ASCAL, sez. III, cat. 11, Culto, m. 1803. È proprio monsignor Gattinara nella già citata visita del 1730 che “cum inspexerit auferri particulas dictae statuae (prout creditur ex veneratione fidelium) ordinavit ei meliori modo provideri” Problemi analoghi ed analoghe soluzioni si erano presentati per il cinquecentesco Crocefisso di Santa Croce a Bosco Marengo, protetto nel 1710 con lamina di rame nella parte inferiore della croce 8cf C. Spantigati, in Pio V …, 1985, p. 104). 18. M. Vale Ferrero, 1966, tav. II, ma vedi anche G. Ieni. Legate alle lotte con i casalesi sono le vicende del gallo ora sul palazzo municipale (cf G. Ieni, in Il Museo …, 1986, p. 86) e delle reliquie dei santi Evasio, Natale e Proietto, cf. G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 44 e G. B. Rossi, 1877, p. 12. 19. G. Ghilini, 1666, ad annum 1489; L. Burgontio, 1738; G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 33-36; F. Ansaldi, 1843. 20. A. Dalerba, scheda 0A per l’ICCD, 1974, n. 01/6229, Soprintendenza BB.AA.SS.; la copia di Santa Maria di Castello era originariamente collocata nella cappella di patronato degli Inviziati, cf L. Burgontio, 1738, pp. 19-20. 21. G. B. Rossi, 1877, pp. 36-39. L’identificazione del legno è significativa sia ai fini della datazione sia a quelli della provenienza del manufatto come dimostrano i simulacri più antichi. Per la Madonna della Salve sono attualmente in corso gli accertamenti scientifici voluti da S. E. mons. Maggioni e volti proprio ad accertare la qualità del legno e la sua datazione; a tale scopo – e in accordo con la Soprintendenza per io Beni artistici e storici – sono stati operati dal prof. Cetta ordinario di chimica presso l’Università di Pavia alcuni prelievi di materia del retro (29 aprile 1988; gli accertamenti sono condotti dalla prof. Paola Nola del Dipartimento di botanica della stesa università e dalla prof. Cesarina Cortesi, Laboratorio per la datazione con il C-14 dell’Università la Sapienza di Roma). A proposito di simulacri della Vergine di particolare venerazione e di controversa venerazione si citano qui, perché di area alessandrina, i più antichi casi della Madonna di Crea (cf G. Cuttica di Revigliasco, 1983) e quello della Madonna Lacrimosa di Novi (cf F. Zanolli, 1988). 22. A causa dei restauri in corso in cattedrale il simulacro era temporaneamente esposto nella confraternita della santissima Trinità e l’incendio, sviluppatosi nella notte tra il 29 ed il 30 aprile, fu probabilmente originato dalle candele che ardevano numerose in occasione della annuale solennità della Salve. Il 30 aprile si redige il dettagliato resoconto dei danni che appaiono sostanzialmente limitati ai piedi ed alle mani sporgenti a fianco, nonché alla parte anteriore della cassa. Il 1° maggio giunge da Savona Antonio Brilla, che poco tempo prima aveva eseguito per la contessa Giovanna di Groppello una fedele copia del simulacro collocata a Rinasco nuovo. L’iniziale volontà espressa dal Brilla di trasportare il gruppo a Savona fa sì che si interpelli anche lo scultore torinese Luigi Gasperini, ma si riesce poi ad ottenere che il savonese operi in Alessandria e gli si affida il restauro, realizzato tra il 16 maggio ed il 9 giugno (ACCAL, Atti capitolari cominciando dall’anno 1873 all’anno 1879, f. 187 e ss.). Per la cassa d’argento, restaurata da Antonio Testore, cf nota 73. 23. Per la pietà di Orselina cf V. Gilardoni, 1972, pp. 471-474, per la Madonna di Intra cf P. Venturoli. 24. Per gli inventari più antichi cf S. Maglietta. Qualche difficoltà nel definire la consistenza degli arredi in base agli inventari è dovuta al fatto che fino al secolo scorso essi sono rigorosamente redatti in base alla distinzione di proprietà tra Capitolo, Cappella della Salve, Compagnia del santissimo Sacramento e Cappella di S. Giuseppe e che essi sono pervenuti a noi in modo disomogeneo, così che per il seicento ad esempio conosciamo solo la consistenza dei beni del capitolo e non quella delle cappelle. 25. G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 252-265; per il sepolcro De Capitaneis, cf G. Ieni. 26. ACCAL, Inventarium bonorum et rerum sacristiae ecclesiae majoris Alexandriae, 20 Decembris 1478, con aggiunte del 12 ottobre 1486 (si tratta però di una trascrizione del 1769). Il calice è ancora più dettagliatamente descritto nell’Inventario del 1510 (cf S. Maglietta) che registra la presenza delle figure degli apostoli a niello, mentre l’Inventario delle suppellettili della fabbrica del 1655 (conservato con quello del 1478 in ACCAL) individua erroneamente le armi come quelle del vescovo Sangiorgio. A testimoniare l’importanza assegnatagli dagli studiosi è la foto eseguita da S. Pia alla fine dello scorso secolo e da mettere forse in relazione con la presenza del calice alla grande Esposizione d’arte sacra tenutasi a Torino nel 1898(cf La provincia …, 1898, p. 166; la foto Pia si conserva presso la Soprintendenza BB.AA.SS., Fototeca, Fondo Pia); il calice è inoltre riprodotto in G. Ferrofino – L. Orsini, 1987, tav. V. La forma del calice è quella in uso nella seconda metà del quattrocento (cf G. Romano, in Valle …, 1977, pp. 153-154 e Q. Zastrow, 1984, passim); le figure degli apostoli che si stagliano su fondi naturalistici di paesaggio rivelano la mano di un artista aggiornato sulle novità rinascimentali. A questo proposito utili confronti sono con le immagini miniate e in vetro a oro graffito della coppia di reliquiari della certosa di Garegnano (1460 c., S. Pettinati, in Zenale …, 1982, pp. 70-72) mentre per rimandi ad oreficerie coeve e di esecuzione lombarda presenti in area alessandrina si veda la croce stile di Teodoro Paleologo conservata in S. Evasio a Casale (M. Viale Ferrero, 1966, tav, VII). È probabile che il bastone pastorale ricordato dai documenti tra i doni del vescovo De Capitaneis (cf anche G. Chenna, ib.) sia scomparso a seguito delle disposizioni emanate da Erasmo Paravicino con la visita pastorale del 1612 (f. 4v) “Si cambierà il bastone pastorale in altro moderno, et più comodo, acciò si possa snodare, occorrendo portarlo involto …”. 27. G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 262; cf anche S. Maglietta. L’ultima documentazione diretta reperita a proposito di tali paramenti è del 18 aprile 1682, quando si ordina ai fabbricieri di farli riparare “per conservar viva la memoria del suddetto prelato” (ASAL, ASCAL, s. I, Atti municipali, vol. 1776: Fabbricieri della cattedrale, f. 27r). 28. Anche sulla scorta del monogramma mariano e dello stemma ricamato nella parte inferiore del retro, la pianeta è da identificare con quella donata alla Madonna della salve nel 1870 da monsignor Colli (G. Amato, Risposte al questionario per una visita pastorale non datata, in M. Annone, 1980-81, pp. 276-277; lo stesso Amato, 1986, p. 56, riconosce alcune preesistenze nell’oggetto datandolo al XVIII secolo). Alla pianeta si accompagna una stola con due ottocenteschi ovali ricamati raffiguranti la Madonna col bambino e S. Giuseppe. L’iconografia dei santi Pietro e Paolo trova riscontro nei dipinti cinquecenteschi da Gaudenzio Ferrari a Bernardino Lanino (cf I cartoni …, 1982 e B. Lanino …, 1986); ancora i due santi sembrano memori di quelli alle estremità della predella della pala con il Compianto di Cristo in Santa Maria della Passione a Milano attribuita a Bernardino Luini (g. Bora, in Santa Maria … , 1981, pp. 103-111), ma l’accentuata carica di patetismo induce a far scivolare la datazione dei medaglioni tra fine cinquecento e inizi seicento. Gli inventari della cattedrale registrano numerosi paliotti o paramenti con immagini a ricamo: si segnalano tra gli altri il “palio di damasco bianco … con S. Pietro e S. Paolo e due arme della città ricamate” ricordato nell’inventario del 1655 (ACCAL) e la “pianeta di tela d’oro antica con sei figure in mezzo di varj apostoli ricamate in oro e seta a rilievo …” inventariata nel 1816 e nel 1828 (ACCAL). 29. Sotto il piede è incisa la scritta in capitali Ad usum M. B. Archipresbiteri Eccle Mai Alex pro Tpe Existens 1609 e, in corsivo, C. Passalaqua restau. Et auxit an. 1769. In data 21 luglio 1609 l’arcidiacono Arnuzzi è autore di un legato con l’obbligo di due messe asettimanali e di un anniversario (ACCAL, Legati, ma verificato dall’Inventario dell’archivio). Per l’Arnuzzi nella carica di vicario generale cf G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 302.308.3010.3015. 30. Ottavio Paravicini, consacrato vescovo da S. Carlo Norromeo, cardinale dal 1591, è personaggio di spicco della chiesa post-tridentina : educato a Roma nientemeno che dal cardinale Cesare Baronio, ha legami di amicizia con S. Filippo Neri e ricopre importanti incarichi per la Curia Pontificia su nomina di Sisto V (G. A. Chenna, ib., pp. 297-302). I ristretti tempi del presente lavoro non hanno consentito di approfondire la ricerca su questa eminente figura, grande interprete in Alessandria dei nuovi indirizzi della Chiesa riformata. Sulla situazione di altre diocesi piemontesi a quell’epoca e sui risvolti in campo artistico si vedano C. Spantigati, in Arona sacra …, 1977, pp. 85-104; E. Pagella, e L. Piovano, in Bernardino Lanino …, 1986, pp. 163-210; F. M. Ferro, in Museo novarese …, 1987, pp. 282-283. Alla luce della nuova ottica è da leggere la drastica riduzione del numero degli altari in cattedrale registrata nella visita pastorale di Gerolamo Gonfalonieri, delegato del vescovo Ottavio Paravicini nel 1594. 31. I documenti reperiti da G. Ieni, sono in ASVCV, S. Congr. Concilii “Visitationes ad limina” Alexandrin., m. 27 A, 1591, ff. 135-143v; 1594m ff. 482-485r. Le iniziative del vescovo Paravicini risultano in sintonia con le Instructiones emanate da Carlo Borromeo nel 1577 (in P. Barocchi, 1962, vol. III, pp. 1-113 e 383-465) e con quanto indicato nei Decreta emanati da Gerolamo Ragazzoni nel 1576 a seguito della visita apostolica alla diocesi di Milano. 32. Sul dipinto di Callisto Piazza si veda G. Romano, in Il Museo …, 1986, p. 106; la pala era originariamente su tavola, ma gravi problemi di conservazione resero necessario il trasposto su tela realizzato nel 1974 dai restauratori G. Scalvini e G. Casella di Brescia con fondi ministeriali e sotto la direzione di G. Romano. Nel 1581 si era scorporata la pala dall’altare dandole la definitiva collocazione alla parete del coro (G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 32, secondo notizie del Ghilini). Nel 1695 (Visita pastorale di Carlo Ottaviano Guasco, f. 4r) il dipinto risulta corredato di una ricca cornice intagliata, almeno parzialmente realizzata da poco, ma ancora nel 1749 si affidano nuovi lavori d’intaglio a Giuseppe Antonio Chiara (pagamenti dal 29 gennaio al 30 agosto, ASAL, ASCAL, s. I, Atti municipali, vol. 1765: Fabbricieri della cattedrale, foll. 71v-74v), probabilmente figlio di quel Pietro Gerolamo autore delle superbe cornici apposte nel 1712-13 ai dipinti di Giorgio Vasari in Santa Croce di Bosco Marengo (cf C. Spantigati, in Pio V, 1985, p. 97). 33. G. B. Rossi, 1877, pp. 64-67, con importanti notazioni – e pesantissime critiche – a proposito del restauro attuato a inizio secolo da Galimberti sulla pala e su altri dipinti della cattedrale. Per le tavolette della Pinacoteca civica cf G. Romano. 34. ACVAL, Visita pastorale di Gerolamo Gonfalonieri, delegato del cardinale Ottavia Paravicini, 1594, f. 5r; Visita pastorale del vicario generale Stefano Lanzavecchia, delegato del vescovo Erasmo Paravicini, 1627, f. 3r. Sull’altare, seguendo l’inventario del 1510 curato da S. Maglietta, erano collocate due coppie di angeli, probabilmente reggi torcia. 35. Il documento è stato reperito da G. Ieni tra altri concernenti gli impegni assunti dal comune per la cattedrale, ma non reca alcuna menzione precisa né dei committenti, né della sede a cui è destinata l’ancona. Essa “di dentro sarra di auoglio fatta con le figure et parerà ali S. V. di colori finissimi et di azurro oltra marino” e sarà “alta piedi dieci et quarti novi … In larghezza piedi seij e terze doe” (ASAL, ASCAL, s. I, b. 468). 36. I riferimenti al Semino, ma con qualche contraddizione sulle date, si devono a G. A. De Giorni, 1836, n. 3, p. 86, con precisazioni di A. Mantelli; il problema è stato recentemente riproposto da A. Barberis, 1986-87 con alcune considerazioni inerenti proprio il polittico della Purificazione. Presenze genovesi sono ritenute più che plausibili da G. Romano che, sulla scorta di dati di provenienza antiquariale, suggerisce una originaria collocazione in cattedrale della cinquecentesca Madonna col bambino, i santi Giovanni Battista ed Evangelista e donatori della pinacoteca civica, ma le attuali ricerche documentarie non hanno purtroppo condotto ad esiti probanti definitivi. Per il polittico della Purificazione G. A. Chenna (tomo II, 1786, p. 37) cita sia un documento del 1549, sia uno del 1595, entrambi relativi all’ancona. La sistemazione settecentesca è descritta nella visita pastorale di Giuseppe Tommaso De Rossi del 1760 (f. 31v). Altri dipinti sono evocati dalle visite pastorali nelle varie cappelle, ma le indicazioni sono troppo generiche per consentire ipotesi di datazione o di attribuzione. 37. G. Amato, 1986, p. 17; per meglio chiarire la situazione della scultura cinquecentesca in area alessandrina occorrerà ritornare sugli esempi conservati nella cattedrale di Acqui, già appartenenti a ben più articolati complessi della cattedrale stessa e di S. Francesco: per tali esempi si può ora contare sulle preziose ricerche di G. Rebora, 1986, che hanno consentito di precisarne datazione e collocazione originaria. Da queste sculture – o meglio dalle più tarde – potrà giungere qualche chiarimento anche per il piccolo bassorilievo alessandrino. 38. G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 33-36, cf G. Ieni. 39. ASVCV, S. Congr. Concilii, “Visitationes ad limina”, Alexandrin., m. 27A, 1591, f. 136v. Per l’atteggiamento della Chiesa riformata nei confronti del culto delle reliquie cf C. Spantigati, in Pio V …, 1985, pp. 223-226 e 249-252 oltre che in Arona sacra … 1977, pp. 96-97 e 113. La provenienza delle reliquie alessandrine è certo, agli occhi del vescovo, garanzia sufficiente: la prima donata nel 1208 da Opizio de Riversati che l’aveva personalmente sottratta nel sacco di Costantinopoli, la seconda acquistata da Castellino Colli nel sacco di Roma del 1527 e si veda G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 39-44 anche per i riferimenti a Schiavina, Ghilini ed al Liber Crucis sul quale ultimo si rimanda però a F. Gasparolo, 1889. 40. G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 40 con le parziali citazioni delle lettere inviate al vicario Ottavio Saraceno. 41. Per l’altare d Bosco cf C. A. Scolari, in Pio V …, 1985, pp. 63-72 e C. Spantigati, ib., pp. 224-228 e 248-249. L’accesso alle reliquie era regolato da nove chiavi (che diventeranno poi undici): una affidata al vescovo, e da questi ad un suo fiduciario, un’altra al capitolo, sette a famiglie nobili alessandrine parzialmente coincidenti con le otto famiglie che dal 1208 avevano l’incarico della custodia della vera croce (Visita pastorale del 1594, f. 5v). 42. G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 302-315. Erasmo Paravicini provvide la cattedrale di sacre suppellettili e lasciò, con scrittura del 1639, 100 ducatoni per lavori di adattamento all’altare delle reliquie. Interessante è la figura di Pietro Giorgio Odescalchi, scelto come suo successore da Ottavio Paravicini, definito dal Chenna come amante delle belle arti, e nipote di quel Paolo nunzio straordinario di Sisto V presso gli svizzeri e largamente operoso in stretta connessione con Pio V nella lotta alle eresie (cf C. Mossetti, in Pio V …, 1985, pp. 296 e 300-301, 304-306). 43. ASAL, ASCAL, s. I, Atti municipali, vol. 1763: Fabbricieri della cattedrale, f. 231, a seguito di annotazioni del 1602 intestato alli 12 Febraio, pagamento “a l’aurefice Gio Tradato” per la “Custodia della spina argento basso”. All’artefice vengono dati dei candelieri ed un bacile perché ne recuperi il metalli. Per confronti di argenti di fattura assai simile si vedano la pisside databile al 1600 circa, probabile dono di Federico Borromeo all’abbazia dei S. Martiri di Arona (C. Spantigati, in Aroma sacra …, 1977, p. 132) o la coppia dei reliquiari in forma di ostensorio ambrosiano ora di pertinenza della cattedrale ma provenienti dalla scomparsa rettoria di S. Baudolino (C. Spantigati, in Pio V …, 1985, pp. 265-268). 44. Cf C. Spantigati, in Arona sacra …, 1977, pp. 114-115. Una lunga iscrizione sul retro dell’anconetta-reliquiario ricorda il dono alla città della reliquia nel 1208 da Opizio de Riversati, la custodia affida ad otto famiglie alessandrine e la data della fattura dell’oggetto. Il testo dell’iscrizione è trascritto in G. Amato, 1986, p. 61 e in RIA, 1935, pp. 214-215. 45. L’uso di decorazioni a smalto è frequente nei più antichi reliquiari della croce e si accompagna qui a scritte in greco (su quattro tondi in ottone) come in altri esemplari, che però spesso vi affiancano figure in smalto, cf Venezia …, 1974, scheda 54 (non siglata) e U. Henze, in Ornamenta …, 1985, pp. 116-117. Tali ornamenti confermano la provenienza bizantina della stauroteca. 46. Lo attesta il fatto che nelle visite (1612, 1616, 1624 e 1627, quest’ultima compiuta dal delegato Stefano Lanzavecchia) ricorra per numerose cappelle il richiamo ad eseguire gli ordini della visita precedente, evidentemente disattesi. 47. I doni di Erasmo Paravicini, oltre che dal Chenna sono documentati dall’inventario del 1655 (ACCAL), che per molti paramenti riporta la presenza delle insegne del presule. Più in generale sulla sorte del patrimonio tessile si ritrovano anche in questo inventario ed ancor più nei successivi le consuete annotazioni “usata”, “disfatta” a segnalare l’incidenza dell’usura nella perdita di tante testimonianze. Per i paramenti è poi particolarmente problematica l’identificazione delle voci inventariali antiche dalla descrizione limitata al tessuto e al colore, con una sommaria definizione delle decorazioni (“lavori d’oro e argento”, “lavori di seta”), mentre l’esame diretto di queste ultime consenta una datazione approssimata per decenni stante la lenta modificazione nel tempo dei modelli. Per repertori di tessuti antichi in area piemontese cf Tessuti antichi …, 1981; Antichi tessuti …, 1982; P. Dardanello e A. Colombo in Tessuti antichi …, 1986, pp. 43-65. Al volume del 1986, con la scelta di vari contributi, si rimanda più in generale per i problemi di conoscenza, conservazione e valorizzazione del patrimonio tessile. 48. Per gli arredi pervenuti nel XIX secolo alla cattedrale da altre sedi soppresse cf note 76 e 81. 49. Ai piedi del Cristo uno stemma non identificato con la scritta GEST. XOM. DESIR ripetuta in due quarti su due braccia levate a reggere, pare, un’ostia. Sul retro sono applicati una figura di santo non identificato (in lamina sbalzata) ed un altro stemma assai simile a quello della città (in RIA 1935, p. 218 si identifica appunto lo stemma con quello di Alessandria ed il santo con S. Pietro). L’oggetto è dettagliatamente descritto nell’inventario del 1761 della cappella di S. Giuseppe (allegato in calce alle Visite pastorali di G. T. De Rossi, 1760, consultato in M. Annone, 1980-81, pp. 145-148). Nessuno dei due stemmi coincide però con quelli dei Sacco riprodotti in F. Guasco di Bisio, vol. IX, 1935. Per confronti con altre croci coeve si veda O. Zastrow, 1984, in particolare alle pp. 38-39. 50. Per le notizie sui vescovi cf G. Chenna, tomo I, 1785, pp. 317-327 con specifiche menzioni dei busti e la trascrizione delle epigrafi che li accompagnavano. 51. ACVAL, ff. 22v-23r e 21v; si deve notare che i busti dei vescovi non sono esplicitamente menzionati ma se ne ripetono fedelmente le iscrizioni. La lapide con l’iscrizione Sacco è ora murata nell’ambulacro, cf G. Amato, 1986, pp. 50-51 e RIA, 1935, p. 219, con una breve biografia del patrizio. Questi, vissuto nella prima metà del XV secolo, ricoprì cariche importanti, tra cui quelle di presidente del senato di Milano; con testamento del 15 novembre 1549 lasciò una cospicua somma alla cappella dei santi Giuseppe e Perpetuo (o della Purificazione), per lavori di sistemazione e per la dotazione di arredo, così da esserne ritenuto successivamente il “fondatore” (cf G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 37 e 39). 52. G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 38 (ma con l’indicazione Giacomo Francesco Parodi); F. Batoli, 1777, p. 81. Per il polittico cf nota 36. Per l’attività dello scultore genovese cf F. Franchini Guelfi, 1975; E. Gavazza, 1981 e 1987. La monografia dedicata all’artista da P. Rotondi Briaco, 1962, ritiene il S. Giuseppe di Alessandria opera di bottega (p, 95): ciò appare plausibile, ancor più in considerazione del fatto che la statua dovette essere eseguita nell’ultimo anno di vita del Parodi, ma non deve comportare un giudizio negativo sull’opera, di alta qualità esecutiva. 53. Le decorazioni della cappella ora visibili pur in precario stato di conservazione, sono state realizzate nel 1930 da Giorgio Boasso, mentre l’altare è quello consacrato nel 1879 da monsignor Gaio vescovo di Bobbio (cf G. Amato, 1986, p. 25). 54. G. B. Rossi, 1877, p. 72; G. Amato, 1986, pp. 18 e 25. 55. L’altare venne consacrato il 31 ottobre 1695 da Carlo Ottaviano Guasco (G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 33) e la sua descrizione compare in tutte le visite pastorali settecentesche, ma particolarmente in quella di Giuseppe Tommaso De Rossi del 1760 (ff. 20v-21v) dove si menziona anche la portina del tabernacolo con l’immagine di Cristo risorto (“in eis ostiolo … elegantissime picta est imago Salvatoris D.N.J.C. resurrecti”) asportata nel 1976. 56. Si veda il saggio di G. Ieni; la ricomposizione moderna è avvenuta a spese soprattutto delle insegne del vescovo Mugiasca ora decurtate circa della metà ed a malapena visibili ai lati della mensa. 57. G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 325. Al bastone pastorale (riprodotto in G. Ferrofino e L. Orsini, 1987, tav. VIII) si accompagnano una pisside e una bugia d’argento, quattro reliquiari d’ebano con fregi d’argento, una pianeta e due palii. Entro il riccio terminale sono incise le scritte F. Albertus Mugiasca Ord(inis) Praed(icatorum) Ep(iscopus) Alex(andrinus) e Ep(iscopus) Petrus Juc. Salvaj instauravit 1878. 58. Per gli interventi attuati con i fondi del lasciato Mugiasca cf G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 326. Il coro, ora scomparso, è descritto nella visita pastorale di G. T. De Rossi, 1760 (ff. 22r e v) composto di 28 stalli per i dignitari e i canonici e di 20 per i cappellani, tutti “affabre elaboratis ex ligneo nuceo”, al centro è lo stallo vescovile con le insegna Mugiasca “in eodem ligneo sculptis”. Il paramentale è così descritto nell’inventario de’ mobili ed utensilj sacri di pertinenza del capitolo redatto nel marzo 1773 (ACCAL) “Un apparamento intiero per la funzione del Corpus Domini consistente in n. 13 pianete con l’arma Mugiasca, ed altra pianeta senz’arma, n. 6 tonicelle, n. 6 piviali con la suddetta arma di broccato in oro con due stole, tre manipoli ed una borsa senza velo della medesima stoffa”. Esso compare in tutti gli inventari successiva ma quello del 1828 (ACCAL) non menziona più la presenza delle armi. L’attuale consistenza è in parte variata: sopravvive un solo piviale, manca una tonacella, mentre curiosamente il numero delle pianete è aumentato di una unità forse realizzata con tessuto di recupero dei pezzi scomparsi. 59. Inventario del 1773 “N. 2 calici d’argento dorati, uno a bassorilievo con tre piccole figure rappresentanti S. Pietro, S. Baudolino e S. Pio. L’atro S. Pietro, S. Paiolo e S. Gio Evangelista”. Un terzo calice accostabile al primo si conserva in cattedrale, ma proviene da S. Ignazio dei gesuiti, cf nota 76. In passato, non possedendo i dati documentari attuali, avevo ipotizzato che il calice con i santi Pio e Baudolino potesse provenire dalla soppressa rettoria di S. Baudolino (C. Spantigati, in Pio V, 1985, pp. 237-238). Per gli oggetti simili cf O. Zastrow, 1984, passim, ma in particolare alla p. 62 per un esemplare assai simile a quello con i santi Pietro, Pio V e Baudolino ed alla p. 75 con il calice datato 1762 e prossimo a quello con i santi Pietro, Paolo e Giovanni Evangelista. Nel 1686 il canonico Toledo legò per testamento al capitolo un calice d’argento “che doveva servire per le messe cantate”, ma il documento non consente alcuna identificazione con oggetti precisi (ACCAL, Legati). 60. G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 328-329; oltre ai preziosi paramenti, cui si deve aggiungere il pluviale violaceo in tela d’oro anch’esso conservatosi, il vescovo, prima di trasferirsi nel 1704 a Cremona doma alla cappella di S. Giuseppe “il suo faldistorio di fresco da lui provvisto” che potrebbe identificarsi con quello in legno intagliato e argentato alla mecca attualmente nell’aula capitolare. “L’apparamento per il pontificale di broccato in oro con l’arma Guasco” risulta già nell’inventario del 1773 (ACCAL) mancante di due pianete e due piviali ed attualmente se ne conservano uno solo più nove pianete (alcune con la fodera originale) con due stole e un manipolo. Nel 1717 alla morte del presule, di famiglia alessandrina, pervengono alla cattedrale ulteriori paramenti parzialmente riconoscibili nell’inventario del 1773. 61. G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 332-344. La nomina di Carlo Vincenzo Ferreri avvenne su proposta di Vittorio Amedeo II, un fatto questo che, a leggere tra le righe del Chenna, dovette urtare non poco il clero alessandrino ed in primo luogo il capitolo della cattedrale che dalla costituzione della diocesi poteva vantare il privilegio di proporre il nominativo del proprio vescovo al pontefice, un privilegio del quale peraltro sembra essersi avvalso raramente, cf G. Massobrio. 62. Occorrerà procedere nell’indagine in questa direzione anche per mettere meglio a fuoco le due personalità oggi più note grazie agli studi storici da loro pubblicati. E viene la curiosità di addentrarsi nella ricostruzione della vita culturale della città nel XVIII secolo che dovette essere ben più vivace di quanto non appaia oggi, con l’attività dell’Accademia degli immobili e le ricerche storiche del marchese Carlo Guasco parallele a quelle del Chenna. 63. A. Bellini, 1978 e 1983. Utili precisazioni sul contesto culturale che lega la realizzazione dell’arredo alla situazione torinese, con la quale peraltro erano radicati legami e parentele della famiglia, sono in A. Barberis, 1986-87, pp. 113-128. Sarà comunque necessario mettere a punto i dati noti e inediti sulla famiglia Ghilini e sul suo ruolo di committente in fatto d’arte e non si potrà prescindere dalla competenza che in questi anni si è costruito con ineguagliabili ricerche d’archivio in sede locale. C. I. De Piaggia. 64. G. A. Chenna, tomo II, pp. 36, 38-39; A. Barberis, 1986-87, pp. 32-37. La relazione di Giulini è edita da G. Ieni. Di Aliberti la Visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 oltre agli affreschi citati ricorda nella cappella di S. Andrea la pala d’altare “Imago s. Andrea ap. In tela espressa … dicitur opus D. Johannis Caroli Aliberti celebrj pictoris” (f. 39r). Non so in base a quali dati G. Amato (1986, p. 43) attribuisca ad Aliberti la Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina proveniente da S. Siro ed ora nella sacrestia capitolare. L’attribuzione è più che plausibile ed il dipinto, in cattivo stato di conservazione, attesta la minore felicità di realizzazione di Aliberti nelle opere su tela rispetto agli affreschi come si denota anche dalla pala con la Madonna del Rosario e committenti certosini della parrocchiale di Grana (cf G. Romano, 1975). Per i dati generali su Aliberti cf R. Amerio, 1961, p. 368-369. Chenna ci informa anche che in cattedrale, nella sacrestia della cappella di S. Giuseppe, erano già intervenuti nel 1681 i com’aschi Gian Maria Aliprandi (stucchi) e Pietro Bianchi (affreschi). Ovviamente perduto anche questo complesso decorativo, se ne può evocare l’immagine col bellissimo altare di S. Stefano di Castellazzo Bormida, firmato da Aliprandi e datato 1686 (cf G. Ieni, 1984, p. 40-43; il collegamento scaturisce da amichevoli scambi di informazioni e di giudizi con A. Barberis). 65. Per Aliberti ad Asti cf N. Gabrielli, 1976, pp. 21 e 160 con la riproduzione di un particolare della volta della chiesa del Gesù dove Aliberti lavorava con Pietro Antonio Pozzi. Vale la pena sottolineare che alcune chiese artigiane ed in primo luogo la cattedrale, sia pure anche con interventi più tardi, possono costituire un buon riferimento per immaginare l’aspetto settecentesco della cattedrale alessandrina; cf C. Bertolotto, in Guida …, 1970, pp. 32-33. L’attribuzione degli affreschi di palazzo Ghilini a Giovanni Antonio Cucchi, pittore di origine piemontese ma largamente attivo in Lombardia, si deve a A. Barberis, 1987. Per i fratelli Pietro Antonio e Giovanni Pietro Pozzi attivi nel 1770 in S. Lorenzo, segnalati dal Batoli, 1777, p. 82, cf G. Amato, 1972 e A., Barberis, 1986-87, pp. 50-56. 66. G. B. Rossi, 1877, pp. 89-92; per l’apparato ed il suo uso scenografico cf G. Ieni. Sulla presenza in Alessandria di Galliari anche per il teatro municipale cf A. Barberis, 1986-87, pp. 37-40 e 68-73. Rossi (pp. 81-88) descrive dei Galliari anche due tele di soggetto storico, oggi scomparse ma riprodotte dallo stesso Rossi in litografie che si conservano nell’aula capitolare (una riprodotta in G. Amato, 1986). Il Daniele potrebbe far parte delle tele di “vari soggetti” cui fa riferimento il Rossi per una chiamata dei Galliari nel 1776; il dipinto rivela stretta affinità con l’attività pittorica dei Galliari, cf R. Boscaglia, 1962; e, per i dati bio-bibliografici aggiornati e l’analisi dell’attività in campo teatrale, M. Viale Ferrero, in Cultura figurativa …, 1980, pp. 14421443. Della seconda metà del settecento, ma di minore qualità, è anche la tela raffigurante S. Giovanni Nepomuceno, ricordata dalla visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 (f. 43v) appesa alla parete tra la sacrestia e la cappella di S. Cristoforo, ora nella terza cappella a destra. 67. G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 332-336. Nel 1743 alla sua morte il vescovo lasciò 6000 Lire di Piemonte per l’erigenda nuova chiesa dei SS. Alessandro e Carlo. Le fonti ricordano il dono di una croce di smeraldi e diamanti alla Madonna della Salve per l’ottenuta, prodigiosa, guarigione nel 1719 (L. Burgontio, 1738, pp. 47-49; F. Ansaldi, 1843, pp. 55-58 con alle pagine seguenti l’elenco di altri preziosi doni di personalità diverse). L’oggetto esiste tuttora con altri gioielli della Salve ma non se ne è potuto ancora redigere un moderno inventario. 68. G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 335, parla di pitture fatte eseguire da monsignor Gattinara nella galleria e nella cappella del palazzo, ed un Inventario del 1726 reperito da A. Barberis, 1986-87, pp. 46-50, elencando numerose sale “ornate di pitture a spese di monsignore”, riferisce per la cappella il nome del famoso “Gioannini”. Purtroppo tale complesso decorativo è progressivamente scomparso nel corso di riprese e rifacimenti. La cappella è stata rammodernata in tempi relativamente recenti (1960 per iniziativa di monsignor Gagnor) a spese degli affreschi settecenteschi (che si auspica solo coperti da scialbature) documentati da vecchie fotografie. Di tutta l’imponente impresa sopravvivono due figure dei santi Giovanni Battista ed Evangelista in un locale oggi nella porzione del palazzo non in uso diretto del vescovado. 69. G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 339. Se non riferibili alla Madonna della Salve, potrebbero avere una qualche attinenza con il corpo di S. Deodato le scarpe e la cintura in metallo dorato reperite nel corso dell’attuale ricognizione tra i beni della cattedrale e di cui non si è trovata traccia nei documenti. 70. Per la concessione dell’uso della mazza (cf Chenna, ib.; l’oggetto è ancora registrato nell’inventario del 1773 (ACCAL) ma con l’annotazione a margine “alla zecca. Sostituita da altra di rame argentato fatta da M. Pistoni”. La documentazione relativa alle vicende del 1793 è in ACCAL, Bonorum alienatus, 1582-1835, Tomo I. 71. L’oggetto non appare ancora elencato nella pur attenta Visita pastorale di G. M. Arborio Gattinara del 1730 mentre quella di G. T. DE Rossi del 1760 (f. 19v) lo descrive “ex argento ad formam ostensorii elegantissime elaboratum” e provvisto dei sigilli di Giovanni Mercurio Arborio Gattinara, consentendo così di datarlo anteriormente alla morte dello stesso presule. L’inventario del 1828 (ACCAL) lo registra “con due cimase mobili l’una col triregno e chiavi, l’altra a corona imperiale e due teche mobili pure in argento colle reliquie di S. Pio e l’altra senza, e destinata a riporvi le reliquie della B. V., S. Giuseppe, S. Pietro e S. Domenico esistenti con le loro autentiche”. Anche questa seconda cimasa intercambiabile e di fattura successiva si è conservata. Per confronti con oggetti simili si vedano L. Angelino, in Inventario …, 1980, pp. 127128 e O. Zastrow, 1984, passim. 72. F. Ansaldi, 1843, pp. 25-26. Vi si riproduce anche una litografia del simulacro con la cassa argentea originale. 73. cf antea, n. 22. Nella seduta del 1° ottobre 1876 della commissione incaricata dei restauri del simulacro (ACCAL, Atti capitolari cominciando dall’anno 1873 all’anno 1879, foll. 240-241) si riferisce che “l’orefice signor Antonio Testore aveva usata la maggiore diligenza nel raccogliere e ripulire tutti gli oggetti o le parti di metalli preziosi che si potevano conservare, fondendo tutto il rimanente”. In previsione di un lavoro di rifacimento ovviamente di lunga durata “lo stipettaio Ambrogio Signorino aveva diligentemente compita la cassa provvisoria di semplice legno e cristalli”; G. B. Rossi, 1877, pp. 223-227, nel riferire dei terribili eventi ricorda come collaboratore del Testore “l’orefice incisore signor Carlo Piccolini” e cf anche Riapertura … 1879, pp. 104-105 con la lettera di plauso inviata nel 1878 dalla commissione al Testore e l’indicazione dell’ammontare del lavoro di rifacimento (L. 21.000) 74. G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 36; F. Ansaldi, 1843, pp. 22-25; la corona la si deve alla “medesima officina Ceresa”, mentre a detta di G. B. Rossi (1877, ib., p. 120) i putti sono opera di Maurizio Ceresa. Diversamente rispetto ad altri membri della famiglia Ceresa (per i quali cf infra) non sono emerse notizie documentarie né su Maurizio, né su Giovanni Battista di cui questa è a tutt’oggi l’unica menzione. La preesistente cassa lignea è menzionata per la prima volta nella Visita pastorale di G. M. Arborio Gattinara, 1730, f. 11r. “arca depurata et nonnullis cristallis obserrata” 75. Punto di partenza è il Catalogo dell’università de’ signori orefici, 1786 con aggiunte al 1793: ad Alessandria figurano attive in quegli anni sette botteghe tra cui quella di Carlo Giuseppe Ceresa, ma si veda il fondamentale repertorio degli orafi e argentieri piemontesi di A. Bargoni, 1976. Nell’Archivio storico del comune di Alessandria in corso di riordino è recentemente riemersa, come mi ha segnalato G. Massobrio, la Planche destinée à recevoir les noms et poincons des fabricants d’ouvarges d’or et d’argent conformement à l’article 72 de la loi du 19 brumaire an 6 (9 novembre 1797) con la registrazione dei punzoni di Stefano Cardani, Giuseppe Ceresa, Andrea Parazzolo, Giacomo Guazzi, Amedeo Perotti e Giuseppe Guidetti (cf A. Bargoni ib.; solo Amedeo Perotti non vi compare ma sono indicati altri membri della famiglia). 76. G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 348-355. Il calice compare nelle aggiunte dell’Inventario del 1773 (ACCAL) insieme ad altri oggetti con la segnatura a fianco Donati al capitolo dall’azienda ex gesuitica. Uno specifico elenco di tali oggetti viene redatto per il trasferimento (Mobili da rimettersi al rev.mo capitolo della cattedrale d’Alessandria, già dei gesuiti, 1789, in ACCAL, Fabbrica musices sacrarum): si tratta per lo più di lavori lignei d’intaglio, oltre ad “uno strato stragrande per l’altare maggiore lavorato a fiamma di lana”, “Tre camici di cambrale per le solennità”, “Due pianete di ricamo d’oro in fondo bianco” ed “Un piviale di ricamo d’argento a fiori fondo giallo”. Il calice, di fattura analoga ai già citati esemplari della cattedrale, reca sulla coppa la coppia di punzoni della bottega all’insegna dei due ferri di cavallo attiva a Milano (cf O. Zastrow, 1984, p. 98). 77. Il “grembiule ad uso de’ pontificali colle armi di monsigr. De Rossi” è registrato nell’Inventario del 1773 dopo le aggiunte degli oggetti dall’Azienda ex gesuitica ma non compare nello specifico elenco, cf alla nota precedente. Alla sua morte il presule lascia alcun arredi liturgici alla cattedrale ma il lascito sarà oggetto di controversie (ACCAL, De funeribus …, Inventario ... 1786 e Nota sulle suppellettili … 1789). 78. Il nucleo più antico è costituito dai ritratti di Carlo Ciceri., Alberto Mugiasca, Carlo Ottaviano Guasco, Carlo Vincenzo Ferreri e Giovanni Mercurino Arborio Gattinara con quelli del canonico Giacomo Ghilini e del decano Toledo che figurano nell’Inventario del 1773 (ACCAL); nell’inventario del 1816 si aggiungono quelli di Giuseppe Tommaso De Rossi e di Carlo Giuseppe Pistoni; nell’Inventario del 1828 si registra quello di Alfonso Miroglio ed infine nell’inventario del 1840 quelli di Alessandro D’Angennes (opera di Francesco Mensi) e di Dionigi Andrea Pasio. Tutti questi dipinti si conservano nella sacrestia capitolare con i ritratti aggiunti successivamente, tra cui quello del canonico Ansaldi, opera di G. B. Rossi (cf G. B. Rossi, 1877, p. 97). Curioso è il ritratto del canonico Cuneo che ci propone l’immagine di un arzillo e vivace vecchietto privo di denti, ben in adesione con quanto di sé dice lo stesso canonico nel chiedere al capitolo il parziale sollevamento dagli incarichi a causa dell’avanzata età (ACCAL, Libro delle ordinanze capitolari dal 1813 al 1821, alla data 9 gennaio 1819). Non è più nella cattedrale invece il bozzetto di Giuseppe Mazzola per il ritratto di Pio V del 1778 ora alla pinacoteca civica (C. Spantigati, in Il museo …, 1986, pp. 115 e 121) e registrato nell’inventario del 1773 tra le aggiunte posteriori “Un piccolo quadro rappresentante S. Pio, modello d’altro quadro in grande esistente nel palazzo della città): devo a Paolo Astrusa la segnalazione della sua attuale collocazione in palazzo reale a Torino, pervenutovi non si sa con quali vie. 79. Sul problema dell’identificazione dei paramenti si veda alla nota 47 cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche alle quali si aggiunge qui come utile repertorio N. Gabrielli, 1976. Le tonacelle rosa sono riconoscibili nell’inventario del 1816 tra i beni della cappella della Salve (ACCAL) mentre il paramentale cremisi è registrato alle singole voci dei suoi componenti tra i beni di S. Giuseppe nell’Inventario del 1761 (ACVAL, allegato alle Visite pastorali di G. T. De Rossi, ma consultato in M. Annone, 1980-81, p. 145). Sul gusto per le cineserie si segnala che la scala grande del palazzo vescovile era stata “fatta dipingere alla chinese da mons. Gattinara” come riportato in base ad un inventario del 1726 da A. Barberis, 1986-87, p. 47). 80. Sono purtroppo scomparsi i numerosi reliquiari d’ebano con decorazioni d’argento, i primi quattro registrati dalla Visita pastorale di Carlo Ottaviano Guasco (1695-97, f. 80v), ed incrementati di numero nelle visite successive. Unico relitto conservato sono un gruppo di piccole fiamme e vasi in lamina d’argento che costituivano la cimasa di tali oggetti da immaginare simili ai reliquiari conservati in S. Carlo ad Arona (cf G. Gentile, in Arona sacra …, 1977, p. 159) ed in S. Maria della Passione a Milano (cf A.M. Zilocchi, in S. Maria …, 1981, pp. 176 e 181. 81. Per i punzoni cf A. Bargoni, 1976, p. 27 e tav. II, nn. 6-7. Inventario del 1761 (allegato alle viste pastorali di G, T, De Rossi ma consultato in M. Annone, 1980-81, pp. 135 e 137). Le pissidi registrate nei documenti sono assai numerose e distribuite tra i beni della compagnia del SS. Sacramento, del capitolo e della cappella di S. Giuseppe, ma le più antiche risultano irrimediabilmente perdute. Le pissidi attualmente conservate sono comunque in buono numero e si segnalano quella col nodo a pera liscio recante un punzone non identificato e quella settecentesca in argento sbalzato e cesellato con la Vergine Annunziata, S. Antonio da Padova, un santo francescano sul piede e l’Assunta con uno stemma francescano sulla sottocoppa (questi ultimo paiono però di rifacimento). La presenza di indubbi riferimenti francescani impedisce di riconnettere a questo oggetto la voce dell’Inventario del 1828 (ACCAL) “Pisside travagliata a rilievo di S. M. dell’Olmo in Piem(onte) lib(re) 1 once 7 e sei ottavi”. L’ostensorio è riprodotto in copertina in G. Ferrofino e L. Orsini, 1988, ed il citato Inventario del 1760 è assai preciso: “Un ostensorio d’argento fatto a rilievo con i suoi ornamenti di gemme preziose in peso e tutto oncie centotre”. 82. Nelle aggiunte all’inventario del 1773 (ACCAL): “Un busto di marmo di Carrara rappresentante S. Pietro con piedestallo di fruttiglia (essenza di albero da frutto, probabilmente ciliegio) guarnito di bronzo dorato donato al capitolo dal sig.r marchese D. Ambrogio Ghilini 1787”. È tale data a mettere in difficoltà nell’accettare l’attribuzione a Giovanni Battista Comolli in G. B. Rossi (1877, p. 94), in quanto lo scultore valenza risulta nato il 19 febbraio 1775 (G. Kannès, 1982) ed è quindi al momento del dono appena dodicenne. D’altro canto l’opera è assai lontana da quelle connotazioni di neoclassicismo che conosciamo nel Comolli maturo e propone invece ripensamenti sul tardo settecento. Una traccia che occorrerà tenere presente per future precisazioni è fornita da A. Baudi di Vesme, 1963, con l’indicazione che un “Comolo” (senza nome di battesimo specificato) risulta allievo all’accademia Albertina di Torino negli anni 1780, 81 e 82. Un fatto questo che in riferimento alla data di nascita lasciava perplesso lo studioso spingendolo ad ipotizzare l’esistenza di un omonimo. Per le opere di Comolli conservate al museo civico di Alessandria cf S. Pinto, in Il museo … 1986, p. 49. 83. L’immagine irripetibile della cattedrale abbattuta si fondava sulla coesistenza e la compenetrazione di elementi diversi di cui la parte mobile (dipinti e sculture) era solo un elemento. Degli affreschi si è già detto, così come si è già evocata la sistemazione della cappella della Beata Vergine dell’Uscetto, ma ricordiamo qui ancora la cappella di S. Caterina, di patronato dei Ghilini, che la visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 (f. 29r) ricorda come sistemata di recente con decorazioni marmoree ed a stucco e provvista di icona (quest’ultima però preesistente e registrata nelle visite precedenti) “Altare, quod est noviter confectum una cum ornamentis gypseo, marmoratoque opere concretis, et confectis etiam circumquaque Effigiem depictam dictae Sanctae Virginia, et martiris in martyrio rotarum expressae”. Gli inventari redatti prima della demolizione e le ricevute di ritiro di oggetti ed opere sono in ASAL, ASCAL, serie III,, cat. 11, Culto, m. 1804, Antica cattedrale. Demolizione. Oltre a ricevute per singoli banchi e a quelle dei beni del capitolo e delle compagnie risultano ritirare le pertinenze delle proprie cappelle la marchesa Faa Guasco, Pietro Castellani de Merlani, Critoforo e Ambrogio Maria Ghilini (l’ancona con i santi Cristoforo e Giuliano) Ambrogio e Ottaviano Ghilini (i beni di S. Caterina compreso l’ancona) Filippo Galea, Claudio Del Pozzo (il quadro di S. Andrea dell’Aliberti. 84. G. B. Rossi, 1887, pp. 24-29 e 140-149. 85. IL dipinto, firmato e datato, fu in realtà offerto al comune e da questi destinato all’altare della cattedrale; documentazione relativa all’accettazione (10-26 giugno 1828) è in biblioteca civica di Alessandria, ms 38 (144), Carte Mensi. Altri dipinti di soggetto sacro eseguiti da Mensi a Firenze ed inviati ad Alessandria nel 1833 sono la lunetta con l’Annunciata e la pala della Madonna del Rosario (firmata e datata) in S. Maria di Loreto dove si conserva pure una Apoteosi di S. Domenico di Pietro Ayres del 1843 (cf U. Camarino, 1933). Per l’attività di Francesco Mensi anche in rapporto alla pinacoteca civica cf C. Bongiorni e G. F. Cairo, 1986, C. Spantigati, in Il museo …, 1986, pp. 19-20, S. Pinto, ib., pp.150-152 e D. Molinari, 1986. Sul restauro eseguito dall’artista decise critiche sono in G. B. Rossi (1877, p. 218. 86. Per Alessandro D’Angennes cf T. Canestri, 1835, pp. 14-15; il dono del paramentale è ricordato da G. B. Rossi (1877, p. 121) che ne indica la provenienza da un “Opificio di Parigi” ed è immediatamente registrato nell’Inventario del 1828 (ACCAL) “Rosso di satino operato e spolinato a gran vasi e rami d’oro nuovo dono dell’ill.mo e rev.mo monsignore D’Alessandro D’Angennes …”. I tre piviali e le quattro tonacelle sono tuttora conservati mentre paiono mancare all’appello le due pianete ed altri accessori. Non pertinente al paramentale ma con le insegne del presule è poi un grembiale ad uso dei pontificali conservato anch’esso in cattedrale. 87. Per il primo calice occorre rilevare la presenza del punzone di “tolleranza” previsto dalla normativa sabauda del 1824 per vecchi lavori che entravano in commercio (A. Bargoni, 1976, p. 16 e tav. XII, n. 6; per G. Fontana, p. 29 e tav. IV, n. 3; per M. Promis, pp. 29-30, tav. IV, n. 7). La consunzione di un altro punzone (tra quelli di “recente” in uso tra 1809 e 1814? Ib., tav. IX, nn. 8 e 9) impedisce ulteriori precisazioni sulla datazione dell’oggetto che dovrebbe porsi a cavallo tra primo e secondo decennio del secolo. Il secondo calice oltre al punzone del Borrani (ib., B-185, pp. 67 e 267) reca quelli legati alla normativa in vigore dal 1824 (ib., pp. 15-17, tav. XII, nn. 1 e 4, corrispondenti all’argento primo titolo 950% ed all’Ufficio del marchio di Torino. Analoghi punzoni di controllo compaiono sul terzo calice contrassegnato dal marchio di G. Baglione (ib., B 9, pp. 44 e 263). Ulteriori indicazioni sui punzoni sono in A. Bargoni, in Porcellane … 1986, pp. 138143 e per l’attività di Pietro Borrani A. Griseri, ib., pp. 145-146, 157-158. Assai simile al calice di Borrani in cattedrale è l’esemplare datato 1830 conservato presso il duomo di Torino (cf P. Gaglia, in Cultura …, 1980, p. 619, al cui testi si rinvia complessivamente per utili dati, pp. 614-628). 88. L’ostensorio, dalla bella decorazione impero, reca il punzone di Ceresa con il grifo (A. Bargoni, 1976, C. 83, p. 88; C 84; C85, pp. 88 e 271). L’uso degli stessi punzoni da parte di figlio e nipote rende difficile l’esatta attribuzione degli oggetti, ma in questo caso non paiono sussistere dubbi grazie all’analisi stilistica delle decorazioni ed alla presenza del marchio “recente” in uso tra 1809 e 1814 (ib., tav. IX, n. 9). Più tardo è un secondo ostensorio con motivi decorativi policromi, sempre col punzone Ceresa, che reca il marchio di controllo delle normative sabaude del 1824 e quello dell’Ufficio del marchio di Alessandria (ib., tav. XII, n. 1, Tav. XIII, n. 6) mentre la datazione del secchiello si deve ad una scritta incisa sotto la base ad accompagnare l’indicazione di appartenenza alla cappella di S. Giuseppe. Ancora ai Ceresa si devono un turibolo con navicella, dalle decorazioni assimilabili a quelle del secchiello. Il nuovo punzone con la ciliegia adottato successivamente da Carlo Giuseppe Ceresa junior compare su alcuni fermagli del piviale. 89. A. Bargoni, 1976, V-37, pp. 250 e 305. Di Angelo Vedani è una ricevuta del 30 maggio 1839 per un turibolo ed una navicella in rame argentato e negli stessi anni l’argentiere realizza diversi lavori di manutenzione ordinaria (ASAL, ASCAL, serie III, cat. 11, Culto, m. 2163). Il punzone dell’elefante, che contraddistingue la famiglia Vedani ma prima ancora e con altre iniziali la bottega di Stefano Cardano ed i suoi eredi, compare anche su alcuni fermagli di piviale. Alla Madonna della Salve Carlo Alberto aveva donato nel 1637 (Inventario del 1840, ACCAL) un ternario in damasco rosso spolinato in oro che G. B. Rossi (1877, p. 121) dice lavorato a Torino, per la solenne incoronazione cf F. Ansaldi, 1843 e lo stesso Rossi pp. 42-50 che ne descrive minutamente gli apparati. Esemplari della megaglia commemorativa sono conservati presso il museo civico, cf P. Gaglia, in Il museo …, 1980, pp 130-131. 90. Le lampade recano il punzone di Carlo Giuseppe Ceresa junior con la ciliegia; il nome di Maurizio, che non compare nel repertorio del Bargoni, è fatto da G. B. Rossi, 1877, pp. 119-120 che menziona anche alcune modifiche apportate al disegno di Valizzone dall’ingegner G. D. Protasi “di Val d’Ossola”. Per il voto del 1835 cf F. Ansaldi, 1843, pp. 69-78. 91. Vi compaiono i punzoni dell’orafo e argentiere e quelli della normativa sabauda in vigore dal 1824. Per Carlo Balbino e confronti con oggetti analoghi si vedano A. Griseri, in Porcellane …, 1986, pp. 144, 146 e 170-171; C. Briganti, ib., p. 194. 92. Il fatto che Napoleone III assistette per tre domeniche consecutive alle funzioni religiose nella cattedrale alessandrina prima di recarsi sui campi di battaglia è ricordato da G. B. Rossi, 1877, pp. 125-126. Oltre all’iscrizione dedicatoria e alla data (cf RIA, 1935, pp. 227-228) gli oggetti recano il marchio della ditta C. Triouillier F.que d’Orfevbrerie et bronze d’eglise 1 R. du Vieux Colombier Paris, il punzone C. F. ed i marchi francesi. Il servizio è riprodotto in C. Ferrofino e L. Orsini, 1988, tav. I. Stilisticamente assimilabile è la pisside donata a Pio IX dal capitolo di Amiens nel 1877 e conservata presso il museo del tesoro del duomo di Milano (cf M. Cinotti, in R. Boscaglia e M. Cinotti, 1978, pp. 81-82). 93. C. Spantigati, in Pio V …, 1985, pp. 265-268. 94. A. Barberis ha in questa occasione recepito la documentazione relativa al Braccioreliquiario (ASAL, ASCAL, serie III, cat. 11, Culto, m. 1788 e ASAL, Notarile, II vers., b. 940, Atti del notaio Gerolamo Papino, dal 1637 al 1641). L’istrumento notarile, datato 29 gennaio 1639, concerne l’affidamento del reliquiario da parte del comune ai padri di S. Siro, mentre la consegna alla cattedrale è del 3 maggio 1804. L’oggetto reca il punzone genovese della torretta ed altro non identificato. Più complessa è la vicenda del reliquiario di S. Francesco da Paola (G. Amato, 1986, p. 55) che, con la soppressione dei Minimi di S. Francesco da Paola cui apparteneva, venne dal comune affidato ai PP. Cappuccini e solo con la soppressione di questi ultimi pervenne nel 1868 alla cattedrale (ACCAL, fascicolo sparso). Il bel reliquiario rivela in effetti strette tangenze con la produzione romana settecentesca, ma lo stemma applicato alla sua base è quello della città e non del cardinal Ghilini che nel 1774 consacrò la chiesa alessandrina dei Minimi (cf C. Spantigati, in Il museo …, 1086, p. 115). 95. L’inventario del 1828 (ACCAL) registra “quattro armadi due più alti e due più bassi di noce con molti intagli e loro chiavature, già dell’antica sagristia dei domenicani”. Si ignora invece l’attuale collocazione del piccolo bassorilievo raffigurante l’adorazione dei Magi “che si vedeva prima dei restauri incastonato nel muro vicino all’uscio che … conduceva alla cantoria” ricordato da G. B. Rossi (1877, p. 98) e che lo riteneva di S. Marco e assai antico (gotico?). Così come si ignora la collocazione dei due dipinti su tavola attribuibili a Gandolfino da Roreto dall’Ottocento agli inizi di questo secolo conservati in cattedrale dove sopravvive solo la piccola Crocefissione recentemente restaurata da A. R. Cicala (1987) con l’intervento dell’amministrazione provinciale, assessorato alla cultura (i dipinti scomparsi sono riprodotti in C. Spantigati, Il museo …, 1986, pp. 16-17). 96. Il coro ha precisi riscontri in altri tuttora in sito nelle chiese artigiane, opera di Francesco Salario da Moncalvo intorno al 1764 (cf N. Gabrilelli, 1976, pp. 172-73). Per l’elenco dettagliato dei dipinti e le loro provenienze cf. G. Amato, 1986, pp. 38-46; il dipinto del Beato Amedeo è firmato da Giovanni Batista Morelli, attivo anche in S. Lucia. Il canonico Berta lasciò parte dei dipinti di sua proprietà alla pinacoteca civica (C. Spantigati, in Il museo …, 1986, p. 26), mentre al canonico Braggioni si deve in cattedrale anche la tardo cinquecentesca S. Cecilia su tavola casualmente rinvenuta nell’archivio capitolare. 97. L’impianto compositivo e soprattutto la figura del Crocefisso denunciano la rielaborazione dei modelli di Guido Reni, del Crocefisso dei cappuccini – ora alla pinacoteca di Bologna – innanzitutto; la realizzazione del S. Giuseppe da Copertino nel contempo rivela, particolarmente nel volto, derivazioni dall’attività di Giovanni Carlone (cf F.R. Pesenti, 1986, pp. 123-128). 98. Il dipinto, che Amato riportava a Giovanni Battista Castiglione il Grechetto, è da legare alla serie con storie di Giuseppe di Giovanni Battista Carlone (cf F.R. Pesenti, 1986, pp. 147149). 99. L’annunciazione è ricordata da F. Batoli, 1777, p. 81. Per la datazione e l’analisi stilistica in rapporto ai dipinti di Moncalvo a Chieri ed alla più tarda attività dell’artista cf G. Romano, 1972, pp. 760-761. Le quattro piccole tele della cappella dell’Immacolata sono state restaurate con la tavoletta del Gandolfino, cf nota 95. In cattedrale si conserva pure il disegno di Moncalvo relativo all’Annunziata, ma esso non è stato per ora reperito. Il Tobiolo e l’angelo attualmente nell’aula capitolare unisce a fortissima dati mocalveschi la presenza di componenti nordiche.