Staziella carità sorger lo feo

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Staziella carità sorger lo feo
“Staziella carità sorger lo feo”:
dipinti, sculture e arredi tra antica e nuova sede
Carlenrica Spantigati
Alessandria, 1988
C
hi visita la cattedrale alessandrina intitolata a S. Pietro viene colpito dal predominante
aspetto tardo ottocento che le vicende storiche dell’edificio hanno determinato. E forse nel
rimpiangere l’antica, gotica, sede scomparsa si può essere spinti a sottovalutare l’apparato
decorativo del secolo scorso.
Lungi dall’essere di secondaria importanza esso è invece di notevole qualità e da legare ai
nomi di Carlo Costa e soprattutto di Enrico Gamba, realizzatore delle parti figurate. L’altro livello
esecutivo si può agevolmente cogliere nella zona terminale della chiesa – cupola, volta del
presbiterio, cappella della salve – nelle parti cioè risparmiate dall’incendio del 1925 che rese
necessari rifacimenti e riprese ad opera di Giorgio Boasso e Luigi Morgari. (1) Questi, con affreschi
della navata e con alcune variazioni attuate sui dipinti di Gamba, seppero in realtà assai ben
riconnettersi al modello preesistente, pervenendo ad omogenee soluzioni d’insieme.
L’intervento di Gamba, professore all’Accademia Albertina di Torino, è indissolubilmente
connesso alla ristrutturazione di Mella e Ferrari d’Orsara, con i quali l’artista collaborava in quegli
anni anche in altre impegnative realizzazioni come nel duomo di Chieri. (2)
E con le quattro monumentali figure di Fede, Speranza, Carità e Religione, affrescate da
Gamba sui pennacchi della cupola, dialogano le ventiquattro statue dei santi patroni delle città della
Lega Lombarda poste nel tamburo, suggestive per collocazione ma di più modesto livello.
Vale però la pena di soffermarsi su queste ultime per dare spazio a qualche considerazione
sul clima culturale che connota gli anni del rifacimento di Mella. Tali statue non rientravano
originariamente all’interno di un omogeneo progetto decorativo, ma la loro realizzazione e
collocazione trae spunto dalle manifestazioni per la ricorrenza del settimo centenario di quella
gloriosa battaglia di Legnano che nel 1176 aveva segnato la definitiva vittoria dei comuni della
Lega su Federico Barbarossa. Volentieri il comitato all’uopo formato a Bologna aderisce ad una
proposta di Alessandria – chiamata a farne parte ma in crisi finanziaria per l’onere che la cattedrale
in quegli anni costituiva – ed elegge a sede della celebrazione la città fondata proprio per la Lega.
(3) In quei decenni nei quali l’avvenuta unità nazionale spronava ancora a magnificare le imprese
dei liberi comuni – che Carducci consacrava nella “Canzone di Legnano” o con “Sui campi di
Marengo la notte del Sabato santo 1175” – Alessandria dunque poteva vantare la gloria della
propria fondazione ed esaltarla nel tempio cittadino in un indissolubile connubio fra storia e
religiosità. (4)
Si era ovviamente affrontato il problema dell’apparato decorativo già a seguito
dell’intervento di Valizzone a inizio Ottocento: purtroppo le successive riprese, anche recenti, non
consentono di apprezzare appieno gli affreschi a monocromo con Storie di S. Pietro e l’Eterno
eseguiti tra il 1820 ed il 1822 da Luigi Vacca in facciata, cui si accompagnano le statue del
Redentore con i quattro evangelisti del coronamento, donate dal canonico Cuneo nel 1827 e opere
di Bernardo Ergenti. (5)
La cattedrale, dunque, nel corso del XIX secolo è anch’essa investita da quella netta
“piemontesizzazione” del gusto che coinvolge la città: ai dipinti del Vacca o di Gamba occorrerebbe
infatti idealmente affiancare quelli eseguiti da Gonin nel teatro municipale e di cui resta la
decorazione del foyer, sopravvissuto al bombardamento dell’ultima guerra ed attualmente inglobato
nel palazzo del comune. (6)
Alle presenze di artisti importanti dalla capitale fa riscontro d’altronde anche l’attività di
personaggi alessandrini, ed in cattedrale è il caso di Baudolino Rivolta cui si deve l’affresco con la
Consegna delle chiavi a Pietro sulla volta della sacrestia. Un ambiente questo che, nonostante gli
attuali, evidenti, problemi di conservazione, propone un suggestivo esempio di sistemazione
ottocentesca complessiva posta in atto tra il 1846 ed il 1850 con l’affresco citato ed i severi armadi
a parete, eseguiti da Giovanni Maggi e Andrea Bonari su disegno dell’ingegner Giovanni Bocca. (7)
Ma nel compiere il percorso interno alla cattedrale viene spontaneo chiedersi quale fosse
invece l’aspetto dell’antica sede, e se tale immagine di decoro e di arredo sia stata veramente
cancellata per sempre lasciandoci solo il rammarico di un sogno perduto ed uno sterile rimpianto.
Provvisti di alcuni solidi punti di partenza e con una nutrita serie di indizi, abbiamo
intrapreso l’avventuroso cammino alla ricerca dei tasselli superstiti, nella speranza di poterli almeno
parzialmente ricomporre. (8)
Due sono stati gli originari indizi di indagine, il reperimento di fonti che rievocassero le
trascorse condizioni e il vaglio sistematico degli oggetti esistenti. Una prima traccia era fornita dalle
succitate ma circostanziate indicazioni del Chenna, cui sono state affiancate fonti manoscritte dalle
quali sono emersi dati interessanti anche se talora apparentemente in contrasto. (9)
Dalla seconda metà del Cinquecento le relazioni delle Visite pastorali descrivono, sia pure
sommariamente, l’interno della chiesa, e si è ovviamente partiti dalla più antica conservata, quella
della visita compiuta nel 1565 da Gerolamo Gallarati. (10)
L’interesse del visitatore non è certo puntato sull’arredo o su dati artistici: qui, come altrove,
a pochi anni dalla conclusione del Concilio di Trento, si tratta di riprendere saldamente in mano la
situazione e la gestione di una struttura ecclesiastica che si era andata deteriorando. Lo stato della
cattedrale di Alessandria non si differenzia da quello di tante altre sedi italiane ed il quadro è
desolante, con i numerosi altari per lo più spogli e con lo stesso altar maggiore fornito di tovaglie
“frustae et vetustae … consumptae”. Minuziosamente il vescovo Gallarati registra il patronato di
ogni singola cappella o altare, mentre non si sofferma invece con specifici riferimenti su quegli
oggetti significativi per devozione, fatta eccezione per l’accenno alla cappella della Madonna “ubi
… singulis diebus sabati … Salve Regina canitur in sero”. (11) Quali dunque gli oggetti all’epoca
già esistenti? Con l’aiuto delle visite successive è possibile localizzarli.
Prima fra tutte la Madonna col Bambino detta dell’Uscetto perché sita nella cappella di S.
Silvestro, di patronato dei Baschiatis, continua alla porta laterale sinistra della chiesa. (12) La
tradizione che fa capo al Ghilini, riportata da G. Amato, vuole che il dipinto sia stato trovato nel
1542, abbandonato in cattedrale da uno sconosciuto, e le visite pastorali dei Se e Settecento
evidenziano la devozione che ad esso viene tributata. (13) L’opera, oggi nella cappella di S. Pio V,
si presenta assai ridipinta per antichi restauri che ne hanno anche ampliato le dimensioni originali,
ma sembra da datare al XIV secolo come prodotto di botteghe bizantine provinciali. (14)
Nell’andito della stessa porta laterale doveva essere poi il grande Crocifisso ligneo ora nella prima
cappella destra. (15) La tradizione alessandrina lo dice proveniente da Santa Maria di Castello e per
questa sua sede originaria lo ritiene già esistente nell’XI secolo, fatto evidentemente negato dai
caratteri stilistici dell’opera che farebbero propendere per una datazione al XV secolo.
In tal senso infatti indirizzano l’impianto generale del corpo di Cristo – con le braccia
distese, i piedi raccolti e le gambe flesse – la forte accentuazione della resa naturalistica del busto e
la caratterizzazione dei tratti del volto. Manca oggi un dettagliata conoscenza dei pur numerosi
crocifissi lignei antichi presenti in area alessandrina, ma l’esemplare in esame si può agevolmente
porre in relazione con il Crocifisso della cattedrale di Tortona, mentre in soccorso per una datazione
più ragionata vengono il quattrocentesco Crocefisso di Santa Maria di Castello e quello di S.
Michele a Trino. (16)
Attualmente la lettura dell’opera risulta però sfalsata da pesanti interventi di “restauro” così
che l’ipotesi di datazione potrebbe risultare eccessivamente avanzata, ed a ciò si aggiunge la
copertura in lamina di rame che occulta parzialmente la scultura dalla vita in giù, copertura resasi
necessaria nel XVIII secolo per porre freno all’eccessivo – e distruttivo – amore dei fedeli, usi ad
asportare delle scaglie per devozione personale. A documentare l’aspetto del Crocefisso prima di
tale intervento protettivo resta la bella incisione dedicata nel 1734 al vescovo Giovanni Mercurio
Arborio Gattinara. (17)
Nelle visite pastorali di fine Cinquecento non compare ormai più invece il monumentale
Crocefisso in lamina d’argento e di rame dorato della fine del XII secolo: esso infatti era già
definitivamente trasmigrato nella cattedrale di S. Evasio a Casale, prezioso bottino della battaglia
vinta dai casalesi guidati da Facino Cane nel 1403. (18)
Come il Crocefisso ligneo, dovrebbe provenire da Santa Maria di Castello la Madonna ai
piedi della croce e sorretta da S. Giovanni Evangelista, la Madonna cioè della Salve. Anche in
questo caso la provenienza è divenuta garanzia di particolare antichità, finendo con l’essere
considerata prova della preesistenza del simulacro alla fondazione di Alessandria.
Il discorso è particolarmente complesso proprio per il gruppo in esame le cui prime notizie
certe risalgono al 1489, anno che con le prodigiose manifestazioni segna l’inizio di quella
straordinaria venerazione ancor oggi ben viva. (19) D’altro canto la copia in terracotta rimasta in
sito, e che dovrebbe costituire la prova della reale provenienza del gruppo ligneo da Santa Maria di
Castello, è stilisticamente da datare anch’essa sullo scorcio del XV secolo. (20)
Certo non è facile districarsi fra quanto in passato è stato detto, soprattutto poi quando le
affermazioni scaturiscono dal più autentico rispetto per una statua così amata, ma qualche dubbio su
di una datazione particolarmente antica era già stato sollevato nell’Ottocento.
Giovanni Battista Rossi infatti, che aveva avuto l’occasione di sentire il parere di Brilla, lo
scultore savonese che restaurò il simulacro a seguito dell’incendio del 1876, ne sottolinea la
materia, “vero tiglio nostrano”, e cautamente avanza l’ipotesi di una datazione “quattrocentesca,
cioè del secolo XIV”. (21)
Il gruppo si impone oggi all’attenzione con l’aspetto segnatamente ottocentesco datogli da
Antonio Brilla appunto, ma fortunatamente l’intervento fu sostanzialmente di superficie,
consistendo in un limitato rifacimento della composizione nella parte sinistra e in una totale pesante
ridipintura generale con l’aggiunta degli occhi in pasta di vetro. (22)
Al di sotto di tale ripresa emerge però un impianto dichiaratamente quattrocentesco e se ci si
sofferma sui volti dei sue personaggi si colgono dati che li accumunano ad esempi della seconda
del secolo. In tale direzione puntano l’acconciatura della Vergine, il taglio del suo abito dalla cinta
fortemente rialzata, il viso dal naso affilato, dalla bocca piccola e dal mento tondeggiante: tutto
indirizza nettamente verso sculture lombarde del secondo Quattrocento , la Pietà della Madonna del
Sasso ad Orselina sopra Locarno – databile intorno al 1485 – o la Madonna col Bambino di S.
Vittore ad Intra del 1481. (23)
Una datazione tra il 1470 ed il 1480, di poco antecedente il fatto prodigioso, sarebbe quindi
la più plausibile e chiarirebbe il perché del silenzio dei documenti antecedenti al 1489.
Ecco quindi raggruppato un piccolo nucleo di opere antiche, ma la cattedrale era veramente
così “squallidam” come le visite tardo cinquecentesche ci indurrebbero a credere? In soccorso viene
un’altra serie di documenti, quella degli inventari delle suppellettili, conservati, pur con qualche
soluzione di continuità, a partire dalla fine del XV secolo. (24)
Il quadro che ne emerge è di una straordinaria ricchezza di paramenti raffinati e di argenti
preziosi, costantemente contrassegnati dagli stemmi – le armi – della città e delle nobili famiglie
alessandrine, a dimostrazione di una attivissima partecipazione alla dotazione della sede simbolo e
riferimento dell’intera comunità.
A tale concorso contribuiscono due grandi vescovi di fine Quattrocento, il domenicano
novarese Marco Cattaneo o De Capitaneis, la cu lapide sepolcrale è tutt’ora visibile nel corridoio
della sacrestia, ed il milanese Gian Antonio Sangiorgio. (25)
Gli inventari ricordano numerosi oggetti con le insegne del reverendissimo vescovo Marco
ed è giunto fino a noi il “calix magnus … cum armis communis et ipsius dicti episcopi” registrato
nel 1484. Si tratta di un raffinato lavoro d’oreficeria lombarda tardo quattrocentesca con le
immagini degli apostoli realizzate a niello sotto coppa e sul piede. (26)
Nulla invece è sopravvissuto delle “sacra supellectili … et pretiosissimis aliquot vestibus
auro, et serico mira variegate contextis” che Chenna, riprendendo lo Schiavina, ricorda donati nel
1497 alla cattedrale dal vescovo Sangiorgio. Anzi Chenna aggiunge in proposito che un pallio, un
piviale e due tonacelle si erano conservati fino al 1783, anno “in cui resi quasi per vetustà di niun
uso furono disfatti, sebbene il piviale massime ornato di varie immagini di santi ricamate, meritasse
forse pel pregio anche di sua antichità d’essere tuttora conservato”. (27)
Del cospicuo numero di immagini ricamate nell’antico corredo tessile della cattedrale
sopravvivono oggi i tre bei medaglioni di santi, riapplicati su di una pianeta a ricami d’oro del XIX
secolo, che l’analisi stilistica induce però a datare piuttosto tra la fine del Cinquecento e gli inizi del
secolo successivo. Con i santi Pietro e Paolo figura anche S. Antonio abate, stilisticamente in parte
divergente ma purtroppo assai compromesso nel volto, e ciò potrebbe far riconnettere i medaglioni
alla figura dell’arcidiacono Antonio Arnuzzi, vicario generale a più riprese tra il 1584 ed il 1612,
quello stesso che nel 1609 dona il calice d’argento sbalzato e cesellato con la Madonna col
Bambino e i Santi Pietro e Antonio abate sul piede. (29)
Ma, identificato il nucleo di oggetti più antichi, torniamo a seguire cronologicamente le
vicende della cattedrale soprattutto con quanto è giunto fino a noi.
Precise indicazioni sono desumibili dalle iniziative del vescovo Ottaviano Paravicini,
personaggio di spicco della chiesa post-tridentina, ben conscio dell’importanza anche
programmatica che l’immagine della cattedrale doveva fornire ai fedeli. (30) Egli stesso, nella
Visitatio ad limina del 1591, sottolinea il proprio personale impegno per la sede alessandrina che
“squallidam et omnino inornatam reperii”. (31) Ciò nonostante Ottavio Paravicini non ritiene
necessario procedere ad una risistemazione dell’altar maggiore che, benché spoglio di suppellettili,
doveva come struttura risultargli rispondente alle esigenze di decoro.
Poco prima, infatti, intorno al 1546, esso era stato oggetto di un impegnativo intervento del
comune, con l’allogazione a Callisto Piazza della pala raffigurante S. Pietro in cattedra.
L’attuale collocazione del dipinto, nell’abside sopra la zona centrale del coro, rende difficile
registrarne l’importanza ed immaginarne l’effetto nella sistemazione originaria, peraltro già
limitatamente modificata nel 1581. (32) La pala, seguendo le indicazioni del Rossi, era corredata da
una ricca cornice e di una predella con cinque storiette del santo titolare: a proposito dio
quest’ultima Giovanni Romano ha recentemente avanzato l’ipotesi che le due tavolette raffiguranti i
santi Baudolino e Valerio, ora alla pinacoteca civica di Alessandria, ne costituissero originariamente
gli estremi. (33)
Possiamo immaginare l’altare maggiore all’epoca del vescovo Parravicini seguendo le
descrizioni di alcune visite pastorali degli anni successivi, con il tabernacolo in legno dorato, adorno
di molte figure e statue, alcune bisognose di riparazioni nel 1627. (34)
Un’ipotesi suggestiva, ma da scartare in base a quanto dice il documento stesso, è quella di
riconnettere all’altare maggiore della cattedrale l’impegno che nel 1545 un artista contrae,
probabilmente con il comune, per un’ancona con numerose figure ed ornamenti intagliati, dorati e
policromi, con abbondante uso di avorio, “colori finissimi” e azzurro oltremarino, un’ancona per la
quale si richiede la bellezza di 350 scudi. (35) Purtroppo l’artista non si firma, ma ancor più
sfortunatamente per noi non è a tutt’oggi reperibile il disegno al quale il documento fa esplicito
riferimento.
Per tornare al dipinto di Callisto Piazza, ignoriamo il motivo specifico della scelta del pittore
lodigiano da parte della comunità alessandrina, ma tale scelta, comunque, attesta un ben preciso
aggiornamento culturale. D’altro canto con la pala dell’altare maggiore si resta fedeli ad un
indirizzo artistico in ambito lombardo coerente con la situazione politica della città, dipendente dal
ducato milanese e retta da vescovi di provenienza, appunto, lombarda.
Forse però le presenze pittoriche non dovevano originariamente risultare così univocamente
indirizzate, a giudicare almeno dai labili indizi forniti dalle fonti ottocentesche che parlano di opere
del genovese Semino esistenti anticamente in cattedrale. Né i dati ci soccorrono per immaginare
quale fosse stilisticamente il cinquecento polittico già nella cappella della Purificazione, poi
trasferito in quella di S. Giuseppe dove, pur menomato ella tavola centrale raffigurante la
Purificazione della Vergine – rimossa nel 1703 per far luogo alla statua del santo titolare – risulta
conservare fino alla demolizione del 1803 i laterali con i santi Perpetuo, Gerolamo, Teobaldo e
Caterina. (36)
Nessuna menzione invece delle fonti sull’arredo della cappella di S. Bartolomeo, detta del
Crocefisso a partire dalla fine del Cinquecento, di patronato dei Merlani Varzi. Secondo Amato ne
proverebbe il piccolo bassorilievo marmoreo centinato con il Crocefisso, S. Giovanni evangelista e
un devoto attualmente murato presso la porta di accesso alla sacrestia. La foggia dell’abito del
donatore conferma la datazione verso la fine del Cinquecento, suggerita dall’impianto monumentale
del piccolo rilievo, dai panneggi rigonfi, dalla figura del Cristo che indirizza verso i cantieri di
scultura lombardi e genovesi. (37)
Esaminando più nel dettaglio gli interventi direttamente attuati dal vescovo Ottaviano
Paravicini emerge chiaramente la volontà di definire con una migliore sistemazione ed un maggior
decoro i luoghi deputati al culto. È sua infatti la decisione di far trasferire il prodigioso simulacro
della Salve nella cappella dell’abside laterale sinistra, già della Purificazione: (38) in questo modo il
vescovo ottiene di concentrare nello stesso luogo, a sinistra dell’altare maggiore ed in posizione
quindi privilegiata, gli oggetti degni di maggior venerazione, trovandosi anche la cappella della vera
croce nella zona sinistra della stessa abside.
Ma proprio le prestigiose reliquie alessandrine, quelle del Legno della vera croce, e quella
della Spina della corona di Cristo, esigono un’attenzione particolare, tanto più che la loro
documentata provenienza le porrebbe al di sopra di ogni sospetto sul piano dell’accertazione della
veridicità. (39)
Ed ecco che nel 1590 Ottavio Paravicini fa predisporre un nuovo altare, scrivendo al vicario
Ottavio Saraceni che è necessario “iconam fieri et collocari, satis quidem scultura, auroque
decoratam, et accomodatam”. (40) Nulla resta di tale sistemazione, che non per forma ma per
materia possiamo immaginare non lontana dalla coeva ancona delle reliquie in S. Croce a Bosco
Marengo, ma essa doveva godere comunque di attenzioni particolari per il culto, tanto che a partire
dal 1594 le visite pastorali ne registrano con minuziosa cura la complessa organizzazione della
custodia. (41)
Le iniziative di Ottavio Paravicini hanno dato avvio ad un processo che si concluderà di lì a
poco con altri, prestigiosi, interventi attuati durante il vescovado dei suoi successori, Pietro
Odescalchi, ed il nipote, Erasmo Paravicini. (42)
L’interesse e l’attenzione riportata alle sacre reliquie fa sì che nel 1602 il comune decida di
far eseguire ad un orefice, certamente lombardo, tal Gio Tradato, il nuovo reliquiario d’argento per
la Santa Spina. Questa, in forma di ostensorio ambrosiano, propone il miglior repertorio
dell’oreficeria milanese tra fine Cinquecento e primo Seicento: il piede polilobato, con gli stemmi
della città alternati a motivi di frutta che ritornano sul coperchio, le teste di cherubi sulla coppa, le
sottili erme che connotano i montanti, trovano le loro più precise rispondenze nell’ambito di quella
vasta produzione promossa a Milano dall’arcivescovo Federico Borromeo. (43)
E poco dopo, nel 1619, come attesta la scritta incisa sul retro, le famiglie alessandrine
depositarie delle chiavi della custodia della vera Croce, fanno realizzare il nuovo, straordinario,
reliquiario d’argento in forma di ancona. L’impianto è di chiaro sapore architettonico: lo
denunciano la forma dei piedi, la struttura dei montanti con gli angeli cariatidi, le teste di cherubi di
profilo a raccordare la base con il corpo centrale, la forma e la scansione della cimasa. E tutto
riporta nuovamente a quel grande fervore di rinnovamento che caratterizza la Milano borromaica,
ma conviene sottolineare come il diretto antecedente del reliquiario alessandrino sia costituito dal
reliquiario fatto eseguire nel 1610 proprio da Federico Borromeo e donato alla collegiata di Arona
dove si conserva tuttora con il suo disegno preparatorio. (44)
Sulla base della nostra ancoretta figurano gli stemmi delle otto famiglie alessandrine cui è
demandata, come si è detto, la custodia della reliquia dal 1208, anno in cui Opizio de Riversati la
donò alla città avendola sottratta nel sacco di Costantinopoli. E, particolare importante, nel
reliquiario trova posto la cassetta duecentesca, foderata di prezioso broccato a grandi foglie d’oro su
fondo purpureo, con la crocetta decorata al centro ed ai terminali dei bracci da piccole formelle in
smalto con motivi geometrici. (45)
Con un vescovato di quasi un trentennio è Erasmo Paravicini a segnare la definitiva
trasformazione in senso “riformato” della chiesa: ripetute con scadenze assai ravvicinate sono le sue
visite pastorali che dimostrano come la precisa volontà di rinnovamento si sia scontrata con
l’inerzia, se non proprio l’ostilità, dei detentori a diverso titolo, in primo luogo le famiglie dal cui
patronato dipendono le singole cappelle. (46)
Da Erasmo la cattedrale viene riccamente dotata di suppellettili, in particolare di paramenti.
L’uso, e con esso l’usura, ha determinato la totale scomparsa del corredo tessile, come è avvenuto
più in generale per gli arredi liturgici più antichi, (47) mentre per gli argenti si può forse annoverare
un calice di primo seicento, anche se la presenza sul piede di un santo francescano con S. Giovanni
Battista e due altri santi non identificati potrebbero farne ipotizzare la provenienza ottocentesca da
una sede conventuale soppressa. (48)
Per la cattedrale venne invece sicuramente eseguita la croce professionale in lamina
d’argento, opera dell’oreficeria lombarda databile tra la fine del cinquecento e gli inizi del secolo
successivo, parte integrante della ricca dotazione della cappella di S. Giuseppe. (49)
Si deve ora attendere l’ultimo decennio del seicento per assistere in cattedrale ad una
massiccia ripresa di interventi che, scalati nell’arco di un cinquantennio, mirano a
quell’adeguamento che il mutato gusto tardo barocco esige.
Non è ancora ben chiaro se l’iniziativa di commemorare coi busto-ritratto tre vescovi della
seconda metà del seicento risponda o meno ad un più vasto progetto generale successivamente
interrotto. Primo in ordine di realizzazione è il busto di Deodato Scaglia fatto eseguire nel 1691, a
poco più di trent’anni dalla morte, dal nipote, abate Giacinto Scaglia; segue nel 1694, quello di
Alberto Mugiasca, voluto dal capitolo in segno di tangibile riconoscenza per il generoso lascito alla
cattedrale su quale ci soffermeremo più avanti; ultimo quello di Carlo Ciceri eseguito per iniziativa
del nipote Vincenzo nel 1699. (50)
La dettagliata Visita pastorale del 1730 di monsignor Giovanni Mercurio Arborio Gattinara
li ricorda sul muro di prospetto alla sacrestia, quasi ad incorniciare la porta, mentre la stessa visita
ricorda un quarto busto, quello del patrizio Giacomo Filippo Sacco, posto nel 1698 sul prospetto
della cappella di S. Giuseppe. (51)
L’attuale collocazione – che ha raggruppato le quattro sculture nell’ambulacro dietro l’altare
maggiore – certo non ne consente la necessaria valorizzazione. Pure si tratta di una straordinaria
parata di ritratti, stilisticamente di alto livello qualitativo, per i quali si fa tradizionalmente il nome
di Giacomo Filippo Parodi, estendendo con buona credibilità l’attribuzione riportata dalle fonti per
il busto di Giacomo Sacco e per la statua a figura intera di S. Giuseppe. Questa, ricordata con
ammirazione dal Batoli, venne collocata nella omonima cappella il 25 novembre 1703, rimuovendo,
come si è detto, la tavola centrale del preesistente polittico della Purificazione della Vergine. (52)
Oggi, nella cappella che fronteggia quella della Madonna della Salve, (53) il bel S. Giuseppe ha
forse perso la considerazione che aveva originariamente circondato, ma ancor più negletto è il
gruppo scultoreo all’incirca coevo composto dal Crocefisso marmoreo sorretto da una coppia di
angeli e adorato dai santi Baudolino e Pio a grandezza naturale. Le moderne vicende del gruppo
attestano una sua progressiva perdita di importanza all’interno della cattedrale ricostruita, dapprima
smembrato con l’utilizzo delle due figure di santi ad affiancare il Crocefisso ligneo quattrocentesco,
poi ricomposto, ma nell’ambulacro, così da risultare in pratica occultato ai più. (54) Pure si trattava
dell’imponente coronamento del nuovo altar maggiore realizzato nel 1695 con i fondi del lascito di
monsignor Mugiasca, un altare di preziosi marmi policromi costantemente descritto con accenti
elogiativi nelle visite pastorali settecentesche. (55)
Ora occorre compiere un certo sforzo di immaginazione per ricomporre quell’immagine
solenne, fortunatamente soccorsi dal fatto che anche l’altare è stato tuttavia conservato e lo si può
ammirare, nonostante alcune alterazioni delle dimensioni originarie, nell’attuale cappella
dell’Immacolata. (56) La tipologia dell’altare, dalle dominanti cromatiche chiare e con le due grandi
teste di angeli in sostituzione delle volute laterali, evoca i coevi esempi liguri, il che può
indirettamente confermare la tradizionale attribuzione al Parodi delle statue che lo adornavano.
Stupisce in un così ristretto volgere di anni il succedersi di tanto impegnative realizzazioni, tutte per
di più omogeneamente orientate nel campo della scultura, ed occorrerà in futuro procedere
nell’indagine per chiarire le motivazioni che hanno spinto la committenza in tale direzione.
Già in vita il vescovo Alberto Mugiasca aveva tangibilmente dimostrato la propria cura nei
confronti della cattedrale con una serie di doni alla cappella di S. Giuseppe ormai divenuta anche
come dimensioni una vera “chiesa dentro la chiesa” e luogo deputato alle celebrazioni ordinarie dei
vescovi alessandrini. Di tali doni resta il bastone pastorale cui la riargentatura voluta da monsignor
Salvaj nel 1878 conferisce forse un aspetto eccessivamente lustro e moderno. (57) È però con il
lascito di monsignor Mugiasca che si compiono opere cospicue: l’altar maggiore, la sostituzione
degli stalli del coro, l’edificazione della nuova sacrestia, ma anche una ricca dotazione di arredi. Tra
questi, conservato nella quasi totalità dei suoi componenti, spicca l’eccezionale apparato pontificale
in broccato d’oro e d’argento fatto eseguire a Milano e destinato alla festività del Corpus Domini.
(58) Con tutta probabilità è da legare a questo momento ed al nuovo altare maggiore il calice
riccamente elaborato che propone sul piede proprio i santi Baudolino e Pio ad affiancare S. Pietro,
santo titolare della chiesa, calice sempre ricordato negli inventari in coppia con un altro,
stilisticamente posteriore ed in uso per i pontificali, con i santi Pietro, Paolo e Giovanni evangelista.
(59)
Ancora agli arredi e alle preziose suppellettili provvede il successore di Alberto Mugiasca,
l’alessandrino Carlo Ottaviano Guasco: suoi doni munifici sono alcuni paramenti tra i quali
l’apparamento in uso per le messe ed i vespri pontificali in broccato d’oro e seta tuttora conservato
se pur non integralmente. (60)
I radicali mutamenti politici che segnano la vita della città agli inizi del settecento trovano il
loro corrispettivo anche nelle strutture ecclesiastiche alessandrine. Se fino ad ora la guida della
diocesi era stata caratterizzata da stretti legami con l’ambito lombardo – milanese e comasco per lo
più – nel 1706 si verifica una brusca inversione di rotta. Proprio a partire dall’anno che precede
l’effettivo passaggio di Alessandria ai Savoia vediamo avvicendarsi tre vescovi la cui appartenenza
alle più note famiglie nobili sabaude è un chiaro segnale di nuovo corso: Francesco Arborio
Gattinara, Carlo Vincenzo Ferreri – imparentato con i Ferreri d’Ormea – e Giovanni Mercurio
Arborio Gattinara. (61)
E se l’attuale stadio della ricerca non ha potuto ancora ben evidenziare per il passato il pur
consistente apporto fornito alla vita della cattedrale dal clero locale, dagli arcidiaconi, dai vicari, dai
singoli canonici di cui pure si posseggono frammentari indizi, è a partire dal XVIII secolo appunto
che meglio si stagliano le figure eminenti dei sacerdoti alessandrini, Lorenzo Burgonzio e Giuseppe
Antonio Chenna innanzi tutto. (62)
Si è sempre considerato Palazzo Ghilini quale modello esemplare dell’avvenuto mutamento
politico ed i legami che uniscono l’edificio alessandrino, progettato da Benedetto Alfieri, agli
esempi torinesi sono ormai fatto acquisito. (63) Ma sfugge per lo più , perché cancellata alla vista
dalla demolizione del 1803, la corrispondente immagine che la cattedrale andava assumendo nel
secondo decennio del secolo. La cappella della Salve, quelle di S. Andrea e di S. Giuseppe tra il
1714 ed il 24 avevano infatti mutato aspetto con decorazioni affrescate dall’astigiano Carlo Alberti
in collaborazione con Giovanni Antonio Giovannini per le quadrature.
Conosciamo più dettagliatamente, anche per ciò che riguarda l’iconografia, le pitture che
ornavano la cappella di S. Giuseppe grazie alla descrizione che l calzolaio Luigi Giulini ne dà prima
del suo abbattimento, ma certo i tre interventi delle stesse maestranze dovettero essere
sostanzialmente omogenei. (64) E dobbiamo immaginare la decorazione scenografica ed
illusionistica sul riferimento di quanto invece si è conservato dell’Aliberti, con altri quadraturisti, ad
Asti, una decorazione che dovette in qualche misura porsi a contrasto con i profani affreschi del
Cucci in Palazzo Ghilini e che poté costituire il precedente per i più tardi affreschi dei fratelli Pozzi
in S. Lorenzo. (65)
Né è di poco conto immaginare l’effetto dell’apparato decorativo affrescato in rapporto
anche alla successiva realizzazione delle tele per il sepolcro che annualmente si “costruiva” durante
la settimana santa: un impianto propriamente teatrale ed affidato a specialisti del campo, a quei
Galliari cioè, largamente attivi per le scenografie dei più prestigiosi teatri.
Il Rossi descrive dettagliatamente l’insieme ora perduto, ma non fornisce alcun indizio per
riconnettervi, come vuole Amato, la bella tela raffigurante Daniele nella fossa dei leoni che riceve il
cibo da Abacuc, tela la cui lettura è fortemente osteggiata dal precario stato di conservazione, ma
che parrebbe realmente prossima ai modi dei Galliari. (66)
Il decennio che aveva visto realizzarsi le grandi decorazioni affrescate da Aliberti e
Giovannini in cattedrale si colloca all’interno del vescovato di Francesco Arborio Gattinara, che
resse la diocesi dall’aprile 1706 al giugno 1727, quando passò alla sede di Torino. (67) Non
conosciamo ancora con precisione i committenti di tali decorazioni, ma certo dovrà aver giocato
l’influenza proprio di monsignor Gattinara, dal momento che egli stesso si era fatto promotore in
prima persona degli affreschi nella galleria e nella cappella del Palazzo Vescovile affidati almeno
parzialmente alle stesse maestranze. (68) Su di un altro fronte interviene invece Carlo Vincenzo
Ferreri nella sua pur breve presenza alessandrina, con il dono ad Alessandria del corpo di S.
Deodato inviatogli da Roma entro un’urna reliquiario dal marchese d’Ormea, primo ministro del re
di Sardegna, quello stesso che nel 1742, alla morte del presule ed in qualità di suo erede, dono alla
cattedrale alcuni preziosi paramenti del defunto. (69)
La considerazione che monsignor Ferreri aveva per l’amministrazione della cattedrale si era
inoltre concretizzata nella concessione da lui fatta al capitolo della mazza d’argento nel 1728: se ne
conserva purtroppo solo l’esemplare di rame argentato fatto eseguire nel 1793 in sostituzione
dell’originale, consegnato alla Zecca con altri argenti delle chiese cittadine in esecuzione di un
ordine regio in soccorso alle esauste finanze sabaude. (70)
I documenti reperiti relativi a questa vicenda restituiscono l’elenco delle suppellettili cedute,
logicamente, con grande riluttanza: ne sono esclusi i vasi sacri, gli oggetti indispensabili per il culto
ed i reliquiari, che comprendevano anche quello di S. Pio V, grande mostra d’argento realizzata tra
il 1730 ed il 40 la cui preziosa decorazione sbalzata e cesellata si inserisce ad alto livello nella
produzione piemontese dell’epoca. (71)
L’Ansaldi riferisce della vivace polemica scaturita nel 1793 a proposito della cassa
d’argento del simulacro della Salve, polemica che si conclude con l’assimilazione della cassa ai
reliquiari e la conseguente esenzione dalla consegna alla Zecca. (72) L’imponente manufatto oggi
sotto i nostri occhi si deve al lavoro che Antonio Testore, argentiere ed orafo alessandrino, eseguì a
seguito dell’incendio del 1876 di cui si è già fatta menzione, (73) ma il Testore ripropone
sostanzialmente il modello originale realizzato nel 1761 da un altro artefice alessandrino,
l’argentiere Giovanni Battista Ceresa. In quell’anno infatti, per iniziativa del canonico Macedonio
Gallea, amministratore della cappella, e con il concorso della famiglie alessandrine, particolarmente
del marchese Vittorio Amedeo Ghilini, si era provveduto a sostituire la preesistente cassa in legno
intagliato e dorato con la superba arca d’argento , cui si aggiunsero nel 1792 la corona e nel 1828 i
putti a sorreggerla. (74)
Preme a questo punto sottolineare che se con il passaggio all’amministrazione sabauda
riconoscevamo per via documentaria l’attività degli argentieri alessandrini attraverso il deposito dei
loro marchi e punzoni, ora tale attività comincia a prendere corpo e forma, e ancor più con il
reperimento e l’individuazione di altri oggetti conservati in cattedrale sui quali si tornerà in seguito.
(75)
Da Giovanni Mercurio Arborio Gattinara alla fine del secolo con Giovanni Tommaso De
Rossi si propongono dapprima, si consolidano poi, nuove attenzioni e nuovi modelli anche culturali.
Se Mercurio Gattinara nella visita pastorale del 1730 si sofferma a registrare le iscrizioni e
soprattutto impone una diversa attenzione per l’archivio, che dovrà d’ora in avanti essere corredato
di un proprio inventario, è poi monsignor De Rossi a trasformare la visita pastorale in una
dettagliata e minutissima descrizione di tutto l’esistente ed a sollecitare più in generale l’interesse
per i documenti e per il patrimonio librario.
Il suo impegno per la salvaguardia della ricca biblioteca dei Gesuiti è fatto noto, ma per il
discorso che qui interessa occorre segnalare che l’avvenuta soppressione nel 1789 della Compagnia
di Gesù è occasione per il trasferimento in cattedrale di un piccolo ma scelto gruppo di aredi sacri
tra i quali il bel calice di primo settecento con l’Immacolata e i santi Giuseppe e Francesco Saverio
sul piede, (76) e forse analoga provenienza ha pure il “grembiale ad uso de’ Pontificali colle armi di
Monsignor De Rossi” tuttora conservato in cattedrale. (77)
A quattro vescovi che tengono al sede alessandrina tra il 1650 e il 1750 circa è dedicato il
primo nucleo di ritratti cui si aggiungeranno via via quelli dei successori per costituire una variata
galleria nella quale si inseriscono pure alcuni ritratti di canonici benefattori della cattedrale con
lasciti cospicui o con particolare impegno personale come Giacomo Ghilini, il decano Toledo o, in
anni più vicini a noi, i canonici Ansaldi e Cuneo. (78)
Sullo scorcio del XVII secolo la chiesa si presenta rinnovata e ricca di arredi: lo dimostra il
confronto tra il già citato inventario del 1655 e quelli del 1760 e del 1773, in particolare per quanto
riguarda i paramenti. Nel documento seicentesco essi, ancora quelli con le armi Sangiorgio o
Paravicini, sono definiti frusti, logori, usati, mentre nelle registrazioni di secondo settecento
figurano i nuovi, connotati dalle armi Mugiasca, Guasco, Gattinara, Miroglio. Dei paramenti più
grandiosi si è già detto, ma vale la pena sottolineare come il patrimonio tessile della cattedrale sia
cospicuo e dotato di una vasta gamma di esemplari, talora singoli piviali o pianete giunti a noi
nell’articolata varietà di tessuti e decorazioni. Si segnalano la pianeta verde con motivi decorativi da
legare al gusto per le cineserie, il piviale verde ancora guarnito dei suoi fiocchi di seta a legare il
capino, le numerose pianete ricamate in seta, le due tonacelle rosa con delicate capannule d’argento,
già registrate tra i beni della cappella della Salve, o il pontificale di tela d’argento color cremisi, di
proprietà della cappella di S. Giuseppe. (79)
Le due cappelle principali e la Compagnia del santissimo Sacramento, che ha sede presso la
cappella della salve, si rivelano particolarmente ben dotate: ne sono ancor oggi testimonianza le tre
cartegloria in tartaruga con decorazioni d’argento databili alla prima metà del secolo e che
ripropongono i modelli più illustri dei reliquiari ad ancoretta presenti nelle più prestigiose sedi
europee anche laiche. (80) Ad esse vanno affiancati la nuova pisside realizzata tra il 1753 ed il 1760
con decorazioni floreali sul coperchio e sulla sottocoppa, recante il punzone dell’assaggiatore
Bartolomeo Pagliani, ed il bellissimo ostensorio ornato di pietre sulla mostra, entrambi registrati nel
1760 tra i beni della Compagnia del santissimo Sacramento. (81) E come lo scadere del XVII secolo
aveva segnato un momento di particolare interesse per la scultura, così il settecento si chiude con il
dono del marchese Ambrogio Ghilini del busto in marmo di S. Pietro attualmente conservato in
sacrestia che riporta successivamente una attribuzione a Comolli improbabile per motivi di
datazione. (82)
Ma siamo ormai giunti al drammatico sconvolgimento della demolizione, che
inesorabilmente cancella la struttura architettonica, le decorazioni affrescate, i numerosi ornamenti
in stucco, ma che altrettanto inesorabilmente disperde tanta parte di arredo mobile. Se si scorrono
infatti gli inventari redatti alla vigilia dell’abbattimento balza agli occhi la registrazione di tanti
quadri e sculture, purtroppo senza annotazioni di epoca e d’autore, o di apparati lignei mai
ricomparsi. Se però sono stati salvati alla ricostruzione ottocentesca quei pezzi considerati più
significativi, e i pertinenza della fabbriceria o del capitolo, si può forse sperare che le mancanze non
siano in assoluto sinonimo di cancellazione totale: lo suggerisce il fatto che con gli inventari si
conservano presso l’archivio di stato di Alessandria anche le ricevute immediatamente successive
che attestano come le singole famiglie titolari dei patronati sulle cappelle si siano affrettate a ritirare
dalla chiesa i beni mobili di loro proprietà. E forse in qualche palazzo o in cappelle decentrate
qualcosa potrebbe quindi ancora sopravvivere. (83)
Sulle peregrinazioni di parrocchia e capitolo in questa occasione e nel successivo momento
di completa ristrutturazione della nuova sede ad adopera del Mella si sofferma lungamente
Giovanni Battista Rossi, (84) e giova notare come la riappropriazione di una degno dimora
comporti alcuni interventi di rinnovamento anche sul fronte dell’arredo.
È del 1828 il dono da parte dell’autore del ben Pio V dipinto da Francesco Mensi nel suo
soggiorno di studio fiorentino, quadro che Mensi stesso provvide a restaurare con ampliamenti nella
fascia inferiore per la definitiva sistemazione nel 1874 nell’attuale cappella. (85) Ed ancora di
Mensi è il ritratto di monsignor D’Angennes che si inserisce nella già citata galleria di ritratti di
vescovi ora conservata nella sacrestia dei canonici.
Monsignor D’Angennes cura con attenzione il riassestamento della cattedrale cui dona nel
giugno 1828 un paramento pontificale rosso spolinato d’oro fatto eseguire a Parigi. (86) E sempre
nella prima metà del secolo la cattedrale si va ridotando e rinnovando. Ne sono testimonianza il
calice punzonato degli assaggiatori Giuseppe Fontana e Matteo Promis, quello eseguito dal torinese
Pietro Borrani, quello di Giovanni Baglione che la scritta sul piede data al 1833 e lega al vescovo
Dionisio Andrea Pasio. (87) O ancora l’ostensorio di primissimo ottocento di Carlo Giuseppe
Ceresa e, se si vuol puntare l’attenzione su questa interessante bottega di argentieri alessandrini, il
secchiello eseguito dall’omonimo nipote intorno al 1840. (88) E per restare in tema di botteghe
cittadine il turibolo, anch’esso all’incirca di metà secolo, di Angelo Maria Vedani, che marchia col
proprio punzone anche la coppia di lampade votive donate da Carlo Alberto alla Madonna della
Salve nel 1843 in occasione della solenne imposizione al simulacro della corona vaticana. (89)
Un altro Ceresa, sarebbe invece l’autore dell’altro importante dono alla Vergine, quello della
coppia di lampade triangolari sorrette da grifi che il municipio offre nel 1837 in adempimento al
voto fatto due anni prima nell’infuriare dell’epidemia di colera. (90) Proprio questi oggetti, eseguiti
a detta del Rossi su disegno di Leopoldo Valizzone, attestano lo straordinario livello qualitativo
raggiunto dai Ceresa e non sfigurano certo neppure al confronto delle più affermate botteghe
torinesi quale quella di Carlo Balbino cui si deve assegnare il bel servizio per la lavanda delle mani
dai particolari decorativi degni degli oggetti di corte. (91)
Anzi piace notare come questi raffinati esempi ridimensionino sul piano artistico un dono
storicamente importantissimo qual è quello del servizio di calice, ampolline e vassoio decorati con
smalti di gusto neogotico e marchiati C. Triouller offerti da Napoleone III alla città nel 1859 alla
vigilia della seconda guerra d’indipendenza. (92)
Si è verificata frattanto una situazione che pare compensare sia pur limitatamente lo squasso
prodotto dall’abbattimento napoleonico. Se ne erano colte le avvisaglie già a fine settecento con il
trasferimento di oggetti dalla soppressa sede gesuitica ma è nel corso dell’ottocento che la cattedrale
assume il ruolo di luogo deputato ad accogliere i più importanti esempi d’arte religiosa dalle sedi
conventuali soppresse.
Per restare nel campo degli argenti la chiesa acquisisce alcuni antichi e straordinari reliquiari
come la coppia in forma di ostensorio dedicata ai santi Baudolino e Valerio, da datare tra il 1585 e il
1600 e provenienti dalla domenicana rettoria di S. Baudolino. (93) Nel 1803-4 il comune affida in
deposito il Braccio-reliquiario di S. Sebastiano, opera di oreficeria genovese del 1639 e fino ad
allora conservato in S. Siro, mentre è nel 1868 con la seconda tornata di soppressioni, legata alle
leggi Rattizzi-Siccardi, che si aggiunge il settecentesco reliquiario di S. Francesco da Paola,
secondo gli studi di Amato fatto eseguire a Roma dal cardinale Tommaso Ghilini. (94)
Naturalmente alcuni arredi furono recuperati proprio da S. Marco nella sua “trasformazione”
in cattedrale, come sarebbe essere il caso dei due armadi, ora nella sacrestia dei canonici, il cui
intaglio è assai prossimo a quello di due porte del corridoio che fiancheggia il lato destro della
chiesa. (95) Ma preme sottolineare come più in generale il recupero dalle sedi delle corporazioni
religiose soppresse veda l’intervento attivo di singoli cittadini: Angelo Massola dona nel 1810 alla
cattedrale il coro ligneo intarsiato recuperato addirittura dalle monache di S. Anastasio di Asti, il
capitano delle Regie Cacce, Domenico Oliva, dona nel 1849 alcuni dipinti recuperati da S. Siro e il
canonico Stefano Berta consegna a fine secolo due dipinti già nella chiesa del Beato Amedeo in
Cittadella. (96)
In fatto di pittura le acquisizioni qualitativamente più alte provengono innanzitutto da S.
Francesco dei Minori conventuali, di cui si segnala in particolare la seicentesca tela – ora
nell’andito presso la cappella della Salve – con il Crocefisso tra la Madonna e S. Giuseppe da
Copertino (97) mentre dalla collezione privata di Francesco Guasco di Bisio perviene nel 1848 il
Giuseppe ebreo venduto dai fratelli, opera di Giovanni Battista Varlone, attualmente nell’aula
capitolare. (98) Ma è soprattutto llo straordinario nucleo di dipinti di Guglielmo Caccia il Moncalvo
a colpire per consistenza e qualità. Si tratta delle quattro piccole tele ora nella cappella
dell’Immacolata con storie delle Vergine e di Cristo e dei due superbi dipinti raffiguranti lo
Sposalizio e la Morte della Vergine collocati nell’aula capitolare. Databili agli inizi del secondo
decennio del seicento si accompagnano alla più tarda Annunciazione sempre del Moncalvo
conservata nella sacrestia dei canonici e dovrebbero tutti provenire dalle monache Agostiniane della
Santissima Annunziata della cui sede la cattedrale aveva temporaneamente usufruito nel 1803. (99)
Certo oggi può colpire – e forse in senso eccessivamente negativo – una certa sensazione di
disomogeneità soprattutto nell’organizzazione distributiva del patrimonio artistico della chiesa, ma
il filo conduttore di queste pagine ha voluto dipanarsi in una sorta di percorso storico in cui oggetti
di tematiche e materiali diversi, superstiti dell’antica cattedrale, fatti eseguire per la nuova sede, o
salvati da chiese oggi scomparse, possano trovare una ricomposizione più equilibrata e soprattutto
una più consapevole valorizzazione.
1.
Al vercellese Carlo Costa si deve l’impianto decorativo, a Gamba spettano gli
affreschi della cupola – con le tre virtù teologali e la religione, gli evangelisti e i dottori della Chiesa
– il Transito di S. Giuseppe sul prospetto della omonima cappella e il ciclo mariano nella cappella
della Salve coi l’intervento novecentesco ha cancellato i fondi paesaggistici. Anche la fase del
1926-28 si distingue tra parti propriamente decorative, affidate al Boasso, e parti figurative eseguite
dal Morgari: tre storie di S. Pietro sulla volta della navata centrale, quattro monocromi con
composizioni simboliche, i profeti del presbiterio, gli episodi storici legati alle origini della città in
controfacciata e l’iconograficamente complessa figurazione sul fronte della cappella della Salve (la
Vergine, Pio V e la battaglia di Lepanto, il dono della reliquia della Vera croce). Purtroppo nel
nostro secolo è invalsa l’abitudine a riprese e rifacimenti poco rispettosi delle decorazioni ottonovecentesche e si auspica che l’intervento di risanamento parzialmente avviato nelle navate laterali
venga invece condotto con cautela e rigore metodologico. Assai compromessi da riprese successive
sono i 5 riquadri con Storie di S. Pietro dipinti ad encausto da Costantino Sereno nel 1887.
2.
Per una analisi dettagliata dell’intervento architettonico si rimanda qui al saggio di
Vinari mentre per l’attività del Gamba cf F. Dal masso, 1982 e M. Lamberti, in Cultura …, 1980,
pp. 1444-1445. La connessione con i lavori a Chieri è assai stretta tanto che Ferrari d’Orsara aveva
preso contatti personali ed informali con Gamba prima ancora che venissero ufficialmente avviate
le trattative da parte della Commissione istituita per gestire la complessa ristrutturazione. Ciò risulta
dai verbali della Commissione stessa (ACCAL, Registro dei verbali della Commissione pei ristauri
della chiesa cattedrale, seduta del 29 novembre 1876) attraverso i quali si può agevolmente seguire
la vicenda dell’apparato pittorico: le difficoltà economiche connesse all’impegno dell’intera
impresa sono serie e si formulano accordi con i pittori per dilazioni nel pagamento. A fronte di una
richiesta preventiva di L. 9000, Gamba chiede un supplemento di L. 2000 probabilmente a causa di
un ampliamento del progetto che prevedeva inizialmente solo 47 medaglioni. A proposito va
segnalato però che l’onere relativo alla cappella della Salve è assunto dalla “Signore Patrone”.
3.
Le vicende che conducono alla scelta definitiva sono fedelmente riportate in
Riapertura … 1879, ma ancora assai utile è G. B. Rossi, 1877, pp. 187-198. Delle statue, realizzate
in cemento idraulico e poste in sito nel marzo 1877, 22 furono eseguite a Bologna da Federico
Monti, con il concorso dei colleghi Putti e Demarca, S. Eusebio, protettore di Vercelli, fu realizzato
nella città stessa sotto la direzione del Mella, e a Parma si eseguì la statua del protettore, S. Ilario.
4.
Il contesto culturale cui si fa riferimento emerge ben chiaro dalla lettura del testo di
G. B. Rossi, datato 1877, ma edito ad evidenza in anni successivi poiché l’autore si riferisce
esplicitamente anche a fatti del 1882. Ed in connessione con tale contesto, ad Alessandria, come in
altre città, si assiste ad un fervore di ricerca sulla storia locale che si identifica talora con il tentativo
di operare per la tutela e la conservazione del patrimonio artistico. Se ne veda una prima
ricostruzione storica in C. Spantigati, in Il Museo …, 1986, pp. 13-32 o si scorrano le pagine del
Rossi, notando come al pur ampiamente elogiato lavoro di Mella e Ferrari d’Orsara si accompagni il
rammarico per le parziali distruzioni e dispersioni che esso comportò. Significativo è ad esempio il
riferimento alla scomparsa di affreschi dell’antica S. Marco raffiguranti soldati con lance ma “il
martello degli operai non diede agio o tempo di poter decifrare o raccogliere”. Il “vigilantissimo
prefetto conte Veglio” accorse comunque per recuperare “alcuni avanzi sebbene rotti” dei reperti
scultorei per destinarli al progettato museo di antichità (G. B. Rossi, 1877, pp. 161-164). Per il
prefetto Veglio di Castelletto ed il museo storico, oltre al mio testo già citato, si veda G. Ieni, in Il
Museo …, 1986, pp. 85-99, dove si analizza anche il quattrocentesco Angelo annunziante di F.
Filiberti sopravvissuto a questa sventura e ora conservato ptresso il museo civico.
5.
G. Amato, 1986, p. 29. Per L. Vacca cf F. Dal masso, in Cultura …, 1980, p. 1492;
per le statue si veda G. Ieni.
6.
C. Spantigati, 1988, p. 60.
7.
La documentazione relativa agli armadi è in ACVAL, De Paroeciis, vol. V – L – 6 e
comprende anche un bel disegno progettuale del prospetto. Difficile è per ora il giudizio sull’attività
di Baudolino Rivolta che sembra assai discontinua: di ottimo livello i bozzetti con allegorie delle
arti per una decorazione non identificata e quello raffigurante la chiesa di S. Martino durante la
demolizione, tutti conservati presso la pinacoteca civica di cui Rivolta fu per brevissimo tempo
direttore (cf Spantigati, in Il museo …, 1986, pp. 15 e 30, G. Ieni, ib., p. 89). Assai meno felici
invece alcuni dipinti di soggetto sacro, come Le anime purganti in cattedrale, terza cappella destra,
mentre di miglior esito l’Angelo custode del palazzo vescovile che rivela la stessa ripresa di
classicismo neocinquecentesco presente nell’affresco della sacrestia. Analoga discontinuità si può
rilevare nei ritratti , e si veda il ritratto di A. Patria presso l’ospedale dei Santi Antonio e Biagio,
scheda 0A per l’ICCD a cura di M. P. Soffiantino, 1984, 01/34265, Soprintendenza BB. AA. SS.
Ricordiamo infine che l’affresco della sacrestia si realizza a scapito della precedente Apoteosi di S.
Domenico, bellissimo affresco barocco a detta del Rossi (1877, pp. 93-95, con giudizi non proprio
favorevoli al Rivolta).
8.
Il lavoro all’interno della cattedrale, lungo e minuzioso, ha potuto contare sulla
solidarietà e sull’apporto di chi, a diverso titolo, ne ha la cura.
9.
G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 26-70; naturalmente le pagine sulla cattedrale sono
state integrate con le notizie che in più punti lo stesso Chenna forniva nel tracciare le biografie dei
singoli vescovi al tomo I, 1785. Per le fonti manoscritte cf infra e il testo di A. Barberis.
10.
Per quanto attiene la cattedrale, le Visite pastorali erano già state oggetto di ricerca
della tesi di M. Annone, 1980-81 che ha costituito un fondamentale punto di partenza. In questa
occasione esse sono state però verificate anche direttamente presso ACVAL, grazie alla
collaborazione di G. Subbrero. Purtroppo non sono più reperibili gli atti della visita compiuta da A.
Baglione nel 1570 dai quali, secondo il Chenna (tomo I, 1785, vit., 288), “si vede essere proceduto
con una scrupolosa esattezza minutissima”. G. Gallarati, nipote del cardinale Giovanni Morone, è
attento interprete delle normative emerse dal Concilio di Trento: su sua iniziativa nel 1566 viene
fondato il seminario e si attua la ridistribuzione del numero di parrocchie cittadine, cf G. A. Chenna,
tono I, 1785, pp. 282-285.
11.
Visita pastorale di G. Gallarati, 1565, f. 2v. La cappella è di patronato dei Robutti ed
è contigua a quella della Consolata di patronato degli Stortiglioni. Occorre notare però che il
termine “capella” ricorre nella visita anche nel caso di semplici altari, come sembra di dover
ritenere questi. Più dettagliatamente per le vicende costruttive, i rifacimenti, la distribuzione interna
e gli altari dell’antica cattedrale si rimanda al saggio di G. Ieni.
12.
Visita pastorale di G. Gonfalonieri, delegato del vescovo Ottavio Paravicini, 1594 (f.
3: “Sancti Silvestri nunc vulgo dicitur la Madonna del Uschietto”). Con la visita compiuta nel 1612,
E. Paravicini ordina che vengano riparati la balaustra ed il pavimento (f. 2v.), mentre nel 1627 il
vicario S. Lanzavecchia, delegato alla visita dal medesimo vescovo, giudica lo stato della cappella
complessivamente soddisfacente (f. 4r.).
13.
G. Amato, 1986, p. 19 con la definizione di stile bizantino del XII secolo, ma anche
G. A. Chenna, t. II, 1786, p. 39. Nella visita pastorale di Giovanni Mercurio Arborio Gattinara del
1730 (f. 14r.) l’altare è detto “varijs operibus ligneis, et picturis deornatum” e la visita di mons. De
Rossi del 1760 (f. 29v.) descrive minuziosamente la cappella: l’icona è fronteggiata dalla statua
lignea policroma dell’Assunta circondata da altre piccole figure di santi, mentre alle pareti laterali,
entro nicchie, sono le statue dei santi Domenico e Francesco; la cappella sembra essere interamente
affrescata e “conspiciuntur duae telae pictae ex opere, ut creditur, celebrj Moncalvi”.
14.
Il modello iconografico è quello della Glykophilousa, cioè della madre affettuosa. Le
ridipinture, come si è detto, consentono solo riscontri generici, ma tutto pare indirizzare in ambito
bizantino provinciale, anche se non è da escludere l’ipotesi di una elaborazione ad opera di una
bottega veneziana. Utili dati sul modello iconografico e sulla sua diffusione anche in Italia sono in
V. N. Lazarev, 1971, pp. 275-329.
15.
La prima menzione precisa è però solo nella visita pastorale di mons. Gattinara del
1730 (ff. 14v e 15r).
16.
Sull atradizionale provenienza cf G. B. Rossi, 1877, p. 73. Per il Crocefisso di Trino
cf C. Bertolotto, in Inventario …, 1980, pp. 94-95; il Crocefisso di Santa Maria di Castello (scheda
0A per l’ICCD di A. Dalerba, 1974, 01/6245, Soprintendenza BB.AA.SS), anteriore al nostro si
lega al prototipo di Baldino di Surso a Pavia databile al 1464 (cf A. Peroni, 1965 e M. Maritano – I.
Scaranari, in Giacomo Jaquerio …, 1979, pp. 264-265, ma si veda anche C. Bertolotto, in Guida …,
1979, p. 25, per i crocefissi di area astigiana.
17.
L’incisione, firmata G. l’. Poer F., si conserva in ASAL, ASCAL, sez. III, cat. 11,
Culto, m. 1803. È proprio monsignor Gattinara nella già citata visita del 1730 che “cum inspexerit
auferri particulas dictae statuae (prout creditur ex veneratione fidelium) ordinavit ei meliori modo
provideri” Problemi analoghi ed analoghe soluzioni si erano presentati per il cinquecentesco
Crocefisso di Santa Croce a Bosco Marengo, protetto nel 1710 con lamina di rame nella parte
inferiore della croce 8cf C. Spantigati, in Pio V …, 1985, p. 104).
18.
M. Vale Ferrero, 1966, tav. II, ma vedi anche G. Ieni. Legate alle lotte con i casalesi
sono le vicende del gallo ora sul palazzo municipale (cf G. Ieni, in Il Museo …, 1986, p. 86) e delle
reliquie dei santi Evasio, Natale e Proietto, cf. G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 44 e G. B. Rossi,
1877, p. 12.
19.
G. Ghilini, 1666, ad annum 1489; L. Burgontio, 1738; G. A. Chenna, tomo II, 1786,
pp. 33-36; F. Ansaldi, 1843.
20.
A. Dalerba, scheda 0A per l’ICCD, 1974, n. 01/6229, Soprintendenza BB.AA.SS.; la
copia di Santa Maria di Castello era originariamente collocata nella cappella di patronato degli
Inviziati, cf L. Burgontio, 1738, pp. 19-20.
21.
G. B. Rossi, 1877, pp. 36-39. L’identificazione del legno è significativa sia ai fini
della datazione sia a quelli della provenienza del manufatto come dimostrano i simulacri più antichi.
Per la Madonna della Salve sono attualmente in corso gli accertamenti scientifici voluti da S. E.
mons. Maggioni e volti proprio ad accertare la qualità del legno e la sua datazione; a tale scopo – e
in accordo con la Soprintendenza per io Beni artistici e storici – sono stati operati dal prof. Cetta
ordinario di chimica presso l’Università di Pavia alcuni prelievi di materia del retro (29 aprile 1988;
gli accertamenti sono condotti dalla prof. Paola Nola del Dipartimento di botanica della stesa
università e dalla prof. Cesarina Cortesi, Laboratorio per la datazione con il C-14 dell’Università la
Sapienza di Roma). A proposito di simulacri della Vergine di particolare venerazione e di
controversa venerazione si citano qui, perché di area alessandrina, i più antichi casi della Madonna
di Crea (cf G. Cuttica di Revigliasco, 1983) e quello della Madonna Lacrimosa di Novi (cf F.
Zanolli, 1988).
22.
A causa dei restauri in corso in cattedrale il simulacro era temporaneamente esposto
nella confraternita della santissima Trinità e l’incendio, sviluppatosi nella notte tra il 29 ed il 30
aprile, fu probabilmente originato dalle candele che ardevano numerose in occasione della annuale
solennità della Salve. Il 30 aprile si redige il dettagliato resoconto dei danni che appaiono
sostanzialmente limitati ai piedi ed alle mani sporgenti a fianco, nonché alla parte anteriore della
cassa. Il 1° maggio giunge da Savona Antonio Brilla, che poco tempo prima aveva eseguito per la
contessa Giovanna di Groppello una fedele copia del simulacro collocata a Rinasco nuovo.
L’iniziale volontà espressa dal Brilla di trasportare il gruppo a Savona fa sì che si interpelli anche lo
scultore torinese Luigi Gasperini, ma si riesce poi ad ottenere che il savonese operi in Alessandria e
gli si affida il restauro, realizzato tra il 16 maggio ed il 9 giugno (ACCAL, Atti capitolari
cominciando dall’anno 1873 all’anno 1879, f. 187 e ss.). Per la cassa d’argento, restaurata da
Antonio Testore, cf nota 73.
23.
Per la pietà di Orselina cf V. Gilardoni, 1972, pp. 471-474, per la Madonna di Intra
cf P. Venturoli.
24.
Per gli inventari più antichi cf S. Maglietta. Qualche difficoltà nel definire la
consistenza degli arredi in base agli inventari è dovuta al fatto che fino al secolo scorso essi sono
rigorosamente redatti in base alla distinzione di proprietà tra Capitolo, Cappella della Salve,
Compagnia del santissimo Sacramento e Cappella di S. Giuseppe e che essi sono pervenuti a noi in
modo disomogeneo, così che per il seicento ad esempio conosciamo solo la consistenza dei beni del
capitolo e non quella delle cappelle.
25.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 252-265; per il sepolcro De Capitaneis, cf G. Ieni.
26.
ACCAL, Inventarium bonorum et rerum sacristiae ecclesiae majoris Alexandriae, 20
Decembris 1478, con aggiunte del 12 ottobre 1486 (si tratta però di una trascrizione del 1769). Il
calice è ancora più dettagliatamente descritto nell’Inventario del 1510 (cf S. Maglietta) che registra
la presenza delle figure degli apostoli a niello, mentre l’Inventario delle suppellettili della fabbrica
del 1655 (conservato con quello del 1478 in ACCAL) individua erroneamente le armi come quelle
del vescovo Sangiorgio. A testimoniare l’importanza assegnatagli dagli studiosi è la foto eseguita da
S. Pia alla fine dello scorso secolo e da mettere forse in relazione con la presenza del calice alla
grande Esposizione d’arte sacra tenutasi a Torino nel 1898(cf La provincia …, 1898, p. 166; la foto
Pia si conserva presso la Soprintendenza BB.AA.SS., Fototeca, Fondo Pia); il calice è inoltre
riprodotto in G. Ferrofino – L. Orsini, 1987, tav. V. La forma del calice è quella in uso nella
seconda metà del quattrocento (cf G. Romano, in Valle …, 1977, pp. 153-154 e Q. Zastrow, 1984,
passim); le figure degli apostoli che si stagliano su fondi naturalistici di paesaggio rivelano la mano
di un artista aggiornato sulle novità rinascimentali. A questo proposito utili confronti sono con le
immagini miniate e in vetro a oro graffito della coppia di reliquiari della certosa di Garegnano
(1460 c., S. Pettinati, in Zenale …, 1982, pp. 70-72) mentre per rimandi ad oreficerie coeve e di
esecuzione lombarda presenti in area alessandrina si veda la croce stile di Teodoro Paleologo
conservata in S. Evasio a Casale (M. Viale Ferrero, 1966, tav, VII). È probabile che il bastone
pastorale ricordato dai documenti tra i doni del vescovo De Capitaneis (cf anche G. Chenna, ib.) sia
scomparso a seguito delle disposizioni emanate da Erasmo Paravicino con la visita pastorale del
1612 (f. 4v) “Si cambierà il bastone pastorale in altro moderno, et più comodo, acciò si possa
snodare, occorrendo portarlo involto …”.
27.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 262; cf anche S. Maglietta. L’ultima documentazione
diretta reperita a proposito di tali paramenti è del 18 aprile 1682, quando si ordina ai fabbricieri di
farli riparare “per conservar viva la memoria del suddetto prelato” (ASAL, ASCAL, s. I, Atti
municipali, vol. 1776: Fabbricieri della cattedrale, f. 27r).
28.
Anche sulla scorta del monogramma mariano e dello stemma ricamato nella parte
inferiore del retro, la pianeta è da identificare con quella donata alla Madonna della salve nel 1870
da monsignor Colli (G. Amato, Risposte al questionario per una visita pastorale non datata, in M.
Annone, 1980-81, pp. 276-277; lo stesso Amato, 1986, p. 56, riconosce alcune preesistenze
nell’oggetto datandolo al XVIII secolo). Alla pianeta si accompagna una stola con due ottocenteschi
ovali ricamati raffiguranti la Madonna col bambino e S. Giuseppe. L’iconografia dei santi Pietro e
Paolo trova riscontro nei dipinti cinquecenteschi da Gaudenzio Ferrari a Bernardino Lanino (cf I
cartoni …, 1982 e B. Lanino …, 1986); ancora i due santi sembrano memori di quelli alle estremità
della predella della pala con il Compianto di Cristo in Santa Maria della Passione a Milano
attribuita a Bernardino Luini (g. Bora, in Santa Maria … , 1981, pp. 103-111), ma l’accentuata
carica di patetismo induce a far scivolare la datazione dei medaglioni tra fine cinquecento e inizi
seicento. Gli inventari della cattedrale registrano numerosi paliotti o paramenti con immagini a
ricamo: si segnalano tra gli altri il “palio di damasco bianco … con S. Pietro e S. Paolo e due arme
della città ricamate” ricordato nell’inventario del 1655 (ACCAL) e la “pianeta di tela d’oro antica
con sei figure in mezzo di varj apostoli ricamate in oro e seta a rilievo …” inventariata nel 1816 e
nel 1828 (ACCAL).
29.
Sotto il piede è incisa la scritta in capitali Ad usum M. B. Archipresbiteri Eccle Mai
Alex pro Tpe Existens 1609 e, in corsivo, C. Passalaqua restau. Et auxit an. 1769. In data 21 luglio
1609 l’arcidiacono Arnuzzi è autore di un legato con l’obbligo di due messe asettimanali e di un
anniversario (ACCAL, Legati, ma verificato dall’Inventario dell’archivio). Per l’Arnuzzi nella
carica di vicario generale cf G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 302.308.3010.3015.
30.
Ottavio Paravicini, consacrato vescovo da S. Carlo Norromeo, cardinale dal 1591, è
personaggio di spicco della chiesa post-tridentina : educato a Roma nientemeno che dal cardinale
Cesare Baronio, ha legami di amicizia con S. Filippo Neri e ricopre importanti incarichi per la Curia
Pontificia su nomina di Sisto V (G. A. Chenna, ib., pp. 297-302). I ristretti tempi del presente
lavoro non hanno consentito di approfondire la ricerca su questa eminente figura, grande interprete
in Alessandria dei nuovi indirizzi della Chiesa riformata. Sulla situazione di altre diocesi piemontesi
a quell’epoca e sui risvolti in campo artistico si vedano C. Spantigati, in Arona sacra …, 1977, pp.
85-104; E. Pagella, e L. Piovano, in Bernardino Lanino …, 1986, pp. 163-210; F. M. Ferro, in
Museo novarese …, 1987, pp. 282-283. Alla luce della nuova ottica è da leggere la drastica
riduzione del numero degli altari in cattedrale registrata nella visita pastorale di Gerolamo
Gonfalonieri, delegato del vescovo Ottavio Paravicini nel 1594.
31.
I documenti reperiti da G. Ieni, sono in ASVCV, S. Congr. Concilii “Visitationes ad
limina” Alexandrin., m. 27 A, 1591, ff. 135-143v; 1594m ff. 482-485r. Le iniziative del vescovo
Paravicini risultano in sintonia con le Instructiones emanate da Carlo Borromeo nel 1577 (in P.
Barocchi, 1962, vol. III, pp. 1-113 e 383-465) e con quanto indicato nei Decreta emanati da
Gerolamo Ragazzoni nel 1576 a seguito della visita apostolica alla diocesi di Milano.
32.
Sul dipinto di Callisto Piazza si veda G. Romano, in Il Museo …, 1986, p. 106; la
pala era originariamente su tavola, ma gravi problemi di conservazione resero necessario il
trasposto su tela realizzato nel 1974 dai restauratori G. Scalvini e G. Casella di Brescia con fondi
ministeriali e sotto la direzione di G. Romano. Nel 1581 si era scorporata la pala dall’altare dandole
la definitiva collocazione alla parete del coro (G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 32, secondo notizie
del Ghilini). Nel 1695 (Visita pastorale di Carlo Ottaviano Guasco, f. 4r) il dipinto risulta corredato
di una ricca cornice intagliata, almeno parzialmente realizzata da poco, ma ancora nel 1749 si
affidano nuovi lavori d’intaglio a Giuseppe Antonio Chiara (pagamenti dal 29 gennaio al 30 agosto,
ASAL, ASCAL, s. I, Atti municipali, vol. 1765: Fabbricieri della cattedrale, foll. 71v-74v),
probabilmente figlio di quel Pietro Gerolamo autore delle superbe cornici apposte nel 1712-13 ai
dipinti di Giorgio Vasari in Santa Croce di Bosco Marengo (cf C. Spantigati, in Pio V, 1985, p. 97).
33.
G. B. Rossi, 1877, pp. 64-67, con importanti notazioni – e pesantissime critiche – a
proposito del restauro attuato a inizio secolo da Galimberti sulla pala e su altri dipinti della
cattedrale. Per le tavolette della Pinacoteca civica cf G. Romano.
34.
ACVAL, Visita pastorale di Gerolamo Gonfalonieri, delegato del cardinale Ottavia
Paravicini, 1594, f. 5r; Visita pastorale del vicario generale Stefano Lanzavecchia, delegato del
vescovo Erasmo Paravicini, 1627, f. 3r. Sull’altare, seguendo l’inventario del 1510 curato da S.
Maglietta, erano collocate due coppie di angeli, probabilmente reggi torcia.
35.
Il documento è stato reperito da G. Ieni tra altri concernenti gli impegni assunti dal
comune per la cattedrale, ma non reca alcuna menzione precisa né dei committenti, né della sede a
cui è destinata l’ancona. Essa “di dentro sarra di auoglio fatta con le figure et parerà ali S. V. di
colori finissimi et di azurro oltra marino” e sarà “alta piedi dieci et quarti novi … In larghezza piedi
seij e terze doe” (ASAL, ASCAL, s. I, b. 468).
36.
I riferimenti al Semino, ma con qualche contraddizione sulle date, si devono a G. A.
De Giorni, 1836, n. 3, p. 86, con precisazioni di A. Mantelli; il problema è stato recentemente
riproposto da A. Barberis, 1986-87 con alcune considerazioni inerenti proprio il polittico della
Purificazione. Presenze genovesi sono ritenute più che plausibili da G. Romano che, sulla scorta di
dati di provenienza antiquariale, suggerisce una originaria collocazione in cattedrale della
cinquecentesca Madonna col bambino, i santi Giovanni Battista ed Evangelista e donatori della
pinacoteca civica, ma le attuali ricerche documentarie non hanno purtroppo condotto ad esiti
probanti definitivi. Per il polittico della Purificazione G. A. Chenna (tomo II, 1786, p. 37) cita sia
un documento del 1549, sia uno del 1595, entrambi relativi all’ancona. La sistemazione
settecentesca è descritta nella visita pastorale di Giuseppe Tommaso De Rossi del 1760 (f. 31v).
Altri dipinti sono evocati dalle visite pastorali nelle varie cappelle, ma le indicazioni sono troppo
generiche per consentire ipotesi di datazione o di attribuzione.
37.
G. Amato, 1986, p. 17; per meglio chiarire la situazione della scultura
cinquecentesca in area alessandrina occorrerà ritornare sugli esempi conservati nella cattedrale di
Acqui, già appartenenti a ben più articolati complessi della cattedrale stessa e di S. Francesco: per
tali esempi si può ora contare sulle preziose ricerche di G. Rebora, 1986, che hanno consentito di
precisarne datazione e collocazione originaria. Da queste sculture – o meglio dalle più tarde – potrà
giungere qualche chiarimento anche per il piccolo bassorilievo alessandrino.
38.
G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 33-36, cf G. Ieni.
39.
ASVCV, S. Congr. Concilii, “Visitationes ad limina”, Alexandrin., m. 27A, 1591, f.
136v. Per l’atteggiamento della Chiesa riformata nei confronti del culto delle reliquie cf C.
Spantigati, in Pio V …, 1985, pp. 223-226 e 249-252 oltre che in Arona sacra … 1977, pp. 96-97 e
113. La provenienza delle reliquie alessandrine è certo, agli occhi del vescovo, garanzia sufficiente:
la prima donata nel 1208 da Opizio de Riversati che l’aveva personalmente sottratta nel sacco di
Costantinopoli, la seconda acquistata da Castellino Colli nel sacco di Roma del 1527 e si veda G. A.
Chenna, tomo II, 1786, pp. 39-44 anche per i riferimenti a Schiavina, Ghilini ed al Liber Crucis sul
quale ultimo si rimanda però a F. Gasparolo, 1889.
40.
G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 40 con le parziali citazioni delle lettere inviate al
vicario Ottavio Saraceno.
41.
Per l’altare d Bosco cf C. A. Scolari, in Pio V …, 1985, pp. 63-72 e C. Spantigati,
ib., pp. 224-228 e 248-249. L’accesso alle reliquie era regolato da nove chiavi (che diventeranno
poi undici): una affidata al vescovo, e da questi ad un suo fiduciario, un’altra al capitolo, sette a
famiglie nobili alessandrine parzialmente coincidenti con le otto famiglie che dal 1208 avevano
l’incarico della custodia della vera croce (Visita pastorale del 1594, f. 5v).
42.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 302-315. Erasmo Paravicini provvide la cattedrale
di sacre suppellettili e lasciò, con scrittura del 1639, 100 ducatoni per lavori di adattamento
all’altare delle reliquie. Interessante è la figura di Pietro Giorgio Odescalchi, scelto come suo
successore da Ottavio Paravicini, definito dal Chenna come amante delle belle arti, e nipote di quel
Paolo nunzio straordinario di Sisto V presso gli svizzeri e largamente operoso in stretta connessione
con Pio V nella lotta alle eresie (cf C. Mossetti, in Pio V …, 1985, pp. 296 e 300-301, 304-306).
43.
ASAL, ASCAL, s. I, Atti municipali, vol. 1763: Fabbricieri della cattedrale, f. 231, a
seguito di annotazioni del 1602 intestato alli 12 Febraio, pagamento “a l’aurefice Gio Tradato” per
la “Custodia della spina argento basso”. All’artefice vengono dati dei candelieri ed un bacile perché
ne recuperi il metalli. Per confronti di argenti di fattura assai simile si vedano la pisside databile al
1600 circa, probabile dono di Federico Borromeo all’abbazia dei S. Martiri di Arona (C. Spantigati,
in Aroma sacra …, 1977, p. 132) o la coppia dei reliquiari in forma di ostensorio ambrosiano ora di
pertinenza della cattedrale ma provenienti dalla scomparsa rettoria di S. Baudolino (C. Spantigati, in
Pio V …, 1985, pp. 265-268).
44.
Cf C. Spantigati, in Arona sacra …, 1977, pp. 114-115. Una lunga iscrizione sul retro
dell’anconetta-reliquiario ricorda il dono alla città della reliquia nel 1208 da Opizio de Riversati, la
custodia affida ad otto famiglie alessandrine e la data della fattura dell’oggetto. Il testo
dell’iscrizione è trascritto in G. Amato, 1986, p. 61 e in RIA, 1935, pp. 214-215.
45.
L’uso di decorazioni a smalto è frequente nei più antichi reliquiari della croce e si
accompagna qui a scritte in greco (su quattro tondi in ottone) come in altri esemplari, che però
spesso vi affiancano figure in smalto, cf Venezia …, 1974, scheda 54 (non siglata) e U. Henze, in
Ornamenta …, 1985, pp. 116-117. Tali ornamenti confermano la provenienza bizantina della
stauroteca.
46.
Lo attesta il fatto che nelle visite (1612, 1616, 1624 e 1627, quest’ultima compiuta
dal delegato Stefano Lanzavecchia) ricorra per numerose cappelle il richiamo ad eseguire gli ordini
della visita precedente, evidentemente disattesi.
47.
I doni di Erasmo Paravicini, oltre che dal Chenna sono documentati dall’inventario
del 1655 (ACCAL), che per molti paramenti riporta la presenza delle insegne del presule. Più in
generale sulla sorte del patrimonio tessile si ritrovano anche in questo inventario ed ancor più nei
successivi le consuete annotazioni “usata”, “disfatta” a segnalare l’incidenza dell’usura nella perdita
di tante testimonianze. Per i paramenti è poi particolarmente problematica l’identificazione delle
voci inventariali antiche dalla descrizione limitata al tessuto e al colore, con una sommaria
definizione delle decorazioni (“lavori d’oro e argento”, “lavori di seta”), mentre l’esame diretto di
queste ultime consenta una datazione approssimata per decenni stante la lenta modificazione nel
tempo dei modelli. Per repertori di tessuti antichi in area piemontese cf Tessuti antichi …, 1981;
Antichi tessuti …, 1982; P. Dardanello e A. Colombo in Tessuti antichi …, 1986, pp. 43-65. Al
volume del 1986, con la scelta di vari contributi, si rimanda più in generale per i problemi di
conoscenza, conservazione e valorizzazione del patrimonio tessile.
48.
Per gli arredi pervenuti nel XIX secolo alla cattedrale da altre sedi soppresse cf note
76 e 81.
49.
Ai piedi del Cristo uno stemma non identificato con la scritta GEST. XOM. DESIR
ripetuta in due quarti su due braccia levate a reggere, pare, un’ostia. Sul retro sono applicati una
figura di santo non identificato (in lamina sbalzata) ed un altro stemma assai simile a quello della
città (in RIA 1935, p. 218 si identifica appunto lo stemma con quello di Alessandria ed il santo con
S. Pietro). L’oggetto è dettagliatamente descritto nell’inventario del 1761 della cappella di S.
Giuseppe (allegato in calce alle Visite pastorali di G. T. De Rossi, 1760, consultato in M. Annone,
1980-81, pp. 145-148). Nessuno dei due stemmi coincide però con quelli dei Sacco riprodotti in F.
Guasco di Bisio, vol. IX, 1935. Per confronti con altre croci coeve si veda O. Zastrow, 1984, in
particolare alle pp. 38-39.
50.
Per le notizie sui vescovi cf G. Chenna, tomo I, 1785, pp. 317-327 con specifiche
menzioni dei busti e la trascrizione delle epigrafi che li accompagnavano.
51.
ACVAL, ff. 22v-23r e 21v; si deve notare che i busti dei vescovi non sono
esplicitamente menzionati ma se ne ripetono fedelmente le iscrizioni. La lapide con l’iscrizione
Sacco è ora murata nell’ambulacro, cf G. Amato, 1986, pp. 50-51 e RIA, 1935, p. 219, con una
breve biografia del patrizio. Questi, vissuto nella prima metà del XV secolo, ricoprì cariche
importanti, tra cui quelle di presidente del senato di Milano; con testamento del 15 novembre 1549
lasciò una cospicua somma alla cappella dei santi Giuseppe e Perpetuo (o della Purificazione), per
lavori di sistemazione e per la dotazione di arredo, così da esserne ritenuto successivamente il
“fondatore” (cf G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 37 e 39).
52.
G. A. Chenna, tomo II, 1786, pp. 38 (ma con l’indicazione Giacomo Francesco
Parodi); F. Batoli, 1777, p. 81. Per il polittico cf nota 36. Per l’attività dello scultore genovese cf F.
Franchini Guelfi, 1975; E. Gavazza, 1981 e 1987. La monografia dedicata all’artista da P. Rotondi
Briaco, 1962, ritiene il S. Giuseppe di Alessandria opera di bottega (p, 95): ciò appare plausibile,
ancor più in considerazione del fatto che la statua dovette essere eseguita nell’ultimo anno di vita
del Parodi, ma non deve comportare un giudizio negativo sull’opera, di alta qualità esecutiva.
53.
Le decorazioni della cappella ora visibili pur in precario stato di conservazione, sono
state realizzate nel 1930 da Giorgio Boasso, mentre l’altare è quello consacrato nel 1879 da
monsignor Gaio vescovo di Bobbio (cf G. Amato, 1986, p. 25).
54.
G. B. Rossi, 1877, p. 72; G. Amato, 1986, pp. 18 e 25.
55.
L’altare venne consacrato il 31 ottobre 1695 da Carlo Ottaviano Guasco (G. A.
Chenna, tomo II, 1786, p. 33) e la sua descrizione compare in tutte le visite pastorali settecentesche,
ma particolarmente in quella di Giuseppe Tommaso De Rossi del 1760 (ff. 20v-21v) dove si
menziona anche la portina del tabernacolo con l’immagine di Cristo risorto (“in eis ostiolo …
elegantissime picta est imago Salvatoris D.N.J.C. resurrecti”) asportata nel 1976.
56.
Si veda il saggio di G. Ieni; la ricomposizione moderna è avvenuta a spese
soprattutto delle insegne del vescovo Mugiasca ora decurtate circa della metà ed a malapena visibili
ai lati della mensa.
57.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 325. Al bastone pastorale (riprodotto in G. Ferrofino
e L. Orsini, 1987, tav. VIII) si accompagnano una pisside e una bugia d’argento, quattro reliquiari
d’ebano con fregi d’argento, una pianeta e due palii. Entro il riccio terminale sono incise le scritte
F. Albertus Mugiasca Ord(inis) Praed(icatorum) Ep(iscopus) Alex(andrinus) e Ep(iscopus) Petrus
Juc. Salvaj instauravit 1878.
58.
Per gli interventi attuati con i fondi del lasciato Mugiasca cf G. A. Chenna, tomo I,
1785, p. 326. Il coro, ora scomparso, è descritto nella visita pastorale di G. T. De Rossi, 1760 (ff.
22r e v) composto di 28 stalli per i dignitari e i canonici e di 20 per i cappellani, tutti “affabre
elaboratis ex ligneo nuceo”, al centro è lo stallo vescovile con le insegna Mugiasca “in eodem
ligneo sculptis”. Il paramentale è così descritto nell’inventario de’ mobili ed utensilj sacri di
pertinenza del capitolo redatto nel marzo 1773 (ACCAL) “Un apparamento intiero per la funzione
del Corpus Domini consistente in n. 13 pianete con l’arma Mugiasca, ed altra pianeta senz’arma, n.
6 tonicelle, n. 6 piviali con la suddetta arma di broccato in oro con due stole, tre manipoli ed una
borsa senza velo della medesima stoffa”. Esso compare in tutti gli inventari successiva ma quello
del 1828 (ACCAL) non menziona più la presenza delle armi. L’attuale consistenza è in parte
variata: sopravvive un solo piviale, manca una tonacella, mentre curiosamente il numero delle
pianete è aumentato di una unità forse realizzata con tessuto di recupero dei pezzi scomparsi.
59.
Inventario del 1773 “N. 2 calici d’argento dorati, uno a bassorilievo con tre piccole
figure rappresentanti S. Pietro, S. Baudolino e S. Pio. L’atro S. Pietro, S. Paiolo e S. Gio
Evangelista”. Un terzo calice accostabile al primo si conserva in cattedrale, ma proviene da S.
Ignazio dei gesuiti, cf nota 76. In passato, non possedendo i dati documentari attuali, avevo
ipotizzato che il calice con i santi Pio e Baudolino potesse provenire dalla soppressa rettoria di S.
Baudolino (C. Spantigati, in Pio V, 1985, pp. 237-238). Per gli oggetti simili cf O. Zastrow, 1984,
passim, ma in particolare alla p. 62 per un esemplare assai simile a quello con i santi Pietro, Pio V e
Baudolino ed alla p. 75 con il calice datato 1762 e prossimo a quello con i santi Pietro, Paolo e
Giovanni Evangelista. Nel 1686 il canonico Toledo legò per testamento al capitolo un calice
d’argento “che doveva servire per le messe cantate”, ma il documento non consente alcuna
identificazione con oggetti precisi (ACCAL, Legati).
60.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 328-329; oltre ai preziosi paramenti, cui si deve
aggiungere il pluviale violaceo in tela d’oro anch’esso conservatosi, il vescovo, prima di trasferirsi
nel 1704 a Cremona doma alla cappella di S. Giuseppe “il suo faldistorio di fresco da lui provvisto”
che potrebbe identificarsi con quello in legno intagliato e argentato alla mecca attualmente nell’aula
capitolare. “L’apparamento per il pontificale di broccato in oro con l’arma Guasco” risulta già
nell’inventario del 1773 (ACCAL) mancante di due pianete e due piviali ed attualmente se ne
conservano uno solo più nove pianete (alcune con la fodera originale) con due stole e un manipolo.
Nel 1717 alla morte del presule, di famiglia alessandrina, pervengono alla cattedrale ulteriori
paramenti parzialmente riconoscibili nell’inventario del 1773.
61.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 332-344. La nomina di Carlo Vincenzo Ferreri
avvenne su proposta di Vittorio Amedeo II, un fatto questo che, a leggere tra le righe del Chenna,
dovette urtare non poco il clero alessandrino ed in primo luogo il capitolo della cattedrale che dalla
costituzione della diocesi poteva vantare il privilegio di proporre il nominativo del proprio vescovo
al pontefice, un privilegio del quale peraltro sembra essersi avvalso raramente, cf G. Massobrio.
62.
Occorrerà procedere nell’indagine in questa direzione anche per mettere meglio a
fuoco le due personalità oggi più note grazie agli studi storici da loro pubblicati. E viene la curiosità
di addentrarsi nella ricostruzione della vita culturale della città nel XVIII secolo che dovette essere
ben più vivace di quanto non appaia oggi, con l’attività dell’Accademia degli immobili e le ricerche
storiche del marchese Carlo Guasco parallele a quelle del Chenna.
63.
A. Bellini, 1978 e 1983. Utili precisazioni sul contesto culturale che lega la
realizzazione dell’arredo alla situazione torinese, con la quale peraltro erano radicati legami e
parentele della famiglia, sono in A. Barberis, 1986-87, pp. 113-128. Sarà comunque necessario
mettere a punto i dati noti e inediti sulla famiglia Ghilini e sul suo ruolo di committente in fatto
d’arte e non si potrà prescindere dalla competenza che in questi anni si è costruito con ineguagliabili
ricerche d’archivio in sede locale. C. I. De Piaggia.
64.
G. A. Chenna, tomo II, pp. 36, 38-39; A. Barberis, 1986-87, pp. 32-37. La relazione
di Giulini è edita da G. Ieni. Di Aliberti la Visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 oltre agli
affreschi citati ricorda nella cappella di S. Andrea la pala d’altare “Imago s. Andrea ap. In tela
espressa … dicitur opus D. Johannis Caroli Aliberti celebrj pictoris” (f. 39r). Non so in base a quali
dati G. Amato (1986, p. 43) attribuisca ad Aliberti la Madonna del Rosario con i santi Domenico e
Caterina proveniente da S. Siro ed ora nella sacrestia capitolare. L’attribuzione è più che plausibile
ed il dipinto, in cattivo stato di conservazione, attesta la minore felicità di realizzazione di Aliberti
nelle opere su tela rispetto agli affreschi come si denota anche dalla pala con la Madonna del
Rosario e committenti certosini della parrocchiale di Grana (cf G. Romano, 1975). Per i dati
generali su Aliberti cf R. Amerio, 1961, p. 368-369. Chenna ci informa anche che in cattedrale,
nella sacrestia della cappella di S. Giuseppe, erano già intervenuti nel 1681 i com’aschi Gian Maria
Aliprandi (stucchi) e Pietro Bianchi (affreschi). Ovviamente perduto anche questo complesso
decorativo, se ne può evocare l’immagine col bellissimo altare di S. Stefano di Castellazzo
Bormida, firmato da Aliprandi e datato 1686 (cf G. Ieni, 1984, p. 40-43; il collegamento scaturisce
da amichevoli scambi di informazioni e di giudizi con A. Barberis).
65.
Per Aliberti ad Asti cf N. Gabrielli, 1976, pp. 21 e 160 con la riproduzione di un
particolare della volta della chiesa del Gesù dove Aliberti lavorava con Pietro Antonio Pozzi. Vale
la pena sottolineare che alcune chiese artigiane ed in primo luogo la cattedrale, sia pure anche con
interventi più tardi, possono costituire un buon riferimento per immaginare l’aspetto settecentesco
della cattedrale alessandrina; cf C. Bertolotto, in Guida …, 1970, pp. 32-33. L’attribuzione degli
affreschi di palazzo Ghilini a Giovanni Antonio Cucchi, pittore di origine piemontese ma
largamente attivo in Lombardia, si deve a A. Barberis, 1987. Per i fratelli Pietro Antonio e Giovanni
Pietro Pozzi attivi nel 1770 in S. Lorenzo, segnalati dal Batoli, 1777, p. 82, cf G. Amato, 1972 e A.,
Barberis, 1986-87, pp. 50-56.
66.
G. B. Rossi, 1877, pp. 89-92; per l’apparato ed il suo uso scenografico cf G. Ieni.
Sulla presenza in Alessandria di Galliari anche per il teatro municipale cf A. Barberis, 1986-87, pp.
37-40 e 68-73. Rossi (pp. 81-88) descrive dei Galliari anche due tele di soggetto storico, oggi
scomparse ma riprodotte dallo stesso Rossi in litografie che si conservano nell’aula capitolare (una
riprodotta in G. Amato, 1986). Il Daniele potrebbe far parte delle tele di “vari soggetti” cui fa
riferimento il Rossi per una chiamata dei Galliari nel 1776; il dipinto rivela stretta affinità con
l’attività pittorica dei Galliari, cf R. Boscaglia, 1962; e, per i dati bio-bibliografici aggiornati e
l’analisi dell’attività in campo teatrale, M. Viale Ferrero, in Cultura figurativa …, 1980, pp. 14421443. Della seconda metà del settecento, ma di minore qualità, è anche la tela raffigurante S.
Giovanni Nepomuceno, ricordata dalla visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 (f. 43v) appesa
alla parete tra la sacrestia e la cappella di S. Cristoforo, ora nella terza cappella a destra.
67.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 332-336. Nel 1743 alla sua morte il vescovo lasciò
6000 Lire di Piemonte per l’erigenda nuova chiesa dei SS. Alessandro e Carlo. Le fonti ricordano il
dono di una croce di smeraldi e diamanti alla Madonna della Salve per l’ottenuta, prodigiosa,
guarigione nel 1719 (L. Burgontio, 1738, pp. 47-49; F. Ansaldi, 1843, pp. 55-58 con alle pagine
seguenti l’elenco di altri preziosi doni di personalità diverse). L’oggetto esiste tuttora con altri
gioielli della Salve ma non se ne è potuto ancora redigere un moderno inventario.
68.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 335, parla di pitture fatte eseguire da monsignor
Gattinara nella galleria e nella cappella del palazzo, ed un Inventario del 1726 reperito da A.
Barberis, 1986-87, pp. 46-50, elencando numerose sale “ornate di pitture a spese di monsignore”,
riferisce per la cappella il nome del famoso “Gioannini”. Purtroppo tale complesso decorativo è
progressivamente scomparso nel corso di riprese e rifacimenti. La cappella è stata rammodernata in
tempi relativamente recenti (1960 per iniziativa di monsignor Gagnor) a spese degli affreschi
settecenteschi (che si auspica solo coperti da scialbature) documentati da vecchie fotografie. Di tutta
l’imponente impresa sopravvivono due figure dei santi Giovanni Battista ed Evangelista in un
locale oggi nella porzione del palazzo non in uso diretto del vescovado.
69.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, p. 339. Se non riferibili alla Madonna della Salve,
potrebbero avere una qualche attinenza con il corpo di S. Deodato le scarpe e la cintura in metallo
dorato reperite nel corso dell’attuale ricognizione tra i beni della cattedrale e di cui non si è trovata
traccia nei documenti.
70.
Per la concessione dell’uso della mazza (cf Chenna, ib.; l’oggetto è ancora registrato
nell’inventario del 1773 (ACCAL) ma con l’annotazione a margine “alla zecca. Sostituita da altra di
rame argentato fatta da M. Pistoni”. La documentazione relativa alle vicende del 1793 è in ACCAL,
Bonorum alienatus, 1582-1835, Tomo I.
71.
L’oggetto non appare ancora elencato nella pur attenta Visita pastorale di G. M.
Arborio Gattinara del 1730 mentre quella di G. T. DE Rossi del 1760 (f. 19v) lo descrive “ex
argento ad formam ostensorii elegantissime elaboratum” e provvisto dei sigilli di Giovanni
Mercurio Arborio Gattinara, consentendo così di datarlo anteriormente alla morte dello stesso
presule. L’inventario del 1828 (ACCAL) lo registra “con due cimase mobili l’una col triregno e
chiavi, l’altra a corona imperiale e due teche mobili pure in argento colle reliquie di S. Pio e l’altra
senza, e destinata a riporvi le reliquie della B. V., S. Giuseppe, S. Pietro e S. Domenico esistenti con
le loro autentiche”. Anche questa seconda cimasa intercambiabile e di fattura successiva si è
conservata. Per confronti con oggetti simili si vedano L. Angelino, in Inventario …, 1980, pp. 127128 e O. Zastrow, 1984, passim.
72.
F. Ansaldi, 1843, pp. 25-26. Vi si riproduce anche una litografia del simulacro con la
cassa argentea originale.
73.
cf antea, n. 22. Nella seduta del 1° ottobre 1876 della commissione incaricata dei
restauri del simulacro (ACCAL, Atti capitolari cominciando dall’anno 1873 all’anno 1879, foll.
240-241) si riferisce che “l’orefice signor Antonio Testore aveva usata la maggiore diligenza nel
raccogliere e ripulire tutti gli oggetti o le parti di metalli preziosi che si potevano conservare,
fondendo tutto il rimanente”. In previsione di un lavoro di rifacimento ovviamente di lunga durata
“lo stipettaio Ambrogio Signorino aveva diligentemente compita la cassa provvisoria di semplice
legno e cristalli”; G. B. Rossi, 1877, pp. 223-227, nel riferire dei terribili eventi ricorda come
collaboratore del Testore “l’orefice incisore signor Carlo Piccolini” e cf anche Riapertura … 1879,
pp. 104-105 con la lettera di plauso inviata nel 1878 dalla commissione al Testore e l’indicazione
dell’ammontare del lavoro di rifacimento (L. 21.000)
74.
G. A. Chenna, tomo II, 1786, p. 36; F. Ansaldi, 1843, pp. 22-25; la corona la si deve
alla “medesima officina Ceresa”, mentre a detta di G. B. Rossi (1877, ib., p. 120) i putti sono opera
di Maurizio Ceresa. Diversamente rispetto ad altri membri della famiglia Ceresa (per i quali cf
infra) non sono emerse notizie documentarie né su Maurizio, né su Giovanni Battista di cui questa è
a tutt’oggi l’unica menzione. La preesistente cassa lignea è menzionata per la prima volta nella
Visita pastorale di G. M. Arborio Gattinara, 1730, f. 11r. “arca depurata et nonnullis cristallis
obserrata”
75.
Punto di partenza è il Catalogo dell’università de’ signori orefici, 1786 con aggiunte
al 1793: ad Alessandria figurano attive in quegli anni sette botteghe tra cui quella di Carlo Giuseppe
Ceresa, ma si veda il fondamentale repertorio degli orafi e argentieri piemontesi di A. Bargoni,
1976. Nell’Archivio storico del comune di Alessandria in corso di riordino è recentemente riemersa,
come mi ha segnalato G. Massobrio, la Planche destinée à recevoir les noms et poincons des
fabricants d’ouvarges d’or et d’argent conformement à l’article 72 de la loi du 19 brumaire an 6 (9
novembre 1797) con la registrazione dei punzoni di Stefano Cardani, Giuseppe Ceresa, Andrea
Parazzolo, Giacomo Guazzi, Amedeo Perotti e Giuseppe Guidetti (cf A. Bargoni ib.; solo Amedeo
Perotti non vi compare ma sono indicati altri membri della famiglia).
76.
G. A. Chenna, tomo I, 1785, pp. 348-355. Il calice compare nelle aggiunte
dell’Inventario del 1773 (ACCAL) insieme ad altri oggetti con la segnatura a fianco Donati al
capitolo dall’azienda ex gesuitica. Uno specifico elenco di tali oggetti viene redatto per il
trasferimento (Mobili da rimettersi al rev.mo capitolo della cattedrale d’Alessandria, già dei gesuiti,
1789, in ACCAL, Fabbrica musices sacrarum): si tratta per lo più di lavori lignei d’intaglio, oltre ad
“uno strato stragrande per l’altare maggiore lavorato a fiamma di lana”, “Tre camici di cambrale per
le solennità”, “Due pianete di ricamo d’oro in fondo bianco” ed “Un piviale di ricamo d’argento a
fiori fondo giallo”. Il calice, di fattura analoga ai già citati esemplari della cattedrale, reca sulla
coppa la coppia di punzoni della bottega all’insegna dei due ferri di cavallo attiva a Milano (cf O.
Zastrow, 1984, p. 98).
77.
Il “grembiule ad uso de’ pontificali colle armi di monsigr. De Rossi” è registrato
nell’Inventario del 1773 dopo le aggiunte degli oggetti dall’Azienda ex gesuitica ma non compare
nello specifico elenco, cf alla nota precedente. Alla sua morte il presule lascia alcun arredi liturgici
alla cattedrale ma il lascito sarà oggetto di controversie (ACCAL, De funeribus …, Inventario ...
1786 e Nota sulle suppellettili … 1789).
78.
Il nucleo più antico è costituito dai ritratti di Carlo Ciceri., Alberto Mugiasca, Carlo
Ottaviano Guasco, Carlo Vincenzo Ferreri e Giovanni Mercurino Arborio Gattinara con quelli del
canonico Giacomo Ghilini e del decano Toledo che figurano nell’Inventario del 1773 (ACCAL);
nell’inventario del 1816 si aggiungono quelli di Giuseppe Tommaso De Rossi e di Carlo Giuseppe
Pistoni; nell’Inventario del 1828 si registra quello di Alfonso Miroglio ed infine nell’inventario del
1840 quelli di Alessandro D’Angennes (opera di Francesco Mensi) e di Dionigi Andrea Pasio. Tutti
questi dipinti si conservano nella sacrestia capitolare con i ritratti aggiunti successivamente, tra cui
quello del canonico Ansaldi, opera di G. B. Rossi (cf G. B. Rossi, 1877, p. 97). Curioso è il ritratto
del canonico Cuneo che ci propone l’immagine di un arzillo e vivace vecchietto privo di denti, ben
in adesione con quanto di sé dice lo stesso canonico nel chiedere al capitolo il parziale sollevamento
dagli incarichi a causa dell’avanzata età (ACCAL, Libro delle ordinanze capitolari dal 1813 al
1821, alla data 9 gennaio 1819). Non è più nella cattedrale invece il bozzetto di Giuseppe Mazzola
per il ritratto di Pio V del 1778 ora alla pinacoteca civica (C. Spantigati, in Il museo …, 1986, pp.
115 e 121) e registrato nell’inventario del 1773 tra le aggiunte posteriori “Un piccolo quadro
rappresentante S. Pio, modello d’altro quadro in grande esistente nel palazzo della città): devo a
Paolo Astrusa la segnalazione della sua attuale collocazione in palazzo reale a Torino, pervenutovi
non si sa con quali vie.
79.
Sul problema dell’identificazione dei paramenti si veda alla nota 47 cui si rimanda
anche per le indicazioni bibliografiche alle quali si aggiunge qui come utile repertorio N. Gabrielli,
1976. Le tonacelle rosa sono riconoscibili nell’inventario del 1816 tra i beni della cappella della
Salve (ACCAL) mentre il paramentale cremisi è registrato alle singole voci dei suoi componenti tra
i beni di S. Giuseppe nell’Inventario del 1761 (ACVAL, allegato alle Visite pastorali di G. T. De
Rossi, ma consultato in M. Annone, 1980-81, p. 145). Sul gusto per le cineserie si segnala che la
scala grande del palazzo vescovile era stata “fatta dipingere alla chinese da mons. Gattinara” come
riportato in base ad un inventario del 1726 da A. Barberis, 1986-87, p. 47).
80.
Sono purtroppo scomparsi i numerosi reliquiari d’ebano con decorazioni d’argento, i
primi quattro registrati dalla Visita pastorale di Carlo Ottaviano Guasco (1695-97, f. 80v), ed
incrementati di numero nelle visite successive. Unico relitto conservato sono un gruppo di piccole
fiamme e vasi in lamina d’argento che costituivano la cimasa di tali oggetti da immaginare simili ai
reliquiari conservati in S. Carlo ad Arona (cf G. Gentile, in Arona sacra …, 1977, p. 159) ed in S.
Maria della Passione a Milano (cf A.M. Zilocchi, in S. Maria …, 1981, pp. 176 e 181.
81.
Per i punzoni cf A. Bargoni, 1976, p. 27 e tav. II, nn. 6-7. Inventario del 1761
(allegato alle viste pastorali di G, T, De Rossi ma consultato in M. Annone, 1980-81, pp. 135 e
137). Le pissidi registrate nei documenti sono assai numerose e distribuite tra i beni della
compagnia del SS. Sacramento, del capitolo e della cappella di S. Giuseppe, ma le più antiche
risultano irrimediabilmente perdute. Le pissidi attualmente conservate sono comunque in buono
numero e si segnalano quella col nodo a pera liscio recante un punzone non identificato e quella
settecentesca in argento sbalzato e cesellato con la Vergine Annunziata, S. Antonio da Padova, un
santo francescano sul piede e l’Assunta con uno stemma francescano sulla sottocoppa (questi ultimo
paiono però di rifacimento). La presenza di indubbi riferimenti francescani impedisce di
riconnettere a questo oggetto la voce dell’Inventario del 1828 (ACCAL) “Pisside travagliata a
rilievo di S. M. dell’Olmo in Piem(onte) lib(re) 1 once 7 e sei ottavi”. L’ostensorio è riprodotto in
copertina in G. Ferrofino e L. Orsini, 1988, ed il citato Inventario del 1760 è assai preciso: “Un
ostensorio d’argento fatto a rilievo con i suoi ornamenti di gemme preziose in peso e tutto oncie
centotre”.
82.
Nelle aggiunte all’inventario del 1773 (ACCAL): “Un busto di marmo di Carrara
rappresentante S. Pietro con piedestallo di fruttiglia (essenza di albero da frutto, probabilmente
ciliegio) guarnito di bronzo dorato donato al capitolo dal sig.r marchese D. Ambrogio Ghilini
1787”. È tale data a mettere in difficoltà nell’accettare l’attribuzione a Giovanni Battista Comolli in
G. B. Rossi (1877, p. 94), in quanto lo scultore valenza risulta nato il 19 febbraio 1775 (G. Kannès,
1982) ed è quindi al momento del dono appena dodicenne. D’altro canto l’opera è assai lontana da
quelle connotazioni di neoclassicismo che conosciamo nel Comolli maturo e propone invece
ripensamenti sul tardo settecento. Una traccia che occorrerà tenere presente per future precisazioni è
fornita da A. Baudi di Vesme, 1963, con l’indicazione che un “Comolo” (senza nome di battesimo
specificato) risulta allievo all’accademia Albertina di Torino negli anni 1780, 81 e 82. Un fatto
questo che in riferimento alla data di nascita lasciava perplesso lo studioso spingendolo ad
ipotizzare l’esistenza di un omonimo. Per le opere di Comolli conservate al museo civico di
Alessandria cf S. Pinto, in Il museo … 1986, p. 49.
83.
L’immagine irripetibile della cattedrale abbattuta si fondava sulla coesistenza e la
compenetrazione di elementi diversi di cui la parte mobile (dipinti e sculture) era solo un elemento.
Degli affreschi si è già detto, così come si è già evocata la sistemazione della cappella della Beata
Vergine dell’Uscetto, ma ricordiamo qui ancora la cappella di S. Caterina, di patronato dei Ghilini,
che la visita pastorale di G. T. De Rossi del 1760 (f. 29r) ricorda come sistemata di recente con
decorazioni marmoree ed a stucco e provvista di icona (quest’ultima però preesistente e registrata
nelle visite precedenti) “Altare, quod est noviter confectum una cum ornamentis gypseo,
marmoratoque opere concretis, et confectis etiam circumquaque Effigiem depictam dictae Sanctae
Virginia, et martiris in martyrio rotarum expressae”. Gli inventari redatti prima della demolizione e
le ricevute di ritiro di oggetti ed opere sono in ASAL, ASCAL, serie III,, cat. 11, Culto, m. 1804,
Antica cattedrale. Demolizione. Oltre a ricevute per singoli banchi e a quelle dei beni del capitolo e
delle compagnie risultano ritirare le pertinenze delle proprie cappelle la marchesa Faa Guasco,
Pietro Castellani de Merlani, Critoforo e Ambrogio Maria Ghilini (l’ancona con i santi Cristoforo e
Giuliano) Ambrogio e Ottaviano Ghilini (i beni di S. Caterina compreso l’ancona) Filippo Galea,
Claudio Del Pozzo (il quadro di S. Andrea dell’Aliberti.
84.
G. B. Rossi, 1887, pp. 24-29 e 140-149.
85.
IL dipinto, firmato e datato, fu in realtà offerto al comune e da questi destinato
all’altare della cattedrale; documentazione relativa all’accettazione (10-26 giugno 1828) è in
biblioteca civica di Alessandria, ms 38 (144), Carte Mensi. Altri dipinti di soggetto sacro eseguiti da
Mensi a Firenze ed inviati ad Alessandria nel 1833 sono la lunetta con l’Annunciata e la pala della
Madonna del Rosario (firmata e datata) in S. Maria di Loreto dove si conserva pure una Apoteosi di
S. Domenico di Pietro Ayres del 1843 (cf U. Camarino, 1933). Per l’attività di Francesco Mensi
anche in rapporto alla pinacoteca civica cf C. Bongiorni e G. F. Cairo, 1986, C. Spantigati, in Il
museo …, 1986, pp. 19-20, S. Pinto, ib., pp.150-152 e D. Molinari, 1986. Sul restauro eseguito
dall’artista decise critiche sono in G. B. Rossi (1877, p. 218.
86.
Per Alessandro D’Angennes cf T. Canestri, 1835, pp. 14-15; il dono del paramentale
è ricordato da G. B. Rossi (1877, p. 121) che ne indica la provenienza da un “Opificio di Parigi” ed
è immediatamente registrato nell’Inventario del 1828 (ACCAL) “Rosso di satino operato e
spolinato a gran vasi e rami d’oro nuovo dono dell’ill.mo e rev.mo monsignore D’Alessandro
D’Angennes …”. I tre piviali e le quattro tonacelle sono tuttora conservati mentre paiono mancare
all’appello le due pianete ed altri accessori. Non pertinente al paramentale ma con le insegne del
presule è poi un grembiale ad uso dei pontificali conservato anch’esso in cattedrale.
87.
Per il primo calice occorre rilevare la presenza del punzone di “tolleranza” previsto
dalla normativa sabauda del 1824 per vecchi lavori che entravano in commercio (A. Bargoni, 1976,
p. 16 e tav. XII, n. 6; per G. Fontana, p. 29 e tav. IV, n. 3; per M. Promis, pp. 29-30, tav. IV, n. 7).
La consunzione di un altro punzone (tra quelli di “recente” in uso tra 1809 e 1814? Ib., tav. IX, nn.
8 e 9) impedisce ulteriori precisazioni sulla datazione dell’oggetto che dovrebbe porsi a cavallo tra
primo e secondo decennio del secolo. Il secondo calice oltre al punzone del Borrani (ib., B-185, pp.
67 e 267) reca quelli legati alla normativa in vigore dal 1824 (ib., pp. 15-17, tav. XII, nn. 1 e 4,
corrispondenti all’argento primo titolo 950% ed all’Ufficio del marchio di Torino. Analoghi
punzoni di controllo compaiono sul terzo calice contrassegnato dal marchio di G. Baglione (ib., B 9,
pp. 44 e 263). Ulteriori indicazioni sui punzoni sono in A. Bargoni, in Porcellane … 1986, pp. 138143 e per l’attività di Pietro Borrani A. Griseri, ib., pp. 145-146, 157-158. Assai simile al calice di
Borrani in cattedrale è l’esemplare datato 1830 conservato presso il duomo di Torino (cf P. Gaglia,
in Cultura …, 1980, p. 619, al cui testi si rinvia complessivamente per utili dati, pp. 614-628).
88.
L’ostensorio, dalla bella decorazione impero, reca il punzone di Ceresa con il grifo
(A. Bargoni, 1976, C. 83, p. 88; C 84; C85, pp. 88 e 271). L’uso degli stessi punzoni da parte di
figlio e nipote rende difficile l’esatta attribuzione degli oggetti, ma in questo caso non paiono
sussistere dubbi grazie all’analisi stilistica delle decorazioni ed alla presenza del marchio “recente”
in uso tra 1809 e 1814 (ib., tav. IX, n. 9). Più tardo è un secondo ostensorio con motivi decorativi
policromi, sempre col punzone Ceresa, che reca il marchio di controllo delle normative sabaude del
1824 e quello dell’Ufficio del marchio di Alessandria (ib., tav. XII, n. 1, Tav. XIII, n. 6) mentre la
datazione del secchiello si deve ad una scritta incisa sotto la base ad accompagnare l’indicazione di
appartenenza alla cappella di S. Giuseppe. Ancora ai Ceresa si devono un turibolo con navicella,
dalle decorazioni assimilabili a quelle del secchiello. Il nuovo punzone con la ciliegia adottato
successivamente da Carlo Giuseppe Ceresa junior compare su alcuni fermagli del piviale.
89.
A. Bargoni, 1976, V-37, pp. 250 e 305. Di Angelo Vedani è una ricevuta del 30
maggio 1839 per un turibolo ed una navicella in rame argentato e negli stessi anni l’argentiere
realizza diversi lavori di manutenzione ordinaria (ASAL, ASCAL, serie III, cat. 11, Culto, m.
2163). Il punzone dell’elefante, che contraddistingue la famiglia Vedani ma prima ancora e con
altre iniziali la bottega di Stefano Cardano ed i suoi eredi, compare anche su alcuni fermagli di
piviale. Alla Madonna della Salve Carlo Alberto aveva donato nel 1637 (Inventario del 1840,
ACCAL) un ternario in damasco rosso spolinato in oro che G. B. Rossi (1877, p. 121) dice lavorato
a Torino, per la solenne incoronazione cf F. Ansaldi, 1843 e lo stesso Rossi pp. 42-50 che ne
descrive minutamente gli apparati. Esemplari della megaglia commemorativa sono conservati
presso il museo civico, cf P. Gaglia, in Il museo …, 1980, pp 130-131.
90.
Le lampade recano il punzone di Carlo Giuseppe Ceresa junior con la ciliegia; il
nome di Maurizio, che non compare nel repertorio del Bargoni, è fatto da G. B. Rossi, 1877, pp.
119-120 che menziona anche alcune modifiche apportate al disegno di Valizzone dall’ingegner G.
D. Protasi “di Val d’Ossola”. Per il voto del 1835 cf F. Ansaldi, 1843, pp. 69-78.
91.
Vi compaiono i punzoni dell’orafo e argentiere e quelli della normativa sabauda in
vigore dal 1824. Per Carlo Balbino e confronti con oggetti analoghi si vedano A. Griseri, in
Porcellane …, 1986, pp. 144, 146 e 170-171; C. Briganti, ib., p. 194.
92.
Il fatto che Napoleone III assistette per tre domeniche consecutive alle funzioni
religiose nella cattedrale alessandrina prima di recarsi sui campi di battaglia è ricordato da G. B.
Rossi, 1877, pp. 125-126. Oltre all’iscrizione dedicatoria e alla data (cf RIA, 1935, pp. 227-228) gli
oggetti recano il marchio della ditta C. Triouillier F.que d’Orfevbrerie et bronze d’eglise 1 R. du
Vieux Colombier Paris, il punzone C. F. ed i marchi francesi. Il servizio è riprodotto in C. Ferrofino
e L. Orsini, 1988, tav. I. Stilisticamente assimilabile è la pisside donata a Pio IX dal capitolo di
Amiens nel 1877 e conservata presso il museo del tesoro del duomo di Milano (cf M. Cinotti, in R.
Boscaglia e M. Cinotti, 1978, pp. 81-82).
93.
C. Spantigati, in Pio V …, 1985, pp. 265-268.
94.
A. Barberis ha in questa occasione recepito la documentazione relativa al Braccioreliquiario (ASAL, ASCAL, serie III, cat. 11, Culto, m. 1788 e ASAL, Notarile, II vers., b. 940,
Atti del notaio Gerolamo Papino, dal 1637 al 1641). L’istrumento notarile, datato 29 gennaio 1639,
concerne l’affidamento del reliquiario da parte del comune ai padri di S. Siro, mentre la consegna
alla cattedrale è del 3 maggio 1804. L’oggetto reca il punzone genovese della torretta ed altro non
identificato. Più complessa è la vicenda del reliquiario di S. Francesco da Paola (G. Amato, 1986, p.
55) che, con la soppressione dei Minimi di S. Francesco da Paola cui apparteneva, venne dal
comune affidato ai PP. Cappuccini e solo con la soppressione di questi ultimi pervenne nel 1868
alla cattedrale (ACCAL, fascicolo sparso). Il bel reliquiario rivela in effetti strette tangenze con la
produzione romana settecentesca, ma lo stemma applicato alla sua base è quello della città e non del
cardinal Ghilini che nel 1774 consacrò la chiesa alessandrina dei Minimi (cf C. Spantigati, in Il
museo …, 1086, p. 115).
95.
L’inventario del 1828 (ACCAL) registra “quattro armadi due più alti e due più bassi
di noce con molti intagli e loro chiavature, già dell’antica sagristia dei domenicani”. Si ignora
invece l’attuale collocazione del piccolo bassorilievo raffigurante l’adorazione dei Magi “che si
vedeva prima dei restauri incastonato nel muro vicino all’uscio che … conduceva alla cantoria”
ricordato da G. B. Rossi (1877, p. 98) e che lo riteneva di S. Marco e assai antico (gotico?). Così
come si ignora la collocazione dei due dipinti su tavola attribuibili a Gandolfino da Roreto
dall’Ottocento agli inizi di questo secolo conservati in cattedrale dove sopravvive solo la piccola
Crocefissione recentemente restaurata da A. R. Cicala (1987) con l’intervento dell’amministrazione
provinciale, assessorato alla cultura (i dipinti scomparsi sono riprodotti in C. Spantigati, Il museo
…, 1986, pp. 16-17).
96.
Il coro ha precisi riscontri in altri tuttora in sito nelle chiese artigiane, opera di
Francesco Salario da Moncalvo intorno al 1764 (cf N. Gabrilelli, 1976, pp. 172-73). Per l’elenco
dettagliato dei dipinti e le loro provenienze cf. G. Amato, 1986, pp. 38-46; il dipinto del Beato
Amedeo è firmato da Giovanni Batista Morelli, attivo anche in S. Lucia. Il canonico Berta lasciò
parte dei dipinti di sua proprietà alla pinacoteca civica (C. Spantigati, in Il museo …, 1986, p. 26),
mentre al canonico Braggioni si deve in cattedrale anche la tardo cinquecentesca S. Cecilia su
tavola casualmente rinvenuta nell’archivio capitolare.
97.
L’impianto compositivo e soprattutto la figura del Crocefisso denunciano la
rielaborazione dei modelli di Guido Reni, del Crocefisso dei cappuccini – ora alla pinacoteca di
Bologna – innanzitutto; la realizzazione del S. Giuseppe da Copertino nel contempo rivela,
particolarmente nel volto, derivazioni dall’attività di Giovanni Carlone (cf F.R. Pesenti, 1986, pp.
123-128).
98.
Il dipinto, che Amato riportava a Giovanni Battista Castiglione il Grechetto, è da
legare alla serie con storie di Giuseppe di Giovanni Battista Carlone (cf F.R. Pesenti, 1986, pp. 147149).
99.
L’annunciazione è ricordata da F. Batoli, 1777, p. 81. Per la datazione e l’analisi
stilistica in rapporto ai dipinti di Moncalvo a Chieri ed alla più tarda attività dell’artista cf G.
Romano, 1972, pp. 760-761. Le quattro piccole tele della cappella dell’Immacolata sono state
restaurate con la tavoletta del Gandolfino, cf nota 95. In cattedrale si conserva pure il disegno di
Moncalvo relativo all’Annunziata, ma esso non è stato per ora reperito. Il Tobiolo e l’angelo
attualmente nell’aula capitolare unisce a fortissima dati mocalveschi la presenza di componenti
nordiche.