L`Africa che cambia - Camera di Commercio di Parma

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L`Africa che cambia - Camera di Commercio di Parma
mercati esteri
L’Africa che cambia
Dal Sudafrica ai Paesi verso l’oceano Indiano, il continente è terra di
sviluppo e opportunità
Guido Birtig
L’Africa sta attraendo l’interesse di un
numero crescente di operatori di diversa natura (geologi, naturalisti, agronomi,
imprenditori, investitori e altri) che individuano nell’ambiente africano alcune
condizioni considerate ideali per stimolare la propria operatività nell’ambito dello
studio e della ricerca, nonché nel contesto
economico-sociale inteso nell’accezione
più ampia ed estesa del termine. A titolo
esemplificativo si può rilevare che, dallo
studio approfondito delle alterazioni della
faglia, particolarmente evidenti in specifiche aree africane, alcuni ricercatori hanno
formulato l’ipotesi che, nell’arco di 200
milioni di anni, il continente, nel suo processo di avvicinamento verso il Nord, sbriciolerà verosimilmente a colpi di terremoto gran parte della penisola italiana prima
di travolgerla e schiacciarla verso le Alpi.
Non sembra il caso di essere preoccupati,
dal momento che tale arco temporale corrisponde all’incirca a quello che ci separa
oggi dall’inizio del Giurassico e dai primi
dinosauri. Ma già i nati oggi potrebbero
invece trovarsi di fronte a situazioni completamente nuove in conseguenza della
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persistente enorme divergenza tra i tassi
di natalità in Italia e in Africa. Stime demografiche ipotizzano infatti che nel 2100
gli italiani etnici, ossia le persone il cui dna
è il risultato di una compenetrazione tra
quello greco, etrusco e celtico, non dovrebbero superare gli otto milioni di unità. La
demografia è una disciplina rigorosa nei metodi e pienamente attendibile nell’enunciazione delle Un numero crescente
linee tendenziali, ma basandosi di professionisti
proprio sull’evidenziazione in e investitori
chiave prospettica delle tendenze individuano
in atto non può tenere conto di nell'ambiente
eventuali fenomeni erratici quali,
africano condizioni
ad esempio, calamità e conflitti
ideali per le proprie
bellici.
Quasi in antitesi con la profes- attività
sionalità degli operatori cui si è
fatto riferimento sopra, si ha l’impressione
che l’immaginario collettivo italiano sia
tuttora focalizzato su una visione dell’Africa che fa ampio riferimento alle vicende
descritte da Karen Blixen nel suo celebre romanzo, I had a farm in Africa, e alle
struggenti immagini della sua trasposizione cinematografica. Nel 1950, quando
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Karen Blixen aveva lasciato da poco la sua
fattoria vicino a Nairobi ed era tornata in
patria in Danimarca, in tutto il Kenia vivevano sei milioni di persone. Oggi di keniani ve ne sono 44 milioni. Nel 2100 saranno dai 160 ai 239 milioni. Nella vicina
Uganda gli abitanti sono passati, nel medesimo arco temporale, da 5 a 43 milioni
e si prospetta possano crescere da un minimo di 205 a un massimo di 291 milioni
nel 2100. Va tenuto presente che
la superficie dell’Uganda equivale
Un ambito del tutto a meno di due terzi dell’Italia (se
a sé stante, rispetto si prescinde dal Lago Vittoria).
all'intero continente, I tanzaniani erano 8 milioni nel
sembra essere il 1950 e saranno da 276 a 395 miSudafrica "costruito" lioni nel 2100. A tale data, la sola
da Mandela popolazione di questi tre Stati
potrebbe sfiorare il miliardo di
persone, corrispondente all’intera popolazione mondiale di due secoli fa.
Nel 2100 la popolazione della sola Nigeria
potrebbe superare il miliardo di persone.
Tutti i numeri sopra riportati provengono
dall’ultima revisione ufficiale pubblicata
dalle Nazioni unite (World Population Prospects. The 2012 Revision).
Non è il caso di ripetere le considerazioni
sulla scienza demografica sopra riportate
Lavoratori in una fabbrica
ma, stante l’elevatissima espansione dedella Volkswagen in
mografica nel generale ambito subsahariaSudafrica.
no, si comprende come taluno possa leggere le risultanze sopra esposte in termini
catastrofici e ipotizzare epidemie, carestie,
guerre, desertificazione ed emigrazione di
massa per tutto il futuro prevedibile.
Va però precisato che l’Africa subsahariana non è omogenea, potendosi la stessa
suddividere in una parte occidentale che si
affaccia sul golfo di Guinea e in una parte orientale bagnata dall’oceano Indiano.
Alcuni aspetti economici di entrambe le
aree saranno delineati nel seguito della
trattazione. Tra le due aree vi è il Congo,
ove l’anomalia è eretta a sistema, a cominciare dal fatto che il territorio è stato per
anni proprietà personale di re Leopoldo
del Belgio, mentre oggi parte del Congo è addirittura occupata dal Ruanda, un
Paese incommensurabilmente inferiore in
termini di popolazione, potenzialità e dimensione territoriale. Un ambito del tutto
a sé stante, rispetto all’intero continente,
sembra invece essere il Sudafrica.
La Repubblica sudafricana
Per rilevare la peculiarità della Repubblica
sudafricana nell’intero contesto continentale non è necessario procedere ad accurate analisi comparative degli usuali punti
di riferimento statistici e socio-economici,
ma basta prestare attenzione ai prelimina-
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ri di un incontro di rugby – lo sport nazionale sudafricano – da parte della squadra nazionale. Desta sensazione vedere
gli “springboks”, come vengono definiti i
giocatori di diverse etnie che fanno parte
della squadra nazionale, cantare commossi l’inno nazionale. L’avvio musicale dello
stesso risulta inconsueto per un orecchio
educato alle melodie europee e ancor più
le parole nkosi sikelel’i Africa, espressione
in lingua xhosa, la lingua natale di Nelson
Mandela, il cui significato è “Dio benedica
l’Africa”. Dopo la prima strofa in sesotho,
ripresa da un inno composto oltre cento
anni fa, l’inno sudafricano cambia lingua
e melodia e richiama l’antico canto boero
De stem, che attorno alla metà del secolo
diciannovesimo era l’inno nazionale dello
Stato libero dell’Orange.
Quanto descritto sembra sottintendere
non solo la presenza di un sistema democratico efficiente dotato di pesi e contrappesi istituzionali, con l’accettazione e
il rispetto delle norme costituzionali da
parte della generalità della popolazione,
ma addirittura la presenza di una nazione
veramente multietnica.
Il Sudafrica, quasi “inventato” con coraggio e intelligenza sotto la spinta di Nel-
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son Mandela da tutta la classe politica è,
per certi versi, un caso di successo su cui
solamente 20 anni fa ben pochi avrebbero
scommesso. Non solo non vi è stato quel
conflitto civile che si poteva paventare, ma
dalle ceneri dell’apartheid è sorto un Paese
civile che gode di una costituzione moderna e di libertà individuali avanzate. Un Paese che è riuscito a capitalizzare le sue immense ricchezze naturali con una crescita
ininterrotta dell’economia fino a entrare
(insieme a Brasile, Cina, India e Russia)
nel potente club dei Brics, i Paesi emergenti che sempre più vengono annoverati
tra i protagonisti della politica mondiale.
In pochi anni ha fatto cospicui investimenti per cercare di dare risposte alle esigenze della popolazione più bisognosa, facendo nascere quasi dal nulla un’influente
borghesia nera che ora gode di un tenore
di vita elevato e che è sempre più presente
nelle istituzioni e nelle imprese.
Quanto descritto richiama alcuni aspetti
del melting pot americano, dal quale differisce però sostanzialmente poiché colà
individui provenienti da ambiti diversi
hanno abbandonato abitudini e credenze
per fondersi nel crogiolo della nuova nazione americana mentre in Sudafrica po-
Minatori in rivolta.
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polazioni ormai stanziali di etnia, lingua,
credenza religiosa e cultura diverse stanno
imparando a convivere nel rispetto di norme unificanti. Ciò rappresenta un evidente elemento di progresso in un continente
caratterizzato da prolungati conflitti civili
e interminabili sequenze di genocidi ai fini
della sopraffazione tribale. Ciò non toglie
che questo Paese, la cui legislazione potrebbe costituire un modello per l’intero
continente, convive con problemi
che le pur illuminate politiche di
I Paesi poveri sono questi ultimi anni non hanno andebitori scrupolosi, cora completamente scalfito.
che chiedono Nonostante i molti programmi
l’indispensabile. La sociali varati sotto la pressione
controversia nasce dell’African National Congress
quando il debitore di Mandela, che ha interessato
abitazioni, acqua, elettricità, e
diventa ricco welfare generale, è ancora particolarmente rilevante la differenza
tra ricchi e poveri. L’indice di Gini è l’indicatore statistico adottato universalmente
dagli economisti per misurare se un Paese
ha una distribuzione del reddito tendenzialmente egualitaria o, viceversa, presenta
particolari sperequazioni reddituali. Colà
tale indice ha valori sostanzialmente tripli
rispetto ai valori che si rilevano nei Paesi
scandinavi che, com’è noto, sono ritenuti
essere quelli con minore sperequazione tra
la popolazione. In altri termini, sebbene la
situazione delle fasce più deboli sia sensibilmente migliorata grazie alle politiche
sociali, resta ancora molto da fare, a cominciare dalla lotta per debellare l’ende-
mica piaga del virus Hiv.
Da quanto esposto emerge che le nuove
concezioni politiche, maturate ed elaborate in Europa due secoli fa, sembrano
aver trovato progressivamente in contesti
americani e africani, privi di vincoli e condizionamenti pregressi presenti in Europa, gli ambiti idonei per la loro concreta
attuazione. Le stesse sembrano essere in
grado di rispondere in misura adeguata
ai mutamenti economici e sociali indotti
dall’evoluzione tecnologica e dal generale
processo di globalizzazione.
L’Africa subsahariana
Oltre al Sudafrica vi è un’altra parte del
continente ove l’influenza europea è particolarmente evidente. Probabilmente è poco noto che, mentre molti Paesi
dell’Europa dell’Est hanno dovuto fare
una lunga anticamera prima di essere accettati nell’euro, Costa d’Avorio, Gabon,
Camerun e altri 12 Paesi, quasi tutti nel
golfo di Guinea, sono tra i soci fondatori
– seppure in modo indiretto – di eurolandia. La loro vera banca centrale si trova a
Parigi, nel palazzo che ospita il Ministero
delle finanze. Nei patti costitutivi dell’euro si può rilevare infatti che la Francia si
fa garante – senza oneri per gli altri Paesi europei - del cambio fisso tra euro e
franco Cfa. Nel 1945, al momento della
ratifica da parte della Francia degli accordi
di Bretton Woods, la sigla sopra riportata indicava il franco delle colonie francesi
africane. Senza la necessità di modificare
la sigla, il nome cambiò in “franco della
comunità francese dell’Africa” nel 1958 e
oggi indica rispettivamente il franco della
comunità finanziaria dell’Africa e il franco
della cooperazione finanziaria dell’Africa
centrale, ma gli accordi che vincolano i
due istituti centrali sono identici. In contropartita della convertibilità era prevista
la partecipazione delle autorità francesi
nella definizione della politica monetaria
nella zona Cfa.
La Francia ha sempre fatto il possibile per
guidare il Fondo monetario internazionale perché in tale modo può utilizzarne le risorse di tale organismo anche per
mantenere la sua influenza in quella che è
definita l’Africa francofona. Ciò peraltro
ha indotto un comportamento sostanzialmente responsabile da parte dei Paesi appartenenti a tale area perché, di là dalle finalità francesi, sembra che la generalità di
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tali Paesi rispetti i parametri di Maastricht
in misura più corretta rispetto a quanto avviene in Europa. Pertanto anche il Fondo
monetario internazionale ha perso pochi
soldi in tale ambito territoriale. Quando
un Paese si trova in difficoltà - per eventi
calamitosi naturali o politici o per la caduta delle quotazioni delle materie prime
esportate - il Fondo rinegozia la scadenza
dei suoi finanziamenti, ma esige in cambio un programma serio di risanamento.
È ben vero inoltre che i Paesi poveri sono
per lo più debitori scrupolosi anche perché
la consapevolezza della povertà li induce a
chiedere lo stretto indispensabile. La Nigeria insegna che le controversie insorgono allorché i debitori diventano ricchi.
In Nigeria si estrae petrolio da mezzo secolo, in Angola e Gabon da 40 anni, in
Ghana da 10. Le economie sono sofisticate, ma il petrolio le ha corrotte in profondità penalizzando le altre produzioni.
L’esportazione di petrolio fa infatti salire
il cambio e rende facile importare prodotti di consumo rendendo al contrario poco
competitiva l’agricoltura e l’industria con
forte intensità di manodopera, come ad
esempio il tessile. La ricchezza di risorse
naturali gestita inopportunamente può infatti trasformare le risorse in una sorta di
maledizione. Non a caso Luanda è indicata dalle apposite statistiche come la città
più cara al mondo.
Gli economisti asseriscono che la Nigeria
è afflitta dalla cosiddetta “malattia olandese”, così definita poiché il primo caso di
questa sindrome fu diagnosticato in Olanda negli anni Sessanta del secolo scorso.
La scoperta di grandi giacimenti di gas
naturale nel mare del Nord provocò inizialmente grande entusiasmo. Si scoprì
ben presto che questa ricchezza portava
inflazione e rafforzava il fiorino olandese
al punto da non rendere competitivi gli altri settori produttivi, in pericolo di asfissia.
Con intelligenza e saggezza l’Olanda reagì
decidendo di rallentare l’estrazione di gas
adeguandola al consumo interno. In tale
modo guarì dalla malattia.
L’Africa orientale, dove i giacimenti di gas
e petrolio si stanno scoprendo solo ora, ha
tassi di cambio meno elevati e un costo del
lavoro più contenuto. Ha anche una maggiore certezza del diritto e sembrano proprio queste le motivazioni che inducono
molte imprese multinazionali a scegliere
Kenia e Uganda non solo come loro sede
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regionale, ma anche come ubicazione di
unità produttive per l’intero continente. I
Paesi africani che si affacciano sull’oceano Indiano dovranno scegliere se crescere
armoniosamente, affiancando a un’industrializzazione diffusa uno sfruttamento
graduale dei giacimenti di idrocarburi, o
se cercare la scorciatoia e scegliere il tutto e subito. Da quanto rilevato parrebbe
che questa parte dell’Africa presenti molte
delle caratteristiche positive che l’Asia e
l’America latina emergenti possedevano
30 anni fa e che ora non hanno più.
Tanzania e Zambia sembrano possedere le
potenzialità per raccogliere quello che non
è più economico produrre in Cina, dalle
scarpe sportive all’assemblaggio di cellulari. È il primo livello dell’industrializzazione, quello in cui il contadino o il disoccupato urbano sono ben lieti di lavorare
duramente in fabbrica per piccoli imprenditori non strutturati,
subfornitori coraggiosi, avventu- Basso costo del
rieri di multinazionali e di fondi lavoro e certezza
sovrani di Paesi asiatici che non del diritto inducono
si sporcano direttamente le mani. le multinazionali a
Il lavoro in fabbrica potrebbe es- installarsi nei Paesi
sere considerato comunque un
dell’Africa orientale
progresso sociale perché apre la
strada a un minimo di benessere.
Una struttura internazionale ha recentemente stilato un elenco di 16 Paesi in condizioni simili a quelle della Cina dei primi
anni Ottanta. A parte il Perù e il Messico
meridionale, si tratta quasi esclusivamente
di Paesi affacciati all’oceano Indiano, ossia tra l’Africa orientale e la Birmania. Per
quanto sopra esposto, si ha ragione di credere che la parte di Africa che si affaccia
sull’oceano Indiano sarà crescente oggetto
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Una miniera in Tanzania.
di interesse duraturo, ma è estremamente facile essere astratti e concettuali e dire
genericamente che l’Africa è il continente
del futuro. Lo si dice da tempo, salvo poi
scoprire puntualmente che è possibile gestire nel peggiore dei modi un patrimonio
immenso di ricchezza naturale e umana.
Il Brasile è però lì a dimostrare che qualche volta si può trasformare il possibile
in reale. Infatti i brasiliani, il cui Paese è
oggi riconosciuto come potenza economica matura, con notevole dose di autoironia
erano soliti definire la propria terra come
o paìs do eterno futuro. In considerazione
dei crescenti interesse e intervento cinese
nell’ambito africano, si ritiene opportuno
delineare uno schematico quadro di quanto successo recentemente in Cina, nel presupposto che essa intenda replicare altrove
i modelli di comportamento collaudati in
patria.
La Cina ha una superficie quasi equivalente a quella statunitense, una popolazione
e una produzione di acciaio multiple di
quelle americane, un parco automobilistico nettamente inferiore, ciò nondimeno
una rete autostradale che è circa un quarto
più estesa di quella americana. Le scelte
politiche cinesi hanno determinato un cospicuo sovradimensionamento infrastrutturale e produttivo nonché un’abnorme
crescita dello spazio residenziale nelle aree
urbane. La forsennata crescita industriale, infrastrutturale e urbana ha stravolto il
tradizionale ritmo di vita fondato sull’autosufficienza rurale ed è verosimile che,
anche in conseguenza del rallentamento
demografico, lo stesso si indirizzi sempre
più verso un crescente consumismo.
Cina: cosa pensano gli Africani
L’Africa è sempre stata considerata un
ambito da cui attingere risorse di ogni
genere, dai minerali ai vegetali per giungere addirittura alle risorse umane. La
tratta degli schiavi da parte dei mercanti
arabi risale alla notte dei tempi. Nei secoli passati, alcuni Paesi europei hanno,
in un certo senso, legalizzato tale comportamento con il colonialismo. Quasi
in contrapposizione con tale comportamento sono sorte, da parte di un numero
crescente di istituzioni religiose e laiche,
iniziative per così dire “caritatevoli” a fa-
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vore delle popolazioni africane. Dopo la
fine della seconda guerra mondiale alcuni
Paesi occidentali hanno sviluppato specifici organismi di erogazione di aiuti a tali
paesi. Anche la Cina e alcuni fondi sovrani arabi hanno ultimamente mostrato
crescente interesse verso l’Africa, ma con
un approccio del tutto inusuale. Mentre
nell’opinione pubblica occidentale è radicata l’idea che aiutare i Paesi in via di
sviluppo consista nell’elargire una sorta
di elemosina piuttosto che commerciare,
scambiare e fare affari con loro, i nuovi
attori asiatici, diversamente da quelli occidentali, non versano oboli ma fanno investimenti e pretendono di trarre subito
profitto. Talvolta il loro modus operandi
si connota come il peggiore neocolonialismo, soprattutto nel “land grabbing”.
Tuttavia dalla comparazione dei risultati
è sorta in Africa una corrente di opinione
che giudica l’intervento cinese più proficuo di quello tradizionale occidentale. I
leader di tale orientamento, che potrebbe
sinteticamente venir definito “afrocapitalismo”, si sono formati culturalmente
nelle università anglosassoni e sembrano
godere di crescenti consensi.
L’elemento di maggiore spicco del movimento è Mambisa Moyo, una zambiana
che, dopo la laurea, ha fatto carriera in
importanti istituzioni finanziarie internazionali. Con il suo libro Dead Aid - che
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nella traduzione italiana ha assunto il titolo decisamente corrosivo La carità che
uccide - ha formulato una serie di critiche
ai meccanismi di erogazione degli aiuti che hanno fatto breccia nelle
grandi istituzioni internazionali.
La Moyo reputa che l’afflusso L’assioma su
di denaro erogato a fondo per- cui si fonda
duto sviluppi una sorta di di- l’afrocapitalismo
pendenza. L’élite locale africana è «trade, not aid»
si abituerebbe ad alimentarsene
(commercio, non
indirizzando le risorse verso una
burocrazia soffocante e parassita- aiuto)
ria anziché verso i bisognosi cui
erano destinati. La Moyo, mentre biasima
«un miliardo di dollari di aiuti all’Africa
in sessant’anni e non molti risultati positivi da mostrare», guarda con interesse il
comportamento cinese concludendo che
«l’errore dell’Occidente è stato quello di
dare qualcosa in cambio di niente», laddove la crescita economica produce comunque vantaggi anche agli africani. L’assioma
su cui si fonda l’afrocapitalismo – trade,
not aid (commercio, non aiuto) - ha fatto
sì che fossero smantellati molti dei preesistenti progetti di aiuto ai contadini. La
“società civile” occidentale (associazioni,
gruppi umanitari, chiese cristiane, ecc.)
invoca invece una revisione delle intese relativamente a ogni settore imprenditoriale,
con analisi pubblica dettagliata circa le risorse da sfruttare.