Il concetto di competenza nel lavoro e nel lifelong learning

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Il concetto di competenza nel lavoro e nel lifelong learning
Il concetto di competenza nel lavoro e nel lifelong learning
1. Premessa.
La radice etimologica del termine competenza la troviamo nel verbo latino competo
(is); un verbo che ha molti significati, tra i quali: convergere, accordarsi, essere all’altezza
di…, padroneggiare. Solo le ultime due accezioni si avvicinano al significato che diamo oggi
a questa termine; un significato che, ovviamente, si discosta molto da quello etimologico:
quello corrente, infatti, ha un’origine recentissima, un costrutto complesso e una connotazione
sociale molto marcata come si desume soprattutto dalla letteratura specializzata sulle risorse
umane, sulla formazione e sull’orientamento professionale; ovvero, dalla letteratura relativa
agli ambiti che ci interessano più da vicino in questo libro.
Il processo di emersione sociale del concetto di competenza è paragonabile ad un
fiume con molti affluenti. Da circa quarant’anni a questa parte ha aumentato
progressivamente la sua “portata” grazie ad una molteplicità di contributi provenienti da
diversi ambiti disciplinari e da diversi contesti sociali d’uso (Aubret et alii,1993). Fuori di
metafora, vediamo che con il passare degli anni, la moltiplicazione degli usi e lo sviluppo
della ricerca, soprattutto nell’ambito delle risorse umane, da un lato, hanno confermato e
consolidato i contenuti e i significati più ricorrenti e, da un altro lato, ne hanno aggiunti via
via di nuovi che hanno arricchito e precisato il nucleo centrale del concetto di competenza.
Per dirla con altre parole, ci troviamo di fronte ad un concetto in progress la cui evoluzione è
parte di un più ampio processo che risponde alla necessità di dare nomi, forma e significato
alle trasformazioni della nostra società; trasformazioni pervasive che, sotto la spinta possente
delle nuove tecnologie, interessano l’economia, il lavoro, la formazione, la cultura, la società
civile ed, in primis, le persone ed il loro modo di viverle e di rapportarsi ad esse.
Lo spessore e la densità dei processi sottesi all’evoluzione del concetto di competenza
spiegano il ricco campionario delle definizioni che sono state date a partire dai primi studi in
ambito linguistico di Chomsky (1965) ed in ambito psicologico di Mc Clelland (1973). Uno
sguardo d’insieme a questo ricco campionario ci consente di dire che ormai il costrutto di
competenza si è pienamente affrancato dalla condizione di irrilevanza semantica in cui
rischiava di essere trascinato allorché veniva ridotto a “moda” ed usato, a volte, come una
sorta di “cerone” a copertura delle rughe sul viso di pratiche di gestione e di sviluppo delle
risorse umane tra le più tradizionali o le più discutibili o le meno efficaci. Una conferma di
questo ormai compiuto processo di affrancamento ci è offerta dalle rassegne e dagli studi più
accurati e più rigorosi che sono stati condotti sui diversi modi di intendere e di definire la
competenza, come quello Rodriguez Moreno (2006) 1, di Navio Gomez (2005)2 o – sia pure
secondo ottiche e su piani diversi - di Geffroy e Tijou (2002), Rychen & Salganik (2001),
Consoli & Benadusi (1999) e Bresciani (1997).
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La completezza e l’accuratezza degli studi appena citati ( ed a cui rimandiamo quanti
fossero interessati ad una lettura di tipo filologico o ad approfondimenti di tipo analitico e/o
comparativo) ci esonerano dal compito di dare conto dei diversi itinerari epistemologici
(ovvero, dei diversi modi di declinare il concetto di competenza a seconda delle discipline
scientifiche che se ne occupano) e delle diverse definizioni del concetto di competenza messe
a punto dagli studiosi di maggiore spicco internazionale. Nello stesso tempo, ciò ci consente
di concentrare la nostra attenzione sugli approcci teorici attraverso cui è stato tematizzato il
costrutto di competenza professionale da cui ricaviamo il paradigma generale della
competenza (chiaramente, il paradigma che a nostro giudizio appare come quello più
ampiamente condiviso dagli studi sul tema) e la sua declinazione in chiave pedagogica e di
metacompetenza per il lifelong learning.
Sulle orme di Sandberg (2000 e 1994) e di Rychen & Salganik (2001), possiamo
distinguere tre approcci teorici fondamentali: razionalistici, olistici e interpretativi.
2. Gli approcci razionalistici.
Gli approcci razionalistici nell’organizzazione del lavoro e nell’ottimizzazione delle
prestazioni lavorative hanno una storia lunga circa un secolo. Essi precedono di circa
cinquant’anni le prime elaborazioni ed i primi studi sulle competenze e, per alcuni versi, ne
preparano il terreno. Infatti, “lavorano” la stessa materia prima, ossia le conoscenze, le abilità
e le capacità necessarie per svolgere un determinato lavoro in modo efficiente ed efficace. Di
fatto risalgono a Taylor (1911) e alla sua teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Costui, operando sul campo (in aziende del settore del ferro e dell’acciaio) nel ventennio a
cavallo tra l’800 ed il ‘900, si rende conto che i vecchi sistemi di produzione non riescono più
a rispondere in maniera adeguata alle esigenze del mercato. Dopo oltre cento anni dalla
seconda rivoluzione industriale, nel governo delle imprese, prevalgono ancora metodi basati
sulle decisioni personali, sulla corruzione e sull’arbitrio. Nella migliore delle ipotesi si
adottano metodi basati su una organizzazione del lavoro empirica e approssimativa. Taylor,
guidato dall’obiettivo di aumentare la produzione pesante a livello di massa, introduce nuovi
principi organizzativi volti a: 1) accentrare e razionalizzare le linee di autorità all’interno
dell’azienda; 2) ad aumentare la produttività attraverso la riorganizzazione e la trasparenza
totale di costi, procedure e tempi; 3) usare la scienza e il metodo scientifico non solo come
criterio di azione, ma come strumento di legittimazione dei nuovi metodi di lavoro; 4)
superare il dilettantismo che contraddistingue il lavoro industriale in tutte le sue componenti, ,
materiali e umane. Alla luce di questi principi elaborò i suoi famosi “studi su tempo e
movimento” finalizzati a identificare le componenti e le regole di funzionamento di una
prestazione lavorativa efficiente ed efficace.
Attualmente, con il superamento tendenziale del taylorimo (tendenziale, perché,
nonostante questo modello sia in crisi e concettualmente superato, moltissime aziende ancora
lo adottano), l’identificazione delle competenze non si basa più su “tempi e movimenti”. Oggi
l’approccio razionalista viene esteso all’analisi delle capacità, delle conoscenze, e dei modi
come queste vengono usate per svolgere un determinato lavoro; nonché
psicosociali necessari ad un individuo per offrire una prestazione efficace.
agli attributi
Sandberg (1994 e 2000), prendendo le mosse da Veres, Locklear & Sims (1990)
distingue, nell’ambito delle teorie della competenza d’impianto razionalista, tre sottocategorie
di approcci principali: worker oriented, work-oriented e multimethod-oriented.
2.1. Gli approcci worker oriented
Concepiscono la competenza come un insieme complesso di attributi posseduti da una
persona (conoscenze, capacità, abilità, caratteristiche personali); attributi che sono ritenuti
necessari per porre in atto una performance efficace. I sostenitori di questa concezione, in
particolare Mc Clelland (1973), Boyatzis (1982) e Spencer & Spencer (1993), sono
sostanzialmente concordi nel ritenere la competenza una caratteristica di base della persona.
In quanto tale è concepita come una caratteristica generica, indipendente dal contesto, che
può apparire in molte attività lavorative.
2.2. Gli approcci work oriented.
I teorici degli approcci work oriented (Fine, 1988) concordano con i sostenitori degli
approcci Worker oriented sul nucleo centrale della definizione di competenza, intesa,
appunto, come un insieme specifico di attributi personali. Ma ne prendono nettamente le
distanze su due aspetti, uno di merito e uno di metodo. Nel merito, ritengono che la natura
generica e indipendente della competenza pecchi di astrattezza e manchi di concretezza. Sotto
il profilo del metodo ribaltano il punto di partenza, assumendo il lavoro piuttosto che il
lavoratore come termine di riferimento: prima identificano le attività fondamentali per
svolgere un lavoro e poi trasformano quelle attività in attributi personali. Da questo punto di
vista il problema della maggiore concretezza è risolto. Mentre è tutt’altro che risolto quello
della appropriatezza: non necessariamente, infatti, ad una lista di attività lavorative, desunte
attraverso l’analisi delle mansioni o l’analisi organizzativa, corrispondono tutti gli attributi
necessari a svolgerle. Qui, dall’astrattezza delle competenze cadiamo nell’astrattezza delle
persone, intese in modo generico: tutte genericamente capaci di offrire le medesime
prestazioni una volta che siano state formate a svolgerle.secondo schemi pedefiniti.
2.3 Gli approcci multimethod-oriented.
I teorici degli approcci multimethod-oriented, si avvalgono dei due metodi precedenti
con l’obiettivo di superare le criticità degli altri due, operando in modo tale che il numero
degli attributi personali di un lavoratore che svolge una determinata attività siano superiori
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all’elenco delle mansioni o dei compiti per svolgere quella stessa attività. Un esempio di
questo tipo, riportato da Sandberg (2000), è quello relativo all’analisi delle competenze dei
sottufficiali di polizia in Svezia. Nei confronti dei quali si è proceduto, appunto, con un
approccio multimetodo arrivando ad individuare 46 attributi di competenza corrispondenti a
23 attività di polizia. Le attività e gli attributi personali sono stati espressi in termini
percentuali assumendo come riferimento il lavoro del poliziotto (attività, mansioni e compiti).
Riassumendo, ciò che accomuna il pensiero degli studiosi d’impostazione razionalista
che si riconoscono in uno dei tre approcci richiamati dianzi ruota attorno ai seguenti assunti di
fondo:
le persone e il mondo sono entità distinte;
La realtà esiste indipendentemente dalla mente umana;
Il fenomeno della competenza si divide in due entità separate, da un lato il
lavoratore e da un altro il lavoro;
Il lavoro è oggettivo, conoscibile, staccato dai lavoratori
Gli approcci razionalisti sono di tipo funzionalista, basati sulla domanda. Di
conseguenza i criteri di performance, i modelli di misurazione, gli indicatori di
competenza e i task profile professionali rivestono una particolare importanza.
3. Gli approcci di tipo olistico.
Un contributo molto importante per la messa a fuoco degli approcci di tipo olistico ci
viene offerto da Rychen & Salganik (2001), che hanno condotto i loro studi nell’ambito un
progetto di ricerca di ampio respiro di durata quinquennale, il Progetto DeSeCo,3 lanciato
dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel 1997 e
conclusosi nel 2001.
I sostenitori di questi approcci condividono con i razionalisti la natura funzionale, On
demand, della competenza stessa. Ne consegue che anche per costoro le teorie relative al
curricolo, i modelli di misurazione e i task profile professionali forniscono informazioni
preziose per la definizione della competenza. Per il resto se ne distaccano e si concentrano
sulla natura complessa e globale del costrutto di competenza; un costrutto non più ritagliato
solamente sul lavoro ma comprensivo anche dei task profile per le situazioni tipiche della vita
(interazione con i mas media, atteggiamento nel tempo libero, convenzioni sociali, ecc).
Secondo questa concezione le componenti della struttura interna della competenza
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DeSeCo: per esteso: Definition and Selection of Competencies: Theoretical and Conceptual Foundations.
racchiudono un’ampia gamma di attributi. Come, ad esempio, le conoscenze di base, le
capacità cognitive, le capacità di pensiero analitico o critico, la capacità di prendere decisioni
o, più in generale ancora, le capacità di problem solving. L’attivazione di questi attributi, pur
essendo alla base dell’azione efficace, da sola, però, non è sufficiente: per soddisfare una
richiesta del lavoro o della vita, oppure per raggiungere un determinato obiettivo, occorre
anche l’attivazione di attributi comportamentali come la motivazione, l’assetto emotivo ed il
quadro valoriale di riferimento. Anzi, l’attivazione di questi attributi ad avviso di Rychen &
Salganik gioca un ruolo decisivo al punto da spingere le nostre autrici ad affermare che i
profili occupazionali che sorvolano sull’importanza dei valori non colgono a pieno gli
attributi necessari ad una performance efficace. Ciò, in virtù dell’unità olistica di
ragionamento e di emozione e del fatto che possedere una competenza - come sostiene Le
Boterf (1994, 1997 e 2001) - significa possedere le risorse che la compongono, ma anche la
capacità di attivarle, di mobilitarle, di “orchestrarle”, al momento giusto, in modo appropriato
e in un contesto dato. Secondo la stessa concezione olistica e sullo stessa linea di Le Boterf si
colloca il modello di “competenza d’azione” di Weinert (2001) secondo il quale una persona
competente è una persona in grado di decidere e di agire combinando in modo esauriente le
capacità intellettive, la conoscenza specifica dei contenuti, le capacità cognitive, le strategie
specifiche del contesto, le routine e le sub-routine, le tendenze motivazionali, i sistemi di
controllo della volontà, l’orientamento personale dei valori e il comportamento sociale in un
sistema complesso.
Riassumendo:
gli approcci olistici, al pari degli approcci razionalistici richiamati in
precedenza, considerano la competenza come un insieme di attributi della
persona
anche negli approcci olistici l’interesse principale si concentra sui risultati
ottenuti dagli individui attraverso un’azione riferita ad una particolare
posizione professionale;
a differenza degli approcci razionalistici, gli approcci olistici guardano ad un
quadro di risorse più ampio e prestano un’attenzione particolare alle risorse
psisociali;
a differenza degli approcci razionalistici gli approcci olistici basano il concetto
di competenza sul presupposto che tra individuo e mondo, individuo e società
esista una relazione dinamica e dialettica;
Quest’ultimo postulato basato sull’unità dialettica individuo-mondo, individuo-società
distingue nettamente gli approcci olistici da quelli razionalisti segnando tra i due uno
spartiacque molto netto, oltre il quale, nel territorio della competenza - concepita, appunto, su
base olistica - si apre un campo teorico molto esteso e molto fertile su cui si basano pratiche
professionali, modalità operative e politiche (politiche delle risorse umane, politiche del
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lavoro, politiche sociali, ecc) molto diverse da quelle tradizionali. Perché sono diversi gli
assunti di partenza. In particolare:
Il modello Rychen & Salganik - ma a questo punto sarebbe più corretto
definirlo il modello DeSeCo tout court – è olistico e dinamico nella misura in
cui combina le richieste complesse con i prerequisiti psicosociali e li
contestualizza in un sistema, a sua volta, complesso che rende possibile la
performance competente e l’azione efficace. Quindi le competenze non
esistono indipendentemente dall’azione o dal contesto;
Il concetto di competenza contestualizzata, sotto il profilo dell’apprendimento,
richiama le teorie dell’apprendimento situato ed esperienziale e i modelli
teorici del cognitivismo o, meglio ancora, del costruttivismo (Rodriguez
Moreno, 2006) piuttosto che quelle del Behaviorismo affioranti qua e là, più o
meno apertamente, nei modelli razionalistici
La natura dialettica e interattiva della competenza, rende la sola analisi delle
caratteristiche del singolo individuo insufficiente a spiegare la performance
efficace.
4. Gli approcci interpretativi.
Il paradigma interpretativo, al pari di quello razionalistico e di quello olistico, ha
origini e storia che precedono di molti decenni la sua declinazione in chiave di competenze.
La tradizione interpretativa nello studio dei processi lavorativi e, più in generale, dei
fenomeni sociali è molto sviluppata nell’ambito degli studi sociologici. Max Weber è
considerato l’iniziatore di questa tradizione la quale, attraverso vari autori, arriva fino al
contemporaneo Antony Giddens. Attualmente, tra gli studiosi delle competenze questa
tradizione è fatta propria da un nutrito gruppo di esponenti tra cui spicca il più volte citato
Jörgen Sandberg, soprattutto per aver sottoposto le sue elaborazioni teoriche al riscontro delle
ricerche empiriche condotte sulle competenze degli ingegneri del reparto “ottimizzatori” della
Volvo in Svezia. Il tratto epistemologico di fondo degli approcci interpretativi è dato dalla
loro base fenomenologica4 che si traduce nell’assunto - per altro, comune agli approcci olistici
- secondo cui persona e mondo sono inestricabilmente legati dall’esperienza vissuta dalle
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persone. Pertanto anche la competenza non è l’incontro né la somma di due entità separate, il
lavoratore e il lavoro - anche in questo caso c’è una concordanza con gli approcci olistici bensì, entrambi formano un’unica entità attraverso il significato che il lavoro assume
nell’esperienza del lavoratore5. L’assunzione dell’attribuzione di significato all’esperienza
lavorativa come focus dell’analisi, della descrizione e della comprensione delle competenze
umane sul lavoro, comporta un cambiamento del punto di vista da cui deriva un grappolo di
implicazioni concettuali e quindi di conseguenze operative:
Premesso che anche in questa nuova ottica la competenza si definisce come un
insieme complesso di attributi, questi non sono context-free, sganciati dal
contesto, ma situazionali e dipendenti dal contesto attraverso la mediazione
dell’esperienza che ne fanno i lavoratori;
Una caratteristica della competenza situata, aderente al contesto, è quella di
dispiegarsi in condizioni di coscienza pratica e sulla base di conoscenze tacite.
La coscienza pratica comprende tutto ciò che gli attori conoscono tacitamente
sui modi di procedere nella vita lavorativa e nella vita sociale senza però essere
in grado di esprimerlo. Questo patrimonio viene interamente recuperato e
valorizzato dagli approcci interpretativi, mentre non viene preso in
considerazione dagli approcci razionalisti;
I modi come le persone lavorano realmente differiscono a volte anche
profondamente dai modi indicati dai manuali o nei corsi di formazione, come
ha dimostrato Schön (1983) a proposito della formazione universitaria dei
professionisti. In altri termini, quando i lavoratori inquadrano una situazione
lavorativa specifica correlano gli attributi necessari con l’esperienza;
Di conseguenza, i modi di fare esperienza ed il modo come l’esperienza si
struttura, sono più importanti degli attributi stessi del lavoro e della
competenza presi in sé;
I modi di fare esperienza cambiano e si sviluppano attraverso le riflessione
sull’esperienza stessa (ancora Schön, ‘83);
Per lo sviluppo delle competenze la capacità di auto-apprendere e di
apprendere dall’esperienza sono determinanti. Così come lo è la capacità di
produrre pensiero riflessivo e trasformativo (Mezirow, 1991). Le ricerche sul
campo condotte da Sandberg all’interno della Volvo ci dicono quanto
quest’ultima capacità (di produrre pensiero riflessivo e trasformativo) sia
importante per lo sviluppo delle competenze. Dai risultati di queste ricerche
emerge, infatti, che ai fini dello sviluppo delle competenze la capacità di
cambiare approccio metodologico (o angolo visuale) o la capacità di
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riformulare su nuove basi un problema sono più importanti dell’accumulo
lineare e meccanico di esperienza o della formazione di tipo contenutistico.
Coloro che dimostrano di possedere questa capacità presentano livelli di
competenza più elevati.
5. La competenza di apprendere ad apprendere lifelong: dal lavoro alla
cittadinanza attiva nella società della conoscenza.
Il percorso metodologico seguito fin qui ci guida verso una definizione del concetto di
competenza come un costrutto complesso alimentato da una molteplicità di risorse
(conoscitive, operazionali, esperienziali, organizzative, psicosociali, ecc.) che si mobilitano ed
entrano in relazione tra loro in modo sinergico e positivo, piuttosto che per sommatoria o per
accumulo. Più precisamente, possiamo definire la competenza come l’ “orchestrazione” e la
mobilitazione di queste risorse in un dato contesto (Le Boterf (1994; 2001) e secondo
coordinate di senso dettate dai modi di concepire il lavoro e le prestazioni professionali dei
singoli individui (Sandberg, 2000).
La competenza così intesa ha un significato che trascende la semplice dimensione
professionale; un significato che abbraccia tanto le competenze necessarie alle persone per
lavorare quanto quelle per operare nell’odierna “società della conoscenza”; per agire, cioè,
come soggetti attivi, autonomi e consapevoli, piuttosto che “essere agiti”. Soprattutto, una
definizione così concepita presuppone il possesso da parte degli individui della capacità di
base di leggere l’esperienza, di interpretarla, di re-interpretarla e di proiettarla verso nuovi
orizzonti progettuali; una capacità che, a sua volta, si fonda sulla metacompetenza di
apprendere ad apprendere durante tutto il corso della vita. Lifelong, appunto (Alberici e
Serreri, 2009 e, soprattutto, Alberici, 2008). Un tema, questo dell’apprendere ad apprendere,
che interroga l’intera gamma dei contenuti di questo libro. Perciò, riteniamo che valga la pena
di guardarlo da vicino all’interno di questo nostro ragionamento sul paradigma della
competenza.
In un mondo in cui tutto cambia rapidamente la metacompetenza di apprendere ad
apprendere risalta come una stella di prima grandezza in tutta la sua importanza e in tutta la
sua valenza strategica. Perché rappresenta la condizione ed il presupposto ineludibile per la
vita di individui dotati:
di un ricco patrimonio di risorse personali e professionali;
della capacità di sapere orchestrare tali risorse ed, insieme, di saperle disporre
lungo l’asse temporale passato-presente-futuro, secondo una prospettiva
progettuale;
della capacità di reinvestire e di “traghettare” sulla sponda del futuro l’intero
patrimonio delle loro molteplici competenze accumulate in contesti diversi;
della capacità, a tutte le età, di trasformarsi; di cambiare pelle, professione e
ruolo; di saper “reinventare” le proprie competenze; di sapersi continuamente
orientare e riorientare;
di capacità previsionali e di anticipazione sempre più fini in modo tale da
prevedere in anticipo le possibili biforcazioni del cammino che si ha davanti e
scegliere l’alternativa giusta, quella più opportuna e più appropriata in quel
dato frangente.
In estrema sintesi, si può dire che l’accento cade ogni giorno di più su una capacità
che per molti aspetti riassume tutte quelle che abbiamo appena detto ora e che Boutinet
(2004) chiama saper divenire. Alla cui base si trova, appunto, la metacompetenza di
apprendere ad apprendere.
5.1 Apprendere ad apprendere.
Qualsiasi definizione si dia del concetto di apprendere ad apprendere questo dipende
dal significato attribuito a monte al concetto di apprendimento (Stringher, 2008 e Gibbons
1990). A questo proposito Stringher, sulle orme di Gibbons, parla dell’apprendimento come
di un aumento di conoscenza, di abilità, di capacità o come rafforzamento e consolidamento
di una predisposizione di una persona in qualsiasi modo ottenuta e in qualsiasi età o
circostanza mediante un processo nel quale si crea conoscenza attraverso la trasformazione
dell’esperienza. Dove, per dirla con Kolb (1984), questa trasformazione denota un processo
esso stesso passibile, a sua volta, di cambiamento.
Alla luce di questa definizione la competenza di apprendere ad apprendere si basa su
un incremento dell’abilità della persona di aumentare sia le sue conoscenze, sia l’insieme di
ogni altra sua abilità o capacità. Si configura, quindi come un cambiamento di secondo
livello, come una funzione sovraordinata, rispetto a qualunque categoria concettuale si voglia
considerare come di base. La relazione tra l’apprendimento e la capacità di apprendere ad
apprendere può essere rappresentata lungo un continuum che va dai più semplici tipi di
apprendimento (esemplificati nel condizionamento pavloviano), a quelli più generali: dai fatti
ai processi più complessi, generativi di nuova conoscenza e competenza. Via via che
l’individuo acquisisce le abilità di livello superiore, raggiunge un più elevato controllo e
quindi una maggiore autonomia nell’apprendimento anche di compiti complessi. Ma quel che
merita una sottolineatura speciale è la valenza più estensiva e più ampia contenuta nel
concetto di apprendere ad apprendere così definito, giacché non si limita alle sole strategie di
studio e alle variabili strettamente cognitive e metacognitive ma comprende anche la
regolazione degli aspetti socioaffettivi e relazionali del soggetto, coerentemente con la natura
situata della competenza in virtù della quale l’accento cade sul rapporto dell’individuo con gli
altri attori (individuali e/o sociali) e con le risorse disponibili in ogni contesto dato. In quanto
competenza di secondo livello essa si configura come una risorsa spendibile dalla persona in
molteplici direzioni e passibile di molteplici linee di sviluppo: verso il lavoro, certo; verso la
vita nelle organizzazioni e nei gruppi; in direzione dell’esercizio della cittadinanza attiva ed
in direzione dello sviluppo personale individuale. Essa si acquisisce e si sviluppa lifelong in
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contesti, in forme ed in momenti diversi: nei contesti scolastici e di istruzione, dove si
sviluppano prevalentemente le capacità metacognitive che raggruppano le attività cognitive
che hanno per oggetto la cognizione stessa e contribuiscono alla regolazione ed al controllo
del suo funzionamento (Pitrat, 2000); in contesti formalizzati di educazione socioaffettiva
dove si possono sviluppare le competenze emotive (Francescato, 1999 e 2004); nelle
organizzazioni e nei contesti di lavoro, dove si possono acquisire e sviluppare sia i saperi
professionali (Meghnagi, 2005) sia le competenze sociali; oltre che nei contesti esperienziali
informali, qualora l’esperienza sia accompagnata o seguita da un attento esercizio di pensiero
riflessivo secondo un’ottica di autoformazione (Mezirow,1991). Concludendo su questo punto
potremmo dire che la competenza di apprendere ad apprendere si inscrive, per intero ed in
modo naturale, all’interno del paradigma generale della competenza, dal momento che chiama
in causa come suoi elementi costitutivi: a) i saperi ed il controllo delle modalità della loro
acquisizione; b) il saper fare con il relativo controllo dei modi di acquisizione, di
manutenzione e di sviluppo; c) il senso di autoefficacia, la motivazione, le attribuzioni causali
e la volizione.
5.2 La natura strategica della competenza dell’apprendere ad apprendere6.
Preliminarmente occorre intendersi sul significato che attribuiamo all’aggettivo
“strategico” e alla locuzione “natura strategica” nel quadro del nostro ragionamento
focalizzato sulla competenza dell’apprendere ad apprendere. Con il primo si vuole
evidenziare la capacità delle persone di raggiungere obiettivi importanti (formativi e di
apprendimento) predisponendo con lungimiranza, a breve, medio e lungo termine i mezzi atti
a tali scopi. Con il secondo si vuole sottolineare sia la funzione cruciale della competenza
dell’apprendere ad apprendere nel determinare l’andamento e l’esito quantitativo e
qualitativo dell’apprendimento stesso in tutti i contesti formativi, di lavoro e di vita, sia il
“ruolo generativo” di questa competenza in chiave di creazione di senso. Di Rienzo (2008) a
questo proposito sostiene che l’apprendere ad apprendere consente di adottare altri punti di
vista, di modificare le nostre prospettive e di utilizzare chiavi di lettura per interpretare la
complessità che viviamo, per trasformare i significati e, nel nostro caso, la concezione relativa
alla natura dell’apprendimento, della formazione, della conoscenza. In termini ancora più
estensivi, potremmo dire che questa competenza consente di apprendere a cambiare le forme
dell’esperienza e ad acquisire in questo modo quel bagaglio di abitudini astratte, di
disposizioni mentali ed emotive durevoli, tra cui la disponibilità e l’attitudine ad apprendere
sempre. Un bagaglio che potremmo definire, sulle orme di Bateson (1972),
deuteroapprendimento, quindi un apprendimento di ordine logico superiore, distinto dal
protoapprendimento, che è invece riferito all’apprendimento di conoscenze e abilità (Zaggia,
2008); un bagaglio che consenta di coniugare lo specifico e il generale, il soggettivo e il
sociale, l’esperienza e i sistemi interpretativi della stessa; un bagaglio che sia un’armatura
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La trattazione più sistematica ed esauriente della competenza di apprendere ad apprendere come competenza
strategica la troviamo in Alberici (2008).
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fatta di pensiero critico, divergente, creativo, e culturalmente solido, attraverso cui misurarsi
con le sfide della società della conoscenza.
5.3 Adulti, competenze e Lifelong learning.
Oggi, per la valorizzazione delle risorse umane, la capacità di apprendere lungo il corso
della vita rappresenta un bene primario dei singoli e della società. Rappresenta, altresì, la leva
ordinaria che muove tanto la formazione degli adulti quanto lo sviluppo delle risorse umane e,
più in generale, del cittadino inteso nella pienezza delle sue funzioni e dei suoi diritti. Senza
questa leva è molto difficile cogliere le pur molteplici opportunità formative che si offrono
agli adulti
Nell’esperienza di vita degli individui, donne e uomini adulti, le occasioni e le situazioni
che si presentano come opportunità formative sono molto più ampie di quelle specificamente
a ciò finalizzate. Possono, infatti, presentarsi in sedi, luoghi e forme non prioritariamente
preposti all’apprendimento, dando luogo a quella che Alberici (2002) chiama “la storia
personale della formazione”: un percorso che si sviluppa lungo la vita degli individui,
attraverso, incontri, esperienze di lavoro e di relazione, partecipazione politica, sociale o,
semplicemente, a gruppi di interesse, etc. In altre parole, si tratta di ciò che si definisce
"l'
educazione in età adulta", volendo evidenziare la costante potenzialità di apprendimento
propria della condizione adulta e, nel contempo, l’insieme delle circostanze che inducono gli
adulti a rivedere il proprio ruolo, i propri compiti, in relazione a se stessi, al lavoro e agli altri,
anche indipendentemente dall'
intenzionalità di definire luoghi e/o occasioni specifiche di
formazione (Alberici, 2002). Tutto ciò, però, non accade automaticamente. Bensì, accade a
condizione che gli adulti posseggano la capacità di riconoscere come opportunità formative
per sé sia quelle che si presentano direttamente ed esplicitamente come tali, sia quelle che si
presentano sotto altre forme nel segno della complessità.
Il rapporto tra adulti e formazione è un rapporto complesso per definizione. Infatti, esso
assume diverse possibilità d'
espressione quali quelle che passano attraverso: a) le attività e le
esperienze formative intenzionali; b) le attività e le esperienze formative implicite, non
intenzionali; c) le esperienze di vita, intimamente legate alla costruzione di un progetto di vita
individuale.
Ne consegue una molteplicità e diversità tanto delle motivazioni quanto delle aspettative
che l'
adulto presenta. Da qui la necessità di individuare una diversità di metodi e tecniche
d'
insegnamento/apprendimento messe in atto al fine di rendere esplicita l'
intenzionalità, il
protagonismo, individuale e consapevole, finalizzato all'
apprendimento, a condizione - lo
vogliamo ribadire - che si possegga una buona capacità di apprendere ad apprendere, come si
è detto più volte dianzi.
Di qui, la necessità di prestare un’attenzione del tutto inedita all’esperienza di vita degli
individui. Quindi, alle loro biografie, nelle quali si realizzano i vissuti e si manifestano le
possibilità non vissute e i potenziali di sviluppo, anche formativi. Da questo punto di vista la
centratura sul ruolo del soggetto diviene un assunto imprescindibile, dal momento che tutto
allude, richiama e converge verso un modello di apprendimento inteso come ‘costruzione
condivisa del sapere’, secondo una chiave interpretativa che richiama l’approccio
costruttivista alla formazione (Rodriguez Moreno, 2006 e Lasnier, 2000). Esso presuppone e
comporta, in modo esplicito, la mobilitazione delle risorse interne, cioè soggettive, degli
individui e non la semplice assimilazione delle conoscenze dei contesti. Risorse soggettive
che interagiscono in modo dialettico con il contesto, interpretandolo, modificandolo (in
qualche modo, “costruendolo”) e venendone modificati . Come ormai hanno ampiamente
dimostrato le stesse teorie relative all’apprendimento degli adulti che pongono la dimensione
della soggettività e della biograficità quale fonte e condizione perché il processo
dell’apprendere si possa attivare. Ciò comporta una messa in discussione dei modelli
funzionalisti della formazione che riconducono il valore dell’agire umano essenzialmente ai
criteri di efficacia ed efficienza e, in particolare, di un cognitivismo spesso proposto in modo
riduttivo e deterministico, non in grado di cogliere né la complessità dei processi formativi, né
il nocciolo dei processi di sviluppo delle competenze.
Questo terreno di riflessione rimanda al concetto fin qui più volte richiamato di
‘costruzione soggettiva del significato’ (si veda la base teorica d’impianto fenomenologico
richiamata precedentemente nel punto 4) poiché nell’agire formativo si muovono e prendono
corpo i mondi possibili delle persone collocate in uno spazio e in un tempo, che riguardano le
dimensioni legate al vissuto esperienziale, alla capacità, appunto, di attribuzione di
significato, agli stili cognitivi, alle rappresentazioni mentali, agli stati emotivi, alla spinta
motivazionale, alle dinamiche comunicative, all’agire pratico.
5.3.1. Le competenze strategiche e il lifelong Learning.
In questo quadro e all’interno delle coordinate generali entro cui si muovono questi
processi di modernizzazione radicale, come li chiama Giddens (1990), si collocano e si
precisano la natura ed il ruolo del lifelong learning (apprendimento lungo il corso della vita).
Qui, il concetto tradizionale di educazione permanente cambia di segno secondo un'
ottica che
sposta l'
attenzione dalla prevalente dimensione istituzionale del percorso scolastico al
soggetto e ai suoi bisogni di formazione. È così che il lifelong learning si caratterizza come
principio ispiratore tanto dell'
offerta quanto della domanda in qualsiasi contesto di
apprendimento.
Se ragioniamo in termini di risultati e di effetti, possiamo dire che il lifelong learning può
considerarsi come l’aspetto costitutivo dell'
educazione permanente e dell'
educazione degli
adulti. Soprattutto quando si caratterizza come un processo concepito e finalizzato ad uno
specifico risultato (conoscenze, saperi, abilità, competenze, ruoli, comportamenti) e quando
ha come effetto un cambiamento dotato di stabilità o di quella che è stata chiamata
“reversibilità voluta” (cambiamento della situazione di partenza). Cambiamento ottenuto
attraverso processi tesi a modificare o a sostituire apprendimenti non più adeguati o
comunque limitativi rispetto a nuove potenzialità o a nuovi bisogni formativi (di ruolo,
professionali, di crescita individuale). Ciò nelle diverse età della vita e nei diversi contesti sia
formali che informali.
Così definito il concetto di lifelong learning diviene:
un riferimento strategico per le politiche attive dell'
istruzione e della
formazione, al fine di garantire un accesso universale ai processi formativi di
acquisizione delle competenze alfabetiche funzionali e lo sviluppo dei livelli
culturali delle popolazioni;
una strategia per la realizzazione delle condizioni di fattibilità della crescita e
dello sviluppo degli individui, sulla base delle loro potenzialità di
apprendimento durante tutto il corso della vita (nel lavoro e fuori del lavoro);
un criterio guida per la coerenza e la continuità delle politiche educative e
formative (nella formazione iniziale, nella formazione continua dei lavoratori
e, più in generale nell’educazione permanente);
una strategia per le politiche connesse ai diritti di cittadinanza e allo sviluppo
delle life skills, ovvero delle competenze per la vita.
Una tale concezione evidenzia, da un lato, il valore attribuito al soggetto e alla sua
esperienza e, dall'
altro, l'
esigenza di promuovere l'
acquisizione e lo sviluppo delle competenze
strategiche necessarie alle persone affinché esse siano in grado di poter apprendere nelle
diverse età della loro vita. Nella società attuale, infatti, le competenze strategiche per essere
individui lifelong learner rappresentano una risorsa necessaria a tutti, un'
emergenza per i
molti (troppi) adulti che non le posseggono e una risorsa per le politiche di sviluppo umano e
per la stessa crescita economico-sociale.
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