vulcano - TERRE di MEZZO

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vulcano - TERRE di MEZZO
autocostruito, è la sua lava ad aver formato le impalcature
che sorreggono la sua pelle rugosa di pietra nera. L’Erta
Ale, vulcano hawaiano in Africa, è un vulcano “a scudo”:
si è innalzato con l’accumulo delle colate fuoriuscite del
suo ventre. Ecco perché è un vulcano gentile con chi vuole
raggiungerne la sommità. Noi, con passi prudenti, stiamo
salendo su pendii leggeri e continui.
Quando ne avremo raggiunto la vetta (il cielo sta già
riflettendo i bagliori rossi della lava) ci troveremo di
fronte una caldera ellittica. Mille e seicento metri di circonferenza. Le sue sponde, nel punto più largo, sono distanti almeno settecento metri. Due pozzi fanno sprofondare la crosta lavica. Il più celebre, il cratere Sud, è un
cerchio perfetto, centoquaranta metri di diametro: qui, a
ottanta metri di profondità (ma il suo livello cambia di
continuo) mugghia un lago di lava perenne (almeno da
quanto se ne conosce l’esistenza, cioè da poco più di cento
anni). Straordinario: solo altri tre vulcani al mondo hanno
simili onde di fuoco in continua agitazione.
Il vulcano gioca a nascondino
Il cammino ha trovato un suo ritmo. Qualche sosta. Per
riprendere fiato. Per bere. Per mettere d’accordo i nostri
passi diversi. La luna è un trionfo. Luna compagna. Bisogna essere qui nei giorni di luna piena. I cammelli sono
scomparsi. Ma sono davanti a noi. Sarebbe davvero cosa
saggia non lasciarseli sfuggire.
Sono già le undici, camminiamo da tre ore. Tre coni in
fila, microvulcani allineati, appaiono alla nostra sinistra:
sembrano i custodi dell’ultimo cancello, quello che segna
i confini del parco privato del vulcano. Li guardiamo con
sguardi intimoriti. Chi ben li conosce, sa che sono facili
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all’ira se commetti una malefatta. Ma per fortuna rimangono immobili al nostro passaggio.
In una radura, fra ciottoli e scorie di lava, i cammellieri
hanno deciso di fermarsi. Vogliono cucinare il pane, riposarsi, sfamare gli animali, forse passare lì la notte. Noi,
invece, impazienti come turisti, vogliamo proseguire. Tessema non alza la voce, ma è determinato. Sulla gobba di
quei cammelli ci sono i nostri bagagli, i sacchi a pelo, il
cibo, le coperte: non possono fermarsi, devono venire con
noi. Discussione a parole secche. Alla fine un cammelliere, riottoso e di malavoglia, si convince a caricare nuovamente il suo animale e a salire con noi fino alla vetta.
Ecco, il tempo è passato. Quattro ore di cammino. Ora il
fuoco è davvero vicino. Nessuno parla più. Gli ultimi metri sono di fatica e di silenzio. Il cielo è di un blu intenso,
reso elettrico dalla luna. Con ritmi da orchestra sinfonica,
si illumina di rosso. Nessun rumore. Nessuna esplosione.
L’Erta Ale gioca ancora a nascondino: si mostra, invita a
raggiungerlo, ma poi è come se si allontanasse. I suoi fuochi di artificio sono senza lampi e senza botti, colpi di un
pennello immerso in una tinta di colore rosso acceso. Il
silenzio è assoluto. Si sentono i nostri passi sulla lava che
scricchiola.
È un andare cauto. Il fiato è appesantito. Si aprono
crepe nel terreno, la crosta si rompe sotto il nostro peso.
Siamo impazienti e intimoriti. L’ultima salita si addolcisce
all’improvviso. Ecco il balcone, ecco il belvedere, ecco la
caldera. È un dono grandioso. Del paradiso, non dell’inferno. Ecco il fuoco: un cerchio rosso, il colore delle
fiamme, la perfezione di un’ipnosi. La luna sembra rispecchiarsi nel pozzo del cratere. Gioca con i fumi e con il
riflesso del fuoco. La bellezza non ha parole. Rosso e nero:
siamo arrivati in cima. Nessuno sa più cosa dire. Non so
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più cosa scrivere. C’è vento. Sembra un ruggito sommesso,
il sudore si gela sotto le maglie. Siamo paralizzati.
Quando arrivammo quassù la prima volta, i pensieri
scomparvero. Non ci fermammo in pace, proseguimmo
subito: quando ti trovi a tu per tu con l’Erta Ale, non riesci
a resistere alla tentazione di calarti nel cuore del vulcano.
Dader Eto, sfolgorante Dio del fuoco, ben lo sapeva, non
ci chiese nulla e cominciò a scendere lungo lo strapiombo
della caldera. Noi eravamo diventati automi. Lo seguimmo
senza una sola esitazione. Senza chiedere. Senza paura.
Scoprimmo allora che la paura era perfetta e quindi riuscimmo ad affrontarla. Io non vedevo dove mettevo i
piedi. La mano di Daniela mi rassicurò nel vuoto. Dader
Eto era già scomparso dalla nostra vista. Sentivo il freddo
incunearsi nel collo. Ma stavamo scendendo nel vulcano.
Nella sua caldera. Un balzo nel nero assoluto. I nostri
piedi sulla lava, sulle onde di pietra delle ultime ribellioni
dell’Erta Ale. So che pensammo: “Grazie. Grazie per essere qui. Grazie per la meraviglia”. Non so a chi fosse rivolto questo ringraziamento. Ad Allah, al dio dei vulcani,
alle divinità della Dancalia, ai cavalli leggendari che proteggono l’Erta Ale con la loro criniera di fiamme. “No, non
c’è nessuna storia attorno al vulcano”, mi disse sbrigativamente Dader. Ma io non ti credo... Qui c’è il respiro della
terra. L’Erta Ale è un luogo fisico immenso. La sua violenza è talmente inimmaginabile da essere una poesia che
non può essere intesa. Era così il canto delle sirene. Nessun numero, nessun dato scientifico può rendere giustizia
alla sua bellezza. Si rimane lì, per ore, sui bordi del cratere, a guardare le onde del magma scontrarsi una con
l’altra, ad ascoltare il ruggito dai toni bassi della risacca di
lava, ad aspettare la frattura improvvisa che spezza la superficie del lago, ad ammirare le fontane di fuoco che cercano di ribellarsi alla prigionia del pozzo. Eccoci, seduti
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in un luogo dai mille pericoli, ombre contro il fuoco. Illusi
di aver fatto un patto con l’Erta Ale. E certi che l’inferno
sia il luogo più accogliente della terra. Convinti, ancor
oggi, a migliaia di chilometri di distanza, che, davvero,
quel cratere sia il paradiso. Terra di Dio, la Dancalia.
Ora, seconda volta sul vulcano, abbiamo appreso la lezione
della saggezza. Teniamo a bada la fretta, ci affacciamo sulla
caldera, ma non scendiamo. La luna illumina un paesaggio
irraccontabile. Ammiriamo, con il cuore in tumulto, il cielo
che si arrossa a ogni esplosione della lava. Dormiremo in
compagnia di questo straordinario concerto. Stendiamo le
stuoie sul suolo nero. A due metri dal balzo della caldera.
Voglio vedere la luce del vulcano prima di chiudere gli occhi. Cerchiamo il sonno mentre si alza il vento. Dader ha
ancora un impegno, si allontana di pochi passi, stende un
piccolo tappeto fra i ciottoli di lava. È un’ombra contro i
riflessi di fuoco dell’Erta Ale. Si passa gocce d’acqua sul
viso, sugli avambracci, sui piedi. Apre il palmo delle mani,
si china, si inginocchia, prostra la testa verso un oriente
lontanissimo. Prega rivolto verso l’infinito. Come vorrei
unirmi alla tua preghiera, altezzoso Dader. Come vorrei poter dire, come farebbe un afar, sia benedetta questa terra.
Un giorno e un’altra notte
All’alba scendiamo verso il cuore di fuoco. Una nebbia
leggera ci avvolge. Muovo i miei passi con cautela. Attento al vento, alle folate dei vapori di zolfo. Avanziamo
verso il cratere meridionale. Lo aggiriamo, ne costeggiamo
i bordi. Con qualche esitazione, cerchiamo un precario
belvedere. I nostri sguardi sono ipnotizzati dal lago di lava
che schiuma come acqua ribelle. I colori conoscono im86