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INDICE
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La consulenza scientifica per le opere
delle Edizioni Ma.Gi. è a cura del
Dott. Federico Bianchi di Castelbianco
Direttore dell’Istituto di Ortofonologia – Roma
Alida Cresti
Mitografie di luce e il colore degli angeli
Simboli e figure della sacralità luminosa
Edizione elettronica: aprile 2006
Via Bergamo, 7 – 00198 Roma
tel. 06/8542256 fax 06/8542072
[email protected]
www.magiedizioni.com
Copertina (progettazione e realizzazione grafica): Flora Dicarlo
L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile
comunicare.
È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia non autorizzata.
ISBN: 88-7487-190-2
Alida Cresti
Mitografie di luce
e
il colore degli angeli
Simboli e figure della sacralità luminosa
4
Indice
Introduzione
13
Parte Prima
MITOGRAFIE DI LUCE
19
Capitolo I
LUCE E COLORE TRA SCIENZA E MITO
L’arcobaleno grigio – Teorie della visione tra occhio e cervello – Le
mappe dell’occhio e il simbolismo mistico della mandorla – I sistemi visivi – Dante e la teoria della visione del Convivio. L’occhio
«finestra» dell’anima – La scoperta della retina e la mistica del cervello – Natura fisica e psichica della percezione visiva. Il diafano
– Lux e Lumen: una metafisica della luce – La luce ha colore?
Goethe e Newton, Schopenhauer
Capitolo II
I COLORI DELLA LUCE
Luce e colore. Cromatismi marini e le meraviglie degli abissi –
Fenomenicità del colore. Il mistero viola e l’evocazione dell’ultravioletto – Simbologie luminose e cromatiche: il sette – La ruota e il «settimo raggio», centro e asse del Mondo – La luce incolore e il centro del mondo – Il Bardo Todöl. Vocazione simbolizzante del colore – La Via Lattea e i miti dell’Arcobaleno – Bianco e nero: forme simboliche del Centro e simbologie oppositive – I colori delle divinità uraniche – Oro colore e oro luce
Capitolo III
MITOLOGIE LUMINOSE
Miti e simboli del sole. Mithra, Iperione, Helios – Il fuoco e le feste
del solstizio. Miti di fertilità – Simboli solari: ruote, losanghe, palla – Culti della mitologia solare. L’occhio solare e l’onniscienza divina – Polioftalmia e potere fecondante. Il «sole nero» – Ambivalenza
del fuoco e del sole – Il sole divorante e gli incubi del Mezzogiorno
– Il drago dell’annientamento – I colori del sole: rosso e oro – Il sole freddo – Le mele d’argento della luna – Miti e simboli della luna
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37
57
5
– L’argento e l’uovo lunare – Simboli del tempo e misura dei ritmi
biologici – Mito triforme del femminile: Demetra, Kore, Ecate – La
~s: la luna e il senno di
luna nuova e i fantasmi – Psyché e nou
Astolfo – La Terrifica: la luna rossa e la luna verde – La simbolica
blu della mistica luce lunare
Capitolo IV
LA DINAMICA DELLA LUCE
Il carro di Helios. La simbolica ascensionale – Il raggio e la freccia,
lo scettro e la spada – L’eroismo della luce: la Chanson de Roland
– La chioma fulva dell’eroe e i cavalli solari – La «bianchezza» solare – Brillanza come attributo solare – Il bianco-oro e la saggezza –
Simboli teriomorfi – La navicella volante e il mito del caldaio del sole – Il viaggio del Sole e il nostos dell’eroe – Le Figlie del Sole, le maghe Circe, Medea – La luce e le ali. Gli uccelli e i colori del volo: la
fenice, l’allodola, l’usignolo – Alternativa volo-colore e il pavone, uccello di terra
Parte seconda
IL COLORE DEGLI ANGELI
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109
Capitolo V
EPIFANIE DI LUCE: L’ANGELO «UCCEL DIVINO»
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Il volo azzurro e l’ala – Bianco e azzurro: i colori del cielo e dello
spirito – Lo zaffiro e il trono divino – Il Dio-Luce – L’azzurro e i
simboli uranici – Isomorfismo ali-purezza. Uccelli e angeli – L’«uccel divino» di Dante e l’Angelo Liberté di V. Hugo – Uccelli-anima
e la castità del bianco – Teriomofismo angelico e le costellazioni.
Astri-angeli – Il «solare» Michele Arcangelo – L’aureola azzurra e
oro – Stelle e simboli luminosi – La polioftalmia angelica, i Cherubini – La cometa e il disastro – L’angelo psicopompo – L’angelo
«bianco». Le due ali dell’Arcangelo Gabriele. L’Angelo della Luce e
l’Angelo della Morte – Et nox facta est: il volo nero – I simboli della caduta e della castrazione – L’arcangelo caduto – La luce nera
Capitolo VI
ICONOGRAFIE ANGELICHE
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Icone angeliche – Angelo-specchio e Angelo-scala – L’arcobaleno e
l’Angelo. L’Angelo prisma di Dio – I sette colori dell’arcobaleno e i
sette Arcangeli – Gli Angeli del Trono e le quattro luci – Arcobaleni
alati: policromia angelica – Il viaggiatore meraviglioso di Well, e
l’angelo-icona di Leskov – L’Angelo e la bellezza – L’Angelo e l’arte
– L’Arcangelo Gabriele «pavone degli angeli». I colori sacri della
Bibbia – La rifrazione angelica: Michele, l’angelo guerriero biancooro, Gabriele, l’ermeneuta, l’«arcangelo imporporato» e le competenze mitiche di Apollo e Dioniso – Raffaele «il viaggiatore» –
L’angelo «rosso» triste di Nerval – Il rosso dell’eros divino: i Sera-
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fini, la Sofia – L’angelo rosso di Proust – L’azzurro angelico: i Cherubini – L’alone azzurro della Sophia – Il manto stellato di Maria
– Rosso-bianco-blu e la simbolica della Trinità (Piero della
Francesca) – La Verità dell’Amore e il color giacinto – L’Angelo di
Kafka – Il porpora e le virtù. Il viola colore degli arcangeli, della distanza e dell’adorazione – L’angelo «verdeggiante» di Dante –
Lumen opacatum – Luce-colore, spirito e materia – Il colore del
male e dell’ombra – Il nero-blu infernale – Diavoli rossi, neri, blu
– Il verde «maligno»: gli occhi di Satana – L’Angelo verde di Meyrink
– La Bestia scarlatta dell’Apocalisse – Il colore-seduzione
Capitolo VII
IL PAESE DEGLI ANGELI: GIARDINI-PARADISI
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Il Paradiso perduto e la nostalgia – Giardino-paradiso: hortus conclusus, locus deliciarum – Il giardino dell’Eden, insula mundi
nell’Oriente immaginario – Il Paradise Lost di Milton – Il Paradiso
coranico e quello cristiano – Floralia – Fiori e frutti dell’Eden – La
Rosa e il Giglio del Cantico dei Cantici – L’amaranto – Il giardino
verde e quello ingemmato – Bestiari prodigiosi e altre mirabilia –
Gli abitanti del Paradiso: la fenice, il grifone, la simurg e l’uccello del paradiso – Il cervo, l’unicorno – I due alberi dell’Eden:
l’Albero della Vita e l’Albero del Bene e del Male – Il serpente –
Pomaria – Il frutto proibito: il fico e il pomo «d’oro» – Il giallo, colore della trasgressione – Polisemia del serpente – Il serpente arcobaleno – Il serpente di fuoco e il Serafino – Mistica lapidaria –
Le pietre preziose dell’Eden – Le fondamenta della nuova
Gerusalemme e il pettorale del sacerdote – La mistica delle pietre
preziose – Le gemme astri della terra – Angeli e pietre preziose –
Le virtù delle pietre: smeraldo, rubino, ametista, giacinto – Le
porte di perla di Gerusalemme – I gioielli degli angeli: la perla, il
corallo – Dal giardino dell’Eden alla Gerusalemme Celeste – La
pittura di luce: la Cattedrale e le sue vetrate
Capitolo VIII
IL RITORNO DELL’ANGELO
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L’imago mundi dell’angelologia e il mundus imaginalis – L’enigma
dell’Angelo – L’Angelo tremendo – L’Angelo-specchio – Angelo-colore e Angelo musicante – Il silenzio paradisiaco e quello infernale
– Angelo linguaggio divino – La lotta con l’Angelo e l’Angelo nunziante – L’Angelus Novus: l’Angelo della Storia – Angelo e diavolo: le
due facce del divino? – L’Angelo custode – L’Angelo, il cielo e la terra: gli angeli-animali di Licini, gli angeli-volatili di Tabucchi e quello lampada di Maldoror – L’Angelo ambiguo della modernità: l’Angelo-narciso, l’Angelo-melanconico, l’Angelo-surrealista, l’Angelo
caduto – Le metamorfosi tecnologiche dell’angelo: R. Barthes e
L’Angelo-sterminatore (dello sporco) – Michel Serres e l’angelo «archetipo» informatico mediale – Gli angeli di Rafael Alberti – Il ritorno dell’Angelo
7
Appendice
ANGELI FUTURI
251
Parte terza
IMMAGINI
257
Note
323
Bibliografia
365
8
INTRODUZIONE
A mia madre, a mio padre.
9
INTRODUZIONE
10
Ci sono i colori della luce e i colori dell’ombra,
gli uni chiamano gli altri come i vivi chiamano
i fantasmi…
M. BRUSATIN
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Introduzione
Per aver smarrito tutta la poesia dell’universo,
dobbiamo proprio aver accumulato dei crimini
che ci hanno resi maledetti.
S. WEIL
Ed è alla riscoperta della «poesia dell’universo» che si muove questo
mio lavoro attraverso la ricerca dei percorsi e delle migrazioni dei simboli propri alle teofanie luminose: dagli antichi miti solari e lunari,
agli angeli, teofaniche «figure di luce» proprie alle tre religioni «del libro» (ossia le tre religioni monoteiste: ebrea, cristiana e musulmana),
le quali tuttavia preesistevano ancora in mitologie e cosmologie uraniche le quali individuavano la necessità degli «esseri intermedi»,
messaggeri (angeloi) tra cielo e terra, tra divino e umano, tra spirito
e materia, tra psyché (anima, spirito) e corpo, tra mondo della Luce
(anche intesa come Bene) e quello delle Tenebre (anche Male).
L’enigma divino dell’eterna lotta tra luce/ombra affliggeva già i
nostri antichissimi progenitori, che, nell’apparire e disparire ogni
giorno del Sole, vedevano il mistero massimo della vita e della morte. Perciò il percorso dell’astro della luce e della fecondità – soprattutto nei due momenti «critici» del solstizio di estate (21 giugno) e
d’inverno (21 dicembre) –, era accompagnato da riti e feste volti a
facilitarne e garantirne la permanenza nel cielo, che venivano a mano a mano a creare una costellazione di simboli che ruotano intorno ai concetti di luce-ombra, chiaro-scuro, vita-morte, ascesa-discesa, bene-male, cielo-inferi. Da allora, questa simbologia dualistica è parte strutturante dell’esperienza del mondo e di quella religiosa, che poi, sia pure con modifiche e aggiustamenti epocali, è
stata ereditata dalle successive culture. Per esempio la festa romana del Sol invictus, che derivava da antichissimi miti e riti solari –
certamente la più gioiosa e popolare, della durata di sette giorni (dal
17 al 24 dicembre) – fu dapprima ripresa dal mithraismo, che individuava appunto nella nascita di Mithra la rappresentazione simbolica della trionfante luce solare, e poi fu assimilata dal Cristianesimo, che il 25 dicembre celebrò da allora il Natale di Gesù, anch’Egli
Sol invictus dell’anima del mondo.
Così, nella caverna del tempo le immagini di luce sfilano inin-
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terrottamente in un sincretismo immaginale che si riparte nei vari
significati legati ai concetti di incorporeità, leggerezza, purezza,
ascensione, di sacralità e di trascendenza, e quindi di «salvazione»,
insiti nella luce, in contrapposizione con quelli di «caduta», pesantezza, impurità e quindi di perdizione delle tenebre. Bipolarismo luce-tenebra, bianco-nero, derivato da una visione essenzialmente
dualistica dell’essere che si riconosce strutturato ambivalentemente in bene e in male e si riverbera poi nelle categorie del sacro,
e che, ambiguamente, si sottende ancora oggi nella bipolarità angeli-demoni che sembra supporre una sorta di dualismo religioso,
più o meno mitigato, e che tanto ha fatto discutere teologi, antropologi, psicologi, ma che da questi ultimi è stato piuttosto riconosciuto come l’espressione di quel sostanziale «dualismo» dell’essere umano che si proietta poi nella sua concezione del divino.
Certamente, la sfera del sacro si estende dalla storia arcaica delle mitologie e delle religioni, non esclusa quella cristiana, secondo
nuove configurazioni simboliche che, anche dove prevalga il carattere aniconico della divinità (come nel mondo ebraico e arabo), tuttavia trovano negli angeli, epifanie luminose, e nei demoni, epifanie
di tenebra, un sostanziale sincretismo immaginale. Il mondo angelico, infatti, provenendo dal regime della luce, ingrappola in sé simboli e miti legati alla trascendenza, secondo un dinamismo ascensionale che conduce a una progressiva rarefazione della percezione
del mondo nel dissolversi delle forme e del colore nella luce, e che,
psicologicamente, si traduce nel movimento che va dalla sublimazione, cui soprattutto tende l’artista nel suo distillare (sublimare appunto!) in forme perfette l’informe materia che appartiene al caotico mondo dell’inconscio, alla tensione del mistico verso l’annullamento del Sé in un sentimento oceanico di «appartenenza» cosmica,
fino ad arrivare talvolta all’estrema dissoluzione del Sé, come nella
psicosi, dove la luce abbacinante che invade la psiche annienta le
forme e la percezione stessa del proprio mondo interno oltre che di
quello esterno.
Inversamente il colore («ispessimento della luce» secondo antiche
concezioni), indica la discesa verso le stazioni dell’essere. Se la luce,
nel suo acromatico splendore, esprime l’allontanamento, il distanziarsi dalla greve materialità della terra, ed è perciò attributo proprio
della divinità uranica, sia nella pura spiritualizzazione contemplativa che nella dinamica ascensionale – che l’«astrazione» dell’ala esprime iconicamente – il colore segna invece l’avvicinamento, la ri-discesa verso l’umano, della cui variabile gamma affettiva si fa espressione e metafora, così che l’arcobaleno si manifesta appunto «ponte» di
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unione, mediatore tra il mondo sublimato e idealizzato «di lassù» e
quello, «colorato» e materico, degli affetti di «quaggiù».
Se gli Angeli sono, per la mistica, espressione di un fondamentale sincretismo religioso, nel versante psicologico e psicoanalitico,
essi si rivelano significanti poetici di quel conato, tutto umano, di
trascendere la piatta necessità del reale per ritrovare nel sogno e
nella fantasia la perduta onnipotenza; essi esprimono la riappropriazione e riunificazione in sé di ogni opposizione: psiche e corpo,
ragione e affettività, come anche quella dei sessi che trova espressione nell’androginia angelica.
Mistero sempre affascinante, tuttavia, quello della luce e del colore, che sembrano ostinatamente evadere dalle griglie ordinatrici
della scienza. Fisicamente essi sarebbero delle pure astrazioni; occorre vi sia un apparato visivo che «registri» gli impulsi, e un cervello che li «decodifichi», perché determinate onde siano percepite
come «luce» o «colore». Da questa attiva partecipazione percettiva ed
emotiva deriva la loro carica affettiva attorno alla quale si strutturano i miti. Così anche, occorre un «apparato spirituale», una capacità immaginativa volta verso altre dimensioni ineffabili dell’essere, perché l’Angelo, «ape dell’invisibile», si manifesti e ci lasci suggere il suo «miele» di limpida poesia.
Infatti, come l’arcobaleno, nel dispiegare la luce nei colori, «rivela» l’invisibile e si pone a mediazione tra alto e basso, tra la sfera
dell’immateriale e la Physis («Natura creata»), altrettanto l’Angelo,
epifania dell’invisibile, prismatico frazionarsi del Sacro, è «creatura
del limite» tra il divino («purissima luce che nel suo nucleo invisibile pure in sé contiene il tutto in potenza») e l’umano (il «carnale» colore della passione), si pone a ponte tra l’invisibile e il «reale», tra
conscio e inconscio. Egli, pur davvero
il solo che possa guardare fissamente il sole e la morte
J.M. MAULPOIX
è «misura» che segnala la dismisura, giacché la natura riceve il limite imposto dal principio limitante, e
Il limite è il segno del dominio dell’infinito sull’indefinito.
S. WEIL
L’Angelo, pura essenza immateriale che si «veste» nella sua visibilità di forme e colori, non è tuttavia fuga da (dal mondo sensibile)
bensì fuga per (per una sovra-sensibilità). Nel suo iconico «limbo er-
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mafrodita» (M. Cacciari) – completo stato dell’essere che in sé riunisce e armonizza ogni contrario –, l’Angelo, figura dell’eternità, è tuttavia la forza dell’istante caduco; egli, nel suo ascendere verso un
futuro, non si arresta mai né mai indietreggia. Appartiene al mutamento. Arriva quando c’è una crisi o un cambiamento: una faglia
improvvisa che si apre nell’identità del singolo o del gruppo (vi sono anche gli Angeli delle Nazioni) lasciando spazio all’imprevisto
pronto a generare nuove forme. Per questo, forse, l’Angelo iniziatore-ermeneuta è sempre in un certo modo «agonista»?
Certo, è l’inviato che dà consistenza e rivela le forme della luce,
che in noi s’avanza o si spegne (giacché il rinnovarsi di essa nella coscienza umana è combattimento), e ci spinge alla lotta nella ricomposizione dei vari stati dell’essere, nell’eterno dialogare tra Eros e
Thanatos.
E poiché l’armonia procede dai contrari, in questo nostro viaggio
nei vari «gironi» della luce, ci imbatteremo anche in improvvisi golfi d’ombra, e l’imagerie angelica ci rivelerà la duplice polarità del sacro: angelica-contemplativa, appunto, ma anche demonico-magica,
giacché è proprio del simbolico cogliere d’un colpo cose differenti, e,
se il Sole e la Luna «sono un solo e medesimo Dio», come aspetti diversi di una medesima realtà
a sera il sole si trasforma nella luna. Una sola e medesima luce,
dapprima unita dall’energia, ma in seguito anche al potere di inaridire, un potere cattivo,
S. WEIL
anche luce e tenebra lo sono, e così all’Angelo, metafora di luce, nodo significante di simboli luminosi e ascensionali, la cui ala è icona d’identità, si accosta l’Angelo-sedotto, «de-caduto» e risucchiato
nell’opacità oscurata di una passione troppo umana.
Se la luce è castità, e implica l’elevazione come distacco, allontanamento, il colore è invece sensualità, «avvicinamento» e contaminazione. Ma, davvero, l’anima è fatta di materia pesante esposta alla forza gravitazionale delle passioni. E così gli Angeli, mediatori cromatici, attraversando lo spettro dei colori, se ne «sporcano»: entrano nella vulnerabilità delle cose viventi, si «desublimizzano», ma non
per questo perdono la loro essenza, che è quella della poesia.
Di più, i colori della luce, sul corpo dell’Angelo, fanno diventare
pittura la poesia.
E la poesia giustifica l’Angelo, il suo permanere anche nell’universo laico al di là della sua dimensione mistica (e mitica), proprio
per questa sua vocazione di «ermeneuta» di un Logos superiore e
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misterico qual è anche quello dell’arte, interprete e psicagogo insieme di un «oltre» e un’«ultra-realtà» cui tendere per recuperare dimensioni meno banali e creative della personalità, non segnate pesantemente dalla perdita progressiva di comprensione del linguaggio del simbolico al cui oblio potremmo, frommianamente, attribuire l’insorgere in noi di una «patologia della normalità» che consiste nella perdita dell’immaginazione creatrice.
L’Angelo si rivela dunque anche figura del desiderio, provoca la
passione, incita alla metamorfosi interiore. Avversario della «stasi»,
riunifica nel Sé ogni contrapposizione, si oppone a ogni «dia-bolica»
scissione.
Così come l’occhio (sia quello fisico che quello interiore) si riconosce solare e s’affisa alla luce in un sogno di trascendenza che si
traduce in pulsione di volo come mistica filiazione, così l’Angelo, instancabile viaggiatore delle algide diffrazioni dello spirito, pure ci
appartiene, lo abbiamo «se-dotto» e generosamente ancora ci rimanda, come su un’argentea faglia di specchio molto lusinghiero,
l’immagine idealizzata cui vorremmo davvero somigliare. Perché, invero, è insopprimibile in noi un bisogno di cielo, e
[…] tutti noi attendiamo
l’avvento della luce
che ci unifica e ci assolve.
M. LUZI
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INTRODUZIONE
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INTRODUZIONE
Parte prima
MITOGRAFIE DI LUCE
la gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende […].
DANTE ALIGHIERI
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Capitolo I
LUCE E COLORE TRA SCIENZA E MITO
Salve a te, Luce sacra, primogenita figlia del Cielo,
o raggio coeterno dell’Eterno […] 1.
J. MILTON
[…] simile al caos, il mondo invisibile voleva generare tutte le cose in una sola volta, una figura germogliava dall’altra. […] Poi vidi un vasto mare vuoto, su cui galleggiava soltanto il piccolo uovo
grigio e macchiettato del mondo, sballottato dai marosi […] piovve quindi nei flutti una nevicata di stelle luminose, il cielo si svuotò, ma nella zona del mezzogiorno si accese un’aurora: sotto di essa il mare s’incavò, e all’orizzonte crebbe su sé stesso in mostruose, plumbee convessità serpentine, chiudendo la volta celeste con
un’altra volta. […] Ma una tempesta si abbatté sulla nebbia e la
schiacciò, trasformandola in un mare. Saliva e discendeva violenta e squassava le onde, e altissima nel quieto azzurro un’ape d’oro, con un canto sommesso, volava lentamente verso una piccola
stella e ne succhiava i fiori bianchi […] finché riapparvero nuvole
mostruose, a forma di animali feroci, e divorarono il cielo2.
J. PAUL
Riecheggia, in questa gestazione apocalittica del mondo sognata (o
meglio «incubata») dal romantico visionario Jean Paul – e che sembra piuttosto obbedire alla logica funerea e spiraliforme dell’entropia che al presagio ardente di un’alba di vita – un’altra «icona», figurale questa e antica, sempre dettata da una fluidità onirica e labirintica. Infatti, a chiusura del suo inquietante Trittico del Giardino
delle delizie, catalogo di perversità e anamorfismi immaginali, Hieronymus Bosch sovrappose due ante, di enigmatica lettura. Una
sospesa sfera di cristallo, quale storta alchemica, contiene il feto del
mondo, ammasso di forme vegetali e minerali ancora primordiali,
emergenti su di una sorta di piattaforma popolata di mostri e galleggiante sull’acqua. La luce è separata dalle tenebre, nubi scure e
cariche di pioggia sono raccolte sulla terraferma che a poco a poco
emerge dalle acque nebbiose.
Questa è la terra al terzo giorno della creazione3 e, pur essendo
il tutto rigorosamente in grisaille, rimanda alle coloratissime fantasie esotiche (ed erotiche) del suo interno, che rappresenta il «compimento» della creazione. Attraversa questa sottile pellicola traspa-
21
INTRODUZIONE
rente (una «pelle» appena traslucida che protegge questo embrione
grigio-verde dal nero che la circonda) un riflesso luminoso, una fascia che sembra cingerlo in un annuncio aurorale di luce: forse promessa di arcobaleno? Così, audacemente, la interpreta Gombrich;
quella linea luminosa e arcuata che collega la terra «ansante, livida, in tumulto» a un cielo «ingombro, tragico, disfatto» altro non sarebbe che l’arcobaleno dell’alleanza biblica. Ma, si chiede a commento Ruggero Pierantoni, perché tanta difficoltà nel riconoscere
un arcobaleno? «Non erano sufficienti i suoi sette colori?». In cosa
consiste la novità e l’audacia dell’interpretazione? Il problema essenziale è che il dipinto è stato eseguito in grisaille, ossia solo su toni di grigio. Ci sono voluti autorità e rischio nel proporre questa interpretazione. Ma soprattutto c’è voluta una notevole schizofrenia
percettiva nel «riconoscere» in una striscia biancastra un arcobaleno. E, infatti, subito dopo aver avanzato la sua ipotesi, Gombrich si
sente in dovere di aggiungere, quasi a scusa, che può davvero sembrare «perverso» pensare un arcobaleno grigio. L’arcobaleno è colorato, coloratissimo, appunto, sin dai tempi del diluvio, e…4 si «inscrive» nel trono di Dio:
[…] ed ecco un trono stava nel cielo, e sul trono uno che sedeva.
E quegli che sedeva era simile nell’aspetto a pietra di diaspro e di
sardo, e c’era un’iride intorno al trono, simile nell’aspetto a smeraldo5.
Eppure, grigi o neri arcobaleni tristemente da sempre rilucono nell’immaginario depresso:
Che arcobaleno è questo nero arcobaleno che si leva?6
Creazione incompiuta, o dolore di un mondo esausto che ha «esaurito» tutta la sua luce e i suoi colori, giacché, invero, il colore è vita
e bellezza – secondo una virtus unitiva della bellezza che Agostino attribuiva appunto proprio all’unione di colore e proporzione7 – e la luce, che pure sembra negare il colore nella sua abbacinante acromatica trasparenza, ne è tuttavia la somma, così che la creazione sognata «nasce», appunto, da una goccia di luce che si rifrange in iridati sciami sul nero arcobaleno di nuvole temporalesche inarcato sul
caos primigenio di una terra scossa dalle doglie di un parto titanico,
abbandonata alle scorrerie di fantasmi di tenebra, fra strepiti di
esplosioni di soli e soffocarsi di stelle:
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INTRODUZIONE
E guarda! Dal cielo blu della notte cadde una goccia luminosa piccola come una lacrima, e ingrandendosi precipitò, superando un
mondo dopo l’altro – quando penetrò, grande e scintillante di mille colori, nell’arco nero, questo verdeggiò e fiorì come un arcobaleno, e sotto di esso non c’erano più fantasmi – e quando la goccia,
grande e folgorante come un sole, fu posata su cinque fiori, un fuoco fatuo dilagò sulla verde superficie e illuminò il velo nero che senza essere visto aveva avvolto la terra. Il velo si gonfiò, formando una
tenda infinita, e si strappò dal mondo, e ricadde in un sudario, e rimase in una tomba. Allora la terra divenne un cielo d’alba, dalle
stelle cadde in un pulviscolo una calda pioggia di puntini luminosi, lungo l’orizzonte erano piantate dalle colonne bianche – da occidente si avvicinarono ondeggiando piccole nubi, iridiscenti come
perle, cangianti in una gamma verde, ardenti di rossore […]8.
Ma se questa è ancora una visione propria al fluido teatro del sogno, quando, sottomesso alla dominazione dello stato onirico, il
pensiero «si sgrana, si smaglia e si dissemina» e si insinua tra le faglie della ragione ora visitata dagli echi dei miti, tuttavia
dal movimento della materia nasce il sogno secondo Epicuro. Un
atomo di luce diventa vampa crepitante e scroscio. Chi, raccolta
la testa contro il braccio, difende il tesoro dei sogni, non muta il
mondo, ma è dentro il suo mutamento9.
Dunque le teorie sulla visione da sempre sono compromesse «tra sogno e realtà», l’un l’altra ammaestrandosi; bifronti e oscillanti sempre
tra i due poli privilegiati, tra occhio e cervello, «disegnando» di volta in
volta mappe dell’occhio che variano dalle elaboratissime «mandorle»
arabe che riflettono l’occhio sacro di Allah, alle «mitiche», sia pur apparentemente «sperimentali», elaborazioni medioevali, caricando l’occhio di tutta l’insondabile responsabilità del vedere; oppure ridicolizzando questa periferica «camera obscura» spostando tutto l’onore
al cervello. Altre volte, invece, l’occhio stesso apparirà di così intricata struttura, così complesso, da far dimenticare il cervello, ridotto ormai a una sorta di magazzino di diapositive10.
Ma quale è il collegamento tra l’occhio e la «cosa vista»? Già anticamente si oscillava tra diverse possibili soluzioni, ovvero tra un
collegamento mediante un quid che usciva dall’occhio e andava verso l’oggetto visto, oppure a un quid che dalla cosa vista andava verso l’occhio, e infine una coesistenza di questi due quid, uno in senso inverso all’altro11.
Se nel più tardo «sistema» visivo di Galeno, che si riallaccia alle idee
platoniche, l’occhio e le éidola, le immagini percepite, si congiungono e
disgiungono, si urtano, si accarezzano in un flusso bidirezionale che ha
la coreografia di una danza amorosa – giacché comunque «la visione si
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INTRODUZIONE
realizza per mezzo della luce», e tra luce e occhio si riconosce sin dall’inizio un amoroso dialogare –, con Pitagora e poi con Euclide, l’occhio come un riflettore «sonda» lo spazio alla scoperta del mondo, «aggredendo» carezzevolmente gli oggetti con i suoi raggi, mentre Democrito anima questo stesso mondo inerte degli oggetti con un pulsare di immagini-pelle, involucri sottili e trasparentissimi che staccandosi dagli oggetti stessi, «in una sorta di perenne defeuillage», si protendono a «sedurre» l’occhio, istituendo un vagante, fantasmatico ed etereo catalogo
del possibile. E non sorprende che, in questo continuo richiamo seduttivo, entropicamente essi tendessero a consumarsi in sempre più
scialbati echi visivi; non è forse Eros compagno ineludibile di Thanatos?
Due ordini simbolici sembrano riferirsi all’occhio: quello attivo
«maschile» dell’occhio faro, esploratore dello spazio e l’altro, «femminile», passivo, «trappola» d’ombra di una seduzione incorporativa.
Nessuno dei due piaceva a Platone, che insiste soprattutto sul lato psicologico della visione, esprimendo la necessità di un agente
esterno (il chiarore, che dall’oggetto va verso l’occhio, ossia la luce) e
un agente interno (ossia il «fuoco visuale») che si protende dall’occhio
per dar vita e consistenza all’oggetto visto, il quale è tale in quanto risultato di tutto questo processo12. Egli sposta così tutta l’attenzione
sulla Luce, che per il filosofo delle «idee» è di duplice natura: quella
tutta interiore, che sotto forma di raggi visivi si protende a esplorare
il mondo delle cose, e l’altra, fisica, emessa da quella sorgente luminosa che è il Sole, si unisce a quella fisiologica, umana, a disegnare
la porzione della realtà di volta in volta percepita. Insieme, raggiungono l’occhio a evocare l’immagine. E se la luce è fuoco, ovvero
quello che non ha potenza di ardere, ma sì di porgere dolce lume,
quale è quello del giorno
l’occhio ora è davvero «lucifero», animato da un
fuoco sincero ch’è dentro di noi, che scorre per gli occhi, limpido
e denso… fratello di questo fuoco del giorno13.
Infatti, se il Timeo di Platone «è il dialogo delle concordanze cosmologiche tra micro e macrocosmo […] quale terreno migliore delle forme della luce per costituire una dottrina armonica del mondo» sì da
fondare un’aurea armonia?14 La vista diventa allora metafora dell’anima, tra il mondo dei colori illuminati dalla luce del sole e quello interiore diviso tra la luce della conoscenza e della verità e le tenebre dell’ignoranza.
24
INTRODUZIONE
La luce sempre più si afferma protagonista assoluta, e l’occhio
medioevale (tolemaico) si fa contenitore e specchio dell’universo secondo grafici assolutamente fantastici: «Questi disegni sono diagrammi planetari con orbite intersecantesi, tangentantesi, l’un l’altra avviluppantesi. Una geometria da rosoni e vetrate. Il compasso
doveva, su queste menti, esercitare un fascino irresistibile. Le immagini, bellissime, nella loro sublunare astrattezza rappresentano
l’ambizione di lavorare su “scala eterna”. Non su quest’occhio o su
quello. Ma sull’Occhio Ideale. Magari quello di Dio»15.
E se gli occhi all’uomo sono finestra dell’anima, specchio del mondo, certo la luce è «occhio divino», specchio che «acceca» rivelando:
così mi circonfulse luce viva;
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva16.
DANTE ALIGHIERI
Icone significanti il supremo irraggiare divino, gli occhi si aprono a
raccontare:
aspettava trepidando
la mandorla degli occhi,
dagli occhi il loro misericordioso dardo17.
M. LUZI
E davvero la «mandorla» dell’occhio, nodo d’immortalità, partecipa
al mistero sacro della luce e aureola il segreto mistero della maestà
divina. Infatti nell’iconografia gloriosa medioevale le Maestà del
Cristo e della Vergine erano inscritte in una mandorla, proprio a significare come la natura divina si nasconda sotto la natura umana,
così come il frutto della mandorla si cela sotto la scorza. La mandorla simbolizza quindi il mistero della luce, il segreto inviolato e inviolabile dell’illuminazione interiore. Di più, come luce celeste corrisponde anche all’arcobaleno, mentre nella sua forma di losanga
arrotondata agli angoli, significa l’unione del cielo e della terra, dei
mondi inferiori e superiori, del corpo e della psiche18. Si fa metafora di un «vedere» interiore, di una rivelazione della Grazia che le tenebre dell’ignoranza (del Bene) possono oscurare, e Dante nel Convivio pensa al processo della visione come a un fenomeno connesso all’ingresso di raggi luminosi attraverso le pupille. All’interno dello spazio dell’occhio avveniva la fusione tra il Mondo (i raggi) e il Sé
(lo spirito), sacra coniunctio tra realtà fisica e trascendenza; mentre
25
INTRODUZIONE
Leonardo, per eccellenza esploratore instancabile del «visibile», pone l’occhio al centro della sua immagine della realtà, solcata da
un’infinita pioggia di raggi provenienti da ogni direzione:
Tante sonno le varietà delle distanze nelle quali si perdanno li colori delli obbietti, quanto sonno varie l’ettà del giorno e quanto
son le varietà delle grossezze o sottilità de l’aria, per le quali penetrano a l’occhio le spezie de’ colori delli detti obbietti. E di questo non daremo al presente altra regola19.
Sempre più il mito dell’occhio si interseca con la mistica della luce.
L’occhio è «finestra» dell’anima, straordinaria famiglia di immagini,
specchio del mondo, e come questo, utensile percettivo e simbolico,
tanto che nella pittura si «aprono» davvero finestre di luce negli occhi: «La metafora letteraria della finestra determina una straordinaria famiglia di immagini. In particolare tra i pittori nordici, fiamminghi e tedeschi, si stabilisce una convenzione rappresentativa
concernente la realizzazione degli occhi nei dipinti. Sulla faccia anteriore della cornea e sull’iride il pittore tende a rappresentare i contorni nitidi di una finestra, che appare come riflessa da uno specchio convesso. A tutta prima si può pensare a una rappresentazione realista, illusionistica, dell’iride di un soggetto seduto in uno
studio i cui occhi riflettano una reale finestra. Ma la piccola finestra
luminosa si trova in troppi contesti in cui per esempio il personaggio rappresentato è dipinto all’esterno. O comunque ben lontano da
pareti e finestre». Così nell’occhio attento della lepre che il Dürer disegna vigile, acquattata tra l’erba, una sottile finestra si riflette nitidamente, mentre nell’occhio angosciato del Cristo flagellato le finestre si riflettono con «precisa assurdità»20.
Ma insoluto permaneva ancora il quesito: dove si «vede» in realtà, nell’occhio o nel cervello? La «finestra» della camera oscura ripropone un dilemma irrisolto fino a Keplero, che finalmente «raddrizza», per merito dell’intelletto, quell’immagine otticamente invertita dal cristallino. Il cervello è allora forse «sabbia mobile dell’immagine»21, oppure «mappa», deposito di memorie, quale veniva intonato da Agostino?
Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose
introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti ampliando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi […]22.
26
INTRODUZIONE
Invero, l’interesse esplorativo per l’occhio si era spostato dalla lente alla retina, fino alla scoperta che questa altro non è che una porzione
periferica della corteccia cerebrale. Ma se le latine papillae si chiamano ormai modernamente «bastoncelli», le topografie delle moderne architetture della retina inducono comunque sempre a descrittivismi lirici che approdano a esiti di bizzarra bellezza: «Contro uno sfondo oro
antico, luminosissimo, le cellule nervose appaiono nere, nette, complete, perfette. Sotto il microscopio si stendono boschi di querce invernali al tramonto, giunchi delicati si piegano a brezze leggere, si dipanano intricatissime reti tessute da ragni invisibili su cieli da mosaico. E ogni cellula ha la sua faccia, il suo carattere, la sua ineffabile bellezza. Le cellule orizzontali sono octopus sospesi, a tentacoli spalancati, in un mare intriso d’oro. Le cellule bipolari sono lunghe sottili slanciate. Le loro ramificazioni si aprono come i rami nuovi dei giovani pioppi. Le cellule amacrine sono ragni delicati sorpresi dall’argento mentre stendono ragnatele invisibili. E le cellule gangliari infine sono querce immense, alberi della pioggia, baobab sotto cui vorremmo trovare riparo dalla minaccia delle nubi di rame all’orizzonte»23.
Così un «vetrino di Golgi» si dichiara colorata barriera corallina
o misteriosa foresta sorpresa nell’atto di essere scompigliata da immobili venti e pietrificata; minuscolo universo delle meraviglie, quasi estrapolato dalle algide avvolgenti diffrazioni di una lirica di Marianne Moore, la cui mente fu appunto (secondo Eliot) come dotata «d’un microscopio ad alta potenza» poiché, è indubbio, la mente
è una cosa che incanta:
è una cosa incantata,
come lo smalto sopra
un’ala di locusta
suddiviso dal sole
finché le trame sono una legione.
[…]
è un potere
di forte incantamento.
È come il collo della
colomba, animato
dal sole; è l’occhio della memoria;
è incoerenza coscienziosa24.
M. MOORE
Una «mistica del cervello» si affianca dunque alla mitologia dell’occhio. Si studiano non soltanto coni e bastoncelli, ma anche la corteccia, percorrendo all’indietro il tragitto visivo, alla ricerca sia delle «immagini» che la retina vi proietta, sia di quelle che sembrano
27
INTRODUZIONE
esservi depositate, e nuove domande incalzano: da dove provengono quelle linee luminose che «esplodono» nella nostra testa durante gli attacchi di emicrania?
«In questo caso si “vedono” nuvole nere attraversare il campo visivo, lampi e un sistema di linee a zig-zag luminose fluttuare in uno
spazio tutto interno, cerebrale. Da dove provengono queste luminose linee “a fortificazione”? Perché sono così simili a quelle dipinte da
Indiani Messicani sotto l’effetto della mescalina, inserite nei loro ritmi decorativi? Perché «si vede» con gli occhi chiusi? Quando nessun
fotone venne assorbito da nessun fotorecettore? Perché la pura e nuda stimolazione elettrica di certe aree cerebrali suscita l’insorgere irrefrenabile di immagini complesse, colorate e in movimento?»25.
Invero, la visione si produce talvolta anche senza luce: provate a
esercitare una pressione sul bulbo oculare, vedrete aree luminose
diffuse e colorate e, cosa pensare dei più rari, ma pur sempre rilevabili, sogni a colori? In queste situazioni il meccanismo della visione dei colori che passa dalla retina alle cellule gangliari, fino ai
corpi genicolati, risulta invertita, poiché non è uno stimolo «esterno»
a suscitare la visione, ma uno interno. Del resto anche Newton aveva fatto, seppure marginalmente, questa osservazione, e cioè che vi
sono colori che non hanno origine dalla luce:
Ve ne sono infatti di quelli che hanno origine da altre cause: come
quando per le forze dell’immaginazione vediamo dei sogni a colori davanti a noi; o a un pazzo sembra di vedere ciò che non esiste; o quando uno, per un colpo sopra un occhio vede come un fuoco; o quando
comprimendo il fianco degli occhi, mentre si volge lo sguardo altrove,
vediamo dei colori che richiamano la lunetta della penna del pavone26.
C’è dunque una visione senza luce? Una luce «nera», tutta interiore, «archetipicamente» densa di immagini e colori cui l’occhio può
attingere? Perché, come sostiene Huxley, che ne ha fatta esperienza diretta, i consumatori di mescalina, e molti mistici, percepiscono colori di uno splendore soprannaturale non soltanto con l’occhio
interiore, ma anche nel mondo oggettivo che li circonda?27
Ho lo stesso colore che il tuo amore, sono compagno della tua passione28.
G. AD-DÎN RÛMÎ
La «passione» di quella «luce interiore», luce divina, possiede e «allucina» dunque il mistico proteso alla percezione di una dimensione diversa, oltremondana? La luce già in Platone era analogica con
l’anima e serviva a costruire una dottrina armonica del mondo, «ri-
28
INTRODUZIONE
velazione» di un altrove riconoscibile nel suo simile. «Il modello platonico della visione è costruito sull’analogia del simile con il simile. È una concezione basata sulla tangenza delle tre sfere, fisiologica, fisica e chimica, accomunate da un unico elemento, il fuoco»29.
Così, il fuoco che sta dentro di noi è della stessa natura di quel
fuoco esterno, del giorno (la luce). Sembra già di presentire «l’occhio
solare» di Goethe, «l’identico e l’altro», il rispecchiarsi reciproco, nel
reciproco esaltarsi.
Per Aristotele, invece, interessato alla natura fisica o fisiologica
della materialità della percezione visiva, l’occhio era composto d’acqua: il diafano.
Che la vista sia d’acqua è vero e tuttavia non si produce la vista
in quanto essa è d’acqua ma in quanto essa è diafana.
E il «diafano» è la caratteristica della materia priva di colore e la luce è quindi
in qualche modo il colore del diafano quando il diafano è entelechia sotto l’azione del fuoco…30.
Anche Dante, nel Convivio, sembra aderire alla teoria aristotelica
del diafano:
Per che, acciò che la visione sia verace, cioè cotale qual è la cosa visibile in sé, conviene che lo mezzo per lo quale a l’occhio viene la forma sia sanza ogni colore e l’acqua della pupilla similmente è […]31.
E tuttavia egli si avvicina poi ad Avicenna, riprendendo la differenza tra «luce» come agente primo, raggio e movimento della luce:
Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la sua virtude lume ricevere. Così dico che
Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto è possibile a
lui assomigliarsi32.
Ma poiché l’uguale viene colto dall’uguale, la visione diviene allora
esperienza diretta di Dio, una visione sublimata e mistica, che Dante ancora riprende e interpreta:
Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua
virtù in cose per diritto raggio e in cose per modo di splendore ri-
29
INTRODUZIONE
verberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce senza mezzo, ne l’altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate33.
Una metafisica della luce discende dai temi dell’illuminazione divina, e Avicenna è in effetti il primo a distinguere tra lux e lumen, l’una manifestazione dell’essere, l’altro estensione della sostanza, l’uno corpo celeste, l’altro corpo materiale. La lux sarebbe la parte soggettiva e psichica, fenomenica, della luce, tendente a collocare il
soggetto percipiente al centro dell’esperienza della visione – e che
potremmo anche definire «brillanza» come valore proprio della luce
–, mentre al lumen si riferisce piuttosto la sostanza fisica della luce, laddove quell’effetto che rende possibile vedere i corpi opachi attraverso il riverbero o splendore della lux, tendendo a considerare
come immateriali anche quelli fisici34.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan di nostri visi le postille
debili sì, che per la bianca fronte
non vien men tosto alle nostre pupille […]35.
DANTE ALIGHIERI
La luce nelle teorie tomistiche è quindi la rappresentazione in atto
della materia al massimo grado della sua potenza. È come se fosse
un segno corporeo di un oggetto la cui corporeità è ridotta al massimo della concentrazione di energia. La luce è una manifestazione
visibile di tale energia espressa nella latenza della sua materia36.
Più modernamente, le non placate polemiche tra platonici e aristotelici sembrano riprodursi nella contrapposizione tra Goethe e
Newton, «costruttori» delle due «cattedrali» teoriche visive, basate sulla interpretazione psicofisiologica della luce stessa. È la conoscenza
di natura oggettiva, come pretende la scuola newtoniana, illuminista
e sostenitrice del metodo scientifico, oppure, secondo il ben temperato illuminismo romantico di Goethe, squisitamente soggettiva?
Certo che, se con Newton «entriamo nel merito di una polemica
che vuole secondo la tradizione da un lato i sostenitori di una teoria
della luce spiegata con metodo oggettivo, derivato in prima istanza
dalla matematica delle principali leggi fisiche che governano il mondo attraverso una sorta di matematizzazione della visione basata sul
soggetto della visione e quindi su quel complesso rapporto che si instaura tra l’occhio e il cervello», la scienza, giacché soltanto la poesia può costituire l’unica possibile conoscenza dell’universo37.
30
INTRODUZIONE
Nel modello goethiano, che sembra derivare dal modello neoplatonico, si pone al centro l’occhio, e il «soggetto» percipiente è il vero primo attore del fenomeno del vedere, secondo la citatissima asserzione di Goethe:
Se l’occhio non fosse solare come potremmo vedere la luce?38
Ma, ancora, la luce ha colore, oppure è puro sfolgorio acromatico?
Seppure ne diamo per certa l’esistenza, «la luce non esiste», pur se
noi possiamo vederla! La luce è una sensazione e dunque non ha
esistenza fisica.
Che paradosso! La stessa luce del giorno è una nostra creazione.
Ciò che colpisce la retina è un flusso di radiazione elettromagnetica, che è assorbita a «pacchetti» chiamati quanti o fotoni. La retina trasmette al cervello impulsi nervosi che indicano gli schemi
dell’intensità della radiazione riflessa, la quale cambia nel tempo
e nello spazio.
Ciò che l’osservatore percepisce, persone, alberi, case, ecc., è scelto tra questi schemi da programmi appresi fin dalla nascita sulla
base della loro importanza39.
E i colori, allora, sono nelle cose della natura, nella luce, o nella mente? Il mistero si infittisce, giacché niente è più sfuggente, effimero
e traditore di un colore! Epifania di bellezza, figlio del sole, appare
nella pienezza del giorno, ma cangia al variare della luce a seconda
delle ore o delle stagioni, e sparisce poi sempre al sopravvenire della notte, lasciando nostalgici echi azzurri. E se «alla luce lunare tutto diventa blu-notte con ombre nere e con qualche riflesso biancoluna, dove sono andati o come si sono trasformati i colori splendenti del giorno appena tramontato?»40.
[…] La sera
ora serenamente avanzava, e il grigio del crepuscolo
ammantava ogni cosa nella sua austera livrea; solo il silenzio
l’accompagnava41.
J. MILTON
Inoltre, se la luce appartiene al misterioso regno dell’energia, e in
quanto tale non ha colore, esiste davvero dunque il colore, oppure è
anch’esso puro inganno dei sensi? Fuoco fatuo, evocazione capricciosa, lusso inesplicabile concesso non a tutte le creature della terra,
giacché molti animali (sembra certamente i mammiferi non-umani)
31
INTRODUZIONE
ancora «vedono» il mondo ricoperto da una «pelle» bianco-nera, «disegnato» sobriamente nella sua qualità essenziale, mentre agli uomini (e ad alcuni loro fortunati amici animali) il chiaro-scuro colorato «dipinge» con sontuose varianti le variabili forme42.
Misterioso il fenomeno colore: un’epifania inafferrabile, trascolorante sempre dalla scienza al mito; e se Newton lo definiva prodotto delle proprietà dei raggi che compongono le fonti luminose,
Goethe, invece, propugnava il contributo dei media fisici e delle superfici incontrate dalla luce nel suo viaggio dalla fonte dell’occhio
dell’osservatore. Schopenhauer, poi, previde, con profetica immaginazione, la funzione della risposta retinica dell’occhio43.
Newton infatti sosteneva:
I colori non sono qualificazioni della luce, derivati dalla rifrazione,
o riflessioni di corpi naturali (come generalmente si crede), ma proprietà originali e connaturate, diverse a seconda dei diversi raggi.
Alcuni raggi sono predisposti a esibire un colore rosso e non altri,
alcuni un giallo e non altri, alcuni un verde e non altri e così via. Né
esistono raggi propri e peculiari soltanto ai colori salienti, bensì anche a tutte le gradazioni intermedie44.
Il colore, nota Arnheim, non era per Newton un fenomeno che aveva luogo nella visione quando la luce bianca originale era deformata o mutata dalle circostanze contingenti; era bensì una sensazione corrispondente a un attributo costitutivo di ogni genere di luce,
nascosto alla vista soltanto perché diversi generi di luce erano fusi
insieme e le loro proprietà peculiari si neutralizzavano a vicenda45.
La luce «bianca» del giorno è dunque composta dai colori dell’arcobaleno? La teoria di Newton corrompe con un «mischio» impuro l’acromatico splendore della luce46 e sembra contraddire ogni
sensato indizio visivo, introducendo la prismatica «confusione» del
colore in complicazioni davvero insospettabili, se ascoltiamo il delizioso apologo di Cocteau:
Troppi diversi ambienti nuocciono al sensibile che vi si adatta.
C’era una volta un camaleonte. Il suo padrone per tenerlo caldo lo
mise su un variopinto plaid scozzese. Il camaleonte morì di fatica47.
Certo, seppure «nulla provi che il mondo sia colorato», tuttavia, con
Shelley possiamo affermare che
la vita come una cupola di vetro multicolore macchia
il bianco splendore dell’eternità.
32
INTRODUZIONE
Goethe, seguendo la diretta testimonianza dei sensi e quasi anticipando la metodologia fenomenologica, ristabilirà invece la purezza della luce solare, secondo una «petizione» squisitamente etica, non essendosi in realtà mai liberato dal pregiudizio aristotelico secondo il
quale i colori, tutti più scuri della luce, non possono esserne contenuti.
Argan, nella sua introduzione alla traduzione italiana di Farbenlehre
(La teoria dei colori), commenta: «Porre il colore come prodotto della divisione della luce implicava una petizione di principio; il fatto che senza luce non ci siano le componenti della luce bianca. Il luogo in cui si
colgono nel loro formarsi i fenomeni luminosi e coloristici non è lo spazio, ma lo strumento fisiologico congegnato apposta per percepirli, l’occhio. Da un lato è un passo verso un empiricismo integrale che nega
qualsiasi metafisica, dall’altro è una riconferma dell’assoluta soggettività (che non significa arbitrarietà) del percepire: infatti l’indagine non
è portata sull’anatomia dell’occhio, che funziona come un meccanismo
di ripresa. Poiché la natura-oggetto e la persona-soggetto sono realtà
vive e in movimento e ciò che si vuole cogliere è la relazione tra i due
ritmi di moto, bisogna vedere come l’occhio si comporti nel corso di
una percezione che non è mai, in nessun caso, istantanea. L’analisi è
dunque sempre l’analisi di un prodotto della mente»48.
I colori, «natura conforme al senso dell’occhio» (in quanto appartengono all’occhio e dipendono dal suo meccanismo d’azione e reazione), si generano dall’incontro tra luce e tenebra, e sono azioni della luce, azioni e passioni, mezza luce e mezza ombra, lumen opacatum49, cioè luce schermata, che vìola la purezza virginea della luce sottoposta alla «passione» dell’assorbimento delle superfici riflettenti.
L’errore newtoniano, secondo Schopenhauer, consistette nel cercare nella luce ciò che doveva essere cercato nell’occhio, facendo di
conseguenza nascere il raggio di luce da sette raggi colorati – per di
più eguali nel loro rapporto ai sette intervalli della scala musicale –
in cui il colore sarebbe insito come una qualitas occulta secondo
leggi indipendenti dall’occhio. In realtà, sostiene ancora Schopenhauer, non di un raggio suddiviso, si tratta, bensì di una attività
suddivisa della retina50.
Così il sistema «settenario» di Newton (i sette colori dell’iride) si
contrappone a quello «ternario» di Goethe (il colore nasce come terzo dall’incontro della luce e dell’ombra), secondo una «numerologia»
simbolica, nodo significante che ingrappola in sé una costellazione
di significati ben altrimenti pregnanti51.
Che Newton, come bene aveva notato Schopenhauer, avesse volutamente assimilato la scala cromatica a quella musicale, non v’è
dubbio; certo secondo una significatio simbolica che allineava «ac-
33
INTRODUZIONE
cordi di suoni» e «accordi di colori» in base a un principio di segrete
concordanze ermetiche e alchemiche che vedevano nel numero sette un crocevia significante. Sette sono infatti i colori, come sette sono le fasi alchemiche e i cicli planetari; sette sono anche le note delle sfere celesti che determinano l’armonia mundi, e sette, infine, sono gli ordini angelici che sovrintendono questa suprema armonia.
La simbologia del sette del resto è vastissima, ma si può forse riassumere nel concetto di totalità dello spazio e del tempo, di ordine morale e spirituale, di «compimento del mondo» (che fu, appunto, creato in sette giorni!). Concordanze affascinanti, seppure non del tutto
corrispondenti alla realtà percettiva, e quindi piuttosto di natura
simbolica, giacché i colori fondamentali che vediamo apparire nello
spettro sono sei e non sette (anzi cinque, poiché il magenta è visibile solo attraverso la sovrapposizione dei due estremi arancio e viola),
laddove Newton vi aggiunge l’indaco. «Si sarebbe portati a pensare a
una sorta di abbaglio percettivo oppure più probabilmente a una voluta deviazione per ottenere una immagine spettrale in concordanza
con il numero ermetico/alchemico sette, che si concretizza nella corrispondenza tra suono e colore. È noto che Newton aveva un piccolo laboratorio di alchimista e che dedicò molto tempo della sua vita
all’esegesi dei testi biblici e alle dottrine ermetiche. […] Per ciò che riguarda inoltre l’interesse per l’ermetismo pare che Newton fosse molto preso dagli esperimenti del suo piccolo laboratorio di chimica, e
sviluppasse lì, in collaborazione epistolare con l’amico Robert Boyle,
esperimenti sulla trasmutazione dei metalli»52.
Al settenario illuministico newtoniano si contrappone la già romantica dialettica goethiana luce-ombra che unendosi genera il terzo, il colore, che nel rosso – per eccellenza «colore» – si dichiara punto di massima tensione cromatica. La «triade primigenia» è infatti formata da bianco-nero-rosso, i primi due significanti cosmici rispettivamente di luce e di oscurità, mentre nel terzo si «rivela» la passionalità del fuoco e del sangue, dell’esplodere di Eros e di Thanatos nella vita somatica53, sebbene per Goethe luce e ombra siano significati
piuttosto dall’azzurro-giallo, che tende tuttavia sempre al rosso.
Ancora una volta mito e scienza si intersecano e le due teorie,
che pure si considerano entrambe assolutamente scientifiche, si rivelano piuttosto delle Weltancshauungen che si fondano su pilastri
più propri al mondo dei simboli che della scienza.
Certo, si sono strutturati e avvicendati diversi modelli, ma, come
giustamente nota Maurizio Barberis, nessuno completamente innocente, privo cioè di un punto di vista fortemente strutturato: «I
modelli cromatici sembrano prefigurare, nella loro completezza on-
34
INTRODUZIONE
tologica, i grandi sistemi filosofici costruiti e pensati come visione
unitaria del mondo»54.
Sì, luce è linguaggio. Libera franca
imparziale luce di sole, luce di luna,
luce di stelle, luce di faro,
sono linguaggio[…] 55.
M. MOORE
35
INTRODUZIONE
36
INTRODUZIONE
Capitolo II
I COLORI DELLA LUCE
Sono oscuri
il turchese ed il carminio
nei vasi e nelle ciotole
li prende
la notte nel suo grembo,
li accumuna a tutta la materia 1
M. LUZI
Ma dove stanno allora i colori? Nella luce o nella materia?
Antica e ricorrente è la separazione tra luce e colore. Secondo le
moderne teorie fisico-energetiche, oggi la luce la si pretende appartenere al regno misterioso dell’energia, e, in quanto tale, priva di colore più di quanto non sia colorata l’energia elettrica o quella termica,
o quella a raggi X. Eppure, chi può negare che i colori si manifestino
alla luce, così che una superficie appare talora colorata e talora no?
E quale responsabilità hanno i nostri sensi e il nostro cervello nella
«visione colorata»? Nella sua Storia della luce Vasco Ronchi ci conduce a poco a poco a una conclusione radicale: «Il mondo fisico è percorso dalla radiazione, che è priva di luce e di colore: il mondo fisico
è nero e buio. Quando quelle radiazioni particolari che hanno quelle
certe lunghezze d’onda comprese fra 0,4 e 0,8 micron arrivano alla
psiche umana attraverso l’organo della vista, vi provocano la formazione di fantasmi luminosi e colorati: ossia di luce e di colore. […] Le
idee così si sono assestate, ma la luce è divenuta un quid molto evanescente. Fino al punto che se uno insistesse nella domanda: che cos’è dunque la “luce”, saremo costretti a confessare che non vi è nulla
di definito, a sé stante, a cui ragionevolmente dare questo nome»2.
C’è dunque luce quando c’è una psiche che «crea» i suoi «fantasmi»? I colori, allora, non sono davvero né ovvi né banali. Sono fantasmi della nostra psiche, come sostiene il Ronchi, oppure anche mirabili «giochi di luce» che nascono dalle interazioni tra la radiazione
solare e gli elettroni degli atomi o delle molecole che compongono gli
oggetti, secondo quanto sostiene Piero Bianucci, il quale nota inoltre che: «Ogni tipo di atomo e di molecola ha una frequenza di risonanza caratteristica. Idrogeno, ossigeno e azoto, per esempio, hanno le loro risonanze nell’ultravioletto, al di là del visibile, e questo è
37
INTRODUZIONE
il motivo per cui sono trasparenti»3. E tuttavia non lo sono del tutto,
giacché una parte della luce viene diffusa e la sua intensità dipende dalla quarta potenza delle frequenze, per cui le frequenze più alte sono le più favorite. È per questo che l’aria di un cielo terso ci appare di un profondo colore azzurro, e tale l’acqua di un limpido mare; le frequenze più alte, corrispondenti all’azzurro e al violetto, sono esaltate dagli atomi prevalenti nell’aria e nell’acqua, così che questi due elementi diventino scrigni di mirabilia cromatiche.
Quando, nel 1948, Jacques-Yves Cousteau si immerse a cinquanta metri di profondità negli oscuri abissi marini, munito di una potente
lampada elettrica, gli apparve un’esplosione di colori inaspettati:
Il raggio luminoso rivelò uno stupefacente trofeo di colori dominati da rossi e arancioni stupendi, opulenti come un quadro di
Matisse. Le tinte vivaci della zona crepuscolare apparivano per la
prima volta dalla creazione del mondo. Girammo tutt’intorno cercando di appagare gli occhi a quello spettacolo. Nemmeno i pesci
dovevano mai averlo visto prima. Perché quei colori così sfarzosi
dovevano essere posti in un luogo dove nessuno poteva vederli?4
E come dimenticare, allora, il famoso prisma di Newton che, scomponendo un fascio di luce «bianca», ne rivela la struttura spettrale di raggi-luce colorati, o meglio, «coloranti» in quanto capaci di lasciare tracce colorate sui bianchi schermi? Spettri, dunque, fantasmi di colori che
appaiono illusoriamente a schernire la nostra sete di concretezza, giacché il colore si offre a fondamento della realtà, pur smentendosi come
tale nel suo statuto di Logos allusivo, di finta razionalità dello spazio,
in quanto contemporaneamente «luce e cangianza»?5. Così, seppure
gli strali sommersi del
sole,
franti come vetro
filato, si muovono con la rapidità di riflettori
giù nei crepacci
dentro e fuori, illuminando
il mare turchese
di corpi6
M. MOORE
il baratro marino oltraggia i colori e dentro ad esso si fa vecchio il mare.
È ancora Cousteau a darci una curiosa testimonianza della spaesante fenomenicità del colore, e della magia cromatica del mare,
quando, durante una caccia subacquea, avendo un suo compagno
colpito un grosso pesce, ne vede colare un… sangue verde:
38
INTRODUZIONE
Dumas […] estrasse rapidamente il pugnale dalla cintura e lo affondò nel cuore del grosso pesce. Un abbondante spruzzo di sangue
macchiò l’acqua. Il sangue era verde. Stupefatto a questa vista, mi
avvicinai nuotando, senza stancarmi di osservare il rivolo di sangue
che usciva dal cuore. Aveva il colore dello smeraldo. […] Brandendo
il suo sorprendente trofeo in cima all’arpione, Didi si avviò verso la
superficie. A otto metri il sangue divenne di un bruno cupo, a sette
era di color rosa: alla superficie era rosso vivo7.
Più avanti Cousteau ci testimonia ancora delle metamorfosi dei colori che avvengono in mare:
Una volta mi feci un taglio alla mano in cinquanta metri d’acqua
e vidi il sangue sgorgare verde dalla ferita. Stavo già avvertendo
un principio di ebbrezza. Alla mia mente semiallucinata il verde
del sangue sembrò un trucco del mare. Pensai alla liche cercando di convincermi che il mio sangue era sempre rosso8.
In effetti, lo scienziato aveva notato come l’affascinante orgia di colori percepibili a chi frequenti le scogliere tropicali si riferisca sempre a fondali «bassi»: tra gli otto e i dieci metri, dove
[…] branchi di pesci
guizzano con le pinne e le scaglie lucenti
sotto le onde verdi, e spesso s’addensano a frotte nel mare
[…] vagando fra i cespugli di corallo,
e giocando con rapidi scatti riflettono al sole
le squame sinuose maculate d’oro […]9.
J. MILTON
Più in fondo, anche se illuminati dal sole, si riesce a percepire soltanto la metà dei colori reali. Il mare fa diventare tutto azzurro, e se
a cinque metri il rosso diventa rosa, a quaranta è virtualmente nero. A tale quota scompare anche l’arancione, il giallo comincia a diventare verde e tutto viene espresso in tinte quasi monocromatiche.
Cousteau giustifica ciò considerando che i raggi ultravioletti penetrano a grande profondità, mentre quelli infrarossi vengono totalmente assorbiti a poca distanza dalla superficie. Così si saldano
l’infinitamente profondo e l’infinitamente alto: «gli abissi sono tenebrosi, simili allo spazio interplanetario, in cui nessuna particella agente riflette la luce del sole»!10.
Misteri s’intrecciano a lastricare questo fatato regime di gatteggianti epifanie che la luce solare talora rivela e talora nasconde; e
se una certa luce ha talvolta il potere di «colorare» secondo le bande dello spettro una porzione di superficie che, sotto la luce solare
rimarrebbe ottusamente neutra, tuttavia la stessa luce solare rive-
39
INTRODUZIONE
la altrove, secondo un alternarsi apparentemente incongruo di materializzazioni e sparizioni, colori che non sono luci spettrali. È questo il mistero del viola «[…] a partire da questo momento sarà infatti
vietato scambiare viola con violetto. Per chiarire questo punto è necessario ricordare che abbiamo identificato due categorie di cromatici fantasmi: luci spettrali, che si rivelano in certe condizioni, e
colori manifesti sulle superfici delle cose mondane, quando sono
esposte alla sana e illuminante luce solare»11.
Così, se nello spettro tra il rosso e il giallo troviamo l’arancione,
e tra il giallo e l’azzurro-blu si pone il verde, non c’è nulla invece tra
il rosso e il blu. «Lo spettro è aperto, sia dal lato del rosso che da
quello del violetto, prima del rosso infatti viene l’infrarosso e dopo
il violetto l’ultravioletto: se tali fantasmi siano poi luci-colore non è
noto, poiché non si vedono. In questo spettro mancano appunto i
viola, i rosso-viola e i viola-blu, che tuttavia la luce solare manifesta come colori mondani. I fantasmi rosso e blu-violaceo, che allietano le nostre albe e tramonti e appaiono anche nel lilla delicatissimo delle corolle dei colchidi autunnali, non sono spettrali: ecco in
parte chiarito il mistero viola e l’interdetto di scambio e confusione
tra viola e violetto»12. Infatti il viola è la lunghezza d’onda più piccola
dello spettro da dove sfuma nell’ultravioletto, quasi del tutto invisibile all’uomo, mentre alcuni fiori sono colorati nell’ultravioletto
così da attrarre gli insetti in grado di percepirlo13. Mistero e seduzione s’annidano dunque oltre i confini della realtà percepibile? E
se il porpora, colore del crepuscolo, del mattino o della sera, mescolanza di giorno e di notte, dà consistenza e rivela le forme della
luce che s’avanza o si spegne, l’ultravioletto, colore questo sì davvero «fantasma», si proclama, nella sua invisibilità, presenza interiore, sublimata, giacché in psicologia esso corrisponderebbe all’interiorizzazione e alla sublimazione, indicando quindi la profondità dei sentimenti14, e rivelandosi silenziosa evocazione di un «altrove» che irraggia inconsce tenebre sapienziali, se gli sciamani Jivaro in Ecuador, dopo aver preso l’ayahuasca, «trasudano» un fluido fluorescente di colore viola e blu, che sarebbe alla base della loro capacità di divinazione. Costoro, secondo quanto ci racconta Florence Mc Kenna nel reportage del suo viaggio iniziatico-allucinatorio attraverso le dimensioni «altre» della droga,
[…] sono soliti prendere l’ayahuasca così da riuscire a vedere una
sostanza di colore viola o blu scuro che ribolle come un liquido. Vomitando, dopo aver preso l’ayahuasca, questo fluido viene emesso
dal corpo; a volte si forma anche sulla superficie della pelle sotto
forma di sudore. Gli Jivaro basano gran parte della loro pratica ma-
40
INTRODUZIONE
gica su questa sostanza di cui praticamente nulla si sa, poiché questo tipo di conoscenza è avvolto in un manto di segretezza […] la
natura di questo fluido è completamente al di là dell’esperienza ordinaria: si dice che sia fatta della stessa materia di cui è composta
la mente o lo spazio-tempo, oppure, ancora, che sia una pura allucinazione espressa soggettivamente15.
Si rivela una valenza mistico sapienzale di questo ambiguo e sfuggente fantasma-colore: l’ultravioletto, tanto che anche Bloch lo considera essere di naturale spettanza alla filosofia. È un colore invisibile, magico, che apre una prospettiva nel seno dell’oscurità16, ma
anche paurose penombre cosmiche azzurre e violette in eterna gestazione di mondi, se per Ejzenštejn nel viola c’è «come lo sfavillio e
la tragicità della creazione in genere», e della morte, anche, se «i
mondi viola hanno sfiorato sia Lermontov, il quale si fece uccidere
di sua volontà, sia Gogol, che si bruciò da solo, annaspando fra le
zampe del ragno»17. Per questo forse il fluido segreto degli sciamani, creatori di mondi «altri» è naturalmente violetto?
Silenzi, solcati dai Mondi e dagli Angeli:
O l’Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!18
A. RIMBAUD
Ambiguo è dunque lo statuto dei colori: si mostrano di sfolgorante
natura angelica, seppure talora a qualcuno appaiono ottusamente
demoniaci. Michel Lagrange afferma:
Odio i colori, quando sono l’ostacolo alla forma, all’idea, al divino,
giacché i colori, cette prose du jour, «passano», l’eternità è loro interdetta. Loro appartenenza è questo mondo mutevole, sottoposto
all’effimero del cambiamento19
alla finitudine del corpo e quindi della morte, in apparente contrasto
con l’eterno splendore della luce, sebbene, come ci dice la poetessa
Alda Merini, essi saggiamente ci riconducano alla nostra condizione
umana:
Amo i colori, tempi di un anelito
inquieto, irremovibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici «perché» del mio respiro.
La luce mi sospinge ma il colore
m’attenua, predicando l’impotenza
del corpo, bello, ma ancor troppo terrestre20.
A. MERINI
41
INTRODUZIONE
Pur se ancora troppo terrestri, i colori hanno tuttavia insita in loro
la possibilità di farsi «passaporto per l’al-di-là».
Felici i colori che sono porte luminose, permeabili, felice la magia
dell’arte quando il colore diviene luce e trasparenza, sposando
l’invisibile!21
Nell’opposizione tra colori opachi e colori traslucidi, tra colori aperti e
chiusi, colori-tomba e colori-passaggio, si ritrova infatti la dualità della carne e dello spirito, dell’apparenza e dell’essenza. Si danno allora
colori-sesamo, materiche chiavi che dischiudono infiniti – Sì, amo che
il colore mi conduca alla luce, come fanno le vetrate e le vecchie liturgie22 –,
albe profane affacciate su promessi splendori d’anima:
[…] hanno
incerta come lui la sorte
i colori e il risveglio
per loro non è in forse,
la luce non li inganna,
non li tradisce? E stanno
nella materia
o sono
nell’anima i colori?23
M. LUZI
E poiché il prisma della volontà creatrice incessantemente ricostruisce cromaticamente il mondo24, eternamente si sgomitolano arcobaleni, catene d’unione tra cielo e terra, spirito e materia, a siglare
un’alleanza continuamente perduta e ritrovata tra anima e corpo,
tra il saldo sguardo interiore e la mutevolezza della labile realtà che
solo momentaneamente le nuvole possono obliquamente celare.
L’arco trionfale sotto cui marcio
con uragani, fuochi, neve
quando le Potenze dell’aria sono incatenate al mio
raggio, è l’arco di milioni di colori, il fuoco
della sfera tesse i suoi soffici colori
mentre al di sotto la terra umida ride25.
P.B. SHELLEY
Seppure il colore sia per taluni più affine all’ombra, quasi «figlio della notte» (giacché, è indubbio, è più scuro della luce), tuttavia una
segreta fratellanza lo congiunge alla fonte della luce stessa, e se la
ruota solare si costituisce di sette raggi, sette sono i colori dell’arcobaleno, sì da corrispondere a un complesso sistema simbolico cosmologico. L’Universo vedico, per esempio, è simbolizzato da una
42
INTRODUZIONE
ruota con al centro il sole e ogni stato dell’essere sulla sua circonferenza. Da qualsiasi punto di quest’ultima, l’«Asse del Mondo» è al
tempo stesso un raggio del cerchio e un raggio del sole, e passa geometricamente attraverso questo per prolungarsi oltre il centro e
completare il diametro. Ma non è tutto, esso è anche un «raggio solare» il cui prolungamento non è suscettibile di alcuna rappresentazione geometrica. Si tratta qui della formula secondo cui il sole è
descritto con sette raggi, di cui, sei, opposti a due a due, formano
il trivid vajra, cioè la croce a tre dimensioni; quelli che corrispondono allo zenith e al nadir coincidono con il nostro «Asse del Mondo» (skambha), mentre quelli che corrispondono al nord e al sud, all’est e all’ovest, determinano l’estensione di un «mondo» (loka) rappresentato da un piano orizzontale. Quanto al «settimo raggio», centrale o assiale, che passa attraverso il sole, esso unisce direttamente il «cuore» di ogni singolo essere al sole stesso, di cui diviene quindi il raggio per eccellenza, nonché «Asse del Mondo» – «cifra del mistero» che non può essere rappresentato come gli altri, per il suo carattere simbolico e iniziatico –; anche nell’arcobaleno (di fatto costituito non di sette ma di sei colori, i tre fondamentali, blu, giallo, rosso e i tre complementari: arancione, violetto e verde, essendo l’indaco niente altro che una sfumatura intermedia tra il violetto e il
blu) il «settimo» colore dovrà avere lo stesso rapporto di «centro»,
punto di principio e generazione (cioè, quel punto in cui le opposizioni apparenti, che sono piuttosto dei complementarismi, si risolvono nell’unità) e nel quale sono contenuti quindi anche i sei colori. Questo «centro» cromatico può essere solo il bianco, che è effettivamente incolore, come il punto è senza dimensioni. Esso non appare nell’arcobaleno più di quanto il settimo raggio non appaia in
una rappresentazione geometrica, tutti i colori altro non sono che
una differenziazione della luce bianca, allo stesso modo in cui le direzioni dello spazio non sono che lo sviluppo delle possibilità contenute nel punto primordiale26. E che il sette sia davvero «numero di
luce», attributo solare, che riflette il concetto astrologico del sole come centro dell’universo, è confermato dalle più diverse e lontane
culture. Così, se i Romani identificavano i sette raggi del sole emananti dall’aureola di Mitra, sette erano anche i gradini delle ziggurat, giacché a questo numero, sia nella cultura babilonese, sia nell’iniziazione mitraica nell’Iran preislamico, veniva attribuita una centralità sacra. Sette sono le ruote del carro del dio-sole Pusan, e Agni
ha sette lingue. Sette sono i cieli degli stupa buddisti, come sette,
ancora, sono i passi del Buddha. Presso i Maya, il dio del sole del
mondo sotterraneo, Jaguar, era identificato con il numero sette, e,
43
INTRODUZIONE
se per il Corano Dio creò sette firmamenti, in India la comunità zoroastriana dei Parsi crede che i «sette esseri sacri» (Amesha Spentas) siano scaturiti da Ahura Mazda come torce accese da una torcia; lo stesso candelabro a sette bracci degli israeliti (memorah) fu
interpretato come la raffigurazione delle orbite dei sette pianeti intorno al sole, mentre lo stelo verticale rappresenterebbe la luce di
Dio, dalla quale gli altri sei bracci ricevono gloria riflessa27.
L’uso del sette come «sacra rappresentazione» solare è ribadito
anche da infinite usanze e applicazioni artistiche e popolari, per
esempio sui grandi piatti e vasi di ceramica russa del XIII-XIV sec.,
di stile molto affine a quello delle ceramiche persiane dei secoli XII
e XIII, si aureolavano volti con sette raggi e bianchi petali di gigli28.
Nei colori dell’arcobaleno – epifania visibile della luce invisibile –la molteplicità è la manifestazione visibile dell’unicità invisibile, così che il vero settenario, come commenta René Guénon, sarebbe formato dalla luce bianca e dai sei colori nei quali si differenzia: «e va
da sé che il settimo termine è in realtà il primo, perché è il principio
di tutti gli altri, che senza di esso non potrebbero esistere in alcun
modo; ma è anche ultimo nel senso che tutti rientrano alla fine in esso: la riunione di tutti i colori ricostituisce la luce bianca che li ha
originati», così come il «settimo raggio» è la «Via» attraverso la quale
l’essere, che ha percorso il ciclo della manifestazione, ritorna al nonmanifestato, da cui, comunque, anche nella manifestazione, non era
stato separato se non in modo illusorio. Possiamo accostare questa
simbologia luminosa del sette anche con quella della «settimana»
nella genesi ebraica, dato che anche qui il settimo termine è essenzialmente diverso dagli altri sei. La Creazione, infatti, è «l’opera dei
sei giorni» e non dei sette. Il settimo giorno è quello del «riposo». Tale
settimo termine, che potremmo definire «sabbatico» è veramente anche il primo, poiché questo «riposo» non è altro che il rientro del Principio Creatore allo stato iniziale di non-manifestazione29.
Anche nel Bardo Tödöl (tradotto come Il Libro tibetano dei morti),
sorta di breviario rivolto al moribondo per affrontare il trapasso e
sciogliere la pena delle reincarnazioni, la coscienza cosmica, nella
sua «traslucida purezza», si identifica con la luce incolore, origine di
tutto il pensato, nella cui impassibilità cosmica si dissolve la fragile illusione dell’Io, mentre la colorazione in cui si fraziona è simbolo di pensiero concreto. Infatti, per il Buddismo continuare a esistere, sotto qualsiasi forma è dolore, perché esistere vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, un non mai soddisfatto desiderio, una pena che mai
si placa. La pace è nel dissolversi inconsapevole in quella luce in-
44
INTRODUZIONE
colore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne
siamo consapevoli, brilla in noi stessi. Il processo della morte è visto quindi come un passaggio attraverso dissolvimenti successivi
marcati dallo scomporsi della luce originaria, incolore, in sei luci
colorate (turchina, bianca, gialla, rossa, verde, nera), ciascuna delle quali simboleggia una delle sei specie di esistenza che sono pronte ad accogliere adesso il defunto. Questi rinascerà proprio in quella dalla cui luce si sente maggiormente fascinato. E se la pace, come abbiamo detto, è il dissolversi in quella luce incolore in cui tutte le cose traggono nascimento, la luce della gnosi
simile a una corda contesta di fili multicolori, vibrante di vari riflessi, luccicante, radiante, splendente, abbagliante30
si pianterà diretta nel cuore dei possessori della sapienza mistica.
Così pregando con volontà fortemente decisa, dissolvendosi in
una luce di arcobaleno
il meditante, secondo lo Yoga, durante il processo evocativo emanerà dal cuore una luce multicolore, per poi dissolversi, scomparendo, in quella stessa epifania luminosa della sfera divina. La luce bianca è quella degli dèi, la rossa dei demoni, la gialla dei lemuri, mentre quella azzurra è degli uomini e quella nera degli esseri infernali, secondo un progressivo «oscurarsi» materico e spirituale. A
questa «simbolizzazione di genere» si affianca quella degli elementi
per cui alla luce bianca sta la purificazione dell’elemento acqua, a
quella rossa del fuoco, a quella gialla della terra, a quella verde del
vento, mentre quella turchina, la prima ad apparire, indicherebbe
la conoscenza sublimata dell’esistenzialità. Tutte insieme evocherebbero poi i gradi successivi della conoscenza, culminante nell’abbagliante identità di luce e di vuoto che è il Buddha.
Così anche per il morente la vita termina in un’epifania luminosa
creata dalla sua stessa coscienza carmica: «tutto un balenare di immagini nelle quali si esprimono per simboli la vita dell’uomo e il suo
destino»31. Epifania simbolica della luce che ritroviamo anche nell’immaginario occidentale e che si ripete nelle parole di Jean Paul:
E in quel rimescolio di colori si aggirava una voce soave, dicendo:
«Svanite più dolcemente per opera della luce». Ma le anime furono
soltanto accecate, e non svanirono ancora. […] Finalmente l’apparizione sollevò il velo bianco, e davanti agli uomini ci fu l’angelo
della fine32.
45
INTRODUZIONE
Si ribadisce la vocazione simbolizzante del colore, che, associandosi
ora alla rappresentazione degli elementi, fonda la conoscenza mistica del mondo materiale, ma si proclama anche epifania sensibile delle cose celesti e delle trasformazioni spirituali dell’uomo. Così
come la divisione in sette parti dello spettro cromatico può corrispondere a una complessa simbologia cosmologica nella quale il
settimo colore dell’arcobaleno non è rappresentato dall’indaco ma
dalla luce bianca, equivalente nelle potenzialità simboliche al punto generatore delle direzioni e dei colori. La simbologia legata all’arcobaleno, nascondendo anziché rivelando, ridistribuisce nelle
sei dimensioni dello spazio gli elementi simbolici orientativi fondamentali, ponendo al centro il bianco come raggio assiale, che identifica il principio primo e metafisico dell’essere ingenerato e privo di
movimento. È indubbio, infatti, come sostiene Maurizio Barberis,
«che esista una certa affinità tra il formarsi di una coscienza dei
fondamentali psichici attraverso il valore attribuito ai colori e le relazioni antropologicamente stratificate. Il mito è quasi sempre aiutato a emergere nella coscienza individuale dall’uso dell’esemplificazione e quindi delle simbologie cromatiche, che traducono la sensazione attraverso la nascita di una coscienza estetica del mondo»33.
L’arcobaleno, anche «figura» metaforica di ogni epifania cromatica, rifrangenza frantumata del bianco, è «ponte» visibile tra alto e
basso, tra spirito e materia, che salda l’immaterialità della luce con
la «caligine» bella del colore, presenza significante di un patto sancito tra cielo e terra, ma, nell’opposto versante dell’assenza, al nastro iridato corrisponde un nero «buco» nel cielo notturno che nella opalescente Via Lattea, cela tuttavia inaspettate insidie.
[…] là dove la via lattea
tra le stelle in vergineo splendore scorre34.
J. KEATS
Si avverte infatti al suo centro una potente sorgente infrarossa,
un’invisibile presenza si annuncia nel lattiginoso ammasso
che di notte sembra una zona che ruota in polverio di stelle35.
J. MILTON
Secondo rilevazioni di astrofisici infatti «l’ipotesi più probabile è che
al centro della Via Lattea esista un buco nero creato dall’accumularsi di centinaia di migliaia di stelle morte. Il centro dovrebbe essere, in ultima analisi, un cimitero stellare»36.
46
INTRODUZIONE
Come non ricordare, ancora una volta quanto il pensiero mitico
sembra talvolta precorrere quello scientifico nelle intuizioni cosmologiche? Claude Lévi-Strauss riporta infatti che, secondo i miti del
bacino amazzonico, il serpente-arcobaleno Boyusu si manifesta di
giorno sotto forma di arcobaleno e di notte come una macchia nera
nella Via Lattea. La contropartita notturna dell’arcobaleno sarebbe
quindi la non-presenza della Via Lattea in un punto che normalmente essa dovrebbe occupare, e che si dichiara, proprio in quel
«buco nero», densissima presenza-assenza. L’arcobaleno notturno
occuperebbe nel cielo un posto delineato, se così possiamo dire, in
negativo; macchia nera in mezzo alla Via Lattea, cioè una «eclissi» di
stelle. Sia di giorno che di notte, pertanto, l’arcobaleno è rappresentato da una congiuntura fortemente «marcata». Di giorno, quando il colore arricchisce la luce; di notte, là dove l’assenza locale di
astri accresce ulteriormente l’oscurità. La congruenza fra l’eclissi e
l’arcobaleno si trova confermata in questi versi37:
Vattene vattene mio arcobaleno
Andatevene colori d’incanto
Questo esilio ti è essenziale
Infanta dalle sciarpe cangianti!38
G. APOLLINAIRE
Così, con stupefacente sapienza, il mito scandaglia l’eterno gioco
dell’avvento e dell’eclissi, ponendo sia la luce (come colore bianco)
che le tenebre (come nero), entrambi centro nell’alterna scacchiera
delle manifestazioni dell’essere, secondo quanto ci indica anche il
pensiero orientale che afferma come nel suo senso superiore, il nero simboleggi essenzialmente lo stato principale di non-manifestazione e si debba quindi intendere il nome di Krishna in opposizione a quello di Arjuna che significa «bianco»; essi rappresenterebbero infatti rispettivamente il non-manifestato e il manifestato, l’immortale e il mortale, il Sé e l’Io39.
L’oscuro, il chiaro
il loro mutuo avvicendarsi,
la storia umana, inestinguibile pedaggio40.
M. LUZI
Forma simbolica di un centro, il bianco, punto di partenza di un’irradiazione assimilata a quella della luce, ma tale del resto è anche il nero (luogo della non-manifestazione per eccellenza), tanto che «si potrebbe dunque dire che il centro è “bianco” esteriormente e in rapporto
alla manifestazione che procede da esso, mentre è “nero” interior-
47
INTRODUZIONE
mente e in se stesso»41. Così anche testimonia la Ka’ba, che in sé custodisce la Pietra Nera, «centro segreto» che racchiude l’intero mistero del Tempio sacro (che è, sulla terra, l’omologo del centro archetipico) e della vita spirituale dell’uomo. La pietra è posta a oriente, su uno
dei quattro lati della Ka’ba: «su questo angolo poggia la dimensione
che mette in corrispondenza la Natura, cioè il nostro mondo fisico terrestre, con l’intelligenza dell’Universo»42. Ma da sempre, del resto, e
ovunque, scintille carbonizzate del fuoco celeste sacrano l’ossatura
simbolica della terra, suscitando fantastiche corrispondenze.
Vi sono pietre nere dalla forma di verga d’uomo, con sopra cesellato un sesso femminile. E queste pietre sono delle vertebre in angoli preziosi della terra43.
Anticamente, sull’asse binario elementare bianco-nero, si elencavano e si riconoscevano tutti i diversi colori, secondo una scala di
valori di luminanza. I colori scuri hanno le stesse qualità simboliche
e rientrano nella terminologia linguistica del nero, come significante
di «scuro», «tenebra», ecc., mentre quelli chiari si apparentano al
bianco, come «chiaro» e «luce». L’opposizione elementare bianco-nero è la più antica e costituisce anche la prima terminologia cromatica, cui solo successivamente si affianca il rosso e poi tutti gli altri «termini-colore»44. Il bianco e il nero, insieme al rosso, sono i colori fondamentali anche nei rituali iniziatici e nell’uso socialmente
codificato del colore. Di volta in volta ogni termine forma coppie oppositive con il terzo colore, appunto il rosso, e assume quindi alternativamente connotazioni positive o negative. Questo perché la
coppia oppositiva bianco-nero in filigrana, sotto a valori immediatamente riconoscibili di tenebra e di luce, si rivela anche strutturata
di forti connotazioni etiche: buono-cattivo, positivo-negativo, altobasso, visibile-invisibile, ecc.45 Ai luminosi mondi della beatitudine
e della gioia corrispondono «in negativo» abissi tenebrosi di dolore,
e, se le creature «di luce» dispiegano amabilità sorridente e benefica, quelle «di tenebra» invece diffondono angosce e pericoli. Agli angeli, luminosi (bianchi) si contrappongono gli spiriti ribelli, caduti
nella nerezza del peccato irreversibile e nell’abisso delle tenebre della perdita della luce dello sguardo divino.
Ogni pulsione di volo, ogni nostalgia di spazi incontaminati, si
tingerà dunque di candore:
ma ci muti la sorte in uccelli bianchi a galla sulla spuma errante46.
W.B. YEATS
48
INTRODUZIONE
Esiste certamente tuttavia una sorta di differenziale semantico, per
cui, pur mantenendo una sostanziale costanza di simbolica cromatica, si possono avere valori simbolici differenziati in diverse aree culturali, grazie anche alla polisemia del simbolo che permette inversioni significanti, trasformando contestualmente nel suo contrario
un significato ammesso. Perciò esiste un nero «buono» (ed ecco come
il gatto nero, «figura» stregonica e di mala sorte, può essere valorizzato positivamente, come mascotte beneagurante, nel passaggio dell’anno nuovo), giacché il nero, pur essendo significante di morte, di
assenza, di ritorno all’indifferenziato originario, si manifesta però anche come nigredo caotica da cui può nuovamente rinascere il ciclo vitale. Erano infatti «nere» le Grandi Dee, ctonie e notturne, da Persefone (la forza del nero femminile 47) a Demetra, a Iside, tutte dispensatrici di fertilità e che si sono poi iconograficamente riedite nelle Vergini nere cristiane. E la stessa Pietra Nera della Ka’ba, come abbiamo visto sopra, diviene forma di luce, specchio riflettente la luce dell’Intelligenza divina, così come la Torah (La Legge) che Dio diede a
Mosè, secondo la mistica cabbalistica «era fuoco bianco inciso su
fuoco nero, fuoco intriso di fuoco; fu intagliata dal fuoco e dal fuoco
fu data: con uno scalpello di fuoco il Creatore scrive su di una pietra
di luce e traccia il libro che racchiude ogni segreto e ogni realtà»48.
Inversamente, al riconosciuto valore positivo luminoso del bianco,
significante di purezza, di vita, di nobiltà, si affianca un pallore opaco,
livido e infernale, colore di morte e di disperazione: è il pallidus latino,
che si oppone al bianco luminoso (albus, candidus, niveus) e che significa metaforicamente il soggiorno sotterraneo senza luce né colore,
in cui le ombre che lo abitano sono «scolorite» ed eteree (pallentes, appunto) come «levità» di venti, «voli» di sonno, quali appaiono a Enea:
e per tre volte dalle mani fuggiva l’immagine,
come la levità dei venti, come i voli del sonno49.
VIRGILIO
A questo bianco lattiginoso e grigiastro corrisponde, dal lato negativo, un nero altrettanto opaco e tetro, ater, anch’esso significante
di un lugubre e triste oltretomba senza speranza alcuna di placanti epifanie luminose:
Così la via delle selve è incerta sotto la luna
scarsa di luce quando nell’ombra
il cielo è scomparso, quando la notte
distesa di nero ha tolto i colori dall’aria50.
VIRGILIO
49
INTRODUZIONE
Possiamo forse definire allora lo spartiacque tra la significazione
«buona» e «cattiva» del bianco e del nero proprio nel concetto di brillanza e di luminanza51, che valorizzano il versante positivo, vitale,
dei due termini (in quanto vi è certamente anche un nero brillante
e profondo che si rivendica uranico, figlio del fuoco), oppure quello
di opacità ctonia, che ha, al contrario, una significazione di ottundimento, di passività devitalizzata, di orrore e quindi di morte52 (come quel (Bianco)Veleno di morti Soli nelle nostre Menti che è la droga per William Burroughs, oppure quel bianchissimo mostro-divinità, epifania di morte per il capitano Achab in quell’addensarsi
opaco e carnale di Moby Dick, la balena bianca53); giacché, se è vero che il rapporto tra i due colori esprime sempre l’alternarsi della
vita e della morte – tendendosi ad attribuire il nero al regno delle
ombre e il bianco a quello della luce, tanto che l’alternarsi del colore
chiaro a quello scuro starebbe a significare il continuo passaggio
dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita (concetto ben rappresentato da un’immagine sepolcrale etrusca, dove il genio della morte che appare dietro al letto del defunto ha la tunica, i calzari e le ali
di colore nero, mentre il corpo è bianco54) –, essi possono tuttavia
scambiarsi di segno e significare di volta in volta l’una o l’altra. A
ogni significato attribuito a uno dei due termini significanti si affianca un identico valore attribuito specularmente all’altro termine,
così da saldare la catena simbolica.
Sembrerebbe tuttavia restare di base un isomorfismo negativo
dei simboli di animali malefici, dei mostri infernali, delle tenebre e
del rumore (e quindi del nero), tanto che l’universalità dello choc
nero lo conferma, essenza pura del fenomeno d’angoscia, la cui pura incarnazione sembra quell’uccello d’ebano, quell’orrido cupo e antico corvo che Poe scongiura:
Ritorna alle tue tempeste e alle plutonie rive della Notte!
talché:
sembrano i suoi occhi d’un demonio che sogni55.
Isomorfi invece alla luce sono giorno, chiarità, azzurro, raggio, visione, grandezza, purezza; soggetti di trasformazioni che si modulano
tutte però su schemi ascensionali, che sempre si accompagnano a
simboli luminosi, come l’aureola e l’occhio e animali dal simbolismo
uranico56.
Le differenti interpretazioni simboliche del bianco e del nero si
spiegano anche per il contesto storico o socioculturale nel quale si
50
INTRODUZIONE
sviluppano e che possono far virare o addirittura ribaltare la connotazione significante. È emblematico ancora una volta a questo riguardo, lo slittamento del valore oppositivo della coppia linguistica
bianco-nero, così che se normalmente il bianco è valorizzato positivamente (almeno nella sua connotazione di brillanza), tuttavia presso le moderne culture «nere» afro-americane o afro-anglofone, in opposizione invece alla cultura «bianca», è l’opacità del nero a testimoniare positive valenze di fisicità, materialità, concretezza e quindi di
identità e di presenza, come riconoscimento e rivendicazione di un
«essere» proprio all’etnia negra, di contro alla vaghezza, alla incorporea fantasmicità del bianco, percepito nelle sue caratterizzazioni
«opache», come illusione, assenza, mancanza di identità e, infine,
come significante di morte57. Non è l’«annerirsi», lo «sporcarsi», che
indica il degrado, bensì «l’imbiancamento», tanto da invertire anche
tutta la costellazione semiotica escatologica, così che il mito cosmogonico della Nation of Islam (l’organizzazione politico-religiosa dei
cosiddetti Musulmani Neri di cui fece parte Malcom X), definisce in
termini di sbiancamento la perdita del Paradiso Terrestre e la nascita della violenza e della barbarie. Secondo il mito (riportato nella autobiografia dello stesso Malcom X) l’umanità originariamente
era composta di persone di colore, ma uno scienziato di nome Yacub, per vendicarsi di torti immaginari, diede inizio a una sistematica manipolazione genetica, tale da creare, nel corso delle generazioni, una razza di «diavoli biondi» dalla pelle chiara e dagli occhi celesti» che trasformarono «quello che era stato un paradiso terrestre
in un inferno dilaniato dalle lotte e dai contrasti». I «diavoli bianchi»
insomma, erano originariamente dei neri che hanno smesso di essere, o di sentirsi, tali58.
Ora, queste dislocazioni di senso, se le consideriamo dal punto di
vista semiogenetico, sono determinazioni incidenti che devono essere spiegate individualmente. Ma a monte, esse convergono tuttavia verso un’universalità transculturale, poiché tutti noi disponiamo
di uno stesso equipaggiamento neurofisiologico, avendo occhi particolarmente sensibili alla luce e vivendo in un ambiente naturalmente binario, ossia fondato sull’alternanza tra giorno e notte. «La
semiogenesi del nero e del bianco sono gli ultimi interpretanti delle
metafore visuali proprie ai sistemi simbolici, linguistici e altro»59.
Potremmo allora concordare con Durand quando dice che «la perennità del simbolo conferma la perennità delle cose», per cui, «lo
stesso isomorfismo semantico raggruppa i simboli della luce e gli
organi della luce, cioè gli atlanti sensoriali che la filogenesi ha orientato verso la conoscenza a distanza del mondo»60.
51
INTRODUZIONE
La bianchezza della luce, nella sua forma simbolica di purezza e
di tensione ascensionale, rimanda a determinanti isomorfe di elevazione a una purificazione, proprie al Regime Diurno, e avvalora
una mistica uranica (ogni epifania, ogni apparizione di un segno o figura sacra è circonfusa di luce, segno certo di una presenza dell’aldi-là, e Dio stesso, prima di accingersi alla creazione, si avvolse in un
mantello di luce bianca)61. Il cielo diviene quindi una stoffa preziosa
con cui Dio si riveste, fatta di materia lucente, di gloria e di fulgore:
Quanto grande sei tu mio Dio!
Di gloria e di splendore sei vestito
Ravvolto di luce come in un manto
i cieli srotoli come un tappeto62.
La connessione divinità-abito di luce si ripropone in diversi contesti, e Mircea Eliade ci riporta come anche l’Essere Supremo dei Ewe,
il mitico Mawu (il cui nome deriva da wu, «stendere, coprire») s’ammanti di luce: «l’azzurro del firmamento è il velo con cui Mawu si
copre il viso, le nuvole sono la sua veste e i suoi ornamenti, l’azzurro e il bianco sono i suoi colori preferiti – (il suo sacerdote non può
portare altri colori) – La luce è l’olio con cui il dio unge il suo corpo
smisurato»63. Si evidenzia così anche un’altra caratteristica della luce: una sorta di «liquidità oleosa», dovuta a quel suo avvolgere setosamente il corpo divino, così che sempre l’Unto del Signore è perciò segnato dalla sua predilezione:
O che li unga con luce di cielo!64
La luce bianca è dunque davvero quella originaria, da cui derivano
tutti gli altri colori. «Mélopea» del Sacro che s’annuncia, circulata
melodia che è fusione di luce-colore e primo grado stupefatto di conoscenza 65, la luce è anche invocazione:
O Dio di ogni Dio! Fai salire la litania della Luce.
Fai trionfare il popolo della luce. Guida la Luce
Verso la Luce. Amen66.
S.Y. SOHRAVARDÎ
Riflesso dell’inconoscibile, è la Luce celeste incolore o poco colorata e il bianco mistico si «sovraillumina» con riflessi d’oro, giacché il
dorato è pure sinonimo di bianchezza, e l’oro è pura goccia di Luce
mineralizzata. Nell’oro si materializza, si «sustanzia» il raggio sola-
52
INTRODUZIONE
re, «occhio» fiammeggiante di luce, i cui attributi naturali sono scettro e spada, simboli ascensionali nella loro verticalizzazione, che valorizzano una virilità aureolata di potenza67, seppure vi sia anche
differenza tra oro-colore e oro-materia, giacché, se il primo si espande in luminosi orizzonti sacrati dallo splendore divino, il secondo si
cela nel ventre profondo della Madre Terra, escremento prezioso di
una digestione millenaria, che si ipervalorizza, nel suo essere ricchezza, ambivalentemente tra un significato negativo di avarizia e
uno positivo di intimità, tanto che Dumézil indica nei miti l’opposizione radicale che esiste tra l’eroe guerriero e l’uomo ricco, come
il frequente avvaloramento negativo del census iners, dell’oro fatale all’eroe, alla purificazione eroica68. Così, se il primo partecipa alla costellazione simbolica del Regime Diurno, alla tensione verso la
trascendenza, alla progressiva rarefazione del Sé che marca ogni
percorso di spiritualizzazione contemplativa, sino a poter pervenire all’ossessione angosciata della luce, agli orizzonti abbaglianti che
invadono e annichiliscono lo psichismo «allagato» dello psicotico, nel
quale i processi di distorsione percettiva come l’ingigantimento immaginario si accompagnano sempre a una
luce implacabile… splendente… accecante… impietosa69
il secondo affonda nel materico e ctonio Regime Notturno, quintessenza nascosta, «intimo» tesoro promesso all’audace o al fortunato.
Questo oro «terreno» si rivela sale della vita e si valorizza come speranza finale del parto misterico maturato nell’utero gestatorio della storta alchemica, ma anche si corrompe e si appesantisce, nel
cerchio illividito della corona del potere
[…] e a suo volere tormentò
il ferro e l’oro, che sono schiavi e emblemi
della potenza […]70
come nel sudaticcio lucore della moneta, e si mistifica, infine, funestamente, nell’«oro matto» della falsificazione, perché invero, con
Groddeck possiamo convenire che
Perle di vetro e oro matto sono ornamento della morte71
poiché il dorato è anche colore della falsa apparenza, dell’ipocrisia
che in Dante si copre di «cappe rance»:
53
INTRODUZIONE
Di fuor dorate […] sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto […]72.
Indubbiamente l’oro è il metallo solare per eccellenza; per la sua rarità, la sua duttilità, la sua natura incorruttibile e soprattutto per
il suo colore, è vero riflesso di sole, tanto che anticamente si credeva che le pepite d’oro fossero i raggi di sole congelati e le divinità solari erano ovunque dipinte in oro.
Anche l’orizzonte sognato «tinge» di sfumature dorate l’azzurro
solitario del cielo, riflesso di una purezza archetipica, e tuttavia, nota Gilbert Durand: «si faccia bene attenzione a questo simbolismo
del dorato che rischia di far biforcare l’immaginazione verso i sogni
alchimistici dell’intimità sostanziale. Non si tratta qui che dell’oro
visivo, in qualche modo dell’oro fenomenico, dell’“oro colore” di cui
Diel ci dichiara che è rappresentativo della spiritualizzazione e che
ha un carattere solare marcato. Ci sono in effetti, due significazioni opposte dell’oro per l’immaginazione, secondo che esso sia riflesso o sostanza prodotta dalla Grande Opera, ma queste significazioni si mescolano e danno spesso simboli assai ambigui. Cerchiamo di non prendere in considerazione che l’oro in quanto riflesso e
vediamo che esso forma costellazione con la luce e l’altezza e iperdetermina il simbolo solare»73.
Certo, nel mundus imaginalis mistico della luce, il cielo non si può
rappresentare iconograficamente con nessun colore, ma esclusivamente con l’oro. Florenskij infatti sostiene che: «Quanto più scrutiamo il cielo, specie intorno al sole, tanto più si insinua in noi il pensiero che non è l’azzurro il suo sogno caratteristico, bensì la lucentezza della luce diffusa dello spazio e che questa profondità luminosa si può rendere soltanto con l’oro: il colore sembra torbido, piatto,
opaco». Soltanto con il Romanticismo l’azzurro diventa dominante a
«rappresentare» il cielo, ma si tratta allora di un cielo atmosferico
(come già del resto nella pittura settecentesca) e «metafisico», che avvolge le forme, simbolo del pensiero e non più pura contemplazione
del mistero religioso. Nella piena manifestazione del suo riflesso metallico, luminoso, l’oro con il suo colore è inconfondibile. Occorre, afferma ancora Pavel Florenskij, «tenere l’oro alla giusta distanza dai
colori», giacché esso «è pura luce senza mescolanza e non rientra fra
i colori che si percepiscono come luce riflessa: i colori e l’oro appartengono otticamente a due distinte sfere dell’essere. L’oro non ha colore anche se ha un tono». Così, gli assorti pittori di icone, oltre al
fondo dorato, ombreggiavano anche d’oro i manti delle loro angelicate Madonne e dei Santi («testimoni della luce divina mercé i loro
sguardi ascetici come irraggianti dal disco del sole») sì da dotare
54
INTRODUZIONE
quelle immagini archetipiche di un significato concretamente metafisico, destando nella coscienza del riguardante una visione tutta
spirituale. Infatti «come una visione sfolgorante, straripante di luce
si mostra l’icona», in quanto è «visibile rappresentazione di spettacoli
misteriosi e soprannaturali»!
Tramite questo riflesso d’oro «incommensurabile», l’icona si fa luce; non è «somigliante» alla luce, non si collega per un’associazione
soggettiva a una nozione di luce «rappresentata», ma è la luce stessa nella sua identità ontologica: «quella stessa luce invisibile in sé
e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio»74.
Visione? Sì, visione
come altro nominarla?
Ma non è essa dal cuore
né dal sogno, viene
– lo sa profondamente
lui – dal seme
di una remota antiveggenza
di padri, di sapienti. A lui
viene, perché in immagine si acclari,
perché in immagine si stampi
e rifulga il suo lavoro
e lo smaghi e lo catturi
con le sue terre, i suoi azzurri,
i suoi ori. O delirio
di sovrumana grazia75.
M. LUZI
È sempre quindi visione celeste, davvero delirio di sovrumana grazia,
ovunque quella sottile rete d’oro si posi, ad aprire spazi di trascendenza o di silenziosa magia (l’usanza dell’oro è tipicamente orientale, mistica e affabulante). Il fondo dorato, poi, toglie ai corpi la loro
tangibilità, li rende ieratici, e apre prospettive di lontananze, non di
lontananze atmosferiche (compito, questo, dell’azzurro!) bensì di un
sovrumano «altrove», essenza e azione dello spirito divino.
[…] di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce76.
DANTE ALIGHIERI
Destino altro dal giallo, colore questo sì terreno, «carnale», sebbene
poi si renda metafora della luce e dell’oro stesso, sostituendolo, assommato al bianco, così da rappresentare «illusoriamente» ma con
intento naturalistico la materia77. Paradossalmente, infatti, l’uso realistico dell’oro sul quadro diventa assurdamente falso: «[…] nemme-
55
INTRODUZIONE
no gli ori, e in genere gli oggetti metallici, si raffigurano con l’oro, e
nei rari casi nei quali li si rende con l’oro, questo diventa abominevole e la pittura aurea sta sul quadro come un pezzo dorato casualmente appiccicato alla superficie, che quasi la voglia cancellare»78.
Ma pur se il giallo appartiene di diritto ai mitologemi della luce per
il suo gioioso carattere luminoso e attivo, simbolo della chiarezza
materiale e spirituale (psicologicamente indica infatti la conoscenza
ed è considerato quale sinonimo del Sé) esso può, al contrario, assumere anche sulfuree simbologie ctonie e malefiche (di malattia,
acidità, decomposizione, viltà e tradimento); la differenza sta tutta
nel rapporto tra l’oggetto rappresentato e la luce. Nella pittura l’oggetto è soltanto «illuminato» dalla luce che, secondo una resa illuministica, viene «suggerita» dal colore, mentre nelle icone e nelle tavole l’oro è se stesso e contemporaneamente anche luce; ierofania
sfolgorante, splendor, riflesso della luce soprannaturale piuttosto che
una semplice qualità del materiale stesso79.
Questa adamantina qualitas della luce che trapassa ogni materia, nella sua alata identità tra splendore e brillantezza, si acclara
pienamente a Dante nel Paradiso:
[…] lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita80.
56
INTRODUZIONE
Capitolo III
MITOLOGIE LUMINOSE
Le mele d’argento della luna
Le mele d’oro del sole.
W.B. YEATS
[…] e quando il sole apparve, era rosso e brillante […]
e nessuno poteva fissarlo […]
abbagliava e mandava raggi in tutte le direzioni1.
Così La legenda de los Soles narra di come il Quinto sole degli aztechi nasca da un sacrificio divino nel fuoco, evidenziando un’ulteriore rifrazione simbolica della luce: il rosseggiare della fiamma, sia
essa fuoco celeste, solare, o terrestre (sua emanazione) si aggiunge
al cromatismo aureo, uranico e a quello paradisiaco del bianco. La
luce del fuoco rende visibili le cose anche nelle tenebre, da qui la
sua associazione con la verità che ritroviamo quasi ovunque. Per la
sua capacità di riscaldare e di illuminare il mondo, e di respingere
vittoriosamente le forze del male e la morte, sovente, come per i seguaci di Zoroastro, il disco raggiante e alato del sole diventa l’immagine vivente della fede. Nell’Iran preislamico, per esempio, il dio
Ahura Mazdâ era rappresentato sotto l’aspetto di un disco solare
alato, talvolta sormontato dal busto di un personaggio con la barba; mentre solo molto più tardi compare il nome mazdaico
Zarathustra (in greco Zoroastro) la cui dottrina, rigidamente monoteista, diventerà la religione ufficiale dell’Impero persiano nel III
sec. della nostra era2.
Tutte le cose vivono e si muovono grazie all’energia del fuoco che
è primariamente luce e calore. Asha infatti (il cui significato letterale è il modo in cui le cose si muovono, imparentato linguisticamente al sanscrito rta, cioè l’ordine cosmico) è anche fuoco, e come
tale assume significati morali di giustizia, quale verità «illuminante», se anche gli iniziati di Mithra, il dio iranico (omologo del dio vedico Mithra, e in latino, Sol invictus) erano «(ri)nati alla luce». Quale
dio dell’alleanza fondata su un contratto, custode della lealtà, «testimone» per eccellenza, ma anche divinità combattente, arciere come Apollo, invincibile, egli era un dio solare, o meglio personifica-
57
INTRODUZIONE
zione del sole stesso, il Sol invictus, appunto, la cui luce è il simbolo assoluto del «Bene Sovrano»3.
Luce! Creatore di luce,
Luce primaria, che dimori nella luce inavvicinabile:
Padre celeste, benedetto delle schiere
Di coloro che si adornano di luce.
All’alba di questo mattino di luce,
Fa che i raggi facciano sgorgare dalle nostre anime
La luce della Tua saggezza4.
Il Sole, fiamma celeste, non è quindi soltanto, nel suo illuminare e
scaldare, la fonte della vita fisica sulla Terra, ma anche costellazione di significati che irraggiano tutta l’evoluzione spirituale dell’uomo. I molteplici simboli dell’universo psichico umano convergono e
si significano nei miti e nei riti solari, alla perenne ricerca di una
«trascrizione» nell’anima di una «illuminazione» non più contingente, materiale, bensì spirituale, trascendente, che dia ragione del
perché dell’esistere. Perciò così canta l’Iperione hölderliniano:
O sacra luce, che senza pace si aggira operante nel suo regno immenso e rende me partecipe della sua anima per mezzo dei raggi
che io bevo, la tua felicità sia anche la mia.
I figli del sole si nutrono delle sue imprese: essi vivono della vittoria, essi si ridestano per forza del loro spirito, e la loro forza è la
loro gioia5.
«Come spirito e aria, così verità e luce solare sono essenzialmente
uguali. La verità, che “è tutto ed eterno tutto” si ritrova a un tempo
fuori dell’uomo, nel Sole, e dentro di lui, nel suo essere solare, come
in un unico “seme aureo”, da cui germoglia in eterno l’albero della vita». Così Karol Kerényi sintetizza i pensieri che Hölderlin esprime
nell’Iperione, ponendoli a prefazione («quasi parole di presaga conoscenza di un mitologema da lungo tempo scomparso») del suo studio
sulle figure mitiche legate al sole6.
Ove sei tu? Ebbra l’anima mi trasogna
d’ogni tua voluttà: poiché ascolto
come d’aurei suoni traboccante
l’incantevole giovinetto solare
il suo canto serotino su lira celeste suona:
echeggiano intorno le selve e i poggi.
Ma lungi egli, a popoli pii
che ancora l’onorano, è fuggito7.
F. HÖLDERLIN
58
INTRODUZIONE
E seppure l’uomo moderno abbia perduto Helios – «È mera presunzione credere che noi vediamo il Sole così come lo vedevano le antiche civiltà. Tutto ciò che vediamo al posto del Sole è un piccolo
corpo di luce fisica, un globo di gas ardente. […] Noi possiamo ancor oggi vedere quello che chiamiamo Sole, ma Helios lo abbiamo
perduto per sempre, e ancor più il grande disco dei Caldei»8 – e dimenticato la sacra numinosità che spingeva il nostro antico progenitore a incidere petroglifi – evocazione e richiamo della divinità solare – e a trascrivere il simbolo del Sole in ideogrammi significanti
anche fuoco, luce, calore, cioè vita, tuttavia ancor oggi Chi dice che
il Sole non può parlarmi?
Tu che guarisci e uccidi
Signore della morte e della nascita
rivolta il vomere,
già
arata è la terra
gravida dei tuoi figli.
Che cosa chiedi, che cosa
ancora
premi per avere
nonostante i lunghi dinieghi
i colloqui interrotti
mai penetrati là
dove non ha luce il tuo ultimo
(o primo)
raggio? 9
S. VIRGILLITO
Se in Grecia Helios era assimilato a una divinità paterna, dal volto
raggiante, che tutto vede e tutto ascolta e per questo considerato
anche dio dei giuramenti, evocato quale il più fido e garante testimone di verità – tanto che poteva essere invocato come tale, in
quanto «il momento etico della qualità di testimone del dio Sole ha
nella sua procreatività una naturale radice»10 – altrove egli è anche
il fanciullo-sole, quel Mithra appunto, invincibile, dotato di infallibile arco, che i romani veneravano nel giorno del solstizio d’inverno,
quando l’allungarsi del giorno annunciava un rinnovamento della
vita paragonabile alla rinascita del dio stesso. Nei secoli successivi
alla nascita di Gesù Cristo, per un processo di sincretismo questi,
quale «sole della rettitudine», venne celebrato al posto della festa del
Sole Invincibile. E riti di fertilità riattualizzavano ovunque il mito solare, accentuando l’importanza del calore e della luce solare come
forze generatrici della vita. Feste, processioni, rituali (a volte anche
cruenti) collegati al Sole erano praticati ovunque, sia per rievocare
59
INTRODUZIONE
la sua forza vitale, sia per «incoraggiare e assistere» l’astro solare
quando esso sembrava «esitare e vacillare» al passaggio da una stagione all’altra (cioè nel solstizio) e per scongiurare una sua estinzione durante un’eclissi. Così gli indiani Ojibway del Nord America
e i Senci del Perù orientale scoccavano frecce incendiarie in direzione del Sole oscuratosi durante un’eclissi affinché si riaccendesse, mentre presso alcune comunità di agricoltori dell’Asia meridionale ancor oggi viene celebrata la cerimonia del Cadak, nel corso
della quale un uomo agganciato a un alto palo oscilla per aiutare
magicamente il passaggio del Sole dal Sagittario al Capricorno. Tutti
questi riti si rifacevano a una magia «cerimoniale» con la quale si
tentava di controllare, attraverso una partecipazione, quegli eventi
naturali altrimenti inconoscibili e paurosi.
Se i contadini francesi costruivano torri di fuoco alte anche trenta metri (le chevandes), sì da fornire al Sole energia perché potesse riprendere il suo viaggio intorno alla Terra durante i periodi critici precedenti il cambiamento dell’orbita, dalla notte più lunga (21
dicembre) alla più corta (21 giugno), un significato propiziatorio e di
«aiuto» al sole, durante il solstizio d’estate, avevano anche le danze
che intrecciavano intorno a un falò i popoli slavi, baltici e di altre
culture nordiche, per i quali era assai più importante «energizzare»
il loro anemico astro11.
Fortemente avversati dalla Chiesa, che vi rintracciava residui di
credenze pagane, questi riti connessi ai solstizi (ancora diffusi nelle campagne addirittura fino alla fine della prima guerra mondiale)
volevano offrire al Sole nuova forza nel momento della sua massima debolezza, e cioè quando l’astro si ferma prima di invertire la
sua orbita («solstizio» deriva infatti da sol sistĕre, ovvero «l’arrestarsi
del sole»), credendo che in tale periodo esso fosse più sensibile a un
intervento esterno, cui, certamente, sarebbe poi seguita una riconoscente energia da profondere sulla terra.
Una grande festa del fuoco, derivata dall’epoca celtica pagana e
celebrata fino al XIX sec. in Aquitania, consisteva nel far girare delle ruote (uno dei simboli più universali del Sole), o farle rotolare, infuocate, giù da una collina verso un fiume, e un’analoga cerimonia,
benché si trattasse ancora di un antico rituale di fertilità «assimilato» dai riti cristiani, si svolgeva al solstizio d’estate per celebrare
la nascita di san Giovanni Battista12.
Alcuni presero una ruota marcia, tutta rovinata e scheggiata
la coprirono di paglia e la riempirono di stoppa:
la portarono sulla cima di una montagna e con il fuoco era tutta
illuminata,
60
INTRODUZIONE
la buttarono giù con violenza, quando la notte era oscura:
molto simile al Sole, che dai cieli scenderà13.
R.C. HOPE
Danze, corse e salti intorno o sul fuoco di falò accesi sotto la volta
stellata, processioni e folli discese giù per le colline con torce accese
in mano, si sono ripetute per secoli, avendo sempre come «attori» i
giovani del villaggio, le «forze nuove» della comunità, per ribadire una
parentela con l’astro diurno e per sollecitare fertilità e prosperità per
tutto il villaggio. Ma quanti sanno che anche sport oggi praticati sono dirette filiazioni di riti solari? Il polo, per esempio, che sembra fosse noto ai Persiani sin dal tempo di Dario I (522-486 a.C.) e praticato del resto anche in India all’epoca degli Hun (V sec.), nel suo originale significato di «gioco del sole» si giocava con una palla infuocata
(«la palla del sole», appunto) che i cavalieri, montati su agili destrieri, spingevano attraverso il «campo del cielo». E se la palla rappresenta ovunque un simbolo del Sole (qui iperdeterminato dal fuoco), il
goal celebrava la vittoria della luce sulle tenebre, del bene sul male.
Ma la palla rappresenta un simbolo solare anche in molti altri
sport, dal calcio all’hockey, dal cricket al basket. In quest’ultimo,
per esempio, il Sole è evocato dalla forma e dai tracciati del campo,
che ricorda vagamente una meridiana, come pure dalla dinamica
del gioco e del punteggio. Come gli altri sport, anche il baseball simbolizza il ciclo stagionale del sole, allo stesso modo in cui le antiche
gare cerimoniali erano parte integrate dei riti di fertilità14.
Nell’icona del Sole convergono plurimi significati, uno letterale
(astrale), che lo disegna nel suo eterno viaggio celeste, e uno metaforico, quale rivelazione dell’Altissimo (vedi epiteti solari applicati
a personaggi divini). Gesù, per esempio, nella Sua Trasfigurazione
appare a Matteo «simile» a sole:
Il Suo Volto risplendeva come sole e le Sue vesti erano bianche come la neve15.
Nell’Apocalisse, ancora, il sole è una metafora che esprime la grandezza e la magnificenza di Dio che illumina il mondo rinnovato:
La Sua testa e i capelli eran bianchi come la neve: e i Suoi occhi
come fiamma di fuoco […] e la Sua faccia come il sole (allorché)
splende nella sua potenza16.
Un terzo significato è infine quello simbolico (cosmico) che instaura un nuovo ordinamento eliocentrico e che fonda il culto di una
61
INTRODUZIONE
mitologia solare, ribadendo una filiazione dell’uomo con il divino (secondo quella partecipation mystique che Lawrence rimpiangeva: Abbiamo perduto il cosmo allorché siamo usciti dalla corrispondente comunione con esso: questa è la nostra più grande tragedia17), quel «centro» che invece la cosmologia antica affermava anche in questo inno egizio:
Poiché io sono l’uovo dell’Oceano Cosmico
possano le mie forme cangianti
dimorare protette dagli dèi! […]
Io sono la sorgente dell’Equilibrio dei Mondi.
Io vortico in cerchi attorno all’Uovo Cosmico:
i miei raggi lo illuminano […].
Oh voi, Spiriti divini che rallegrate le due regioni,
fate buona guardia innanzi all’Uovo Cosmico
che riposa sul fondo del Nilo celeste18.
Centro cosmologico, dunque, il sole, vertice raggiato di forza vitale
e di potere, a cui, come testimoniano antichissimi graffiti, porgere
le palme in segno di devozione e «catturare» forse anche particelle di
energia. Infatti numerosissimi petroglifi, risalenti a migliaia di anni fa e disseminati in paesi lontanissimi tra loro, raffiguranti mani
(che talvolta erano anche dipinte con la tecnica dell’impronta o del
colore «soffiato» con cannucce) testimonierebbero un antichissimo
rito solare, il quale forse si ripeteva ancora nelle danze rituali africane rilevate da M. Homet nel 1930: «Perciò nel corso delle danze
quando cadeva la notte e il sole scompariva all’orizzonte, i danzatori
si arrestavano, tendevano le mani verso il dio sole, le palme rivolte
verso l’alto, offrendo così anche l’anima dei loro morti»19.
Ma, quale che sia l’epifania iconica del Sole, e che si manifesti in
forma di fanciullo di luminosa bellezza (Mithra), o padre fecondo (Helios, Râ), o dio dalla testa di falco (Horus) o come fuoco (Agni), egli è
sempre colui il cui occhio brillante parla20. Occhio del mondo, che tutto vede, e per il quale la terra tutta vede, giacché l’onniscienza è attibuto divino e l’uomo è reso intimamente partecipe al Sole non solo
per mezzo degli occhi, – che sono di natura solare (Sì, l’uomo è un sole che tutto vede […] quando ama afferma infatti ancora l’Iperione hölderliniano) – o della paternità solare, ma anche in virtù della sua propria solare intimità, della sua piccola ardente coscienza (little blazing
consciousness) perché anche il Sole ne ha una grande, a great blazing
consciousness, come sostiene ancora Lawrence21, e se ovunque, in
ogni luogo e in ogni tempo, luce e colore sono le manifestazioni simboliche di un principio primo, «è solo grazie alla presenza di una par-
62
INTRODUZIONE
te di tale principio nell’uomo che è possibile la comprensione o meglio
la “anamnesi” delle forme ideali, di cui la luce è emanazione»22.
E se l’occhio divino «Luce delle luci» che tutto vede è raffigurato
dal Sole, essenza (atman) spirituale di tutto ciò che esiste, la relazione che si instaura tra gli occhi e lo Spirito e la Luce ci fornisce la
chiave per comprendere il simbolismo delle raffigurazioni di divinità
provviste di molti occhi, così come dei sette occhi dell’Agnello apocalittico, dove ritorna la simbologia del numero sette come cifra sacra indicante la totalità (e i sette occhi corrispondono ai «sette doni dello Spirito» come pure ai «sette raggi del Sole», che vengono rappresentati con i sei raggi e il centro di una ruota a sei razze o una
stella a sei punte). Come nell’arcobaleno il sette, dopo i sei colori,
rappresenta la totalità, la sintesi, così il settimo raggio è quello che
riassume in sé la forza illuminante e fecondante del Sole e del fuoco. La simbologia fallica dell’occhio e del raggio ne avvalora la dinamica erotica, ben riconosciuta dagli antichi, che tradizionalmente assimilavano il fallo alla fiamma e inducevano le giovani donne
sposate a esporsi appunto ai raggi fecondi del Sole, cosa che, invece, era ovviamente assolutamente sconsigliata alle vergini.
L’altro epiteto che indica le funzioni e il prestigio divino è quello
dai mille occhi, formula mitica delle stelle, metafora che designa,
originariamente, la divinità uranica nella sua onniscienza e infallibilità23. Così si invoca Osiride dai molti occhi (Plutarco); Occhio di
Zeus che vede tutto (Esiodo), ma anche Mithra dai mille occhi […] onnisciente e Varuna e Agni, anch’essi dai mille occhi, nonché il Dio
Unico che ha occhi dappertutto.
Sempre ritorna l’iconografia sacra dell’occhio «centro» divino, che
si significa anche come «fallo fecondante»: «una volta compreso che
la luce è procreatrice […], che i molti raggi del Sole sono i suoi figli
[…], che egli riempie questi mondi dividendo la propria essenza […]
pur rimanendo indiviso, cioè totalmente presente, negli esseri divisi […] e che egli è collegato a ciascuno di questi figli da un raggio o
filo di luce pneumatica […] da cui dipende la loro vita, non sarà difficile capire perché la Luce delle luci, che in sé è l’occhio unico di tutti gli dèi […] debba anche apparire alla nostra facoltà iconografica
come provvista di molti occhi […]. Dal punto di vista della nostra
molteplicità, il Sole è al centro di una sfera cosmica e i suoi innumerevoli raggi si stendono in ogni direzione verso i confini di questa,
cosicché le tenebre sono riempite di luce, e se si dice che questi raggi sono “mille”, è perché “mille significa tutto” ed è per mezzo di questi raggi che egli conosce le forme espresse che essi raggiungono»24.
Questa rappresentazione iconografica e simbolica si riallaccia alla
63
INTRODUZIONE
teoria tradizionale della visione, così che ciascuno di questi raggi
comporta un «occhio» o una «pupilla» da cui procede, e un occhio che
esso raggiunge e attraverso cui passa. Secondo questa teoria la visione avverrebbe infatti per mezzo di un raggio di luce proiettato verso l’esterno che parte dall’occhio, e «a vedere non siamo tanto noi,
quanto piuttosto Lui attraverso noi».
E la luce, occhio divino, eros maschile, penetra, fecondante, nelle architetture «uterine», siano esse la yurta mongola, la cui piccola apertura «ginecologica» sul tetto filtra un raggio luminoso che si
espande invece in fiotti di luce nella cupola del pantheon di Adriano, o i dolmen neolitici, come la tomba di Newgrange, dove, per alcuni minuti immediatamente successivi al sorgere del sole nel giorno del solstizio d’inverno, i raggi penetrano attraverso la fessura e
illuminano il corridoio in tutta la sua lunghezza (62 piedi), dando
luce alla camera centrale, ed evidenziando le incisioni a forma di
tripla spirale poste sul fondo. Il tutto obbediva a un allineamento
astronomico volutamente simbolico, che considerava il punto del
solstizio d’inverno come tempo di rinascita e rinnovamento, e accentuava la significazione sessuale e di fecondità25. L’iconografia
della «porta del Sole» è diffusa in tutte le mitologie solari, e nell’egizio Libro dei morti essa è rappresentata sia come una porta aperta
(quella del giorno e della vita) sormontata da un disco solare e custodita da una raffigurazione antropomorfa o zoomorfa del dio Sole,
sia come una porta chiusa (quella del tramonto e della morte), che
sbarra l’ingresso a chi non è autorizzato a varcarla26.
Tutte «porte» verso un altrove, quindi, queste architetture solari, varchi luminosi, pietrose testimonianze di un duplice transito:
verso la vita o verso la morte, dove appunto l’irragiarsi della luce si
fa «corda d’oro» per ascendere all’infinito. In numerose cosmologie
la luce (i raggi luminosi) si intesse appunto in una «corda d’oro» che
sostiene e unisce la terra alla volta celeste; il Sole lega a sé i mondi per mezzo di un filo, e la catena d’oro è insieme l’immagine del legame spirituale tra Cielo e Terra, tra l’uomo e le potenze superiori:
Ti porgo la cima d’una corda d’oro,
Tu avvolgila in un gomitolo:
Ti condurrà alla porta del cielo
Costruita nel muro di Gerusalemme27.
W. BLAKE
E vi sono tuttavia due Soli! Quello del giorno e quello della notte,
giacché nel suo eterno, giornaliero viaggio da Oriente a Occidente,
il Sole, come recita l’inno orfico, è a destra padre dell’aurora, a sini-
64
INTRODUZIONE
stra della notte 28. Indebolito e vecchio, infine s’inabissa nelle tenebre, dalle quali poi nuovamente emerge giovinetto, come quel dio
solare etrusco Cautha (o Uzil), il cui giovane corpo, alato, e con la
pelle di serpente, viene fuori dall’acqua con le due mani aperte e
puntate verso il basso, certo a rappresentare contemporaneamente l’alba (il corpo emerge dall’acqua) e il tramonto (le mani puntate
verso il basso), evocando, appunto, una sorta di teologia solare con
credenze dualistiche simbolizzate dal Sole del giorno e della notte29,
secondo concetti di fecondità e rinnovamento, di morte e rinascita,
nell’eterno oscillare fra Eros e Thanatos, proprio come quel dio solare azteco evocato come sospeso in volo dall’infiammata fantasia di
Lawrence:
Il Signore della Stella Mattutina
Stava nel mezzo, tra la notte e il giorno:
Come un uccello ad ali aperte che aspetta
Con l’ala destra splendendo di luce,
E la sinistra nell’oscurità30.
Anche le differenti fasi del corso diurno del sole acquistano nei culti solari una propria personalità, e soprattutto si individuano e si
personificano come Oriente e Tramonto, talvolta indipendenti dall’ora della piena solarità:
Per te le fiamme luminose partoriscono l’alba del giorno per te
l’Oriente dalle dita rosate avendo misurato il polo meridiano sale
poi afflitto fino alla sua sede, più oltre si fa incontro a Te il Tramonto31.
Ma in tal modo si evidenzia anche la fondamentale ambivalenza del
sole e del fuoco, giacché, come si afferma nell’Apocalisse:
La luce non è solo gloriosa e sacra, ma anche vorace, carnivora e
spietata. Essa divora tutto il mondo, senza distinzione32.
Dopo esser stato fonte di vita, il Sole ne segnerà dunque anche la fine: «Tuttavia buona madre Terra, sorgerà un millennio in cui tutti
i figli ti saranno morti, in cui l’infuocato vortice del sole ti avrà fatta turbinare intorno a sé in cerchi troppo stretti, divoranti […]»33.
Perciò questo Sole della vita e della morte era raffigurato anche
come teschio, con un tridente d’oro infuocato, installato sul tetto
dei monasteri buddisti appollaiati sui picchi dell’Himalaya.
Così anche:
65
INTRODUZIONE
Guardatevi dallo Horo con gli occhi rossi,
Cattivo per l’ira, alla cui anima non si può resistere34.
Non è più benefico il suo occhio quando s’infiamma irato, o quando «abbrucia» spietato le stoppie senza ristoro di piogge, e sembra
anche malignamente godere dell’arsura dell’anima martirizzata:
quanta sete avevi, stanco e abbruciato,
di lacrime celesti stillanti rugiade,
mentre sull’erba gialla dei sentieri
ti correvano intorno tra alberi neri
vespertini sguardi malvagi del sole,
abbaglianti, accesi, sguardi del sole, maligni?35
F. NIETZSCHE
Padre di ogni vita, il Sole, nella sua inesauribile energia e potenza,
si polarizza nell’immaginario secondo un duplice transfert paterno,
rivelando di volta in volta il lato amorevole e quello, invece, terrificante: e certo, il Sole divorante, «leone» di fuoco, manifesta il lato
antagonista paterno. Così, il bianco loto della luce (Io sono il loto misterioso: splendido nella sua purezza come recita l’egizio Libro dei
morti) si trasforma in occhio abbagliante come specchio infuocato
quando il Sole è allo zenit, e sotto l’erosione della sua vampa calcinante il mondo reale vacilla e si confonde al sogno…
Quando sopra l’abisso un sole posa,
Opere pure di un’eterna causa,
Scintilla il Tempo e il Sogno è intendimento36
P. VALÉRY
e all’incubo, anche! Giacché in quell’ora allucinata monta l’alta marea della morte 37. L’ora meridiana è infatti «porta» sulla nervatura che
spacca il giorno e lo divide in due esatte metà – rispettivamente dedicate alle divinità uraniche e ctonie –, vertice su cui regna un Nirvana di immobilità e silenzio (Meriggio in alto, senza movimento come chiosa Valéry), «misura» del passaggio tra crescita e declino, punto di varco e scambio tra vita e morte. Momento in cui l’ombra è cancellata e permette l’affiorare dei morti-senz’ombra, insaziati vampiri di vita, e l’accedere dei vivi allo schermato crepuscolo dell’al-di-là.
Ora di passaggio, dunque. Momento critico e pericoloso che vira il
potere positivo e fecondante del sole verso contrapposti valori oppressivi e devastanti. Tempo sospeso, in cui la seduzione si fa incubo e si coniuga con l’accidia e il suo rapinoso «potere allucinatorio»
– dagli effetti depressivi sull’affettività – giocando la partita tra po-
66
INTRODUZIONE
tenza-possesso e morte-abbandono. Infine l’ora in cui si manifestano i «demoni meridiani», così che, per chi si esponeva nell’ora magica di mezzogiorno all’ardore dei raggi del sole, vi era sempre il pericolo di cadere nella follia vaticinatoria (quasi insanire 38).
Anche il serpente igneo, misterioso simbolo solare (il sacro «ureo»
egizio, come il cobra rosso, «cobra Vermelha», brasiliano39), emblema
di saggezza, può trasformarsi quindi in drago cattivo, «il drago dell’annientamento» che lascia cadere su di noi i suoi raggi e ci distrugge, giacché il Sole ama l’igneo, rosso sangue della vita – secondo
quanto sostiene Lawrence – e nel rosso del sangue e del Sole si manifesta tutta la ricchezza significante di Eros, come di Thanatos.
E ogni spazio minore d’un globulo nel sangue, si apre
Sull’Eterno, di cui questa terra vegetativa è l’ombra.
Il globulo rosso è l’instancabile sole creato da Los
Per misurare ai mortali ogni mattina il tempo e lo spazio40.
W. BLAKE
E se il dio supremo ha sete di sangue umano, l’angoscia della morte del Sole e quindi della perdita della luce – che simbolizza la forza che dà o toglie la vita –, induceva gli antichi anche a sanguinari
sacrifici per infondere a questo forza e vigore (come gli Aztechi che
«nutrivano» e «attiravano» il loro terribile Sole con il sangue delle vittime sacrificali). È attraverso il rosso del sangue che si afferma e si
ribadisce la filiazione dell’uomo al Sole, poiché, se il dorato simbolizza la sua radiazione luminosa, metafisica – sì da formare una costellazione con la luce e l’altezza iperdeterminando il simbolo solare41 – è il rosso il suo colore «fisico», percettivo, materico, quello che
lo indica e lo richiama. Infatti rossi erano gli animali a lui sacri, o
sacrificati dal sacerdote avvolto egli stesso in un purpureo mantello; rosso anche quel gallo che, simbolo del disco solare, veniva sacrificato dai Bizantini nel giorno di sant’Elia (20 luglio). E lo stesso
santo veniva strettamente correlato all’antico dio greco Helios, sia
per l’assonanza del nome, che per la sua «ascesa fiammeggiante» testimoniata dalla Bibbia.
L’assonanza sole-rosso si ripete in infinite varianti nel folklore di
tutto il mondo. Per esempio, dalla credenza dei contadini russi che
a Pasqua l’astro solare danzasse nel cielo, derivava la consuetudine
di dipingere di rosso le uova in questo giorno, per sottolineare l’affinità con il simbolismo solare (l’uovo, come vedremo più avanti, è già
di per sé un simbolo astrale, solare come anche lunare). E l’uovo come simbolo embriologico solare è presente in tutte le mitologie. Da
quello orfico d’oro, al dio solare egizio che splende nel suo disco so-
67
INTRODUZIONE
lare, all’uovo aureo di Brahma, descritto nei Rig Veda come il «Sole
splendente».
Anche sugli obelischi (veri raggi solari pietrificati) Homet indica
l’esistenza di punte piramidali in metallo rosso o giallo rossiccio, e
tracce di pittura rossa sovente si rintracciano su pietre di epoca preistorica, forse cultualmente dedicate al Sole. Poiché rosso è il colore
del sangue, esso è significante dell’Eros e quindi anche del fallo il cui
culto era molto diffuso nelle antiche civiltà indoeuropee42.
Il sole s’alza all’Est,
Vestito d’abiti di sangue e d’oro
E spade e lance e collera crescente
Tutto all’ingiro avvolgono il suo seno,
Da bellicosi fuochi incoronato e da voglie furenti43.
W. BLAKE
Certamente, questo rosso saturo e profondo, talvolta anche «riscaldato» e reso vibrante dall’oro (o dal suo equivalente «laico» pigmento giallo), rappresenta il grado più alto della forza luminosa, fecondante ma anche bellicosa, che ha sede nel Sole che fra tutti i colori
dei suoi raggi sceglie soltanto il rosso, quando viene e quando se ne
va44, ed è per questo che, oltre a Dioniso, esso viene attribuito anche ad altri dèi preposti alla forza naturale generativa, come Priapo, Pan e i satiri, e, secondo Plutarco e Servio, esso poteva essere riferito a tutti gli dèi, in quanto, come scriveva il Bachofen, «in questo senso il rosso è il colore fallico per eccellenza, l’attributo della
forza naturale creativa maschile, nel suo stadio più alto, quello solare»45. Perciò la sposa indossava un velo color fiamma come buon
augurio e in segno di fedeltà, così come la flaminica, ovvero la sacerdotessa di Giove (il cui dardo del fulmine era appunto dello stesso colore), dalla quale non era lecito divorziare.
Così anche gli Inni Orfici, dopo aver invocato Eros «[…] alato, fiammante» si rivolgono a Pan come:
[…] il potente, selvaggio Pan, totalità del mondo,
e cielo e mare e terra […]
e fuoco immortale [...]
che tutto produci e generi tutto, o nume onorato,
signore del mondo, che accresci la vita e diffondi
la luce […]46.
Ma se il rosso velluto del sangue è pegno di fertilità e di vita quando scorre impetuoso negli alvei pulsanti delle vene, sparso, s’incu-
68
INTRODUZIONE
pisce e s’abbruna e può significare anche morte: quel Thanatos la
cui terribile fascinazione tuttavia è così prossima ad Eros:
la forza imprevedibile e rossa che fa formicolare nelle nostre teste
i pensieri come tanti delitti47.
Perciò la credenza di una sopravvivenza post mortem è testimoniata sin dai primordi dell’esistenza umana dall’uso di cospargere i cadaveri con dell’ocra rossa, sostitutiva del sangue e dunque simbolo della vita perduta (che proprio quel «rosso» sangue della terra sostituisce) ma nello stesso tempo richiamo a quell’altro rosso-sangue
materno natale, che è garante di rinascita. E infatti Adamo non significa forse «rosso e vivente», giacché fu appunto impastato da
Yahweh con l’adamah, l’argilla rossa cui fu infuso un soffio vitale?48
La connotazione del simbolo fiammeggiante e luminoso del Sole
diventò un ideogramma (la svastica e le forme a questa correlate;
spirali, cerchi concentrici e rosette) che significava anche fuoco, luce e calore e indicava l’«anima vivente». Infatti simboli solari spiraliformi sono presenti nell’arte rupestre di varie regioni del mondo e
anche negli antichi specchi in bronzo, associati a significati di fertilità e quindi talvolta anche attribuiti alla luna. La spirale è altresì un motivo architettonico molto diffuso, ma anche semicerchi e
cerchi raggiati si trovano ovunque. Quanto alla svastica, essa rappresentava gli attributi cosmici e il principio generatore della razza,
interpretato come simbolo di fecondità femminile. È presente in tutte le culture; nella tradizione gnostica cristiana e nell’arte bizantina è descritta come Croce della Luce 49.
Ci sono però due tipi di svastica, e, a quella con i bracci ripiegati verso destra – simbolo della luce e del giorno (poiché ruota nella
direzione del sole) –, si contrappone l’altra (sauvastika o sawastika), sinistrogira, che rappresenta l’oscurità della notte (e fu perciò
«sinistramente» scelta come emblema nazista). Così al Sole della
fiamma e della vita si contrappone il «Sole nero», che denota la cupa introspezione dell’Angelo abbrunato della malinconia, come
quello, celeberrimo, inciso dal veggente bulino di Albrecht Dürer, o
come quello ricordato da Gerard de Nerval:
Io sono il Tenebroso – vedovo – Sconsolato,
Principe d’Aquitania dalla Torre abolita:
L’unica Stella è morta, – e sul liuto stellato
È impresso il Sole Nero della Malinconia
o ancora come i soli morenti cantati da Verlaine50:
69
INTRODUZIONE
Un’alba illanguidita
versa per i campi
la melanconia
dei soli morenti.
La melanconia
culla con dolci canti
il cuore che s’oblia
nei soli morenti.
E strane fantasie
come soli morenti
rossi ardenti sui greti
fantasmi incandescenti,
sfilano senza tregua,
sfilano come tanti
rossi ardenti sui greti
grandi soli morenti.
In Egitto il dio Seth simbolizzava appunto la «luce delle tenebre»,
malvagia e pericolosa, mentre il dio Anubis era la luce vivificante,
favorevole ed esaltante, quella da cui uscì l’universo e che introduce le anime dell’altro mondo. Anche nel Rig-Veda il Sole, il cui cocchio è trascinato da uno, o sette cavalli, tradisce valenze ctonio-funerarie in quanto manifesta attributi equini, e spesso è anche identificato come psicopompo e ierofante, ovvero colui che conduce le
anime alla sede dei giusti e conferisce immortalità. In effetti, il cavallo (soprattutto quando è nero o bianco) ha prevalenti valenze ctonie e funerarie, in quanto isomorfo delle tenebre e dell’Inferno, e anche quando è solare rappresenta sovente l’aspetto distruttore di
Febo, il suo teriomorfismo fragoroso, simbolo della fuga del Tempo,
legato al Sole Nero51.
La luce simbolizza la forza che dà e che toglie la vita: tale la luce, tale la vita. La natura e il livello della vita dipendono dalla luce
ricevuta52. Nel ciclico sparire del Sole nell’oscuro mondo sotterraneo
e nel suo riemergere intatto ogni giorno, l’uomo proietta le ansie e
le speranze nei confronti dell’oscuro mistero della morte. Per questa ragione gli antichi egizi «solarizzavano» il defunto accompagnandolo nella sua discesa verso l’aldilà osiriano e solare, in quel «laggiù» dove la potenza divina nella sua continua rinascita è costantemente contrastata dai demoni maligni. Ma se il Sole stesso è continuamente sottoposto all’attacco rinnovato di Apofi, il serpente del
Male (qui nel suo significato tellurico e ctonio), il suo risorgere mattutino testimonia la vittoria della vita contro la morte. Ed è perciò
che le eclissi solari (che i Maya di Yucatec chiamavano chi’bil kin,
cioè «morso del Sole») erano ritenute così pericolose (molto più di
70
INTRODUZIONE
quelle lunari)53, rivelandosi paniche evocazioni proiettive di un’angoscia orale per una temuta «castrazione» o addirittura per una
possibile morte del Sole stesso: oscuramento che prelude a una catastrofe cosmica ed escatologica quale anche i Vangeli e l’Apocalisse
vaticinano attraverso segni celesti:
[…] e il sole diventò nero come un tonacone di crino, e tutta la luna diventò come sangue, e le stelle del cielo caddero sulla terra54.
Ma poiché la nigredo è tuttavia necessaria fase di trasformazione,
nero è anche il numinoso Sole notturno, il «Sole dell’oltretomba»,
che i Maya raffiguravano in forma di giaguaro dalla splendente pelliccia gialla con rosette nere («maculato» come la «lonza» di peccato
e di morte dantesca?55), la cui luce fredda era forse quella che veniva affermata dal Rig-Veda (che fu concepito circa duemilacinquecento anni prima della nostra era, quasi nella stessa epoca del Popol Vu dei Maya):
Il sole è freddo, il suo calore si avverte solo quando le sue vibrazioni penetrano nello strato dell’atmosfera terrestre.
Una straordinaria precognizione delle acquisizioni dell’astrofisica
moderna? Ma, chiosa Homet, «come sapevano che il sole “è una stella fredda e i suoi raggi sono ghiacciati e oscuri?” […]. Noi stessi l’abbiamo ammesso in una data relativamente recente, cioè, quando il
Professor Auguste Piccard, ritornando dalla famosa ascensione nella stratosfera, riportò la sensazionale novità che il sole era freddo e
i suoi raggi ghiacciati e opachi»56.
In effetti, le radiazioni solari dello spettro infrarosso, passando per
il filtro opaco dell’atmosfera (formato da anidride carbonica e vapore
acqueo), vengono avvertite da noi sotto forma di calore; tuttavia, seppure il Sole, come la nostra esperienza ci avverte, sia molto caldo e
quindi irradiante una buona dose di infrarosso, ci appare molto più
brillante nel campo ottico: «Il calore che noi percepiamo è soprattutto dovuto a luce riflessa e diffusa dall’aria e dal suolo: luce che viene
restituita, appunto, degradata a infrarosso. Relativamente scarso, invece, è l’infrarosso solare originario»57. Il Sole, infatti, la cui caratteristica più importante è la luminosità, in quanto a calore è una stella
«media», né troppo calda né troppo fredda: la sua superficie a 6.000
gradi è una via di mezzo tra quella di certe stelle fredde di colore rosso cupo a meno di 3.000 gradi e altre stelle azzurre che superano i
40.000 gradi. È interessante notare un’inversione di valore tra cro-
71
INTRODUZIONE
matismo, luminanza e calore: ci aspetteremmo infatti più «fredde» le
stelle blu che non quelle rosse come il nostro Sole!
Freddo e oscuro è anche lo spazio interplanetario in cui nessuna
particella vagante riflette la luce del Sole, come tenebrosi sono altresì gli abissi del mare. Cousteau nota infatti come la luce solare, penetrando nel mare perda intensità, mentre la sua energia si trasforma in calore di assorbimento. La luce viene ulteriormente diffusa da
particelle sospese nell’acqua, melma, sabbia e plancton. Le particelle sono come il pulviscolo in un raggio di sole, riducono la visibilità e
deviano la luce prima che possa raggiungere le grandi profondità58.
Fu forse questa intuizione di una più algida luce che portò più
volte Nietzsche a vaticinare un fuoco «spirituale», un fuoco freddo
«purificato» dalle scorie della materia?
Questa fiamma dal ventre grigiastro
– in fredde lontananze guizza la sua bramosia,
verso altezze sempre più pure essa piega il collo –
un serpente che ritto si erge per l’impazienza […]59.
Nelle sue opere una «luce adamantina» promana da uno scintillante
Sole freddo e stilla un miele non più «fuoco liquido dorato» quale traboccava da quel «luogo di luce assoluta» che era la caverna cretese che
aveva visto la nascita di Zeus, bensì un miele dorato, miele di favo,
giallo, bianco, fresco come il ghiaccio, buon miele in cui la luce si rende traslucida, ricettiva alla fiamma come al freddo e la purezza si sposa alla freschezza60. Ed anche se, come nota Bachelard, il miele, che
è alla base dell’inebriante idromele, bevanda d’immortalità e di saggezza, è per molti un fuoco profondo, una sostanza nutritiva balsamica e calda, dorata, che partecipa del sole e del fuoco, per Nietzsche,
invece, è un fuoco freddo, bianco e ghiacciato, che stilla dalla ferita inferta da quella spada adamantina che è la luce. Homet sembra confermare questa concezione quasi «astrale» del miele, quando racconta che presso gli antichi iraniani, e fino ai primi cristiani, il «vaso che
conteneva lo spirito delle cose» veniva riempito di un liquido astrale
composto per un terzo di miele selvatico, un terzo di acqua terrestre
e un terzo di acqua celeste, e di come questo miele-fuoco-liquido fosse una raffigurazione dello Spirito Santo, il Verbo divino61.
Tale fuoco non è più la «lingua rossa del serpente, è la sua testa
d’acciaio» il cui freddo ardore avvampa in su e si cristallizza nel suo
moto verso sideree altezze: «il freddo e l’altezza, eccone la patria»!62
Non si infiamma ancora il ghiaccio della mia vetta?63
F. NIETZSCHE
72
INTRODUZIONE
È un fuoco astrale «freddo», sublimato, un ghiaccio incandescente
che si lega ai raggelati splendori del diamante, significando così un’estrema astrazione della luce, una percezione tutta mentale, metafora
della sacralità del cielo, che appare:
limpido oceano cristallino di là dal firmamento, d’ampiezza quasi non misurabile
secondo l’immagine di Milton che riprende quella dell’Apocalisse:
E davanti al trono v’era come un mare di vetro, simile a cristallo 64.
Davvero, allora, per l’iniziato alla mistica navigazione della Luce: L’universo è come un ghiaccio, un ghiacciato mondo di gioielli ? 65
L’ambivalenza primitiva delle ierofanie solari, nota Eliade, ha portato i suoi frutti nel campo dei sistemi simbolici, teologici e metafisici rendendoli estremamente elaborati e complessi, e ponendo le
polarità luce-oscurità, solare-ctonio, come due fasi alternanti di una
verità unica66.
Al cromatismo «caldo» oro-giallo-rosso e al luminoso bianco-dorato, propri alla facoltà illuminante e benefica del Sole, al suo aspetto splendente, si aggiunge quindi una siderea sfumatura ghiacciata e di nero profondo, secondo il suo aspetto ofidico, e cioè tenebroso, indistinto, richiamato irraggiamento «metafisico» di un lontanissimo corpo astrale, metafora di irraggiungibilità, secondo la ritrovata tricromia bianco-nero-rosso – codice simbolico primario che si
definisce come alternanza di luce-ombra, evidenziata nel contrappunto materico e umanissimo del rosso, ovvero fuoco e sangue,
Eros e Thanatos – coniugantesi alternativamente quali significanti di presenza-assenza. Infatti, se i bianchi o rossi destrieri del fiammato cocchio diurno di Helios intrecciano orbite di luce, tenebrosa
è la pariglia del cocchio notturno di quell’altro «nero» Sole, ed è perciò che in Cina un corvo a tre zampe (tre nel simbolismo solare di
alba, zenit e crepuscolo) è il principio animatore del Sole, al seno del
quale figura nelle pietre scolpite dei tempi degli Han67. E sebbene
questo corvo potesse anche essere rosso, e quindi manifestarsi più
chiaramente come «uccello solare», pure esso rimaneva, in Grecia
presso i fedeli di Mitra e di altre religioni, messaggero di morte con
funzioni profetiche, demiurgiche, significanti di rinnovamento, secondo la bipolarità simbolica del nero. Era infatti anche «uccello
oracolare» e per i primi cristiani significava protezione divina (Noè,
alla fine dei quaranta giorni di diluvio mandò fuori il corvo a esplo-
73
INTRODUZIONE
rare lo stato del mondo). In alchimia poi è simbolo della putrefazione e inizio del nuovo ciclo vitale. Il culto solare del corvo (visto come «ignifero» e quindi rispecchiante l’aspetto igneo delle divinità
uraniche) era tuttavia vivo anche presso i Celti o i Germani, come
attesta l’inflessione cor insita nella radice celtica che rimanda sia alla pietra meteoritica (e come non ricordare la misteriosa stele nera
extragalattica del film 2001 Odissea nello spazio?) che al corvo, appunto, a cui le ali conferiscono comunque un valore ascensionale e
quindi solare68.
Di nera intensità e di cupo splendore – assenza apparente che
tuttavia in sé racchiude ogni possibile epifania – è infatti il sol niger
connesso al momento alchimistico della nigredo, che nel melanconico regime di Saturno (l’egiziano «Sole di sotto» caratterizzato dalla cupezza del blu-nero) tuttavia prelude, in sé contenendone i germi vitali, all’apparizione della cauda pavonis, ovvero a tutti i colori
dell’arcobaleno riuniti sotto il regime solare di Giove per il raggiungimento finale dell’Oro69.
Dona l’opera vita a molte vite
– simile a un sole che sorge e che va
bulinando, al trascorrere del giorno,
gemme di smalti alluminati d’oro,
d’una sognante immagine regale,
nella tela fuggevole dei cieli [...]70.
A. PES
LE MELE D’ARGENTO DELLA LUNA
Guarda la bellezza del crescente, che, apparendo,
lacera con i suoi raggi di luce le tenebre
come una falce d’argento che, tra i fiori brillanti
nell’oscurità, miete i narcisi 71.
IBN AL-MOTTAZ
Al raggiare bianco-dorato o fulvo del Sole si alterna il ruscellare argenteo della luce lunare (Com’è bello guardare la luna! […] si direbbe
un piccolissimo fiore d’argento sospira la Salomè di Oscar Wilde72) che
oppone alla bruciante secchezza dell’astro diurno una stillante frescura d’ombra. Alla lucentezza imperativa, estroversa, dell’oro, significante solare, si contrappone la pacatezza riflessiva dell’argento
lunare. L’argento da sempre è stato il naturale attributo della Luna.
Erodoto descrive la dimora di Deioce racchiusa da sette mura, ognu-
74
INTRODUZIONE
na delle quali era di un colore diverso, a significare i pianeti celesti.
Gli ultimi due rappresentavano il Sole e la Luna: «i bastioni della prima cima sono bianchi, quella della seconda neri, quelli della terza,
purpurei, della quarta, azzurri, della quinta rosso-arancione […] le
ultime due hanno i baluardi argentati, l’una, dorati l’altra»73.
Del cinabro lunare s’allunga il profilo
[…]
È d’argento il liuto nella notte profonda74.
WANG WEI
E come al Sole si addice l’ardore del fuoco, così la Luna si bagna della casta freddezza delle acque, e perciò la conchiglia e la perla, pur
nel loro prestigio erotico (derivato dall’analogia vulva-conchiglia, che
è anche lunare perché «creata dai raggi della luna») brillano assorte
nel loro opalescente biancore. Infatti, la spirale, oltre che solare, è
anche un simbolo lunare, già usato nell’epoca glaciale in riferimemento alle fasi della Luna, e ne comprende egualmente i prestigi erotici derivati dall’analogia vulva-conchiglia, nonché quelli acquatici
dovuti all’analogia luna-conchiglia e quelli della fertilità (doppia voluta, corna, ecc.). Una perla come amuleto rende solidale la donna
con le virtù acquatiche, lunari, erotiche, genitali ed embriologiche.
Albedo embriologica che si ripete nell’uovo, altro simbolo germinativo lunare, che in sé racchiude un piccolo sole d’oro avvolto nell’addensata argentea matrice equorea.
Metafora germinativa, l’uovo è considerato come contenente un
germe da cui si svilupperà la manifestazione dell’essere, e per la
sua identità con il principio naturale femminile, tutte le divinità lunari hanno un legame con esso; dalla Leda-Nemesi (o meglio dal
suo uovo) nasce infatti Elena, la donna «del destino»75.
L’uovo, simbolo iperdeterminato, è fons et origo della luce, di tutta
la luce, sia solare che lunare, e se nell’orfismo è generatore di Eros:
Protogono il grande invoco, di duplice natura,
che si aggira per il cielo,
generato da un uovo, fornito d’ali d’oro
anche in Egitto un fiotto di luce fuoriesce dall’uovo cosmico:
Sorgo dall’uovo che è nella Terra misteriosa […]
Io vengo secondo che vuole il mio cuore dal Lago
della Fiamma […]76.
Al suo argento lunare si aggiunge un caldo riflesso solare, generan-
75
INTRODUZIONE
do il rame che, in quella sua «brillanza» attenuata per un simbologia
anche acquatica, indica il lato germinativo, femminile del Sole. In alcune simbologie cosmologiche, come in quella dei Bambara, per
esempio, il rame rosso rappresenta fondamentalmente l’elemento
acqua, principio vitale di tutte le cose; ma è anche la luce che s’irradia dall’elicoide di rame avvolto intorno al sole, così come la parola, fecondante anch’essa, e lo sperma che avvolge la matrice femminile. L’origine celeste del rame è riconfermata dai Tinglit (tribù indiana dell’America nord-occidentale) che ricollegano lo splendore del
rame alla sua origine celeste. Il primo rame che gli uomini conobbero proveniva dalla nave, tutta di rame, che apparteneva al figlio
del Sole77; così come del resto di bronzo, anch’esso oro attenuato, è
il «caldaio» natante del Sole:
O Râ che sei nel tuo uovo, che splendi nel tuo disco solare, che
sorgi dal tuo orizzonte, che nuoti nel tuo bronzo78.
L’uovo che racchiude in sé il seme di ogni creazione visibile (e che veniva perciò raffigurato diviso in due colori, bianco e nero, a significare il continuo passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla
vita), è infatti un vero mundi simulacrum, immagine misterica che
riunisce in sé la forza dei due sessi, il maschile e il femminile, frutto della polarizzazione dell’Ermafrodito originario, come la Luna, appunto, che, posta a metà tra la terra e il cielo era pensata androgina.
«Terra celeste», uranica – sospesa al limitare tra i due mondi: quello tellurico, sede del divenire e quello solare, in cui dimora l’essere –,
riunisce in sé la natura di entrambi, e pur ricevendo la sua luce dal
Sole, condivide con la Terra la natura materiale, ed è insieme uomo
e donna: maschile per la sua essenza luminosa, femminile per la sua
materialità. «Ricettiva e femminile di fronte al Sole, essa tuttavia rinvia sulla Terra – con forza maschile – ciò che ha ricevuto, in raggi di
luce fecondante»79. Per questo il serpente, animale che partecipa di
tutti gli elementi, era considerato anche animale lunare, quale sua
personificazione maschile e ofidica, e perciò suo «fallo fecondante»,
giacché entrambi, la Luna e il serpente, sono simbolo della fecondità
e della rigenerazione periodica. E poiché la fecondità degli animali,
come la fertilità delle piante, è soggetta alla Luna, e poiché, inoltre,
le corna dei bovidi caratterizzano le grandi divinità della fecondità e
sono un emblema della Magna Mater divina, anche il corno non è altro che un’immagine della Luna nuova:
Ascolta, o fulgente regina immortale, o divina Selene,
o Mene dalle corna taurine, errabonda pellegrina del cielo,
76
INTRODUZIONE
virginea Mene che porti la face e rischiari la notte,
che cresci e decresci e sei femmina e maschio,
o luminosa che ami i cavalli e sei madre del tempo,
e i frutti ci arrechi,
nitido elettro, o mesto volto che risplendi nell’ombra
e tutto vedi […]80.
Luce riflessa, quella della Luna, dipendente da quella del Sole, e in
ciò riconosciuta preferibilmente come femminile, sebbene poi, antichissimi miti invertivano la relazione e davano come femminile il
Sole e maschile la Luna, e se Pindaro appellava il dio Sole procreatore padre degli acuti raggi, altrove anche invocava:
raggio di sole, tu multiveggente madre degli occhi81.
È comunque nella sua ciclicità e nel suo «umidore», nel suo imperio sulle acque, che questa
[…] ragazza d’orbite, carica di fuoco bianco
che i mortali chiamano Luna […]82
fonda la sua segreta parentela con il femminile, e si accredita sorgente e simbolo di fecondità. Simbolo anche del tempo che passa,
e «misura» dei ritmi biologici, la bianca Selene, nella sua perenne vicenda di nascita, morte e ricominciamento, è rassicurante sicurezza di periodicità e di rinnovamento del vivente. Nell’Islam esistono
due calendari: uno solare in funzione dell’agricoltura, e uno lunare che ritma gli eventi religiosi, essendo la Luna «regolatrice degli atti canonici», tanto che il Corano stesso usa un simbolismo lunare,
e le fasi della luna, in particolare quella crescente, evocano la morte e la resurrezione.
Arco sottile che aspira a salire83.
TU FU
Una ricchezza di simboli s’agglutina dunque a formare una costellazione significante tra la Luna, la pioggia, la fecondità femminile e
quella degli animali, la vegetazione, ma anche con il destino dell’uomo dopo la morte e le cerimonie d’iniziazione, giacché essa è il
«primo morto». Per tre notti, infatti, ogni mese lunare, ella sparisce,
come morta, per poi riapparire dotata di nuovo splendore, quale
rassicurante pegno per una nuova vita «oltre la vita», misura di un
tempo «vivo», periodico, eterno ritorno alle forme iniziali84.
77
INTRODUZIONE
O graziosa lampada fulgente, benefica, o gemma della notte
delle stelle regina, che in ondeggiante manto t’aggiri,
saggia fanciulla
vieni lieta e splendente con la tua triplice chiarezza85.
INNO ORFICO
E come tre sono le fasi della Luna, così triplice è la Madre originaria, triforme nelle sue epifanie, come fanciulla, madre, morte… eppure sempre se stessa! Mistero dell’essenza femminile, così come lo
percepisce l’uomo, espresso appunto nel mitologema greco di Demetra-Kore-Hecate che nelle tre dee polarizza i tre momenti della vita
della donna: fanciulla, donna-madre, e vecchia, riflettendo in esse
le tre fasi della vita: infanzia, maturità e vecchiaia-morte.
Inoltre, se la spirale è il simbolo dello svolgersi del tempo astronomico lunare (come del resto però talvolta anche di quello del Sole), icona vivente di questo suo ciclico divenire è invece il serpente,
animale metamorfico, misterico attributo delle Grandi Dee lunari
(sulle cui fronti spesso si erge a vivente corona), significante di fecondità come anche di morte e resurrezione. Divinità lunari erano
infatti anche le Grandi Dee ctonie e funerarie, come Persefone, Iside, Kali, Hecate, ecc. e loro attributo era la fiaccola ardente, che evocava il lato luminoso del principio originario femminile. E se nelle
processioni dedicate a Iside si portava una lucerna ardens, altrettanto avveniva durante i Misteria demeterici, giacché la lampada è
sempre attributo delle Grandi Madri della natura. Ma il nero, lo
sappiamo, è fine e ricominciamento, e quindi se il Sole è porta dell’immortalità, la Luna è al tempo stesso porta del Cielo e porta degli Inferi: Artemide la luminosa e Hecate l’oscura. E sustanziate di
vita e di morte appaiono le madri primordiali, bianche e nere, come
Afrodite e Demetra, come la Venere indiana. Ma il loro nero è metafisico, cifra di un mistero che suggella in una ritrovata unità alto
e basso, soma e psiche. È «luce nera» che tuttavia pensa la vita, è
come quel «colore dell’interno» chiosato da Bernard Noël:
Il nero è il colore dell’interno, il colore dello spazio cui lo sguardo
non ha accesso. Il visibile non è mai nero, veramente nero. Ma cos’è internato nel nero del corpo? È la vita. Al limite il nero è la vita… e ci fa violenza mostrando un’intimità che resta nel suo colore invisibile86.
Ma soprattutto il bianco si addice alla luna, sia quello argenteo e luminoso che conduce
alle sorgenti così chiare
nell’incanto lunare […]
78
INTRODUZIONE
sia l’altro, quello opacato, velato, inquietante e spettrale, che traluce in misteriosi velami di nebbie.
Un oppiaceo vapore, livido, rugiadoso
si diffonde dai suoi orli dorati,
distilla gocciole che cadono lievi […]87.
E.A. POE
Perciò nella festa della Luna nuova, riservata esclusivamente alle
donne – essendo la Luna «madre e asilo dei fantasmi» –, le donne africane per glorificarla si spalmavano di argilla e succhi vegetali, diventando bianche come gli spettri e come la luce lunare.
Guarda la luna. La luna ha un aspetto assai strano,
somiglia a una donna che sorga da un sepolcro,
somiglia a una donna morta. E si direbbe che vada in
cerca di morti88.
O. WILDE
~s,
Dicono che il Sole sia un «fuoco intelligente»: a lui ritorna il nou
l’apollinea ragione, attirato e accolto da un’identità di sostanza,
mentre la Luna, se è soggiorno dei morti, è anche ricettacolo, rigeneratore delle anime in attesa di una nuova incarnazione, laddove
invece la via del Sole (o strada degli dèi) è presa dagli iniziati; da coloro cioè che sono ormai liberi dalle illusioni dell’ignoranza. E se
~ma), anima
Plutarco vedeva l’uomo tripartito, composto di corpo (so
~
(psyché) e ragione (nous), anche diceva che le anime dei giusti si purificano sulla Luna, mentre il loro corpo viene restituito alla terra e
la loro ragione al Sole89.
La dualità anima-ragione (che riflette in sé ogni altra dualità:
Apollo e Dioniso, maschile e femminile, ardente attività e mistica passività) corrisponderebbe alla dualità Luna-Sole e anche a due destini misterici, giacché, afferma ancora Plutarco, l’uomo conosce due
morti: la prima sulla Terra, presso Demeter, quando il corpo si stac~s e torna polvere (e i morti per gli Ateniesi,
ca dal gruppo psyché-nou
erano perciò appunto demetreioi); la seconda sulla Luna, presso
~s ed è riassorbita nelPersefone, quando la psyché si stacca dal nou
la sostanza lunare. La psyché resta quindi sulla Luna, conservando ancora per un certo tempo i sogni e i ricordi della vita.
Se la luce del «Vero Sole» deve essere percepita senza rifrazione,
cioè senza intermediari deformanti, sì da condurre all’illuminazione iniziatica, la luce della Luna, invece, indicherebbe la conoscenza indiretta discorsiva e razionale. La Luna, astro delle notti, evoca
79
INTRODUZIONE
metaforicamente la bellezza e anche la luce dell’immensità tenebrosa, ma la sua luce non è che il riflesso di quella del Sole, e quindi essa, secondo alcuni, non sarebbe altro che il simbolo della conoscenza per riflesso, vale a dire della conoscenza teorica, concettuale, razionale. Perciò in contrapposizione all’aquila, diurna, solare, le si attribuisce il simbolo della civetta, animale notturno, lunare, quella glaux, dagli occhi scintillanti nella notte a cui si deve
l’epiteto «glaucopide» (dall’occhio scintillante) dato ad Athena, nel
duplice senso di veggenza nelle tenebre della notte e di sapienza
(come illuminazione dalle tenebre dell’ignoranza). Dunque questo
uccello notturno, divenuto simbolo della divinità della Sapienza, significò appunto la riflessione che domina le tenebre90.
Era questo, allora, il «senno perduto» che andava cercando Astolfo appunto sulla Luna, etereo liquor di così fragile sostanza, raccolto
in varie ampolle, e che
Era come un liquor sottile e molle,
Atto a esalar, se non si tien bien chiuso?91
L. ARIOSTO
Certo, «La natura ama nascondersi» dice Eraclito e la crescita ha bisogno di silenzio e di raccoglimento. Il processo creativo si svolge
non sotto i raggi cocenti del Sole (e cioè della coscienza razionale),
bensì nel silenzio ombroso e segreto dell’inconscio, illuminato dalla tenue luce riflessa della Luna. Signora della fertilità nel suo notturno umidore, la Luna in Oriente era spesso verde, proprio per questo ha un legame essenziale con la vegetazione, e verdi erano le divinità lunari, dal dio Sin (Quando la parola di Sin scende sulla terra nasce il verde recitava un’antichissima preghiera egiziana), a Iside-Osiride, giacché il verde è il colore dello sviluppo fisico e spirituale, legato alla sfera matriarcale (anche quando si impersoni un
dio maschio): «La Luna come Signora della coscienza matriarcale è
legata a un tipo particolare di conoscenza: è conoscenza generata,
spirito generato, luce come nascita nella notte», secondo la bella definizione di Neumann92. Una luce molto amata dai poeti, che induce alla rêverie cullante e conduce all’introspezione, come in questa
sognante descrizione di Novalis:
La sera era serena e tiepida. La luna pendeva in dolce splendore
sui colli, e suscitava meravigliosi sogni in ogni creatura. Pari, essa medesima, a un sogno del sole, stava sul mondo dei sogni in se
stesso racchiuso e riconduceva la natura partita in innumerevoli
frontiere a quella favolosa età originaria quando ogni germe anco-
80
INTRODUZIONE
ra dormiva appartato e, solitario e non tocco, vanamente agognava
a esplicare l’oscura pienezza del suo essere incommensurabile.
Certo, qui c’è di più che la sola corrispondenza fra illuminazione
esterna e clima psichico, commenta Béguin, che prosegue: «La mistica luce della luna non è soltanto favorevole a un dolce fantasticare: ma permette alle cose di cambiare la loro disposizione usuale, di raggrupparsi secondo un ordine più poetico, cioè secondo una
libertà che corrisponde alla libertà dello spirito umano. L’universo
risale alle sue origini, quando la forma e le specie non erano ancora immutabilmente assegnate, ritrova l’indeterminatezza in cui tutto è ancora allo stato di originario divenire, lo spirito, a tale spettacolo, prova quel salutare stupore che è l’elemento naturale della
poesia: tutto è nuovo, dentro e fuori di lui, tutto ricorda ciò che fu
il primo giorno della creazione»93.
«Occhio del cielo» anche la Luna, sapiente di una sapienza introspettiva, profonda misterica, benevola e creativa, può tuttavia
assumere tinte paurose e funeste, proprio per questa sua parentela con i misteri dell’al-di-là, sì che talvolta può aprirsi come l’occhio
malvagio del cielo, cui sono affidati i misteri nefasti nella negromanzia, di contro all’occhio fecondo e protettivo del Sole di cui è segretamente gelosa.
Nell’aria illimpidita
quando già la falce della luna
tra rossi porporini verde s’insinua
e invidiosa,
– nemica del giorno,
segretamente falciando
ad ogni passo amache di rose,
finché esse cadono, in giù
pallide cadono verso la notte94.
F. NIETZSCHE
Di un «verde veleno» è terribile ora questa luna, così come infausta
è quella «rossa», grondante sangue di presagi apocalittici: una Luna
antropofaga che percorre e angoscia il folklore europeo, tanto che
secondo alcune popolazioni delle Coste del Nord, la faccia invisibile della luna cela fauci enormi che servono ad aspirare il sangue
versato sulla terra95, mentre impenetrabilmente lontana e silente è
quella «blu», non tanto perché realmente di questo colore, quanto
perché partecipe dei valori di algida irraggiungibilità dell’immensa
azzurrità che l’avvolge.
81
INTRODUZIONE
Livida neve
sotto la luna,
colora di blu la tenebra
notturna96.
KAWABATA BOSHA
Ma il blu lunare è anche il colore del mistero, del sogno e dell’inconscio, nonché il colore fondamentale dell’XVIII Arcano dei Tarocchi, La
Luna, dove dal disco lunare blu, sul quale è disegnato un profilo nella parte crescente, partono ventinove raggi, sette blu, sette bianchi, e
quindici rossi più piccoli. Tra il cielo e la terra otto gocce azzurre, sei
rosse e cinque gialle sembrano essere aspirate dalla Luna. Su di un
terreno giallo, due piccoli alberi e due torri, oltre ad altri simboli lunari
(per esempio due cani urlanti) e in fondo, nel mezzo di uno specchio
di acqua azzurra raggiata di nero, avanza un enorme gambero, egualmente di color blu. Ci sono dunque tre piani ben distinti, quello degli
astri, quello della terra e quello delle acque. La Luna, che li domina,
non rischiara che per riflesso e aspira a sé tutte le emanazioni del
mondo, sia che abbiano il colore dello spirito e del sangue, dell’anima
e della sua potenza occulta o quello dell’oro trionfante della materia.
I due cani, cerberi, guardiani e psicopompi, abbaiano alla luna, ricordando come, nella mitologia greca, essi siano stati gli animali consacrati ad Artemide, cacciatrice lunare e a Hecate, così potente in
Cielo come negli Inferi, come anche suggeriscono le due torri, limiti dei
due opposti mondi. Il gambero stesso è stato spesso associato alla
Luna per il suo cammino all’indietro, simile a quello dell’astro. Ma la
Luna è misteriosa, e il suo mondo di riflessi e di apparenze non corrisponde a quello della realtà e il gambero è il solo rappresentato nelle
acque blu inondate di chiarità lunare: esso ricorda il segno astrologico del Cancro, che è tradizionalmente il domicilio della Luna e favorisce il ritorno su di sé, l’esame di coscienza. Come lo scarabeo egizio,
divora ciò che è transitorio e partecipa della rigenerazione morale.
Ed è certo una luce lunare, femminile, castamente azzurrina, quella che un antico racconto cosmologico raffigura come una fanciulla fecondata dal principio maschile:
Un giorno che Oghuz pregava Tangri (dio del cielo) dal cielo piovve una luce blu. Era quella luce, più splendente del sole e della
luna. Oghuz si avvicinò e vide che in mezzo a questa luce c’era
una fanciulla […] di rara bellezza […] se ne innamorò, la prese
[…]. Ella dette alla luce tre fanciulli. Al primo dettero il nome di
sole, al secondo il nome di luna, al terzo quello di stelle97.
Da sempre compagna del Sole, – con cui condivide l’ampio spazio
82
INTRODUZIONE
del cielo – eppure anche sua antagonista, la Luna talvolta «morde»
d’un nero morso il disco di luce e lo mangia, scatenando il terrore:
Eclissi, nuove tenebre,
venti adirati, turbini,
aliti velenosi dei serpenti
arida e secca rendono la terra
se l’avvoltoio che attinge al bianco latte
serbato per nutrire
la delicata Aurora, appena nata,
dal culmine dei monti schiude le ali,
e i cieli armillando,
i lunghi filamenti rende opachi.
La luna veste d’un cilicio il sole98.
A. PES
E se i miti da sempre decretano la loro impossibile unione, essi sono
tuttavia inseparabili e complementari, nel loro orbitale alternarsi:
Sole e luna e giorno e notte e uomo e animale
ciascuno con un suo splendore
che neanche l’uomo, nella sua abiezione
può ignorare: ciascuno con una sua eccellenza!99
M. MOORE
Sulla via dell’illuminazione mistica, in perfetta corrispondenza tra l’illuminazione esterna, reale, e quella psichica «la luna rischiara ovunque il cammino sempre rischioso dell’immaginazione e della magia,
mentre il sole apre la via regale della ragione e dell’obiettività». L’uno,
presiede all’eroismo dell’Io, l’altra alle avventure dell’inconscio e alle angosce e agli incanti che se ne sprigionano.
Il rumore diurno del Sole si acquieta nel silenzio lunare, loto blu al
cui centro si addensa in perle e opali un sidereo latte su cui affiorano
gatteggianti colori. Infatti, come il girasole è una ontofania della luce,
anche il loto, nei suoi diversi colori, è un simbolo luminoso: bianco,
enuncia il candore della luce (simbolo di illuminazione anche interiore, dato che il mistico fiore d’oro è bianco); rosa simbolizza il sole, e
quello azzurro, da cui si erge il disco lunare bianco, è emblema della
Luna, tanto da proporsi con una valenza unificatrice dei centri di energia, prima uniti e poi polarizzati in maschile e femminile, Yin e Yang 100.
Alla diretta e anche cromaticamente imperiosa luce solare (sovente in opposizione ai colori, giacché il Sole «si beve» la luce della terra, affocandola) si sostituisce il gatteggiamento iridato dell’alone che
avvolge come un velo la Luna, madre dei colori, poiché, come diceva
Novalis, tutto ciò che ci esalta porta i colori della Notte. È lei la ma-
83
INTRODUZIONE
dre del Giorno, l’origine dei suoi splendori; il mondo della luce, senza di lei, si dissolverebbe nello spazio infinito101.
Lo svelamento dei misteri predilige l’oscurità, e perciò la notte è il
luogo delle apparizioni, seppure anche luogo dell’abolizione della visibilità delle cose, che, tuttavia anche nella luce diurna talvolta si
«svelano» nella loro essenza più intima in una sorta di ultra-visione.
«A volte, un bagliore bianco attraversa tutto e l’immagine della realtà
diventa radiografia», allora la luce è dentro e questo dentro è fuori:
Si vede la materia che sta pensandosi luminosamente: la si vede
farsi mentale pur continuando ad essere materiale102.
Eppure lo splendore eccessivo cancella i contorni delle cose e ne dilata le forme in un barbaglio percettivo così come il mondo degli psicotici, pervaso dal riverbero abbagliante, si cancella in ondate d’angoscia. La luce che acceca abolisce l’immagine stessa che crea,
giacché la luce non permette di vedere se non a «prezzo d’ombra»,
e ogni Verità eterna è inconoscibile nella pienezza del suo fulgore,
così come il tratteggiarsi chiaroscurale dell’alternanza di luce-ombra, sole-luna «ri-vela» l’eterno germinare delle forme.
Simbolo del sogno e dell’inconscio, dunque la Luna. La sua mistica luce non è soltanto favorevole a un dolce fantasticare ma, come
afferma Béguin, permette alle cose di cambiare la loro disposizione
usuale, di raggrupparsi secondo un ordine più poetico, cioè secondo
una libertà che corrisponde alla libertà dello spirito umano103.
Alleata dell’ombra, nella sua cangianza, illumina ed evidenzia i
più riposti significati delle cose fuggitive. Irreale, fa emergere l’anima, seconda natura dell’essere:
È, che la luna
splende sul fluido scintillio delle cose104.
SHEN CH’UAN-CH’I
84
INTRODUZIONE
Capitolo IV
LA DINAMICA DELLA LUCE
Ed ora, figlia di Zeus, Musa Calliope comincia a cantare
Elio, il dio luminoso […]
[…] infaticabile, simile agli immortali,
che brilla per gli uomini e per gli dei immortali
muovendo coi suoi cavalli; dagli occhi lancia un terribile sguardo
sotto l’elmo d’oro, e raggi scintillanti da lui
luminosamente si effondono: indosso a lui una bella veste
finemente lavorata, splende al soffio dei venti: e
splendono sotto il giogo gli stalloni,
quando, frenati i cavalli e il carro dal giogo d’oro,
maestoso egli li guida attraverso il cielo, all’oceano 1.
INNI OMERICI
Posto al centro dell’universo, dai Greci antropomorfizzato come Helios, ovunque il Sole miticamente si aggira impetuoso per le azzurre distese delle praterie celesti, sul suo carro di luce dalle rosse ruote infuocate, a segnare l’arco del tempo che eternamente transita
tra tenebre e luce.
Colto nel suo dinamismo ascensionale, il Sole è il fuoco ascendente d’Apollo 2 che ne evidenzia l’essenza divina, poiché l’«alto», come nota Eliade3, è una categoria inaccessibile all’uomo, che appartiene di diritto agli esseri sovrumani, agli Altissimi appunto, che abitano gli abissi di luce (Scagliami nella tua altezza, questa è la mia
profondità 4) e poiché elevazione e potenza sono, in effetti, sinonimi,
tutti gli dèi uranici sono accompagnati da attributi luminosi e dinamici, e alla «rotondità» cosmica, «figura» di perfezione, evocata dalla
ruota, dal rosone, dall’aurea corona solare, dall’aureola (il cui senso dinamico è cifra manifesta della trascendenza) si affiancano naturalmente anche simboli erettili e guerrieri quali torcia, spada, arco («giacché il fine dell’arciere, come l’intenzione del volo, è sempre
l’ascensione»5):
[…] era quello lo splendore terribile
dell’arco di Apollo in ascesa6.
J. KEATS
La freccia, aureo attributo divino, è raggio che sale e conserva lo slancio dell’ala, così che il tiro con l’arco diventa mezzo simbolico di trascendenza, secondo anche una credibile analogia etimologica per
85
INTRODUZIONE
cui sagitta è simile a sagire (percepire rapidamente). È l’intuizione
folgorante che suscita l’arco di Apollo, appunto accensione del Logos, che ridiscende poi come raggio che illumina di trascendenza e
feconda le tenebre dell’immanenza della physis, ispirando una conoscenza iniziatica e sapienziale.
Poi che son servo del Sole vi parlerò del Sole:
[…]
Come messaggero del Sole e suo interprete
segreti messaggi prenderò da lui e vi porterò la risposta.
E poi che vado come sole, brillerò su rovinati deserti,
fuggirò dai luoghi abitati, parlerò deserte parole7.
G. AD-DÎN RÛMÎ
Ma ancor più la luce, nella sua forma simbolica del dorato e del
fiammeggiante, segno di una virilità piena e vitale, ha come attributo naturale lo scettro e la spada, a significare l’eroismo di una «rivelazione» che fughi ogni terrore ctonio, così come in architetture
luminose, un tramonto descritto da Brentano si orna di forme e colori simbolici di una vittoria anche «morale» sull’oscurità, che pure
sopravviene ma che non offuscherà, se non temporaneamente, il
trionfale sguardo di Helios:
E ora il sole va a bagnarsi nel giardino di rose e la Notte gli intesse
nell’ombra un manto di grigio velo […]. Ma, tutt’intorno, si formano, d’aria, alti castelli di porpora, auree, prodigiose isole emergono
dagli ardenti flutti dell’etere. E le isole si trasformano in draghi e
tutti i castelli in altrettanti San Giorgio, e i raggi del sole in fulgenti lance levate contro i draghi […]. Ammonitrice, la Notte stende il
suo manto dinanzi alla porta dell’occidente, e tutti i cuori sentono
chi ha perduto, chi ha vinto8.
Perciò, anche ogni filiazione eroica si riveste di luce e «s’indora», impugnando, appunto, scettro e spada. Così nella Chanson de Roland
(La Canzone di Rolando), vera epica della luce – nel suo duplice valore di Grazia divina e di valore umano – i simboli luminosi stanno
a significare poteri regali e guerrieri, che, dai bagliori dei gemmati
usberghi si riflettono nella chiarità del giorno:
S’è fatto chiaro il vespro e chiaro il giorno.
E le armature splendono contro il sole:
gli usberghi e gli elmi gettano gran fulgore,
come gli scudi tutti dipinti a fiori,
come gli spiedi e i gonfaloni d’oro.
[…].
86
INTRODUZIONE
Grande è la piana e vasta la contrada.
Splendono gli elmi d’oro e di gemme ornati:
splendon gli scudi, le trapunte corazze,
splendon gli spiedi, con le insegne annodate.
Le trombe suonano con voce molto chiara9.
Lungo tutto il poema cavalleresco sciabolate di luce esaltano e disegnano le «gesta», sprizzando anche dalle dorature caratteristiche
di numerose parti del corredo del guerriero e iperdeterminando i valori di forza, coraggio, valentia degli eroi dall’una e dall’altra parte.
G. Cohen, nel suo saggio sulla Grande Luce che percorre il Medioevo, evidenzia appunto le numerose immagini di luce dorata che
abbondano nella Chanson de Roland, rilevando il continuo e notevole isomorfismo del sole, della spada, dei capelli e delle barbe bianche. Non si tratta, infatti, che di sfavillio di sole di fanciulle dai capelli d’oro, di cavalli risplendenti, di barbe e di abiti bianchi come
fiori in spine 10. Così che, se il valoroso e sfortunato paladino da cui
prende il nome la Chanson, Orlando, rifulge di sovrumano valore –
Dio tale luce di prodezza gli ha dato, che morirebbe piuttosto che lasciarla –, tuttavia anche il prode guerriero saraceno, seppur di «nero» cuore (Va innanzi tutto a tutti un Saraceno, Abisso; tra i suoi nessuno più fellone può dirsi […] di nero come la pece fusa è tinto):
Ha vesti ed armi tutte d’oro battuto,
e contro il cielo più degli altri riluce11.
Ancora una volta nella Chanson de Roland si ripresenta la differenziazione morale oppositiva tra bianco (bene) e nero (male), qui
rinforzata dalla contrapposizione religiosa cristiano-pagano. Si ribadisce ulteriormente la polarizzazione della coppia bianco-nero
non solo come luce-tenebra, giorno-notte e secondo i già detti valori
morali di bene-male, giustizia e fellonia, ma anche secondo valenze psicologiche di gioia-dolore, e se la gente nera – i pagani non illuminati dalla grazia della fede – dell’inchiostro sono ancora più neri e non han bianco nulla se non i denti, anche il paesaggio s’imbruna e s’incupisce, con significati luttuosi, sì da condividere, in una
sorta di partecipation mystique, il dolore dei giusti, oppressi da «nera» malinconia:
Son alti i poggi, le valli tenebrose,
scure le rocce, le strette paurose.
Quel giorno i Franchi vi passan con dolore:
[…].
Ognuno piange dalla pietà commosso12.
87
INTRODUZIONE
La riverberante patina di luce non riveste soltanto gli accessori del
guerriero, ma «indora» l’eroe stesso, che nell’antica Grecia è xanthós, cioè dotato di una folta capigliatura di un biondo dorato, sfumato di fulvo, in un’accezione quindi di splendore come l’oro o il
fuoco. In greco infatti xanthós è diverso da chlorós, giallastro, che
reca in sé una sfumatura malaticcia di pallore, addirittura di debolezza, tanto che la paura (déos) è detta chloròn. Ma Xanthós è anche il nome di uno dei cavalli di Achille, e anche del cavallo di Castore, uno dei Dioscuri13.
E xanthós è certamente il cavallo del santo-guerriero arcivescovo Turpino, sempre nella Chanson de Roland:
Questo destriero è rapido e vivace:
zoccoli concavi possiede e zampe piatte,
corta la coscia e la groppa ben larga,
alta la schiena e allungati i fianchi,
la coda bianca e la criniera gialla,
le orecchie piccole e tutto biondo il capo:
né c’è una bestia che altrettanto si slanci14.
A questo proposito J.P. Vernant chiosa: «C’è un rapporto tra le fulve criniere dei cavalli da guerra e il biondo ramato dei capelli che il
giovane guerriero, all’uscire dall’efebia, fa agitare come una criniera. [...] La bellezza virile del guerriero, enfatizzata da una capigliatura lunga e ondeggiante, comporta un aspetto “terrificante” il cui
effetto sul campo di battaglia è, nel senso attivo del termine, “segno” di vittoria così come i capelli rasati sono, con le altre manifestazioni del lutto, uno dei mezzi rituali che, oltraggiando e imbruttendo il volto dei viventi, consente di avvicinarli, nel corso dei funerali, a quel mondo di fantasmi senza forza e senza smalto, dove
si dirige il defunto di cui si piange la scomparsa»15. Infatti, tutti i riti di taglio sono riti di separazione e quindi si ricollegano alla purificazione, indicando una volontà di abbandono della pura istintualità. Perciò, depilazione, ablazione dei capelli, tonsura, sono segni di
rinuncia alla carne, e naturalmente, di castrazione, sia pure ritualmente simbolica.
L’irraggiare biondo-dorato-ramato dei capelli dell’eroe solare rimanda quindi alla fulva criniera dei destrieri del carro del Sole e ne
indica l’identità di valori di giovanile forza fallica e di virile coraggio,
mentre di bianco candido splendono la chioma e le barbe dei sacri
vegliardi, figure ideali di saggezza, riverberanti la luce divina. E se
ancora nella Chanson de Roland Carlo Magno ci viene presentato
nella sua regale vecchiezza:
88
INTRODUZIONE
Bianca ha la barba e fiorita la testa,
nobile il corpo ed il contegno fiero16
(così simile, invero, all’apparizione dell’Apocalisse: la sua testa e i capelli eran bianchi come la candida lana, come la neve e i suoi occhi come fiamma di fuoco17), pure la sua «bianca» saggezza, così iconograficamente inscritta in una fluorescente aureola di neve – per eccellenza acqua lustrale, purificante sia per la bianchezza che per il freddo –, non esclude valore e forza, se, indossato il bianco usbergo ricamato e stretto l’elmo ch’è d’oro e gemme ornato:
L’imperatore fieramente cavalca.
Con quella gente barbuta dietro avanza:
sulle corazze spiegan le loro barbe,
che sono bianche come neve su ghiaccio.
Ma non soltanto per giusti cristiani il «bianco pelo» è indizio di giustizia e verità; esso è infatti anche araldica insegna del pagano Baligante, l’emiro così simile davvero ad un barone e descritto con riluttante ammirazione quasi venata di rimpianto:
ampie le spalle e il viso molto chiaro,
lo sguardo fiero e il capo inanellato
e così bianco come fiore in estate:
e quante volte la prodezza ha mostrato!
Dio, che barone, s’egli fosse cristiano!18
Questo isomorfismo del Sole, dell’oro, dei capelli e delle barbe bianche ci ricorda anche altre attribuzioni sacrali di assai diverse derivazioni culturali e geografiche, quali quelle di Faro, il «bianco» dio
dei «neri» Bambara, il cui corpo splende «di albino e di rame», e il cui
colore sacro è il bianco (proprio dei sacerdoti e dei circoncisi, che
durante il ritiro rituale sono protetti, appunto, da un berretto bianco in modo tale da essere avvolti nella luce protettrice e purificatrice di Faro) e avvalora la costellazione simbolica nella quale convergono il luminoso, il solare, il puro, il bianco, il regale e il verticale,
qualità tutte della divinità uranica.
Se il dorato è quindi sinonimo di bianchezza, il valore di «luminanza» e «brillanza» assimila egualmente il bianco all’oro e lo avvalora
ancora una volta significante luminoso e solare. Nel trattato Il Mistero
del Fiore d’Oro, testo iniziatico cinese, Lü-tzu sostiene appunto che
il Fiore d’Oro è la Luce per poi però porsi anch’egli l’eterna domanda:
Di che colore è la Luce? riferendosi tuttavia non tanto alla luce fisica,
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INTRODUZIONE
quanto a quella mistica e trascendente, capace di illuminazione interiore. Ora se l’oro ovunque è simbolo di illuminazione, sia fisica che
spirituale, secondo l’equivalenza oro = luce, in particolare nelle tradizioni orientali e tantriche, il colore dell’oro-Luce è il bianco (mentre il giallo corrisponde all’elemento Terra)19. Così il mistico Fiore d’Oro sarebbe dunque un «loto bianco» abbacinante nella significanza di
perfezione illuminante (e pure simile forse a quel profano gemmeo fiore di Poe, quell’ardente fiore solare che: tormenta le api/ e le esalta alla follia ed a sogni inconsueti […] 20), così come altrettanto abbagliante, di sacra e seduttiva bellezza, s’intesse di luce il velo di Hera, bianco – è detto letteralmente – come il Sole:
D’un velo sul capo s’avvolse la dea tra le dee,
splendido, nuovo e bianco era, simile al sole21.
Tutti i simboli solari, quelli dinamici e quelli luminosi, sono legati
a un significato di potere e forza fecondante maschile, perciò la luce è intesa come maschia epifania fecondatrice, sia che si manifesti nel raggio solidificato della freccia, nel dinamismo solare della
svastica – simbolo del volo solare – o della ruota, o della spirale (come quella di rosso rame arrotolata intorno alla matrice solare, che
secondo una hierogamia elementare Dogon, traversando le nuvole
feconda la terra). La spirale può essere di luce o di acqua, ma in entrambi i casi è la semenza celeste delle hierogamie elementari; e, secondo Leroi-Gourhan, i segni grafici delle spirali sembrano aver primariamente espresso non delle forme, ma dei ritmi (di motricità
verbale, ritmata e forse rituale) da cui si sarebbero in seguito evoluti all’uso simbolizzante dei ritmi anche astronomici, del Sole e della Luna22.
Tardi – quella rugiada – calò dal cielo
(fra i sogni di una notte dissacrata!)
su di me col tocco dell’Inferno,
mentre il rosso baleno della luce,
dalle nuvole svettanti come stendardi,
rivelava al mio occhio socchiuso
la magnificenza del regale potere23.
E.A. POE
Il raggiare della luce a partire da un punto primordiale genera lo
spazio, dice la Kabbalah, secondo un’interpretazione simbolica del
Fiat lux della Genesi, che è anche illuminazione e riordinamento del
Caos per vibrazione, e riproponendo in tal modo la teoria fisica del-
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INTRODUZIONE
la luce come simbolo. La doppia spirale, simbolo luminoso solare
antichissimo, esprime un doppio movimento circolare, creando il
cerchio a partire dal suo centro immobile per poi reintegrarlo in
questo, espressione di un duplice movimento di evoluzione e di involuzione, di «diffusione» e di «condensazione», che trasforma lo statico cerchio in una spirale evolutiva. Mentre
il ritorno si compie portandosi nella periferia verso il centro dell’essere, verso il «cuore», il «vuoto» interiore dove risplende la vera «luce celeste»
secondo l’interpretazione taoista e esoterica del movimento della luce24. La sempre sorprendente (e contrastata) figura della swastika
(che è essenzialmente il «segno del Polo») riassume quanto detto, e
sebbene lo si individui piuttosto incidentalmente come principalmente «segno solare», essa è più specificatamente simbolo di un movimento di rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse
immutabile, che imprime movimento a ogni cosa e, dato che il movimento rappresenta la vita, diventa esso stesso un simbolo di questa. Il simbolo grafico della swastika deriva infatti dalla ruota del
Sole mediante l’interruzione delle linee di contorno, e si rivela così
sia simbolo fallico, che di unione. La forma quadrata è la croce a
svastica, usata frequentemente nel primo cristianesimo e talora
considerata una crux dissimulata; questo segno, oltre a essere riconosciuto come uno degli emblemi di Cristo, in uso fino alla fine
del Medioevo, era presente nell’antichità in particolare tra i Celti e
nella Grecia pre-ellenica. Sopravvissuto in campo non religioso fino all’epoca moderna, tale simbolo della Luce nascente acquistò,
grazie alla follia nazista, per un errore che ne stravolgeva l’originario significato di forza vitale – giacché lo confondeva con la sawastika, sinistrogira, questa sì, simbolo di «tramonto» –, una terribile
e «sinistra» (appunto!) valenza di morte. Da allora la swastika, o
croce uncinata, si porta dietro questo marchio d’infamia e di necrofilia. In realtà, dunque, il «terribile» simbolo nazista era la sawastika, che nel suo movimento sinistrogiro, volto verso il lato dell’Occidente ove il Sole muore ogni sera, indicava la ricerca dei piaceri materiali, e quindi di un vitalismo disperato e tuttavia necrofilo25.
Ma, oltre al movimento che visivamente si esprime anche nell’oscillare della fiamma, la vibrazione rimanda altresì alla parola e al
canto, e se per la Bibbia la luce segue le tenebre e il Verbo genera
il mondo e ordina il caos, imprimendo al creato una suprema armonia, così che la «parola» stessa viene chiamata «luce», forza creatrice dell’anima, in altre cosmogonie la parola (sia essa primaria-
91
INTRODUZIONE
mente grido di richiamo o musica) e il fuoco sono espressione di un
divino Eros creatore che si esprime musicalmente nella siderea «armonia delle sfere», che nella poesia di Goethe diventa un «frastuono» tuttavia inaudito, tutto interiore:
Risuona il sole al suo modo antico
nell’armonia delle sfere sorelle.
E il cammino a lui prescritto
compie con impeto di tuono.
[…]
ruota Febo il carro e strepita,
dov’è luce, qual frastuono!
Suon di trombe, suon di tube.
Occhi abbaglia orecchi introna:
nessun ode l’inaudito26.
W. GOETHE
È il canto del sole che percorre il cielo sul suo carro di fuoco in melodie d’oro, in controcanto con la voce vigorosa del rosso e quella
limpida del bianco splendente, connotando anche la vocalità e la
musica di un simbolismo ascensionale:
Dove sei? Ebbra l’anima mi s’invespera
Di tutta la tua delizia. Perché, ora, questo
Ho veduto, come stanco del suo
Corso, l’estasiante giovinetto dio
Le giovani ciocche bagnava nel nuvolato d’oro:
E anche adesso l’occhio dietro lui s’affisa […]27.
F. HÖLDERLIN
Ogni epifania sacra è dunque circonfusa di luce e si manifesta in simbologie attive, ascensionali anche se alcune sembrano apparentemente statiche, come la piramide, l’obelisco, la montagna sacra, che
si reclamano tuttavia «catalizzatori», centri di confluenza della trascendenza uranica e dell’immanenza terrestre e inducono l’occhio all’ascensione e insieme alla contemplazione; e seppure talvolta il dio
uranico possa essere percepito passivo, troppo lontano dall’uomo per
curarsi di lui – e allora questo deus otiotus genera angoscia e deve essere «attivato» con l’offerta di sacrifici sotto forma di fuoco o di sangue,
il cui rosso colore richiama la mobile vampa, così come accadeva per
il Quinto Sole degli Aztechi che doveva essere nutrito con il sangue dei
sacrifici umani –, è tuttavia certo che il Sole evoca il viaggio.
Lo trasporta, nel suo eterno peregrinare tra est e ovest, tra notte e giorno, il cocchio raggiante al cui giogo, scalpitanti, rutilano e
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INTRODUZIONE
s’inarcano i bianchi cavalli diurni, o quelli fulvi, di brace, che sprizzando faville s’inabissano al far della sera, tra verberanti scintille di
infuocate rose rubine già pur presagendo L’aere cobalto, cangiante,
speziato di stelle 28, a cui si avvicendano i neri, ombrosi destrieri, dalle risonanti voci di bronzo che, invisibili, seppure fra strepito di tenebre e criniere in tumulto, sprofondano nella notte l’altro cocchio,
quello di Ade, l’oscuro, speculare fratello:
Io odo i cavalli dell’ombra, le lunghe criniere agitate,
gli zoccoli gravi in tumulto, le bianche pupille guizzanti,
il nord su loro dispiega una notte avvolgente, strisciante,
l’est la segreta sua gioia prima che rompa l’aurora,
va l’ovest piangendo in rugiada pallida e sospiri,
dall’alto il sud riversa rose di rosso incarnato […]29
W.B. YEATS
(giacché, ricordiamolo Di dentro dall’impetuoso sole guardavano gli
occhi bui di un sole più profondo !30) e, benché il cocchio in sé sia piuttosto «solare», anche Ade ne possiede uno. Si attribuiscono a lui cavalli neri, all’opposto di quelli bianchi di Helios, mettendo in tal modo meglio in risalto il perfetto parallelismo. Il cavallo, del resto, ha
duplice valenza simbolica: ctonia – ed è allora la nigra cavalcatura
funebre o infernale, «incubo» isomorfo alle tenebre e all’inferno – oppure solare (ed è allora candido o fulvo), che pure si lascia facilmente assimilare al cavallo ctonio, in quanto «non è al sole quale luce
celeste che è legato il simbolismo ippomorfo, ma al sole considerato come pauroso movimento temporale. È questa motivazione attraverso l’itinerario che spiega l’indifferente legame del cavallo col sole o con la luna: le dee lunari dei Greci, degli Scandinavi, dei Persiani viaggiano su veicoli trascinati da cavalli. Il cavallo è dunque
simbolo del tempo perché legato ai grandi orologi naturali»31. Anche
il pauroso rumore che sprizza dal suo galoppo, pur silenzioso, è
un’evocazione tutta mentale dello «strepito del tempo che passa» e
che avvicina al fine ultimo, alla morte. Del resto, i simboli ctoni si
associano spesso a paurose cacofonie, per culminare nell’orrore
brulicante e assordante della Geenna!
Inestricabilmente, nel mitologema solare s’intrecciano la sfera
uranica e quella ctonia:
La luce alimentata dai due vasi
dell’olio nero e dell’olio bianco32
D.H. LAWRENCE
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INTRODUZIONE
e i simboli teriomorfi ad esso relativi ne rispecchiano la duplicità: così che al cocchio solare s’aggioghino pure draghi e serpenti che rimandano al lato tenebroso dell’Essere, seppure non all’assoluto nonEssere.
Al simbolismo trionfante, ascensionale, del visibile fallico itinerario uranico di Helios, si sovrappone un più nostalgico, invisibile tragitto in un tondo recipiente natante, il favoloso vascello, che aurea
tazza solare, o caldaio, di un più ambrato metallo solare, bronzeo
che è coppa o culla, o sepolcro (giacché tra questi ultimi due termini vi è un intimo legame isomorfo, come tra sonno e morte). A questo proposito rileva G. Durand come il tempio, il vaso, il sepolcro e
la nave siano psicologicamente sinonimi, in quanto ogni «contenente» è sempre simbolo della madre primordiale, e quindi significante di un ritorno rassicurante al guscio protettivo, ai valori dell’intimità e tuttavia, ambivalentemente, anche paura di un annullamento regressivo, cosicché la gioia del navigare è sempre minacciata dalla paura di «affondare». Riportando Froebenius, Jung a sua
volta notava come tutti gli dèi (ed eroi) che viaggiano per mare siano simboli solari, chiusi in una cassetta o in un’arca: «Durante il
viaggio notturno per mare, il dio solare è racchiuso nel grembo materno, spesso minacciato da ogni sorta di pericoli»33. Quanto al sonno assimilato alla morte, si può notare come ovunque esso sia considerato «una piccola morte», una sorte di mimesi anticipata dell’eterno riposo.
Così si traghetta nel suo tepore addormentato, Helios
verso il cuore della sacra tenebrosa notte, verso la madre, la sposa
legittima e gli amati figlioli
attraverso il fluido Oceano:
Poiché sulle onde lo porta l’amabile letto,
concavo, dalle mani di Efesto contesto,
d’oro prezioso, alato. Sulla sommità delle acque
lo porta in fretta, dormente, dalla regione delle Esperidi
alla terra degli Etiopi, dove il veloce cocchio e i cavalli
aspettano, finché giunga Eos, figlia del mattino.
Allora sale il suo carro il figliuol d’Iperione34
MIMNERMO
e così la poesia greca arcaica amava rappresentare il lato notturno
dell’orbita solare come un viaggio fluviale in un recipiente rotondo,
natante, che percorre le primordiali acque che scorrono in un flus-
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INTRODUZIONE
so senza fine, non più nel trionfo dell’attuazione piena della luce, ma
in una dimensione umbratile, intima, uterina, di ritorno all’umidore del grembo della notte e della terra, sì da «significarsi» archetipo
di ogni nostos.
Il corso verticalmente circolare del sole e il flusso orizzontalmente circolare dell’Okeanós si combinano a simbolizzare il ciclo di vita
e di morte attraverso luce e tenebra, veglia e sonno, persino coscienza e incoscienza. Nella lingua greca, il movimento ciclico dalla
tenebra alla luce e dalla morte alla vita è concepito come nostos («ritorno a casa»). Questa parola è connessa a noos, che significa coscienza o mente nella lingua di Omero, e che nel greco classico di~s, secondo l’uso di Platone. Quando Odisseo infine ritorna
viene nou
a Itaca, lungamente agognata dopo tante avventure e sofferenze, il
poema coglie il momento preciso del rientro a casa con una descrizione poetica che abbraccia sia noos che nostos. L’eroe è infatti descritto mentre salpa nel mezzo della notte (evento straordinario per
un marinaio greco), ed è immerso in un sonno profondo che sembra
morte:
E mite sonno scese sovr’esse le palpebre a Ulisse,
dolcissimo, profondo, che sonno pareva di morte.
Nell’esatto momento in cui la nave che trasporta Odisseo raggiunge le spiagge di Itaca, si alza il sole, e l’eroe si sveglia:
Quando nel ciel surse bianchissimo l’astro che annuncia
la luce, appena brilla, d’Aurora che presto si leva,
giunse all’isola allora la nave dal corso veloce35.
Il poema associa dunque il ritorno dell’eroe a casa e il riaffiorare
della sua coscienza con l’effettivo arrivo della luce del sole, che è il
simbolo trainante dell’epica. Nella mitologia greca il ritorno a casa
dell’eroe è perciò ritorno alla luce e alla vita36.
A navicelle volanti si ormeggia ovunque il sogno vagabondo, teso a balenanti lontananze, sfuocate rive nei miraggi del ricordo, tormentate dimore di erratici eroi al ritrovamento di sé, mentre i figli
e le figlie del Sole, progenie e filiazione eroica, veleggiano anch’essi
su carri volanti trainati non sempre da alati cocchieri, quali cigni e
aquile, ma anche da ambigui esseri teriomorfi, come cavalli, dragoni, serpenti, che uniscono in sé, in una sorta di anamorfosi immaginale, la doppia natura ctonia e tellurica e quella uranica, a significare la relazione nascosta che Helios ha con le tenebre, giacché
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INTRODUZIONE
colui che è visibile e rende visibile, è anche tuttavia «colui che è invisibile e rende invisibile». Hades suona infatti nella lingua omerica ancora A-ides e significa appunto «colui che è invisibile e rende
invisibile» e corrisponde all’opposta caratteristica essenziale di Helios, di colui cioè che è visibile e rende visibile. Giacché, infine, nella dimora di Ade l’invisibilità si rivela come «mancanza di quella vista e visibilità, che il Sole dispensa: ciò che Helios dona, qui è tolto. Ma, chi può, secondo la propria essenza, togliere vista e visibilità, se non quegli stesso che la largisce? Non viene forse vissuta
l’invisibilità di Helios ogni notte e con la morte non la si sperimenta in modo definitivo? La risposta è facile: colui che è invisibile e
rende invisibile è probabilmente sempre Helios»37. Perciò la «porta
del Sole» è accesso all’Ade, così come nella concezione egizia il dio
Sole stesso scende nel regno dei morti e intraprende con la sua imbarcazione un viaggio sotterraneo da occidente a oriente, dove di
nuovo riappare alla superficie. Quanto ai serpenti e ai dragoni che
trascinano il suo cocchio, i primi rimandano (come i cavalli) alla dimensione ctonia e starebbero a ribadire il rapporto di Helios con la
sfera ctonia di Demetra, anche se, per Macrobio, le spire del serpente raffigurano la corsa sinuosa del Sole (e ritroveremo questa
simbologia nelle raffigurazioni astrologiche). Il drago, invece sebbene ad alcuni (come Lawrence) appaia come un simbolo solare: simbolo dell’aurea fluente vita del corpo, ed Euripide chiami Helios serpente nato dal fuoco, tuttavia esso è il più perfetto rappresentante
delle forze ctonie della terra e delle acque38.
Infine, a ribadire questo oscuro legame di Helios con il mondo
ctonio, non è forse – imprevista rivelazione – l’assassina, la fratricida, la figlicida Medea, di stirpe solare? Quella stessa Medea che
Apollonio Rodio ci descrive dalle «auree trecce» e aureolata anch’essa dal bianco splendore del velo che la intona simile a dea:
Medea, quando vide la prima luce dell’alba,
raccolse con le mani i biondi capelli
irrequieti, che le cadevano senza cura,
[…]
e si mise sul capo bellissimo un velo
bianco […]39
lei… che pure è la più tenebrosa delle Heliadi, la figlia di Eeta, progenie di Helios, che s’avventa sul cocchio tirato da un drago, sfidando la furia omicida di Giasone e recando accanto a sé i corpi
inanimati dei figli che ha barbaramente ucciso.
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INTRODUZIONE
Tal cocchio il padre di mio padre, Helios,
mi dà in difesa da mano nemica40.
Qual è l’enigma – si chiede Kerényi – di questa «divina omicida», come
avviene che questo oscuro demone, questa furia da Erinni, possa sussistere in lei accanto alla pura forza solare? E come è possibile, ancora, che delle malvagie incantatrici appartengano alla stirpe solare?
Anche Circe infatti era una Heliade; a lei s’addice l’incantesimo della seduttrice, non senza malvagità certo, sebbene non raggiunga l’efferatezza di Medea. «Le due incantatrici di stirpe solare sono divise da qualcosa di essenziale: è la differenza tra la rete e il coltello, tra la seduzione e l’uccisione» e tuttavia ci indicano i segreti legami della stirpe di
Helios (la sua «linea femminile») con la sfera ctonia di Demetra e Hecate.
Era infatti Medea devota sacerdotessa di Brimo, la grande nutrice, quella
Brimo notturna, infernale, la regina dei morti, nella notte nera, coperta di abiti neri
officiante dei suoi oscuri misteri, con cui distillare, da radice nata
dal sangue titanico, il nero umore, per farne filtro di vita e di morte. Pure è davvero Medea sempre una «Heliade», se, fra il tenebrore
impietrato dei suoi inquieti pensieri di donna innamorata e insonne, Apollonio rievoca, improvviso, il «caldaio» nel quale il Sole si rispecchia e ride, scherzando con l’acqua intiepidita, solleticandola in
un riverberare giocoso di riflessi:
Come dentro la casa guizza un raggio di sole
dall’acqua appena versata in una caldaia
o in un vaso, e nel mulinello vibra qua e là veloce,
così s’agitava nel petto il cuore della fanciulla41.
Non più soltanto «culla» rigenerante di Helios è tuttavia il caldaio di
Medea, ma anche vaso sacrificale, calice femminoide che introduce negromanticamente al mistero del viaggio ultimo42. Questa valenza negromantica di Medea fa comunque dubitare Kerényi, che rileva come si affacci inevitabile la domanda se la figura mitologica
della nipote di Helios rappresenti in realtà una bella e mortale variazione dell’aurea melodia solare, oppure, benché in stretta connessione col Titano del giorno, sia soltanto una melodia argentea
tratta dal ciclo mitologico della Luna. Ma il nucleo essenziale di Medea, solare o lunare che sia, è avvolto anzitutto da quella tenebra
che le aleggia intorno anche in Apollonio:
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INTRODUZIONE
uno spesso torpore avvolgeva persino la madre
che ha perduto i suoi figli: non più guaire di cani
per la città, non rumore: il silenzio
possedeva le tenebre più nere43.
È quella stessa tenebra che si nasconde, e si rivela, dietro l’aureo
sguardo scintillante del Sole, che in quanto, mitologicamente, non
è soltanto centro astronomico, ma delimitazione del mondo, ha intorno a sé uno sfondo di tenebre e tale lo invoca anche un poeta
moderno:
Sole, Sole!… Inganno risplendente!
Tu che mascheri la morte, Sole,
sotto l’azzurro e l’oro di una tenda
dove i fiori tengono assemblea44.
P. VALÉRY
Da tutto quanto detto sin qui risulta come il mito dell’eroe sia un
mito solare, e, certo, se la luce è metafora di un’energia fallica, dato che il fascio di luce penetra la materia (parola che, non dimentichiamolo, deriva da mater, «madre»), così facendo tuttavia si macchia del più antico peccato, l’incesto, che provoca la conseguente
punizione. Perciò destino comune a tutti gli esseri solari è la morte, sia pure seguita da una resurrezione e dall’ascensione. Tutti gli
dèi solari muoiono, o percorrono un lungo viaggio addormentati
(morti) in contenitori uterini (caldai, vascelli, o altro, tutti simboli
del grembo materno, così come anche il mare in cui il Sole si immerge per rinascere) a significare questa eterna «nostalgia della madre», questa pulsione a ri-fondersi con l’antico oggetto d’amore, regressivamente, sino a morirne, e tuttavia poi rinascendo, sempre:
vittoria di una brama di vita così forte da annullare ogni spinta tanatica. Ed ecco come i simboli ascensionali, luminosi, talvolta possano fungere davvero da esorcismo contro l’angoscia dell’oscurità
profonda e della caduta, di quel regressus ad uterum, di cui la morte è il significante ultimo. Anche il tempo è «tenebroso» e scandisce
lo stillicidio della vita, che affonda a ogni pulsare nell’inferno del
non-essere. Così ogni eroe della luce lotta contro animali di tenebra, in uno sforzo di separazione, anche violenta, dalla matrice ctonia (che pure ha la forza centripeta di una calamita) e compensando la «pesantezza» degli istinti con la «leggerezza» sublimata dell’ascensione o del volo.
E di ali spiegate nel volo s’embrica l’immaginale luminoso come memoria di un sogno in variopinte cangianze vibranti di verde musica:
98
INTRODUZIONE
[…] E laggiù lontano
attraverso le vette innevate come fatte
di nuvole, rosata la luce del sole
rabbrividisce: non odo la musica
eolia delle sue ali verde
che battono aprendo l’alba di rosso acceso?
mentre di contro
[…] simili a lombrichi
di morte strisciano i momenti senz’ali!45
P.B. SHELLEY
Ma certo, «icona perfetta» dell’isomorfismo tra ascensione e luce è
l’uccello angelo ministrante della luce 46, giacché:
Gli uccelli sono l’opposto del Tempo:
sono il nostro desiderio di luce,
di stelle, di arcobaleni e vocalizzi di giubilo47.
O. MESSIAEN
e se il Sol levante è spesso paragonato a un uccello, di uccelli solari si immagina la dominazione della luce; in primis da quella misteriosa fiamma che vola, ala del lampo, quel leggendario uccello di fuoco che s’infiamma del suo stesso fuoco, rinasce dalla proprie ceneri, quella Fenice, infine «immagine concettuale della vita e della morte», come la chiama Bachelard, e il cui mito Ovidio celebrava nelle
sue Metamorfosi:
[…] un uccello
v’è che s’innova e rinasce lo stesso da sé, che gli Assiri
hanno chiamato Fenice: non pascesi d’erbe o di biade,
ma solamente di gocce d’incenso e di succo d’amomo.
Quand’è vissuto per cinquecent’anni su i rami del leccio
o su la vetta di tremula palma, preparasi il nido
col duro becco e con l’unghie. Poi su vi stende soavi
spighe di nardo con cassia, con cinnamo trito e con mirra
fulva, si sdraia nel letto e finisce l’età tra gli odori.
Dicono poi che risorga dal corpo paterno Fenice
Piccola, a cui si destina una vita di cinquecent’anni48
riprendendo la descrizione da Erodoto, che ne parlava un po’ incredulo
Tengono per sacro [gli Egizi] anche un altro uccello che io però ho
visto solo dipinto
e che descriveva la fenice comunque somigliante a un’aquila
99
INTRODUZIONE
ma con le penne rosse la più parte, e il resto dorato49
mentre, dopo aver modellato un uovo di mirra e avervi inserito il corpo defunto del padre (dal quale è nata con una sorta di partogenesi), lo trasporta al tempio del Sole, in quella Eliopoli, appunto, che gli
Egizi avevano edificato a sua glorificazione.
La «parentela» tra l’aquila, la fenice e il Sole, è confermata dai miti. In Egitto il dio Atum, dal capo cinto da una corona di piume, si
chiamava «la grande Fenice» e viveva a Eliopoli. Râ, il grande dio solare, ha una testa di sparviero, mentre per gli Indù il Sole è un’aquila, e talvolta un cigno (e infatti nella glittica medioevale si rintracciano sovente navicelle volanti trainate da cigni)50.
Ogni tenebrore si fugge dalla spirale di un sempre risorgente destino di vita che feconda di fiamme questa larva di fuoco, dandole
un significato sacralmente solare:
La Fenice dimostro, nell’ardente
Fiamma dove rinasco e rinnovo,
E la virilità del fuoco provo,
E che è padre, e che lascia la discendente51.
V.F.G. QUEVEDO
La fenice, in effetti, rappresenta il principio maschile (il fuoco). Uccello fantastico, fa parte delle creature magiche connotate da particolari colori, sì da evidenziarne l’unicità meravigliosa, come per
esempio, drago verde, uccello rosso, tigre (o balena) bianca, ecc. Nell’antica Cina la fenice aveva come antenato una divinità del vento.
Alcuni testi fanno cenno alla fenice color vermiglio
nata in una cavità del cinabro del polo Sud
(con l’espressione «monte del Cinabro» spesso si indicava il sesso femminile!), giacché essa sembra in realtà essere androgina; è infatti da
se stessa generata e partorita.
È davvero un tripudio dei sensi, questo vivente spartito
dei timbri più cangianti della luce
A. PES
che Plinio anche dipinge con «una scintillante collana d’oro» sul
corpo scarlatto e piume rosa che ne screziano l’azzurro della coda,
quasi smaltato monile orientale intarsiato dai fulgidi colori dell’au-
100
INTRODUZIONE
rora, caleidoscopio volante per saturare a luce lo sguardo ammagato. Sono infatti i colori archetipi dell’Oriente quelli dell’Aurora, rosa e giallo; del resto il Sol levante non è forse spesso paragonato a
un uccello di luce che distende le sue ali iridate?52
Ma, fuoco profumato, uccello degli aromi, la fenice non elude l’olfatto, se effonde vaporante aura di effluvi caldi e speziati, giacché,
come anche Dante racconta:
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lacrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce53
e ancora, la sua natura è tale
che quando viene a morte, allora canta dolcemente col suo canto.
Infatti quando vuol morire, poiché la sua natura lo richiede, allora raduna molta legna secca e si pone sopra la legna secca e percuote tanto la legna con le ali che la legna si accende e così cantando brucia, in modo tale che è fatta cenere. E da quella cenere
nasce un verme e da quel verme nasce un’altra fenice54.
Una «carnalità» invero insolita s’irraggia dunque da questo «figlio
della luce»: arco di fiamma, insegna di inesausto furore di vita, icona volta a negare ostinatamente la morte, clessidra solare, perché
se è vero che:
Non v’ha uomo che possa
Ascondersi alla Morte occhincavata […]
tuttavia Speranza e Timore si volgono al Sole, di cui la fenice si proclama ricettacolo ed emblema:
Tu non sei maschio o femmina, ma sei
un disegno risposto dentro il cuore dell’uomo.
Splendido di splendore nascosto tu vieni dalla tua dimora arabica,
fiero topazio […]55.
M. MOORE
Così, contemplando il Sole, la fenice, braciere d’amore, prende fuoco,
in una comunicazione-comunione che denuncia l’iniziale affinità tra
lei e il dio della luce (infatti, il suo nome egizio Bennu comporta l’idea
di colore splendente che i Greci hanno tradotto con foinix «imporporato», da foinikés, «color porpora», foinix che l’ellenista Planche traduce con «uccello di fuoco»)56; e se davvero l’uomo diviene ciò che con-
101
INTRODUZIONE
templa, secondo quanto sostiene Plotino, questa «torcia vivente» diventa pegno di cristallina verità, simbolo smagliante dell’uomo di luce, che il fuoco divino cinge e infiamma e la cui morte genera resurrezione. Come la fenice, l’uomo diventato luce partecipa a una luce
incandescente che la morte fisica non potrebbe annullare, perciò
questo animale immortale è un’altra delle icone del Cristo:
la Fenice è l’immagine del Salvatore Nostro: Egli è sceso infatti dai
cieli, ha steso le sue ali e le ha portate cariche di soave odore, cioè
delle virtuose parole celesti, affinché anche noi spieghiamo le mani in preghiera e facciamo salire un profumo spirituale mediante
buoni comportamenti57.
Ogni volta dunque rifiorisce questo eliotropo volante, nella sua ageminata traiettoria consacrata all’iride, e in ciò si discosta dagli altri suoi «fratelli d’ala» a cui peculiarmente sono connessi valori di
velocità, di leggerezza, di freschezza, in un volo che è come lampo
incolore che brini appena la faglia dell’algido specchio zaffireo, rarefatto questo e privo di odori, giacché, «l’aria delle altitudini non ha
odore» e
– qui siedo, annusando l’aria che è la migliore,
aria davvero di paradiso,
aria lieve, lucente, striata d’oro58
F. NIETZSCHE
e la purezza dell’aria è generatrice della più pura immaginazione aerea!
verso il poeta rivolgiti
che ha gli occhi pieni d’amore,
– l’allodola
sale nel cielo col giorno –
volgi il tuo sguardo che ingoia
l’aurora dentro il suo azzurro:
– che gioia
nei campi di grano maturo! – 59
P. VERLAINE
Se la verticalità è desiderio di trascendenza, e se lo spazio, racchiudendo in sé la dimensione dell’altitudine, declina un invito all’ascesa,
chi più dell’allodola, uccello uranico per eccellenza, che «vive nel cielo» e come freccia di luce vola in alto perdendosi nel sole, dissolvendosi
nella pura essenza della luce può «dare forma» all’ineffabile?
L’allodola cantando dà forma alle nuvole60.
102
INTRODUZIONE
Pura immagine spirituale, il suo fragile corpo diviene tuttavia strumento di musica, vibratile cassa di risonanza, simile a violino. Minuscola ugola di cristallo che risuona d’immensità e s’inebria del
mistero del suo stesso volo luminoso, sino a morire d’ebbrezza per
aver cantato con troppa gioia !61 E voi, dunque
Udite da qualche parte, lassù pestare in una coppa d’oro pezzi di
cristallo? Chi potrà dirmi dove canta l’allodola?
Così, vibrante forma slanciata che fa brillare il pulviscolo alla luce
del sole, essa stessa anzi
corpuscolo invisibile che accompagna un’onda di gioia62
e la cui immagine brilla come i suoi trilli mentre si perde nella luce, incide, sonoro, il suo saluto sull’acquamarina trasparente del mattino:
Forte. Forte la luce
è già penetrata in ogni dove
nel più folto del fogliame,
Non ci fu vento né boria.
L’unisono s’infranse
si tritò
in briciole
di minuta ventriglia
prima l’infima
poi la superna
cristalleria del canto.
Sgomento.
Poi cantò da solo il giorno
Nel suo fulgore dilagante.
[…] la mattina, esplose
nell’azzurro fuoco
e subito fluì
nel mediocelo il trillo63.
M. LUZI
L’adamantina purezza del suo canto lo assimila al cristallo sì da assumerne la trasparenza e la sostanza dura e rende questo invisibile uccello dal colore dell’infinito, dal colore dell’ascensione 64, davvero preghiera incarnata (Alauda avis a laude vocata est dice la paretimologia proposta da Alberto Magno), cantico d’ali, inno di piume
e di penne, come la descrive D’Annunzio. L’allodola sfida tutte le
metafore delle forme e dei colori, e, «se la purezza di un essere trasmette purezza al mondo in cui vive, si capirà immediatamente co-
103
INTRODUZIONE
me l’ala immaginativa si colori dei colori del cielo e come il cielo diventi un mondo di ali»65.
Così il volo tinge d’azzurro lo spazio e Bachelard, nota come parimenti qualsiasi azzurro dinamico, qualsiasi azzurro fugace sia un’ala:
Gli angeli vi volavano senz’altro oscuramente,
Perché vi si vedeva passare nella notte a tratti,
Qualcosa di blu che somigliava a un’ala66.
BOOZ
E, se la luce tenera e il movimento felice producono davvero delle rêveries, e se «il volo deve creare il suo stesso colore», sarà dunque un
«movimento azzurro» – «felicità cullata» – un’ala azzurra, un uccello azzurro, l’archetipo del volo che s’impone alla nostra immaginazione, e ci si renderà conto allora che l’uccello immaginario, quello
che vola nei nostri sogni e nelle poesie non sarà mai variopinto. Il
più delle volte è azzurro o nero: sale o scende, ed è certamente un
uccello azzurro quello che conosce i sentieri rugiadosi della nostalgia e del ritrovamento (e non devono infatti attraversare il «paese del
ricordo» per ritrovare l’inafferrabile «uccellino azzurro» i due fanciulli dell’omonima fiaba di Maeterlinck?)67.
Ma da qui al paradiso
la via non è molta:
l’uccello azzurro saprà il modo
di ritrovarti per me68.
LI SHANG-YIN
Nelle sue riflessioni sull’immaginario aereo, Bachelard sembra porre
un’alternativa tra colore e movimento, secondo una dialettica immaginativa che distingua il volo dal colore, il movimento dall’apparenza e tuttavia egli stesso riconosce un’eccezione nel minuscolo martin pescatore,
che, tuffandosi dal trampolino del cielo nel liquido cristallo equoreo «con
i suoi fuochi splendenti […] ha forse catturato tutti i riflessi del ruscello?». Giacché il martin pescatore «è considerato l’uccello più veloce. […]
È il lampo azzurro, che la luce e l’acqua si scambiano»69.
Oltre alla cresta di fiamma del folgorante fuoco della fenice, e al
volo rifratto nella luce dell’allodola, vi è dunque anche un volo «colorato», quello trionfante che declina l’eptacordo cromatico nello
sfaccettarsi iridato e, come scrive Keats, si ricompone in
[…] figuranti visioni innanzi al mio occhio
di colori, ali e scoppi d’abbagliante luce70
come arcobaleno che si rifranga in murrine d’acqua.
104
INTRODUZIONE
Un totale «ascetismo del volo», invece, contraddistingue l’usignolo, l’uccello che non si vede mai volare e il cui canto istoria l’ebano
delle tenebre:
[…] e il solenne usignolo non smetteva
di gorgheggiare, intonando la notte i suoi dolci lamenti71.
J. KEATS
Isola sospesa nella notte, il madreperlaceo canto dell’usignolo, che
mi piace definire verlainianamente come un soave accordo patrizio in
rosa e bianco, in cui tuttavia anche riluce lo specchio viola dell’acqua
dei Rimpianti, quando
Come un volo strepitoso d’uccelli eccitati,
su di me s’abbattono tutti i miei ricordi.
[…]
s’abbattono, poi lo stridio malvagio che, alzandosi,
una folata umida va acquietando,
a poco a poco nel folto dell’albero si spegne
e in un momento non si sente più niente,
più niente se non la voce che celebra l’Assente:
più niente se non la voce – così languente –
dell’uccello che fu il mio Primo Amore […]72.
Voce «celebrante l’assenza», più nostalgica che melanconica, celebrativa di un amore eterno e incorruttibile, sottratto al «nero» dominio della morte e del tempo, elegiaco lamento che, in canora contesa con l’allodola, che già si avanza al limitare della rubescente luminosità di un nuovo giorno, incastona i brevi momenti felici di Romeo
e Giulietta.
GIULIETTA:
ROMEO:
«Vuoi già partire? Il giorno non è ancora vicino: era l’usignolo e non l’allodola, quello che ti ha ferito col suo canto l’orecchio trepidante: esso canta tutte le notti su quel
melograno laggiù: credi, amor mio, era l’usignolo».
«Era l’allodola, messaggera del mattino, non l’usignolo: guarda, amore, come quelle strisce di luce, invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia luminosa le nubi che si
disperdono laggiù nell’oriente […]»73.
Invero ineffabile è il canto dell’usignolo, «romanticamente» declina
l’officio di un «libro d’ore» che glorifica la dominazione della notte,
ove tempo e spazio si saldano, e dove, sciolti i veli ingannevoli del visibile, si rivela il vero «essere», così che la tenebra non è più tale per
assenza di luce, bensì per «sovrabbondanza di luce», permettendo
105
INTRODUZIONE
un più chiaro vedere, giacché ogni eterna Verità si appalesa allo spirito nell’ombroso raccoglimento del mistero notturno.
Uccello crudele lo chiama perciò Paul Valéry, che è al colmo di delizia nell’udire la sua voce, che è a voce troppo alta, estasi dell’indistinto, rugiada dello spirito che intride l’ombra delle cose, cancella
ogni memoria e realtà e tramuta tutto ciò che fu in cenere, in una vertigine d’anima che rifiuta l’ormai opacante luce del giorno e si rifugia
nella «verità» del più intimo splendore d’astri che ricama la notte
No!… Verso la notte la mia anima rivolta
rifiuta l’alba e la giornata nuova74
poiché quando la natura parla il suo più confidente linguaggio, allora
l’anima del poeta è simile all’usignolo: più s’immerge la sua gabbia nell’oscurità, più il suo canto è bello.
Sogno e poesia sono gemelli e in essi si realizza il miracolo dell’incarnazione nella parola e nelle immagini che danno corpo all’invisibile, ed è sulle ali dell’invisibilità che muove la poesia incorruttibile
del tempo, come l’uccello della Notte che Keats canta immortale:
Tu non nascesti per la morte, uccello immortale!75
Per lo più, l’araldica consorteria alata si dispiega nella felicità appagata del volo: del tutto inabile, invece, si rivela a una più terrestre ambulazione, come quel re dell’azzurro, quell’albatro della razza indolente
dei grandi uccelli dei mari che Baudelaire descrive pietosamente:
esiliato sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante76
mentre tuttavia
Altri camminano invece sulla terra ferma: il gallo
con la sua cresta a svegliare le ore silenziose
con squilli di chiarina, e l’altro che si adorna con la coda
allegra e colorata di tinte vivacissime come gli arcobaleni,
e fitta di occhi stellari77.
J. MILTON
Certamente, per l’immaginazione dinamica, il volo è una bellezza primaria, seppure la magnificenza del piumaggio si noti appieno sol-
106
INTRODUZIONE
tanto quando l’uccello si posi a terra, così perdendo però il suo «statuto» di uccello e, da «gioiello di mobilità»78 diventa piuttosto icona
piumata d’ingraniti colori. Come il pavone, appunto, l’uccello dai cento occhi, che, per il brunito oro degli ocelli e il cangiante splendore azzurrato del piumaggio, è assimilato da Bachelard a un «museo minerale» («il pavone è decisamente terrestre») nei cui alvei preziosi si venano splendori in
colori fulgidi d’oltremarino
porpora ed oro, gemme e chiarità79.
Dispiegato ventaglio vivente, il pavone – nel cui piumaggio vibra lo
splendore di mille sguardi, bistrati da lapilli stellari –, si offre a specchio del sole, e, tuttavia, nella vibratile luminosità della sua cangianza vellutata, sembra talora brillare della stessa liquida trama
dell’acqua, così che il poeta può immaginare che
il sole indugia sul lago come un pavone
mentre nel tremolio dei riflessi che il sole sparpaglia sull’acqua come pioggia dorata, si frammentano iridi:
Racchiude l’acqua il sole,
ma un calice fulgente, ecco, ne sorge,
per mille si divide l’indiviso80
A. PES
L’alternativa tra volo e colore, movimento e apparenza, viene fatta
risaltare dall’anonimo estensore del Bestiario di Gubbio, che rileva
come
La natura del pavone è tale che si esalta tanto per la sua bellezza che desidera volare e andare e ritornare, ma dopo aver guardato i suoi piedi bruttissimi, si rattrista così fortemente che non
vola alto ma se ne sta triste e dolente81.
sì che Verlaine lo vede ombrato di triste orgoglio 82.
Goffo, quando calca la terra con i suoi sgraziati (turpissimi !) piedi,
e tuttavia regale e splendido – nell’ammantarsi raggiato della sgranata ruota, filigranata di riflessi – eternamente ritroveremo questo
polioftalmico «emblema solare» a passeggiare, fastoso, nei giardini del
sogno e della fiaba, in quei «paradisi» dove regnano sovrane bellezza
107
INTRODUZIONE
e poesia, in tutto simili, forse, per dolcezza agognata, a quelli evocati di Yeats:
Oh, se i giardini dove erra il pavone
sui delicati piedi per gradini
antichi o sfoggia da un’urna Giunone
e indifferenti numi di giardini,
e i prati lisci e rédole di rena,
dove s’adagia l’anima serena
e ad ogni senso ha un’estasi Innocenza,
spengono insieme e gloria e violenza?83
108
INTRODUZIONE
Parte seconda
IL COLORE DEGLI ANGELI
Le facce tutte avean di fiamma viva
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco
che nulla neve a quel termine arriva.
DANTE ALIGHIERI
109
INTRODUZIONE
110
INTRODUZIONE
Capitolo V
EPIFANIE DI LUCE:
L’ANGELO «UCCEL DIVINO»
Poi, come più e più verso noi venne
l’uccel divino, più chiaro appariva;
per che l’occhio da presso nol sostenne1.
DANTE ALIGHIERI
Se il lampo fugace di un’ala crea un cielo, in tessiture diurne d’azzurro e d’oro – o notturne in madreperla e argento – strutturando
una poetica dell’ascensione luminosa e dello spazio libero, è tuttavia propria della luce la capacità di significare la pienezza del manifestarsi della dimensione spirituale pur sempre nella realtà visibile, «illuminata» dalla solarità di un’epifania sapienziale, che si significa in una «azzurrità» che è finestra verso un altrove, poiché,
davvero, l’anima giammai di vista perde un celeste orizzonte e:
O tenebre, sappiatelo: la notte non esiste!
Tutto è azzurro, aurora, alba senza crepuscolo
e fornace d’estasi: dove l’anima brucia profumo […]2.
V. HUGO
Colore che, nell’estremo rarefarsi sino all’invisibilità della sua stessa
materia, ribadisce il mistero di un’assenza che pure si afferma pienezza d’essere e di apparire (è forse «colorata» l’impalpabilità dell’aria?
E la trasparenza dell’acqua? Eppure, entrambi, acqua e cielo appaiono così intensamente azzurri!), il blu-azzurro è infatti simbolo-principe dello spirito, tanto che i leggendari animali blu, lupi, leoni, cavalli
ecc. che illustravano il bestiario medievale turco-mongolo si svelano
tutti epifanie della luce celeste3, e più modernamente Il Cavaliere Azzurro (Die Blaue Reiter) non voleva forse essere, per i suoi creatori, un
manifesto di una «spiritualizzazione dell’arte» tanto da arrivare poi all’estrema rarefazione dell’astrazione di Kandinskij?
Azzurro!
vita del cielo […] regno della luna […] palazzo ampio del sole […]
grembo delle nuvole d’oro.
111
INTRODUZIONE
Azzurro misterioso, «vita delle acque»:
[…] che strani poteri hai,
pur non essendo creatura ma ombra!
E come grandi quando in uno hai sede
sguardo vivificato dal destino!4
J. KEATS
Un «niente» che in sé contiene le infinite possibilità dell’altissimo e
del profondo abissale e che pare incorniciare la terra sì da farla apparire come un pianoro di luce tra due cieli azzurri 5.
È quella «sensazione di delizia», quell’impressione di azzurro cangiante che s’apre agli occhi inebriati di Proust nell’assolata mattina
marina
come un piumaggio di un pavone un ruscellare assolato d’argento di smeraldo e di zaffiro6
quasi alla sua vista si sciorinasse la smaltata gioielleria della natura.
Ma anche sidereo attributo del sublime, l’azzurro, colore speculativo per eccellenza, apre varchi sull’inconoscibile e nel contempo
«materializza» lo spazio vuoto, dandogli consistenza e visibilità e,
unito al bianco e all’oro, si significa ancor più cifra del divino, poiché tutto è puro nell’azzurro e tutto è bello nella luce 7.
E, se la diade rosso-bianco indica il passaggio da una vita somatica (il rosso, appunto) a una più alta esistenza di luce, il bianco-azzurro indica invece un’ulteriore successiva spiritualizzazione e si
costituisce a emblema naturale della divinità uranica in tutte le religioni. Così, per esempio, secondo quanto ci riporta M. Eliade, nel
culto dei dio celeste degli Ewe, popolazione africana, che conserva
un simbolismo colorato molto preciso, l’azzurro del firmamento è il
velo con cui Mawu si copre il viso, mentre le nuvole sono la sua veste e i suoi ornamenti: l’azzurro e il bianco sono i suoi colori preferiti, e il suo sacerdote non può portare altri colori8.
Illuminandosi poi ulteriormente con l’oro, l’azzurro si iperdetermina in valori di sacralità e regalità, sia quella divina che quella secolare, terrena (che ne è il riflesso), così che, infine, tutti questi colori (azzurro, bianco, oro) si rivelano colori dell’ascensione.
Il celeste (nella sua doppia significazione di colore e di sacrale) è
sia colore del cielo, che significante del divino uranico (insieme appunto al bianco-oro puro irraggiamento di luce) e si riconosce nella costellazione simbolica nella quale convergono luminosità, solarità, purezza, spiritualità, come anche regalità e verticalità, secon-
112
INTRODUZIONE
do un isomorfismo, ben riconosciuto dalle religioni, del celeste e del
luminoso, che edificano cosmogonie centrate sulla luce, secondo
costanti ipervalutazioni della brillanza e del fulgore. Nel Corano
l’Essere Supremo si cela dietro veli di luce
Dio ha settanta veli di luce e di tenebre e se Egli li rimuovesse il
sublime splendore del suo volto brucerebbe chiunque pervenisse
a Lui con lo sguardo9
tanto che un «velato labirinto» è una rappresentazione metaforizzata dell’inconoscibilità dell’Absconditum:
Allora questo Angelo [Michele] mi prese per mano: mi fece penetrare e mi condusse attraverso tanti e tali veli di luce, che l’universo che vidi niente più aveva in comune con tutto ciò che prima avevo visto in questo mondo quaggiù10.
Con ciò, la luce si evidenzia anche come plastica rappresentazione
dell’inafferrabilità dell’Absconditum stesso, o meglio, di una sua approssimabilità ad infinitum. Nel motivo dei settanta (o settantamila,
a indicare comunque un «infinito») Veli di luce, e nell’attraversamento di questi Veli (motivi ben conosciuti con molteplici varianti
nella teosofia mistica), risuonano echi della «metafisica della luce»
avicenniana-ghazaliana che si presta a tradurre il poetico tentativo
di visualizzare l’invisibile e di descrivere una metafisica dell’Essere
come processo luminoso di epifanizzazione del divino, essendo i Veli concepibili come altrettanti limiti di questo «discorrimento» di luce in cui si manifesta l’Invisibile e insieme come gradi di una gerarchia di luce.
Ma anche il volto del Dio ebreo risplende di tale accecante fulgore da essere insostenibile al riguardante:
Tu formidabile Lume!
Magnifico bagliore predatore!11
e soltanto lo zaffiro del trono che lo contiene ne testimonia e ne «rivela» la presenza incastonandolo in quel suo azzurro splendore materializzato – purezza trasparente di un cielo cristallizzato che avvolge e «raffredda» l’altrimenti folgorante luce della Sua Presenza –, secondo la significanza simbolica sublimante e distanziante del blu, che
ingrappola in sé valenze psicologiche di riposo, solitudine, purezza,
allontanando anche percettivamente l’oggetto dal percipiente, e realizzando una sorta di rarefazione emozionale e di nirvana visivo, sì da
poter sostenere, incorniciata in icona zaffirina, la risplendente epifa-
113
INTRODUZIONE
nia del Volto divino, quale appunto apparve a Mosè e agli Anziani saliti sul monte Sinai:
[…] videro da lungi il Dio d’Isdraele, e sotto ai suoi piedi come un
lavoro di pietre di zaffiro, come il cielo quand’è sereno. […] L’aspetto della gloria del Signore era come d’un fuoco ardente sulla cima
del monte[...]12.
Il Dio «incolore» (cioè sustanziato di purissima luce) si manifesta sopra un blu più simile a quello intenso e materico dello zaffiro che a
quello, incorporeo, del cielo, e così questo blu si rivela colore sacro,
monoteista per eccellenza, e secondo le prescrizioni dei sacri testi,
tinge tradizionalmente le frange rituali degli scialli di preghiera
ebraici come riattualizzata evocazione di quel sacro splendore. Il
Dio-Luce (incolore o di fiamma) è valorizzato dalla trasparenza, pure intensamente colorata, dello zaffiro che «contiene» l’oggetto della visione come un’appercezione o anche un simbolo della materia
originaria, cioè della Luce primigenia, e il blu diventa perciò il colore
della «manifestazione», proprio delle religioni monoteiste, per le quali la linea analogica che conduce verticalmente verso l’alto costituisce il fondamento dell’aspirazione al divino; così infatti asserisce
l’antico scriba:
In che cosa differisce il blu dagli altri colori? Nel fatto che il blu è simile al mare, il mare è simile alla volta celeste, la volta celeste è simile al trono della gloria13.
Ma questo vincolo di simpatia tra i vari livelli del reale e della mistica, ovviamente sempre rigurdo al blu, si estende ai rapporti tra
linguaggi e simboli, così che, per esempio, il termine sefirah (che potremmo definire sinteticamente come «attributo divino»), esprime
una ricchissima semantica che ne manifesta il profondo valore simbolico, facendo parte di una costellazione di parole ebraiche, che, se
pure mostrano varietà di significati sono simili per grafia e per pronuncia, tra le quali sefar indica la linea di confine, il circondario,
mentre sefer il libro o il documento, e sappir, lo zaffiro (che in età
antica era tuttavia il lapislazzuli, di un blu ancora più densamente materico), il materiale con cui era edificato il trono di Dio. Si evidenzia così l’interno legame proposto dagli stessi cabalisti tra sefirah e lo splendore di una gemma. Ma nella sefirah convergono varie direttrici di significato tra loro unite da una sottile ma tenace
forza di attrazione analogica. La prima è l’idea di rotondità (e quindi di cielo); la seconda, di numero e di registrazione di un ciclo; e in-
114
INTRODUZIONE
fine la terza allude allo splendore lucente di una pietra. Abbiamo
quindi il concetto di «cosa rotonda, numero di luce» che significa innanzitutto «cielo». Ora, il cielo, la sfera celeste, è azzurro come uno
sappir, uno zaffiro (o un lapislazzuli), che nella simbologia giudaica rappresenta la volta celeste, vista come un cosmo ripartito in livelli progressivi di luce, in fasce splendenti alla cui sommità è posto il trono del Signore. E poiché il processo che i cabalisti descrivono come emanazione dell’energia divina e della luce divina può
essere concepito anche come processo in cui si dispiega il «linguaggio divino», si saldano in un nodo significante le intersezioni
tra luce, parola divina e blu zaffiro. Da qui il potere evocatorio della parola sefirah (plurale sefiroth), che parla di attributi e di sfere di
luce e insieme del nome divino e delle lettere che lo comprendono,
e che in numero di dieci rendono ragione di tutti gli elementi della
creazione e di tutte le direzioni dello spazio, infatti sono le dieci vesti di cui si adorna la luce primordiale14. Da qui anche discende il
valore sacrale del blu, che doveva perciò essere richiamato evidentemente sempre a proposito del blu nei paramenti sacerdotali. La
parola sacra è ora quindi ancora parola di luce e di fuoco, ma di un
fuoco blu che ascende sull’ala rarefatta dello spirito.
Del resto, antropologicamente, nel Regime Diurno della Luce, l’azzurro si richiama naturalmente alla costellazione dei simboli ascensionali, fra i quali certamente l’ala detiene il primato assoluto quale emblema, sigillo ideale di perfezione di ogni essere che aspiri alla trascendenza. Azzurro e ala sono dunque significanti di una stessa pulsione al volo, spirituale o fisico, tanto che anche nell’uccello
colto nell’impeto ascendente – sia esso fenomeno luminoso di fuoco
o di azzurro, di natura solare o uranica – risaltano le qualità morali nella potenza del volo, a tutto svantaggio dell’animalità e delle immagini ornitologiche, rivestendo i panni di una mitologia aerea che
traduce il sogno di potenza e di purezza15. Essi rimandano al desiderio dinamico di elevazione e di sublimazione e si rendono metafora rivelatrice di un Eros sublimato che nel candido uccello d’anima, la colomba, trova la sua più perfetta rappresentazione:
Come fuor dalla tenebra che abbuia
alza il volo un’argentea colomba
e nella luce orïental, sovr’ali
mosse solo dal candido piacere
rapida scocca; tal nei regni eccelsi,
luoghi di pace e sempiterno amore,
l’anima tua fuggì, dove felici
spiriti coronati con aureole
luminose che son raggi di stelle […].
115
INTRODUZIONE
gustano, in gloria adorni, l’alta gioia
che i Beati e niun altro può provare16.
J. KEATS
Se infatti la colomba è l’uccello di Afrodite, rinviando a un contesto
sessuale (in quanto simbolo fallico), tuttavia essa, in un ruolo assolutamente sublimato, è anche l’uccello dello Spirito Santo a significare una voluttà purificata nell’ardore di un Eros divino e «disincarnato» in puro splendore di luce, come recita il Salmo:
Oh sparse per i sagrati
Ali della colomba inargentata!
Oh le sue piume dai barbagli d’oro!17
Ma, proprio per l’isomorfismo delle ali e della purezza e per il senso di ascesa catartica dell’ascensione alata, la meta finale dell’ala,
come della piuma, è l’angelismo, e la propensione dell’uccello a tramutarsi in angelo rivela, sostiene Durand, come l’archetipo profondo della fantasticheria del volo non sia l’uccello, bensì l’angelo: «eufemismo estremo», quasi antifrasi, della carnalità e della sessualità,
per cui «ogni elevazione è essenzialmente angelica», movimento sfolgorante di luce che si tinge di una sfumatura ascetica, facendo così dello schema del «volo rapido» il prototipo di ogni sublimazione18.
Con l’ali aperte che parean di cigno,
volseci in su colui che sì parlonne
tra’ due pareti del duro macigno19.
DANTE ALIGHIERI
Se Dante – che nel Purgatorio e nel Paradiso modella con la luce figure angeliche – così magistralmente evidenzia la gioiosa alacrità
delle delicate e purtuttavia possenti ali candide dell’angelo (qui davvero «uccel divino»), Victor Hugo ha colto inversamente la pulsione
dell’angelizzazione dell’uccello proprio in quella piuma raggiante perduta dall’Arcangelo luminoso nel precipitare giù nelle tenebre ctonie:
La piuma, unico relitto delle ali
dell’arcangelo inabissato nelle notti eterne
era sospesa al limite del tenebroso abisso.
[…]
Aveva un’anima questa piuma? Chi sa?
Era di strano aspetto: posava
e raggiava: era una chiarità caduta.
[…]
All’improvviso un raggio dell’occhio prodigioso
116
INTRODUZIONE
che creò il mondo dalla luce, su lei posò.
Sotto questo raggio, lucore dolce soprannaturale
la piuma trasalì, brillò, s’accrebbe,
prese forma e fu viva […].
Per una sola piuma perduta nella caduta e rimasta purtuttavia bianca («purissima»!) e sfolgorante, anche Lucifero (già il «portatore di
luce» e ora angelo «nero» che, nel rovinoso cadere nel peccato ha visto orribilmente trasformarsi le sue ali piumose in membrane immonde), sarà redento, e quella stessa piuma si metamorfoserà nell’«Angelo Libertà», luminosa e sorridente immagine femminile alata,
quasi una Nike cristiana, forma di luce che testimonia vittoriosa il
manifestarsi nella storia della sophia:
Luce, e Luce ancora
Caos di firmamenti in vortici d’aurora.
L’Angelo Libertà plana nell’azzurro spazio
Si direbbe il suo occhio cerchi un varco nei cieli […]20.
L’isomorfismo uccello-angelo è così istintivamente percepito dall’immaginario che anche la medioevale Leggenda di S. Brandano (una
sorta di epica mistico-favolosa che vede un gruppo di pii monaci navigare alla ricerca del Paradiso Terrestre) inscena appunto l’incontro con angeli «graziati» a essere uccelli per la loro ribellione non portata al pieno compimento:
Trascorso un anno esatto dalla partenza, è il giorno di Pasqua, i
pii naviganti prendono terra su di un’isola ove scorgono un albero gigantesco fittamente ricoperto di uccelli bianchissimi: uno di
questi si stacca dai compagni e così parla a Brandano:
«Noi apparteniamo a quella compagnia di angeli che fu d’accordo
con la rivolta di Satana, e che tuttavia non partecipammo ad essa;
per questo il Signore ci ha in qualche maniera ricompensato: vaghiamo per le varie regioni del cielo, del firmamento e della terra, come è natura di ogni spirito immateriale, ma nei giorni festivi e di domenica possiamo assumere le forme di un uccello e celebrare coi
nostri canti il Creatore». Infatti, a partire da quell’istante i candidi
uccelli prendono ad intonare tutta una serie di salmi gaudiosi21.
Così, l’uccello, davvero «amico della luce disvelante» è contemporaneamente, come l’angelo, messaggero e portatore di segni, e se, in
quel suo cangiante tracciato, frizzante di luce, è «polvere d’anima»22,
non stupisce allora che anche l’anima, che anticamente era assimilata a un uccello (sebbene poi le sue ali fossero piuttosto quelle
iridescenti della farfalla, giacché psyché sia anche «farfalla», fiore
senza stelo che volteggia […] armonia tra pianta e uccello! 23), parte-
117
INTRODUZIONE
cipi della simbologia del volo trascendente e quindi si avvicini all’angelo, secondo un’immagine escatologica propria di un’estetica
teologica non solamente cristiana, se anche per i persiani il mondo
delle anime (Malakut) o Angeli caelestes corrisponde al mundus imaginalis e dell’immaginazione attiva24, quale poi si incontrerà sempre
lungo i sentieri dell’immaginario anche poetico. Per esempio in questi versi di Shelley paiono convergere tutti i simboli luminosi e di
trascendenza sinora esplorati, ovvero quelli del volo e della navigazione aerea (battello e vento), insieme ai significanti-colore di purezza (bianco-argento) sullo sfondo turchino del cielo:
La mia anima è un battello incantato
che come un cigno addormentato fluttua
sulle onde d’argento del tuo canto;
e la tua anima, simile ad angelo,
siede accanto al timone e lo regge
mentre tutti i venti dolci fischiano25.
Nell’algido candore del cigno, così come in quello della colomba, si
increa la luce di un amore tutto spirituale, fonte del Logos divino,
che si riconosce nell’equazione elevazione-castità, quale anche Valéry, seppure laicamente, esprime nel «suo» cigno vaso di castità
simbolico e splendido in cui si confondono l’Amore e la Verginità, geroglifico solare che si rispecchia nel doppio orizzonte di cielo e mare bagnati da rugiada d’oro:
Al ridere del sole posato su di un’ala
e sotto la sua piuma un limpido fiotto s’increspava
il cigno, carena bianca, fila in pieno zaffiro
e lo specchio d’acqua lo raddoppia in splendore.
Neve sull’onda! Lo spinge soffio leggero
quale vascello fantasma in fuga nell’azzurro
poi s’arena sulla riva di schiuma
e dorme idealmente puro nella luce26.
P. VALÉRY
Ma non era del resto Hermes, lo psicopompo, il conduttore delle anime, anche lui un angelos, cioè un «messaggero», ai cui talloni alitavano piume leggere a significare il suo ruolo di mediazione tra alto
e basso, il suo continuo trasvolare tra la dimensione aerea e quella
terrestre, il suo farsi promessa e garanzia per l’uomo del superamento della physis, della pesantezza del corpo, nel volo dello spirito? È attraverso le ali che l’uomo e l’angelo si avvicinano agli antichi
118
INTRODUZIONE
dèi. Gli dèi greci dell’al-di-là, Hermes, Hecate e Artemide, sono chiamati tutti appunto angeloi, in quanto si occupano degli Inferi e sono quindi messaggeri tra cielo e terra, tra alto e basso. A questo proposito, è interessante la notazione del filologo tedesco Usener secondo il quale l’uso di un daimon come angelo protettore e personale era
conforme al pensiero di Platone, ed era vivo anche nella tradizione
popolare. Dal canto suo Bachelard, nel suo studio sull’immaginazione aerea, sostiene che le alette di Mercurio (l’equivalente romano
di Hermes) altro non siano che dei talloni dinamizzati, a simbolizzare piuttosto il sogno aereo che non è ritmato, ma «possiede la continuità e il percorso di uno slancio, è la creazione rapida di un istante dinamizzato»27. Così lo rappresenta infatti Malpoix, stilando un
sapido e laico Compendio di teologia ad uso degli angeli:
Il dio messaggero annoda piume bianche e blu ai sandali di cuoio,
ali più leggere dei sogni: poi inspira profondamente il cielo chiaro del mattino: è felice e prende il volo, sicuro di se stesso e sicuro del mondo, considerando tutte le cose nella loro luce, da quell’altro punto di vista che è quello degli dèi28.
Tutta l’immaginazione aerea, riflesso di una pulsione trascendente come rifiuto e negazione della «pesantezza» della realtà, si scandisce quindi tra palpiti d’ala, balenare di azzurri dinamici per suole di vento 29, giacché ali e scarpe volanti, immagini dotate di grande realtà onirica, sono tópoi ricorrenti anche nel mito e nelle letteratura popolare, a significare quell’«impulso sospeso» così ben descritto ancora da Shelley, davvero poeta della sostanza aerea:
Da dove giungete selvaggi, veloci
se lampi calcate per sandali al piede
con morbide ali che come il pensiero
son rapide, mentre pupille recate
uguali all’amore aperte, svelate?30
Come isole erranti nella rugiada dell’aria sulle culle del vento si traghettano anime alla ricerca dei cieli invisibili, con paesaggi interiori:
Vieni, su ali di gioia voleremo
verso l’appesa alta mia culla31.
Ma non soltanto sulle proprie ali o sull’onda del vento gli spiriti e le
anime trasvolano i cieli, bensì anche su cocchi di luce che ci rievocano il fiammeggiante carro del Sole, come quello che trasporta Elia
(trasfigurazione tutta cristiana di Helios), o come quello, fulgido di
119
INTRODUZIONE
sovrumana bellezza e onnipotenza, con cui Milton fa «scendere in
campo» l’Eterno contro gli angeli ribelli:
Uscì balzando al suono di un turbine di vento
il carro di Dio Padre, e lampeggiava dense
lingue di fiamma, ruote nelle ruote, sospinto
dallo spirito interno che lo anima, e tuttavia guidato
da quattro forme di Cherubini […]32.
Così anche il «viaggio dell’anima in cielo» ci rimanda ai significanti del corso del Sole, che traccia un tragitto di fiamma attorno al
mondo dall’alba al tramonto: «Padre» celeste che possiede la terra
con il suo fallo di fuoco e la feconda, e cinge e delimita l’Universo
con il suo abbraccio di luce, sì da venir perciò rappresentato come
un serpente portante sul dorso i segni zodiacali (così come il Deus
leontocephalus, il dio dalla testa di leone dei misteri mitriaci), secondo una rappresentazione antropomorfica o teriomorfica delle costellazioni, che trova una sua espressione iconografica appunto nel
serpente celeste, la cui «cinta» stellare uroborica, simbolo di eternità, rievoca antichissimi bestiari favolosi.
Curiosi e
Strani
appaiono animali
alle finestre
l’Ariete
l’Aquila
il Toro
l’occhio di
ingordi
felini33
R.S. VIRGILLITO
e si integrano sincreticamente in polarizzazioni teriomorfe di volti
angelici, giacché l’antica tradizione biblica angelologica sembra rifarsi ai modelli assiro-babilonesi. I Cherubini apparsi a Elia recano
infatti ancora tracce delle mitiche figurazioni, quelle misteriose e
assorte sfingi alate, o quegli attenti grifoni preposti a guardia dell’albero della vita. Simili in tutto ai Karibu assiri, «gli oranti», geni
intercessori posti alle soglie del santuario34, i Cherubini (Kerubin)
avevano infatti quattro facce: di uomo davanti, di leone a destra, di
toro a sinistra e di aquila dietro. Avevano inoltre quattro ali, mani
d’uomo e piedi di vitello; queste «figure combinate» terribili nella loro icastica arcaicità, si inscrivevano in un firmamento di luce raggelata, splendente come cristallo:
120
INTRODUZIONE
[…] ed ecco un vento turbinoso venne da settentrione e una gran
nube, e un fuoco vorticoso con chiarore tutt’intorno, e al centro come una specie di elettro dentro a un fuoco. In mezzo a questo, vi
era una figura di quattro animali, e il loro aspetto aveva apparenza umana: quattro fattezze, una per ciascuno e quattro ali ciascuno. I loro piedi erano ritti, e la pianta dei loro piedi, come la pianta
del piede d’un vitello, tutti scintille, a somiglianza di rame incandescente. […] E al di sopra delle teste degli animali era una specie
di firmamento a foggia di lastrone di cristallo disteso sopra le loro
teste35.
Ibridazioni di forme e di generi, dalla figura mezza umana e mezza
animale, i Cherubini sono i guardiani dei sacri centri della vita
(l’Albero della vita, l’Arca dell’Alleanza, il Tempio) nonché segni della presenza divina. Nella visione di Ezechiele (I, 5 ss) formano il cocchio vivente di Yahweh, e nell’Apocalisse circondano il trono di Dio.
Marco Bussagli, rifacendosi alla descrizione di Samuele, secondo
cui Yahweh «siede» sui Cherubini e li può cavalcare, dando vita a un
gioco di parole tra l’ebraico rakab, «cavalcare», e il kerûb «cherubino», ritiene che i Cherubini dell’antica tradizione biblica altro non
siano che quelle Sfingi alate ritrovate negli scavi archeologici di
Biblos, a loro volta derivate dal motivo dei grifoni a guardia dell’albero della vita, frequenti sui sigilli siriaci e mitannici del II millennio a.C. I simboli solari, espressi anche nelle figurazioni teriomorfiche, vengono accolti e integrati nell’iconografia immaginale cristiana; non erano infatti anche gli Angeli regolatori degli astri e preposti allo zodiaco, e in quanto tali, «figure del destino e della salvezza»?36 Tali ce li presenta Dante nel Convivio, stabilendo una relazione tra i cori angelici e i cieli dei pianeti:
È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli sono sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali volgari gente
chiamano Angeli37
mentre, più modernamente, Valéry li coglie nell’officio di un’astrale cerimonia:
Luminarie! Voi, solitari ceri,
astri pudichi da sante mani di Vergini accesi
quali guardiani di un puro tesoro!
Astri! Occhi grandi d’amanti gonfi di lacrime d’oro!
Brillate in chiara armonia,
illuminate i gradini d’incenso del firmamento,
poiché l’Arcangelo all’altare della Luna lentamente
per la soave e bianca cerimonia
appare (tal luce sull’acqua) […]38.
121
INTRODUZIONE
Se in molti passaggi della Bibbia gli astri sono associati al culto celeste, anche la mistica cosmologica ebraica, quale si manifesta nelle varie apocalissi e negli apocrifi, ribadisce questa «fratellanza» astrale degli angeli. Nel Libro di Enoch (apocrifo del I sec. a.C.) si afferma
infatti che gli angeli, «prima opera della creazione», anteriore a quella delle altre creature, similmente alle stelle, sono formati con il fuoco. Si sostiene anche che la rivoluzione degli astri si attua per opera degli angeli preposti alla loro guida nei cieli, a tal proposito evocando quelli che al quarto cielo conducono il carro del sole. Essi
hanno le sembianze di uccelli: la fenice e l’halkedra. Al sesto cielo,
sette fenici accompagnano sette cherubini e sette angeli dotati di sei
ali39. In effetti anche l’arte ha conservato molto dell’iconografia del
culto solare, e, poiché ogni rotondità evoca la ruota e il rosone (e
quindi il sole), così lo splendore raggiante intorno al capo di Cristo
e l’aureola dei santi in generale sono immagini solari – di quel sol invictus che aveva la corona d’oro dentellata – a significare l’irraggiamento della luce. Analogo significato aveva del resto anche la tonsura (i sacerdoti di Iside avevano il cranio rasato lucido come stelle).
E se l’aureola è «corona solare» e partecipa in modo analogo alla simbologia dell’ala (infatti, spesso nelle raffigurazioni dell’arte sacra gli
uccelli solari, quali l’aquila o la colomba, sono «nimbati»), anche la
piuma, simbolo di potenza uranica, attributo teriomorfico del dio,
suo fallo solare, costituiva la prima corona, identificando il dio stesso con il sole e «sacrandolo» nell’irraggiante luminosità:
Io sono Min nelle sue fasi e ho posto le due penne sul mio capo
afferma quindi il dio egizio Min. La variante di questo testo funerario egizio recita:
[…] sono i due grandi ed eccelsi urei che son sulla fronte di suo padre Atum40
evidenziando ancor meglio l’identità simbolica «fallica» serpentepiuma (ma del resto l’immaginario mitico aveva pur disegnato i serpenti alati!).
È universale il riconoscimento della piuma come simbolo di potere e di comunicazione con la sfera «aerea», in quanto la penna
permette di varcare una soglia, senza necessariamente oltrepassarla, così da conferire a chi la indossa non soltanto bellezza, ma altresì gloria e prestigio. Simbolo di luce, gli Indiani delle praterie
usavano nelle cerimonie rituali una piuma di gufo, uccello notturno, in funzione apotropaica, come aiuto e protezione contro la notte41.
122
INTRODUZIONE
E, aureolato di luce ultraterrena, appare l’Arcangelo Michele, angelo per eccellenza «solare», in cui sembra convergere tutta la simbologia elioidea del dorato, dello splendente e del radiante:
[…] di raggi di sole splendente
una tiara dorata gli cingeva il capo,
e sulle spalle piumeggiate d’ali non erano meno lucenti
quelle sue chiome ricciute che ondeggiavano […]42.
J. MILTON
Ma non è egli forse, come declina il nome «Mi-cha-el» (Quis ut Deus),
il «doppio», l’immagine (eikón) di Dio, l’irraggiante potere e divina dignità, quale ce lo presenta la Bibbia stessa?
E alzai gli occhi, ed ecco che vedo un uomo in vesti di lino, cinto
i fianchi d’una fascia d’oro finissimo. La sua persona pareva di
crisolito, la faccia mandava lampi e aveva gli occhi come faci accesi e le braccia e giù fino alle piante, rassomigliava a metallo incandescente, e la sua voce quando parlava era come la voce di
una moltitudine43.
Certo, al cuore delle tre grandi religioni designate come monoteiste,
si pone la questione dell’angelologia, o meglio della sua «necessità»,
giacché il monoteismo è impossibile senza l’angelologia, che evita il
pericolo di ricadere nella peggiore idolatria metafisica. L’Angelo è infatti la possibile epifania del Sacro Volto, e svolge una funzione teofanica, oltre che ermeneutica ed escatologica.
Tuttavia, se nell’Antico Testamento «l’angelo di Dio» (ma’lakh élohîm)
era l’ipostasi delle funzioni divine (cioè esprimeva delle relazioni di
un determinato tipo tra le divinità e le sue creature), tanto da assimilarsi talvolta, da «essere» il Volto stesso di Yahweh, la sua epifania sensibile – (l’Angelo, è il mistero della Faccia divina che si manifesta in teofanie multiple)44 –, nell’angelologia persiana egli è più
propriamente il «sublime messaggero», l’araldo divino e si riallaccia
quindi al ruolo proprio anche dell’Ermes ellenico, cantato da Rilke:
Attraverso i nostri cuori che teniamo aperti
passa il dio con le ali ai piedi
come anche del Thot egizio. È l’angelo delle Elegie rilkiane, che Romano Guardini vede più simile alle figure degli angeli dell’Islam che
a quelli cristiani, quale «creatura in cui appare già perfetta la trasfigurazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo»,
e che ci consente di riconoscere nell’invisibile un «superiore grado
123
INTRODUZIONE
della realtà». È l’Angelo necessario di cui si fa interprete anche Massimo Cacciari, che guida dalle cose visibili a quelle invisibili: «L’Angelo testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile, in
quanto invisibile, non lo “tradisce” per i sensi. Si rende quindi portatore di senso ed ermeneuta»45. Perciò sulla sua fronte risplende il
diadema di luce e di gioia, segno certo della «manifestazione»:
L’Arcangelo è di una bianchezza più splendente della neve, il suo
viso è di una gloriosa beltà, i suoi capelli ondulati di luce ricadono in riccioli lenti. La sua fronte è cinta da un diadema di luce che
reca inscritto in lettere di fuoco: La ilâha illâ Allâ46.
L’aureola inoltre indica anche una sorta di tropismo metaforico del
volo verso la luce, che addensa lo spirito man mano che ascende, così che l’impalpabilità di questo, eterea sostanza come d’aria, pneuma divino, si addensa in azzurri nimbi, che aureolano appunto gli
esseri assolutamente «spirituali», secondo la funzione segnica del
blu che lo pone a espressione simbolica del legame tra la sfera celeste e il mondo terrestre, in ciò oltrepassando in spiritualità la luminosità più «materiale» ed epifanica dell’oro47. Infatti il blu, pura concettualità, «alterità» immaginale, sogno e distanza inattingibile, è:
un’oasi, un punto
di sovrumana quiete – lì
nell’intimo e nel fondo
della vertigine perpetua48.
M. LUZI
Per questo motivo, nei mosaici bizantini e negli smalti medioevali,
le aureole dorate si alternano, secondo un canone ritmico-luminoso, a quelle azzurre. Kondakoff riconosce in questa alternanza cromatica una sopravvenuta superiorità simbolica del blu. Le aureole
dei conquistatori e dei profeti – vale a dire degli esseri in carne e ossa – sarebbero dorate, blu invece quelle dei «personaggi simbolici»,
degli esseri, cioè, che hanno una pura esistenza spirituale (secondo quanto anche sosterrà «laicamente» ben più tardi Kandinskij!), e
in ciò sono apparentati ai Cherubini. Infatti, in quanto messaggeri
della saggezza efficiente di Dio, questi sono frequentemente dotati
di un’aureola blu, di ali blu, e qualche volta sono interamente dipinti di questo colore49.
Così Dante contempla Beatrice farsi tutta luminosa e riflettere la
luce celeste che piove dall’alto a formare una «corona» irraggiante
attorno a sé, appunto come aureola:
124
INTRODUZIONE
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai50.
Mentre in preghiera d’oro e d’azzurro dipinse la sua Maestà, la sua
dolcissima e lontanissima Vergine in trono, il senese Simone Martini (secondo l’iconografia del resto propria al tempo), a significare
la compresenza in Lei della gloria del cielo e della terra:
In quell’attimo
– oro e lapislazzulo –
aiutami, Maria, t’inciderò
per la tua gloria,
per la gloria del cielo. Così sia51.
M. LUZI
Laddove sull’azzurro diurno del cielo si cesella la corona di Helios,
sul serico ventaglio della notte si tarsiano, come in dispiegato pavese d’orgoglioso pavone, innumeri occhi di stelle, esercito divino
che accompagna l’orbitante fuoco del dio, la cui onniscienza è designata dall’appellativo «dai mille occhi», formula mitica delle stelle, metafora che designa una divinità uranica e che ne è attributo,
tanto che Victor Hugo così immagina l’arrivo dell’aurora:
Era l’ora in cui uscivano i cavalli del sole:
il cielo, tutto un fremito di glorioso risveglio,
apriva i battenti del suo glorioso portale:
bianchi, apparivano formidabili d’aurora:
dietro di loro, come uno spaventevole globo, ricoperto d’occhi,
splendeva il cerchio del grande carro radioso [...]52
e mentre i cavalli del sole scuotono nel giorno gocce di rugiada, quelli della notte spargevano astri nella notte.
Le stelle, «occhi del cielo» moltiplicano dunque il miracolo della luce, infatti «tutti gli atti percettivi d’un valore e d’un significato appaiono come atti di recezione di luce», secondo un primato dell’occhio
che evidenzia le mirabilia di una fantasmagoria luminosa (anche quaggiù, nel mondo, la bellezza «luminosa e risplendente» è afferrata dalla vista – thea – «il più luminoso dei vostri sensi»53). Un isomorfismo
semantico raggruppa i simboli e gli organi della luce, veri atlanti sensoriali orientati verso la conoscenza e la distanza del mondo, nonché
tragitto di una luce interiore che procede dall’interno verso una manifestazione esterna: «dentro lo splendore fermo e costante del visibile
regala prodigi alla metamorfosi intellettiva, sensitiva e spirituale dell’uomo che ne è al centro»54. Ogni teofania uranica dunque è lumino-
125
INTRODUZIONE
sa, e ha la funzione di disperdere le tenebre e i mostri ctoni che vi
s’annidano: Egli è luce e occhio intona il poeta arabo Farid al-Din
Attar55, e, se il simbolismo delle divinità dai molti occhi è connesso all’idea di onnipresenza e onniscienza divina – giacché l’occhio è il «Sole degli uomini», la «Luce delle luci» – Coomaraswamy lo spiega «in relazione a tutta la dottrina dello Spirito e della Luce». Di molti occhi
(sette) è dotato l’Agnello dell’Apocalisse, secondo una relazione già
messa in evidenza tra il numero sette (come polarizzazione dei raggi
solari simbolizzati dalla ruota dal cui centro si ripartono i sei razzi),
gli occhi, lo Spirito e la Luce, così da fornirci la chiave interpretativa
di tale simbolismo, che stabilisce anche un nesso tra potenza procreatrice della luce e significato fallico-fecondante del raggio e della
fiamma.
Una volta riconosciuto infatti che gli occhi sono quelli «del Sole degli uomini», della «Luce delle luci», e che il Sole è l’essenza (atman)
spirituale di tutto ciò che esiste, una volta compreso che la luce è
procreatrice e che i molti raggi del Sole sono i suoi figli, e che egli
riempie questi mondi dividendo la propria essenza, pur rimanendo
indiviso, non sarà difficile capire perché la Luce delle luci, che in sé
è l’occhio unico di tutti gli dèi, debba anche apparire alla nostra facoltà iconografica come provvista di molti occhi. Inoltre, se ricordiamo la teoria tradizionale della visione, comprenderemo che ciascuno di questi raggi comporta un «occhio» o una «pupilla» da cui procede, e un occhio che esso raggiunge e attraverso cui passa. Secondo questa teoria infatti la visione avviene per mezzo di un raggio di
luce proiettato verso l’esterno che parte dell’occhio, così che a vedere non siamo tanto noi, quanto piuttosto lui, attraverso noi. Perciò di
molti occhi sono disseminate le ali dei Cherubini, a significare la «loro conoscenza immediata delle cose di Dio», evidenziata anche dalle
ruote splendenti di topazio grazie alle quali questi angeli si muovono56. Così si manifestano a Ezechiele: «[...] e tutto il corpo dei cherubini, il dorso, le mani, le ali, e i cerchi delle ruote era pieno d’occhi all’ingiro delle quattro ruote»57, laddove nei versi di Milton appaiono,
rutilanti e sfarzosi e, avendo perso l’aspetto di tetramorfi, guidano il
carro «solare» di Dio e si presentano con un volto stupendo:
[…] e il corpo e le ali cosparsi
di occhi quasi che fossero stelle, perfino
le ruote di berillo erano fitte d’occhi, e fra loro
fiammeggiavano fuochi: sul capo un firmamento di cristallo
dove splendeva un trono di zaffiro, intarsiato
di purissima ambra, con i colori dell’arcobaleno58.
126
INTRODUZIONE
I Cherubini, «gli oranti», quali segni della presenza divina, «occhio
divino» di Yahweh, appaiono nell’Apocalisse e circondano, palpitanti
d’estasi e in un moto trattenuto, il trono di Dio. Il fatto di essere
«pieni d’occhi davanti e dietro» (simbolo astrale) li caratterizza come
esseri cosmici. L’iconografia li rappresenta con quattro ali, e, quando ne hanno sei, si distinguono dai Serafini per l’aggiunta di una
ruota, che ne rafforza il simbolismo solare.
I Serafini, il cui nome deriva dalla radice sarapu (o saraph), «ardere», «bruciare», invece sono caratterizzati da tre paia di ali, e, infuocati da un rubescente eros divino, appaiono osannanti a Isaia:
[…] con sei ali ciascuno: con due ali si velavano il volto, con due
si coprivano i piedi, e con due volavano. E cantavano con voci alterne, dicendo: «Santo, Santo, il Signore Dio degli Eserciti, piena
è tutta la terra della Sua gloria»59.
Come i Cherubini sono associati a Dio quali angeli del trono, così lo
sono i Serafini quali angeli del fuoco (fuochi pii come li chiama
Dante) e alla cui chiarità di fiamma certo il poeta si confronta quando esclama:
Quindi vien l’allegrezza ond’io fiammeggio […]60.
L’arte medioevale amava rappresentarli a formare una rossa corona angelica vorticante intorno a Dio, Cristo o la Madonna.
Se l’attitudine cherubinica è intellettualmente «illuminata» (lo spirituale contempla, per arrivare alla conoscenza) – ed è perciò che i
Cherubini sono rappresentati intensamente azzurri, colore della sapienza e della gnosi –, l’attitudine dei Serafini è invece «affettiva», «infiammata» d’amore: lo spirituale cerca l’abbandono nell’amore, vuole essere divorato dal fuoco del sentimento: «Amo come Serafino, contemplo come Cherubino», potremmo dire, parafrasando Böhme61.
Con i Troni e i Serafini, i Cherubini rappresentano la prima Gerarchia celeste, mentre nella seconda vi sarebbero le Dominazioni, le
Virtù (o Potenze) e le Potestà. Potestà traduce il termine dello Pseudo-Dionigi: dynámeis, perciò le Potenze celesti altro non sarebbero
che l’esercito di Yahweh, ossia Angeli-stelle, e la stessa stella dei Magi
è quindi una dynamis, una Potenza angelica in aspetto di stella62.
Nota Bussagli come l’idea dell’Angelo-stella si testimoni nel corso dei secoli in una doppia iconografia, quella dell’Angelo in piedi
accanto alla Vergine e quello appunto dell’Angelo-stella che vola:
«Potremmo dire che si tratta della storia di un’idea che ha abbacinato gli uomini, un’idea che sfugge alla logica dell’uomo di oggi co-
127
INTRODUZIONE
sì intento a misurare, a razionalizzare, e che, forse, proprio per questo ancora affascina, sicché la luminosa chioma della cometa diviene bionda come i capelli dell’Angelo»63.
e vidi uscir de l’alto e scender giúe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
[…]
Ben discernea in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l’occhio si smarría,
come virtù ch’a troppo si confonda64.
DANTE ALIGHIERI
Il colore biondo della chioma angelica ci rimanda alla «eroica» chioma fulvo-dorata (xantós) degli Eliadi, figli del Sole che, come gli Angeli, sono «Progenie della Luce», e poiché la trascendenza è armata
e la luce è folgore e spada, anche «l’armata dei cieli» (riferita all’insieme degli astri ed al consiglio degli angeli) si riveste di simboli
guerrieri; perciò, se «ogni angelo è un po’ militare», spesso è «sagittario» e la freccia prende il posto dell’ala65. Infatti, l’altezza suscita,
più che un’ascensione, uno slancio e sembra che dalla scala alla
freccia, passando per l’ala, questo sia amplificato. Ma lo slancio è
reversibile e alla freccia risponde il raggio, che sarebbe la freccia invertita perché nella discesa sia conservata «velocità e direzione retta». Si spiega così come il tiro dell’arco diventi spesso mezzo simbolico di trascendenza, giacché il fine dell’arciere, come del volo, è
appunto la trascendenza.
Come il Sole si ammanta del rosso mantello del potere e della collera, allora anche i «celesti» abitatori dei cieli amano gli eroici ludi?
[…] la gioventù del cielo
si stava esercitando in giochi eroici, ma attorno
erano appese alte armi celesti, gli scudi, le lance
e gli elmi, che sfolgoravano tutte di diamanti e d’oro66.
J. MILTON
Guerriero è l’Arcangelo Michele, principe delle armate divine, che
tuttavia oltre alla spada di fuoco e al diadema di luce (e, ricordiamolo, il raggio è una freccia invertita), è dotato dello scettro di giustizia, e ai piedi indossa i «sandali della pace», a significare pienamente la sua doppia funzione di «guerriero stroncatore dei legami»
(la spada «taglia» la catena del male) e di addomesticatore del mostro
(Satana), che non uccide ma incatena. L’Apocalisse ce lo mostra cavaliere celeste (Die Blaue Reiter davvero!), archistratega delle legio-
128
INTRODUZIONE
ni angeliche in lotta con il rosso Dragone, simbolo ctonio del male
e dell’ombra che si oppone al bene e alla luce:
E ci fu una gran guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli guerreggiarono col drago67.
La presenza dell’Angelo è escatologica, mette fine all’isolamento del
mondo di quaggiù, perciò l’Angelo della Presenza per eccellenza,
l’Arcangelo Michele, annuncia l’anticipazione escatologica che si
compie nella liturgia. Esiste una vera e propria misteriologia micheliana che si manifesta nel suo culto, diffusissimo in santuari anche assai lontani tra loro. Quello famoso che si trova sulla costa
della Normandia si raddoppia in quello nella costa della Cornovaglia, mentre certamente il più misterioso è quello sul Monte Gargano, in Puglia, dove una grotta, aperta nel seno della montagna, è divenuta basilica segreta, sotterranea, proponendosi come un vero e
proprio tragitto iniziatico, e dove la statua di marmo, che raffigura
l’Arcangelo trionfante, bello e giovane, ha la virtù di un’epifania salvifica e taumaturgica, e raccoglie folle di pellegrini. Ancora oggi nelle rappresentazioni sacre che si svolgono in occasione delle feste
padronali in Campania, si attualizza il «volo dell’angelo», per cui un
bambino, o due o tre, vengono issati tramite imbracatura e cavi
d’acciaio a simulare appunto l’apparizione in volo dell’angelo intercessore e protettore. Certamente sono leggibili come residui folklorici di miti e riti relativi all’ascensione al cielo e al «volo magico» e solidali con le esperienze oniriche ed estatiche68.
Se in molti passaggi della Bibbia gli astri e gli angeli sono dunque
associati nel culto celeste, l’Angelo-stella è frequente anche nella letteratura apocalittica:
il mistero delle sette stelle, che hai visto nella mia destra, e [dei]
sette candelabri d’oro [eccolo]: le sette stelle sono gli angeli delle
sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese69.
La cometa (il cui significato è «dai lunghi capelli») è anche la spada
della luce, che nell’Apocalisse (VIII, 10), in forma di stella ardente
come fiaccola, diventa strumento di distruzione, immagine della
stessa funzione distruttrice di Yahweh, della sua ambivalenza «paterna» nei confronti degli uomini e che si rivela nell’Angelo sterminatore, che sembra incarnare appunto l’impulso distruttore di Dio,
tale da procurare stupore e spavento a ogni sua apparizione:
129
INTRODUZIONE
Apparve, al disopra del truce orizzonte,
una fiamma estesa per milioni di leghe,
mostruoso chiarore delle immensità blu,
splendida al fondo del cielo bruscamente rischiarato,
e l’astro spaventevole disse agli uomini: Eccomi!70
V. HUGO
La simbologia astrale vira allora dall’attribuzione positiva, epifanica e eroica, a quella malefica, e la cometa diviene mostruoso, polifemico, «occhio del cielo»:
Dal cielo non pioveva nelle tenebre altra luce che quella di una
rossa cometa, che scintillava dall’unico occhio, e la cui coda guizzava di voluttà omicida, come quella di una tigre71
oppure addirittura si assimila alla «nera stella» caduta, a quel Satana che pure trattiene in sé i terribili bagliori affocati di quell’alta
cupa fiamma 72, quale è sorpreso anche da Milton:
Esasperato per l’indignazione, imperterrito, Satana
le rimase di fronte, simile a una cometa che bruciando
infiamma nel cielo dell’artico
tutto lo spazio attorno al Serpentario immenso,
e scuote peste e guerra dalla capigliatura orrenda.
L’Angelo è quindi «luce e fiamma», formato di fuoco, similmente alle stelle. Per lui non esistono limiti né di spazio né di tempo. «Ogni
altezza, profondità e ampiezza del pensiero e dell’essere è ambito
dov’egli è presente. Egli sale, penetra, trapassa. Questo si esprime
nelle ali: l’angelo è colui che vola»73.
Ogni forma circondata d’ali si dichiara appartenere a una dimensione sacra, sottratta al mondo profano, «altra» e numinosa. La
portata escatologica e il mistero dell’ala si evidenziano nel suo moltiplicarsi nei Cherubini e nei Serafini, dove tuttavia non si vuol indicare un accentuarsi del movimento, bensì un suo imbrigliarsi nell’estatico palpitare che accompagna il vibratile ruscellare del piumaggio intriso di luce:
[…] sei ali
ombreggiavano i suoi lineamenti divini; le due
che gli avvolgevano ampie le spalle coprivano
come un mantello il suo petto, regale ornamento;
mentre il paio di mezzo gli cingeva la vita come fosse
una fascia stellare, drappeggiandogli i fianchi e le cosce
di lanugine d’oro e colori trattati in un bagno celeste;
il terzo paio, invece, sporgendo dai talloni adombra i piedi
con una maglia di piume tinteggiate in colore di cielo74.
J. MILTON
130
INTRODUZIONE
Certo, ogni spirito è alato e, in quanto abitatori del cielo, anche gli
angeli messaggeri lo sono e si dotano di due ali, ma il loro volo (come quello degli spiriti) non ha la fisicità di quello degli uccelli, non
vi si percepisce battito d’ali, il loro movimento è istantaneo, come
appunto di colui che cammina sulle ali dei venti 75.
Per suo carro piglia le nubi
Remiga alato di vento
Fa suoi angeli le burrasche
Suoi corrieri i bagliori di fuoco76.
Le ali degli angeli sono una pura convenzione iconografica, hanno
una funzione semantica, quella di indicare la natura impalpabile e
aerea del corpo angelico, fatto di spirito e «condensato» quasi in nuvola di luce, e si fanno quindi segno visibile di un’alterità, quella angelica appunto, capace – di contro alla tenace pesantezza fisica dell’uomo abitante della terra –, di uno spostamento veloce, anzi di
un’istantaneità che renderebbe perciò superflua la funzione delle
ali. Si elencano speculazioni, talora gustose, talora poetiche, sulla
materia del corpo angelico. Secondo Sant’Isidoro, per esempio, gli
angeli, per mostrarsi agli uomini, condensano l’aria (quella limpida
e tersa, è ovvio), come in una nuvola e la «indossano» quale veste luminosissima e trasparente. Del resto, anche nelle rappresentazioni pittoriche spesso gli angeli sembravano nascere da nuvole, come
in Giotto o in Pietro Lorenzetti. Infatti nella Crocifissione che si trova ad Assisi «delle figure angeliche prendono corpo dall’addensarsi
di sbuffi vaporosi bianchi che, da una parte trascolorano nell’azzurro color lapislazzuli del fondo, e dall’altra, danno corso agli Angeli vestiti di candidi abiti»77.
Le nuvole, infine, nelle rappresentazioni barocche simbolicamente rappresentavano la compenetrazione degli opposti (acqua e fuoco)
e rivelavano la presenza della luce e l’armonia delle sfere. Veniamo
così a conoscere la «vera» materia delle sfere e la «vera materia angelica», nella quale, come puntualizza Jimènez, interviene il mare, il
vento, le nuvole e il fuoco. Ma non la terra, assente nella composizione
degli angeli 78.
A noi venía la creatura bella,
bianco vestita e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella79.
DANTE ALIGHIERI
131
INTRODUZIONE
Un movimento fluido, continuo, quale trascorrer di vento, quello degli angeli, che è pneuma, soffio e messaggero divino, così come evoca il Salmo 104:
Egli usa i venti come suoi messaggeri.
Del resto il latino animus (o anima) corrisponde etimologicamente al
greco ánemos (vento), mentre il termine greco psyché (anima) deriva proprio dal verbo «soffiare» (psychéin). Così anima e venti sono di
natura e sostanze affini, e se le prime trasvolano le rarefatte e «raffreddate» regioni aeree dello spirito (giacché psyché è intimamente
legata a psychós, «freddo»); per questa affinità ai secondi veniva anticamente attribuita la funzione di psicopompi, cioè conduttori di
anime, ma anche di fecondatori dei corpi, nei quali «soffiano» l’anima come alito di vita80. Ierofanti della Luce, come «vascelli volanti»
immersi nell’oro e nell’azzurro sospinti da
Venti leggeri che con l’ala fragile
spargono sogni di molti mormorii
così simili invero a
piumati insetti, liberi, veloci
come nevi dorate su di un mare
di sole, colme di luce e profumo […]81
P.B. SHELLEY
tesi a comporre traiettorie melodiose di luce, a costruire regni eccelsi, luoghi di pace e sempiterno amore, dove
[…] felici
spiriti coronati con aureole
luminose che son raggi di stelle
gustano, in gloria adorni, l’alta gioia [...]82.
J. KEATS
La fluida leggerezza e il movimento rapido, sono propri della natura aeriforme delle intelligenze celesti (la Scrittura ha posto ali ai piedi delle sante intelligenze 83), al loro stato di entità impalpabili e invisibili e tuttavia reali e possenti, quali appunto vento che soffi talora anche impetuoso:
E cavalcò su un cherubino e volò
si librò sulle ali del vento84.
132
INTRODUZIONE
Sull’onda del vento delle sue ali, giunge da lontano l’uccel divino,
dalle sideree lontananze di un a-topico mundus imaginalis, dove, in
un vibrante lago di luce, le intelligenze celesti si immergono, eternamente, nell’estatica contemplazione della Divina Presenza. Lo spinge lo slancio di un dinamismo formidabile, quale fuoco alimentato
dal soffio di un divino amore. Tale appare a Dante l’angelo nocchiero, psychopompós anch’esso, che rapido s’avvicina sfiorando il mare tremulo della prima luce del mattino. «Il suo volto si fa sempre
più splendente e più chiaro il “bianco” ai lati di questo, le ali, con la
candida veste. Egli sta ritto a prua del leggero vascello che nessun
peso aggrava e che, tratto dal vento possente delle grandi ali, scivola con spirituale rapidità sui flutti scintillanti»85.
Le linee di significato e di relazione vengono infine a saldarsi e si
spiega l’assimilazione tra loro dell’uccello, dell’anima, dell’angelo e
del vento, in base a una loro affinità basata sulla struttura (esseri
aerei, spirituali), sulla funzione (psicopompi, nocchieri, messaggeri), e sull’iconografia (alati), per cui da sempre transitano, instancabili corrieri celesti, tra splendori di luce, sì da incidersi nella nostra memoria in:
Atmosfera di luce
che mi trascina come fossi nuvola
recata innanzi dal suo vento amico!86
P.B. SHELLEY
E, in atmosfera di luce, nell’Empireo – luogo degli esseri giunti al loro compimento, sovraspazialità che Dante ci presenta abitata da
forme simili a petali di rosa color oro, quel «fiore d’oro» che è immagine di un’esistenza unificata –, vive dunque l’Angelo risplendente, simile ad ape luminosa il cui volo operoso intesse tra gli esseri l’unità dell’amore87. Vive nella «pura luce», ed è egli stesso luce
di trionfante mattino. In quanto specchio, potenza di luce ripercossa, «luce seconda»,
carbonchio teoforo, abbracciato dall’aurora del Tuo essere
esso si colma di luce divina, è «divinizzato dalla Divinità», il suo esistere coincide con il comunicare con la gloria indicibile e glorificare Dio88. Vestito di bianco splendore della luce si manifesta nel Nuovo Testamento (Marco, XXIV, 5-7: un giovane uomo vestito di un abito bianco; Luca, XXIV, 4: due uomini apparvero loro in vestimenti risplendenti, ecc.). Anche nei Vangeli Apocrifi l’angelo si manifesta
133
INTRODUZIONE
trasfigurato di luce soprannaturale: essi si camminano su lingue di
fuoco, sono vestiti di bianco e il loro volto brilla come il cristallo (Enoch
etiopico, LXXI, 1). Nell’Enoch slavo (I, 4-5) il visionario vede apparire due uomini giganteschi, con il volto risplendente come il sole e gli
occhi ardenti come lampade, che emettono fuoco dalla bocca e hanno le braccia simili ad ali d’oro89.
[…] e dalla turba ardente allineata,
che balza, ala su ala, e fiamma su fiamma,
e come nembo proclama il Nome Occulto
e cozzando le lame delle spade
un’estatica melodia compone,
finché il mattino erompe e nel silenzio
bianco muore ogni cosa, tranne il fremito
delle lunghe ali e il lampo dei piè bianchi90.
W.B. YEATS
Sono dunque sempre bianchi gli Angeli della luce, se la loro natura ne è appunto sustanziata? Tuttavia la tradizione diverge su tale
natura: per i Musulmani, è luce; per gli ebrei e i cristiani è fuoco.
Sono infatti «di fuoco e di fiamma» (Apocalisse siriaca di Baruc, XXI,
6); «creati dal fiume di fuoco» (Talmud di Babilonia, Khagigah 14, a).
A integrare queste due posizioni, lo storico Toufy Fahd cita un antico testo, lo Ps.Balkhi, in cui si legge che fuoco e luce sono la stessa cosa, perché rarefatti e luminosi. Le diverse tradizioni si possono quindi conciliare affermando che gli angeli della misericordia sono entità di luce, mentre gli angeli della punizione sono di fuoco91.
L’iconografia cristiana riveste infatti di un manto rosso-purpureo
l’Arcangelo-Michele, il Santo Guerriero, e nella letteratura talmudica e midrascica, gli Arcangeli Michele e Gabriele, in quanto rappresentanti i due aspetti della divinità, ossia misericordia e rigore,
sono rispettivamente gli arconti della neve (di colore bianco) e del
fuoco (di color rosso).
Bianco, lo sono in verità: io sono un antico, un Saggio la cui essenza è la luce
risponde alla domanda postagli l’Angelo apparso a Sohravardî, che
poi però giustifica il riflesso di porpora che gli illumina il viso e la capigliatura:
Ma quello stesso che ti ha fatto prigioniero nella rete, colui che ha
gettato intorno a te questi differenti ostacoli e ti ha poi posto questi carcerieri e guardie, da molto tempo ha gettato anche me nel
Pozzo scuro. E tale è la ragione di questo colore porpora di cui mi
134
INTRODUZIONE
vedi colorato. Altrimenti io sono tutto bianco e luminoso. Che una
cosa qualunque bianca, la cui bianchezza sia solidale con la luce, venga ad essere mescolata con del nero, essa apparirà allora
rosseggiante. Osserva il crepuscolo e l’alba, bianco l’uno e l’altro,
perché entrambi in connessione con la luce del sole. Pertanto il
crepuscolo o l’alba è un momento fra due: un lato verso il giorno
che è bianchezza, un lato verso la notte che è oscurità, da cui la
porpora del crepuscolo del mattino e del crepuscolo della sera92.
«Il crepuscolo è la frattura tra i mondi» dice a Castaneda, Don Juan,
lo stregone93: è anch’esso, come il mezzogiorno momento fatale quando l’orizzonte si sfuma indistinto nella lontananza, e per la faglia del
tempo e della luce s’avanzano i fantasmi terrifici e sublimi dell’oltremondo.
E, sospeso tra notte e giorno, bene e male, tra i due mondi, uranico e ctonio, sta dunque l’Arcangelo «imporporato» del racconto di
Sohravardî che porta questo titolo, e delle due ali, l’una, intenebrata, si protende verso il crepuscolo, l’altra, illuminata, verso il risveglio del sole, e il colore rosso nasce dalla fusione del bianco come aspetto e dimensione della Luce e del nero come aspetto e dimensione delle Tenebre. Il color porpora che ne risulta (il porpora
è propriamente un rosso violaceo e non uno «scarlatto» come viene
spesso tradotto) è assimilabile al giacinto rosso, colore dei fili con
cui è tessuta la Tenda discesa dal cielo che l’Arcangelo Gabriele erige per Adamo, e che rivela la posizione intermedia tra il mondo dell’essere e l’imperativo puro, cioè il mondo delle intelligenze cherubiniche e il mondo della Materia e della Natura così che la luce di
quel giacinto rosso indicherà dunque la congiunzione del divino e
del creaturale94.
L’Arcangelo Gabriele, identificato con lo Spirito Santo, è designato dai filosofi sufi come l’Intelligenza agente, e, come quello, è l’Angelo depositario della rivelazione, per eccellenza messaggero, ermeneuta dei mondi superiori, interprete delle Intelligenze cherubiniche che non hanno rapporto diretto con l’uomo; egli proviene dal
«paese-del-non-dove». È l’Angelo che illumina i filosofi e che ispira
i profeti, colui che si offre alla visione mentale di Sohravardî in angelofanie fascinose: è l’Arcangelo con le due ali, l’una di pura luce,
l’altra che un’impronta di tenebra rende rosseggiante, simile a quello della Luna al suo levarsi, o a quello delle zampe del pavone. Dall’ala sinistra di Gabriele discende un’ombra, ed è da questa impronta tenebrosa e ambigua, in cui sembra permanere una malinconica traccia della terra95, quel resto di non-eternità che proviene dal
mondo del miraggio e dell’illusione (il rosso, sostiene Sohravardî, è
il colore con cui l’immaginazione attiva degli uomini di tempera-
135
INTRODUZIONE
mento sanguigno imita le cose corrispondenti): è il suo poter-essere che ha un lato volto al non-essere, tanto che l’effimero, la violenza, il grido di miseria e le vicissitudini proprie al mondo dell’illusione sono dunque echi e ombra di questa ala di Gabriele, mentre
le anime di luce benedicente emanano dall’altra sua ala, quella destra, come raggio del Verbo divino96. In lui si saldano la cognitio matutina e la cognitio vespertina in una sintesi sofianica e misterica,
che rimanda alla figura dell’Androgino alchemico (o Rebis alchemico), alato come la Sophia e in ciò personificazione della saggezza cosmica. Un’ala è rossa e l’altra bianca, a indicare gli spiriti dell’oro e
dell’argento, del sole e della luna, del sangue e del latte del corpo vivente della natura, del maschile e del femminile. Significazione binaria dell’unità del cosmo che si esprime appunto nella dicotomia
androginica del bianco-rosso97.
Nell’Arcangelo Imporporato si saldano anche i due vettori di ascensione e di discesa del volo; la sua funzione mediatrice si esplica e si
svolge in una funzione teofanica, iniziatica, salvifica, capace di riunire in sé le due polarità divina e umana, trascendente e terrena, e integrare quindi, in un sincretismo immaginale, anche i due aspetti della divinità solare, quello luminoso, diurno e quello notturno.
Con un’ala sono nella luce,
E con essa vi illumino la faccia,
E con l’altra sono nell’oscurità98.
D.H. LAWRENCE
All’Angelo della Luce si affianca l’Angelo oscuro della Morte, che si
mostra al limitare dell’essere e palesa l’altro aspetto angelico, ossia
quello terrifico e distruttore.
Poiché la morte è entrata nel mondo attraverso la seduzione e il
peccato di Eva, l’Angelo della Morte è stato da taluni identificato con
Satana, incarnazione dell’empietà, Signore degli «angeli dell’abisso»,
«spiriti dell’errore». Ma già Satana, il nemico dell’uomo, era tale nel
suo ruolo presso la Corte divina, così come è riportato nel libro di
Giobbe, dove si racconta di come egli abbia il compito di percorrere
la terra e riferire a Yahweh tutto ciò che accade, ma «ciò che lo contraddistingue e gli vale l’appellativo de “l’Avversario” è una certa malignità che avvelena il suo rapporto: egli infatti mette in dubbio la fedeltà di Giobbe e incita il Signore a inasprire le sue prove. Ispettore
ed esecutore, l’angelo diviene anche consigliere». E seppure il Salmo
90 assicuri il fedele che «Dio» ordinerà agli angeli suoi di custodirti in
ogni momento, il Salmo 78 ricorda che le piaghe d’Egitto sono state
136
INTRODUZIONE
inviate dagli angeli maligni, ossia gli angeli incaricati della missione
funesta99:
Concentrò su di loro tutto il fuoco
Furore e rabbia e soffocazione
Una menata d’angioli maligni
E alla sua Ira spianata la via
Non ne sottrasse alla morte
Neppure uno […]100.
L’Angelo del Vecchio Testamento è talvolta di natura tremenda, quasi selvaggia, aspetto di una potenza soverchiante l’uomo. Nell’Apocalisse la sua stessa «smisuratezza» ne fa un essere cosmico. Davanti
al Libro sigillato si pone un angelo potente che annuncia a gran voce (V, 2). Quattro altri angeli agli angoli della terra domano i venti
(VII, 1). Sette stanno davanti a Dio con trombe d’oro, il cui rimbombo apporta al mondo infiniti terrori (VIII, 2 ss.). Uno si appressa all’altare con un turibolo d’oro, lo riempie di fuoco e lo scaglia sulla
terra (VIII, 5). Fino al più possente, il quale scende dal cielo ravvolto in una nuvola, l’arcobaleno sul capo, il volto come il sole e i piedi come colonne di fuoco; pone il piede destro sul mare, il sinistro
sulla terra e grida a gran voce come quando rugge il leone (X, 1-3).
La misura d’esistenza e il campo d’azione degli angeli sono dunque
«oltre» la misura dell’uomo. La loro vista è terrificante. Avvicinandosi, la stessa potenza soverchiante del loro essere pone in pericolo l’uomo, rivelandosi a lui come «luce», «fiamma», «voce tonante», riflesso di quell’inconoscibile.
L’Angelo «distruttore» dell’Apocalisse ancora evidenzia questo aspetto funesto mentre sparge flagelli sull’umanità, e, proprio per questa
sua funzione di «interprete» della volontà onnipotente e onnisciente divina, l’iconografia ebraica ci presenta l’Angelo della Morte pieno d’occhi – a indicare come nulla gli sfugga –, e con una spada sfoderata da cui pende una goccia di fiele. Postosi davanti al moribondo, inietta nella bocca di questo una goccia di fiele che lo fa morire, puzzare e diventare livido101.
[…] Perché non vidi,
lontano, le ombre delle sue ali brune,
e collo sguardo non le stornai?102
J. KEATS
Si nota dunque un’ambiguità strutturale insita nella figura dell’angelo; egli ci appare mediatore, protettore, eppure anche terribile e
137
INTRODUZIONE
indifferente «agente» di quel Dio che nell’Antico Testamento è sovente inflessibile padre irato e vendicativo.
Si credeva che ogni uomo avesse dunque al suo fianco due angeli
«relatori» divini, uno dei quali si assumeva la difesa e l’altro l’accusa
davanti al Sommo Tribunale, e che il destino dell’uomo fosse deciso
da Dio in base a quanto dicevano i due angeli103. E così, all’aspetto di
onnisciente amore divino, cui abbandonarsi fidenti, si affianca un inverso timore, angoscioso e paranoico, che si struttura in un persecutorio super-Io che dall’alto tutto vede, e spia, proprio come il Sole, immagine paterna che, nella sua funzione divorante e spietata
è dotato di ali e spia il mondo con mille occhi104.
Perciò anche nelle tenebre infere la polioftalmia dei «guardiani», come Argo, riconduce all’antagonismo paterno, allo stesso modo della colpa edipica che si proietta, persecutoriamente, nei «mille sguardi» rivelatori, e che tuttavia talvolta difensivamente trasforma questa angoscia nel suo contrario, come protezione, così da fare, per
esempio, dell’orrido Bes egizio – anch’esso guardiano ctonio –, un
protettore con funzioni apotropaiche: «I piccoli occhi, di cui talvolta era disseminato il suo corpo, ricordavano fra l’altro la sua efficacia contro il Malocchio». Per questi motivi, lo si vedeva spesso affaccendarsi intorno alla madre e al suo bambino, di volta in volta
allegro e severo, secondo le necessità105.
Certo, se l’occhio che sogguarda riattualizza l’ansia di un super-Io
persecutorio e giudicante, tuttavia anche lo sguardo introduce la separazione tra l’Io e l’Altro, la sancisce e quindi apre la strada alla consapevolezza di sé, ribadendosi così ancora una volta la duplicità «solare» del vedere, polarizzata tra Eros e Thanatos. Ma aveva visto bene Freud quando rilevava nell’essere umano un’incoercibile tendenza a difendersi dalla consapevolezza della necessità della morte, mutandola in una propria scelta e trasformando la «nera» Ananke, la
spietata Necessità, in un ambìto idolo di bellezza, per cui anche nel
mito e nella fiaba «si sceglie» la più bella, dietro il cui sorriso si nasconde tuttavia l’orrore della morte, così come Jean Paul metamorfosa l’occhiuto e crudele Angelo della Morte in un’icona di pietà:
Mi voltai verso oriente, e un angelo grande e sereno, beato nella sua
virtù, sorse come una luna, mi sorrise e domandò: «Mi conosci? Io
sono l’angelo della pace e della serenità, e nella tua morte mi rivedrai. Amo e consolo voi uomini e vi sono vicino nel vostro grande dolore. Quando esso diventa troppo grande, quando la durezza della
vita vi ha feriti e abbattuti, io prendo sul mio cuore l’anima ferita,
[…] e la depongo, addormentata, sulla morbida nube della morte»106.
138
INTRODUZIONE
ET NOX FACTA EST. IL VOLO NERO
Quindi con l’ali spalancate dirige il suo volo
l’alto incombente nell’aria abbrunata, che avverte
l’insolito peso […] 107.
J. MILTON
Se il volo ascensionale è luminoso e aereo, nera e pesante è la caduta, e il «volo nero», che precipita verso il basso, si tinge davvero
del «colore morale del disastro», così come la luce che cade, la cometa infuocata, è l’apocalittico sigillo della distruzione.
Dimmi tu Stella che hai
ali di luce e vai
di fretta nel tuo volo fiammeggiante
in quella caverna della notte
chiuderai ora i tuoi sommoli?108
P.B. SHELLEY
Se l’anima nella sua ascensione angelica varca la porta di nuvole
fatta di luce abisso di fuoco in una nuvola d’oro, splendido arco incurvato con i raggi dell’aurora e s’innalza sempre più leggera tra
scenari luminosi, quella appesantita d’ombra volteggia piano e s’inabissa, giacché, se l’ascensione s’apre a illimitati spazi, la caduta
invece «crea l’abisso» e s’incunea oltre la porta d’ombra:
L’altra porta ai miei piedi mostrava la sua centina oscura,
nera come un fumo, rugosa come un muro
aperto vagamente su spessori tetri,
mescolando i suoi confusi orli alle profondità infinite,
quasi antro informe di tenebre costrutto,
cratere di bronzo coronante la notte.
Quella porta sembrava la fauce degli abissi109.
V. HUGO
Così l’anima, ormai falena della morte, lugubre Psyché, in funebre abito110 tristamente affonda, mentre la sfiora la carezza della morte.
Non beve più il vento della sua stessa velocità, sorretto da ali risplendenti, l’Angelo nero, ma plana, sull’onda delle sue oscene membrane:
D’improvviso si vide spuntare orribil’ali;
si vide divenire mostro, e l’angelo ch’era in lui
morire, e il ribelle n’ebbe dolore.
Lasciando la sua spalla, un tempo luminosa,
139
INTRODUZIONE
fremere al freddo laido dell’ala membranosa,
incrociando le braccia e alzando la fronte,
l’esule, come ingigantisse nel peso dell’affronto,
solo nelle profondità che la rovina incombe
riguardò fissamente la caverna dell’ombra111.
V. HUGO
Più non avrà piume di luce l’angelo-pipistrello: come quel demonio
dipinto da Antonio Vivarini che appare a san Pietro da Verona sotto le vesti della Madonna con il Bambino, ma che si demistifica proprio per due immense ali di pipistrello e per una coda e due zampe
artigliate che spuntano dalla veste mariana. Al brusio delle ali dell’Angelo risplendente, piumato canto vibratile di luce, si sostituisce
ora il rallentato precipitare dell’Angelo folgorato, il cui volo muto,
avvolto in pulviscolo d’ombre, affonda nell’addensata luce oscura,
divorante:
Cadde folgorato, cupo, silenzioso,
triste, la bocca aperta, i piedi verso i cieli
l’orrore dell’abisso impresso livido sul volto112.
V. HUGO
Il movimento au ralenti evidenzia il pesante sbatter d’ali e ribadisce
l’isomorfismo con il volo notturno del pipistrello tatuato dall’indelebile tocco dell’Inferno.
Ma, si può cadere «lentamente»? Certo, come nota Bachelard a
proposito del Lucifero di Milton, che, precipitando dal cielo continuò a cadere per nove giorni. Questo cadere per nove giorni non ci
fa sentire il vento della caduta; l’immensità del percorso non fa che
crescere la nostra paura. Le immagini di caduta, garantite da un innegabile realismo psicologico (noi immaginiamo infatti lo slancio
verso l’alto, ma conosciamo la caduta verso il basso e quella di cadere è davvero la paura primitiva113) sono ovviamente più di frequente ricondotte alla vertigine e alla velocità, e infatti il Vangelo di Luca
ci mostra Satana cadere dal cielo a guisa di folgore (Lc, X, 18).
Metafora di un baratro di colpa, del tutto privo della vertigine
della sorpresa ma avvolto nello stupore incredulo della sciagura,
questo rallentato precipitare sembra quasi che si svolga piuttosto
all’interno che all’esterno dell’essere, divenendo una sorta di «caduta ontologica» che coinvolge con la coscienza dell’essere fisico quella dell’essere morale, e tuttavia in questo evidenzia l’eternità della
sciagura, il suo moltiplicarsi istante dopo istante, per successivi, infiniti, segmenti di spazio, riassumendo così, icasticamente, gli aspetti terribili del trascorrere del tempo vissuto, dell’impossibile fuga da-
140
INTRODUZIONE
vanti al destino. Nel suo Paradiso perduto Milton coglie perfettamente questo incredulo stupore, l’accasciarsi nell’improvvisa sciagura,
in soli due versi, quelli in cui Lucifero richiama le sue fedeli legioni
di angeli ribelli, come lui «precipitati» dal cielo:
[…] quelle forme d’angelo
che giacevano là stupefatte, fitte come le foglie dell’autunno114.
Per immaginare la vertigine della caduta, sostiene ancora Bachelard, bisogna restituirla alla filosofia dell’istante, sorprenderla nel
suo «differenziale totale», coglierla nell’attimo in cui tutto il nostro
essere cede. Si tratta di un divenire fulminante, e per farcene un’immagine dobbiamo suscitare dentro di noi la «psicologia» degli angeli
fulminati. La caduta deve possedere tutti i sensi dello stesso istante, deve essere al tempo stesso metafora e realtà115.
La caduta rappresenta l’epifania immaginaria dell’angoscia umana davanti alla temporalità e la quintessenza vissuta della dinamica delle tenebre e della punizione. Infatti dal peccato deriva la caduta come punizione, nonché l’istituirsi dell’orologio del tempo, nefasto e mortale dalla pesantezza avviluppante. Allora, si invertono totalmente i simboli propri all’ascesa catartica dell’ascensione alata,
secondo l’isomorfismo bontà e altezza, luce e leggerezza, purezza,
volo e libertà, che s’incarna in figure di eterna giovinezza e leggiadria
(ricordate quell’Arcangelo Gabriele che Dante ammirato coglie davanti a Maria in atteggiamento innamorato sì che par di foco)?
Invero:
[…] Baldezza e leggiadria
quant’esser puote in angelo ed in alma
tutta è in lui […]116.
Il movimento di ascesa è anche un librarsi, un essere rapiti, e la libertà è una relazione verso l’alto, e l’aperto; il male invece si assimila alla pesantezza e «sprofonda» negli abissi, sotto il peso della
gravità nera che affatica l’angelo caduto di Milton:
[…] e vide il grande golfo che lo limita,
mentre Satana passa costeggiando le mura del cielo
dal lato della Notte, nell’aria imbrunita sublime,
ed è pronto a calare con l’ali affaticate, con i piedi
desiderosi ancora di posarsi, sul lato esterno e nudo
senza alcun firmamento, ancora incerto
se fosse il mare o l’aria ad abbracciarlo […]117.
141
INTRODUZIONE
Alla fallica erettibilità dell’ascensione, metafora di fecondità generativa anche spirituale, si sostituisce il tonus degradatus, e la caduta eufemizza così anche la paura della castrazione, infatti il Satana di
Milton è impotente e geloso del pieno e incolpevole godimento dei sensi della felice coppia per la quale l’Eden è davvero hortus deliciarum!
Invidioso, volge il capo altrove e tuttavia guata di traverso con occhi lascivi e maligni i due imparadised in one another’s arms:
[…] Odiosa vista, vista tormentosa!
paradisiati l’un l’altro fra le braccia, e l’Eden
fatto da loro più felice, godranno a sazietà
gioia su gioia, mentre confitto al fondo dell’inferno
non c’è per me né letizia né amore, soltanto
un desiderio feroce, che fra gli altri tormenti non è l’ultimo,
e ancora insoddisfatto, doloroso di fitte che mi struggono […].
Frank Kermode così commenta questi versi: «Apprendiamo così che
si fa l’amore in cielo, ma non all’inferno: il prezzo della lotta contro
l’onnipotenza è l’impotenza»118.
Lo spazio assegnato, così lontano dalla luce del Volto Divino, è
recintato dalla tenebra eterna. Seppure l’immagine di Satana appaia tardivamente nell’iconografia, giacché la prima figura conosciuta del demonio si ritiene quella che appare in un affresco della
Chiesa di Baouït in Egitto, cui l’artista assegna un volto senza bruttezza alcuna (poiché la bellezza appartiene alla creazione di Dio!) e
se i piedi e le mani hanno le unghie lunghe e ricurve, il personaggio non ha però niente di ripugnante e soltanto un nimbo nero che
circonda la sua testa lo indica come Principe del Male. Sarà ormai
per sempre nimbato di nero119, questo Arcangelo portatore della luce del Verbo: l’eclisse del senso lo precipita in un «disastroso crepuscolo» d’anima, mentre affonda nella furia di un lampeggiante e
strano fuoco nereggiante, nell’indicibile orrore esalante dal pestilenziale zolfo tartareo 120, come attirato da una sorta di inversa pulsione all’abisso, «bocca d’ombra» che si arreda di tutti i simboli terrifici nictomorfi, di cui ci fa un impressionante reportage la visione
«incubata» di William Blake nel Matrimonio del Cielo e dell’Inferno:
[…] e apparve ai nostri piedi un vuoto, smisurato, come un cielo
abissale: aggrappatici a radici d’alberi, rimanemmo sospesi sopra
quell’immensità. Ma io dissi: «Se non ti dispiace, possiamo affidarci a questo vuoto, così vedremo se c’è anche in esso la provvidenza: se non vuoi tu, voglio io». […] Per gradi si svelò ai nostri occhi l’Abisso infinito, rosseggiante come il fumo di una città incendiata: sotto di noi, a una distanza immensa, c’era il sole, nero e tuttavia splendente: intorno ad esso solchi di fuoco dove si
142
INTRODUZIONE
aggiravano enormi ragni, rampando dietro le loro prede, che volavano, o meglio ruotavano nell’infinita profondità, sotto le più terrifiche forme di animali scaturiti dalla corruzione: l’aria ne era
piena, sembrava composta di essi. Sono i Diavoli, e vengono chiamati Potenze dell’aria121.
Il mondo luminoso si rovescia interamente nello specchio del pozzo che si apre, in vertiginosa beanza, al centro della creazione:
Arcobaleno arcano circonda il pozzo scuro,
soglia del caos antico la cui ombra è il nulla.
Spirale che divora i Mondi e i Giorni!122
G. DE NERVAL
La tumescenza mitologica sfiora il parossismo nell’agglutinarsi di
immagini tenebrose e caotiche, così che, se l’arcobaleno, nei suoi
sette colori cui si riferiscono i sette angeli astro-logoi, che circondano il Trono «a ruota» come segni zodiacali, è appunto immagine dello zodiaco luminoso, un inverso, straordinario, zodiaco infernale si
disegna nel proteiforme regno delle Tenebre che abbracciano tutto
il mondo, e che
hanno dodici terribili camere di tormenti, e in ogni camera si trova un Arconte con fattezze diverse: coccodrillo, gatto, serpente, toro, cinghiale123.
Si costella così una teriomorfia demoniaca cui appartengono anche
il fragoroso e funebre cavallo ctonio, il ragno, gli uccelli notturni –
quali il gufo, il pipistrello ecc. – tutti isomorfi delle tenebre e dell’Inferno, e tutti riferibili allo schema caotico dell’animazione disordinata e del fragore. L’Inferno si sviluppa nei meandri di un anale budello, labirintico d’ombre, «otre» terrifico e risonante, in cui rumore
e orrore eruttano fra caos e stridor di denti, come dalla sadica bocca dell’orco, doppione folkloristico del diavolo. Enigma e specchio rovesciato e deformante, è dunque l’Inferno, giacché: «Labirinto non significa dispersione, che non a caso la sua mappa ripete gli arabeschi
delle bighe stellari, e nel contempo, il giro vorticoso delle viscere».
Esso «è lo specchio dove l’Io è il diverso!»124 in lotta con l’unica immagine cui tutto si riconduce. Rumoroso e caotico, pullulante di larve, pur tuttavia spazio dell’assenza, desertico, gravato e avvelenato
dalla cicuta della nostalgia, senza il rugiadoso germogliare del sogno, in cui misericordiose si aprono azzurre le pupille di papavero di
un angelo125. Vi si attua invece la terribile condanna all’eterna consapevolezza mai visitata dall’oblio. Ah! «Encor si je pouvais dormir!»
(Potessi dormire!) esclama il Satana di Victor Hugo:
143
INTRODUZIONE
[…] Mi trascino per sempre nell’insonnia
in un’immensità sinistra d’agonia.
Non morire, non dormire è la mia sorte.
[…]
Veder fuggire sempre, come isola inafferrabile
Il sonno e il sogno, oscuri paradisi azzurri,
dove sorride chissà quale nebuloso turchino!
O condanna!126
Invero, non si trovano paradisi azzurri nella tavolozza dell’Angelo nero, che sprezzante rifiuta i negati doni della luce, affermando: odio
il giorno, il raggio, il profumo, e, se la terra aveva dato origine ai tre
colori primari, bianco, rosso e nero – e se i colori dell’ascensione luminosa riverberano dal bianco cristallo della luce adamantina, fredda e spirituale, nel calmo e riflessivo azzurro, che pure s’incendia
nell’incontro del fulvo e risplendente cromatismo solare rosso-oro
sbocciando in iridato bouquet (il cielo blu accende cento fiori dischiusi 127) –, il «tono» della discesa e della caduta catastrofica è tutto nelle squame d’onice di un nero che si ossida e s’arruggina nel
rubescente sangue ferroso dell’arida terra:
[…] se è terra
quella che brucia di solido fuoco, come il lago brucia
di fuoco liquefatto, e di tale colore appariva […]128.
J. MILTON
Così infemminita dal sangue della terra, la nera luce infera riluce come specchio d’ossidiana vulcanica, su cui baleni lontananza di fuoco, cieca e profonda come pozzo d’acqua nera cangiante che si veni
dell’ostile colore rossastro del cupo e nefasto sangue dei mestrui, mélan davvero e incupito di morte, giacché, quale primo orologio umano esso rimanda al tempo che trascorre irrevocabile, rispecchiandosi così in quell’altro orologio, astrale, che è la luna, e contrapponendosi all’acqua lustrale limpida e pura, che irradia purezza129.
Ma, in verità, nasce prima la luce o la tenebra? Dal caotico utero oscuro primigenio sboccia l’uovo d’oro della luce, recita la cosmogonia orfica, come anche quella indiana, mentre il dio persiano Ormuzd crea la luce attraverso la parola:
Dalla parola santa emana la luce primordiale130
e così anche fece il Dio degli Ebrei:
In principio creò Dio, il cielo e la terra. La terra però era informe
e vuota, e sulla faccia dell’abisso eran tenebre, e lo spirito di Dio
144
INTRODUZIONE
si librava sulle acque. Disse Dio: «Si faccia la luce». E la luce fu.
Vide Dio che la luce era buona e la divise dalle tenebre131.
Tutta la simbolica luminosa si rivela dunque antifrastica all’attrazione centripeta e regressiva dell’erebro?
Ali occorre avere, quando si ama l’abisso132
argomenta Nietzsche, giacché tutti noi, impastati della pesantezza
inerte della terra, pur bramando la felicità del volo, siamo tuttavia
tentati da ogni passività regressiva, come quella dei prodigiosi abissi del sogno, brulicanti di spettri e di splendori; dove, tra estasi e
terrori, proiettate sul bianco schermo del sonno, le immagini si avviluppano ai pensieri come squame iridate di serpente in un mondo dominato dai demoniaci sinistri passanti del lampo, dalle meduse del sogno dalle vesti discinte, orribile cratere senza sponda, ingravidato di mostri:
O crocicchi oscuri degli abissi e dei sogni,
sonno, bianco spiraglio delle apparizioni:
germi, personificazioni, notte delle incarnazioni,
dove fugge l’arcangelo, dove s’avvoltola il mostro […]133.
V. HUGO
145
INTRODUZIONE
146
INTRODUZIONE
Capitolo VI
ICONOGRAFIE ANGELICHE
ICONE ANGELICHE
[…] fui affatto abbagliato
da uno splendore, veleggiante veloce verso il basso
che mi costrinse subito a velare gli occhi e il viso:
[…]
Donde quella compiuta forma d’ogni compiutezza?
Donde venne quell’alta perfezione d’ogni dolcezza? 1
J. KEATS
Potremmo usare questa esclamazione dell’Endimione keatsiano, rapito dallo stupore all’apparire della dea sconosciuta, anche per l’epifania interiore dell’angelo: giacché la sua apparizione è altresì visione di luce, per la luce, alla luce, della luce, è davvero compiuta forma d’ogni compiutezza.
La funzione ermeneutico-epifanica dell’Angelo di Luce lo fa assimilare da Sanâ’î all’Arcano custodito nel forziere, qual luce che si
rifletta in uno specchio2, e se lo specchio è transito di mistero, giacché, rilkianamente, davvero, nessuno cosciente ha descritto cosa nasconde la vostra essenza:
Come crivelli di fiori fitti
siete voi specchi, intervalli del tempo3
R.M. RILKE
così l’Angelo è
immagine di Dio, manifestazione di Dio nascosta, specchio puro,
limpidissimo, immacolato, incorrotto, non inquinato, pronto a ricevere […] tutta la bellezza della forma divina, improntata al bene4
poiché:
Quando lo specchio è puro di forme, riceve ogni forma,
e quel purissimo volto non svergogna il volto di alcuno5.
G. AD-DÎN RÛMÎ
147
INTRODUZIONE
E la potenza angelica è davvero «speculante», e in quanto l’Angelo è
specchio divino – per il quale «conoscere» è «riflettere» nell’istante la
Luce che egli eternamente circuisce –, egli moltiplica la propria specularità e si fa così, eternamente, specchio in cui riflettere anche la
propria ridente bellezza:
Voi, primi perfetti, viziati dalla Creazione,
profili di vette, creste di tutto il Creato
rosse d’aurora, – polline della divinità in fiore,
articolazioni di luce, anditi, scale, troni,
spazi d’essenza, scudi di delizia, tumulti
di sentimento in tempeste d’entusiasmo, e a un tratto,
uno per uno,
specchi: la bellezza da che voi defluisce
la riattingete nei vostri volti6.
R.M. RILKE
Sustanziato di fiamma e luce, inaccessibile nel suo bianco splendore, assorto nel suo divino officio, l’Angelo, «figura» necessaria alle tre Religioni del Libro, è tuttavia al tempo stesso ierofante dell’essere, mediatore ed ermeneuta del Verbo divino, «icona dell’adverbum». E non è perciò ogni teofania una angelologia, giacché il livello teofanico degli angeli sta nel manifestare l’«Uno-Unico» nella
pluralità angelica?7
E vide in sogno una scala rizzata sulla terra, la cui cima toccava il
cielo: gli angeli di Dio salivano e discendevano per essa8.
Discende l’Angelo – assorto il volo nella grazia dell’ek-stasis (le ali dell’angelo attengono alla contemplazione!) – dal cielo cristallino dell’Empireo,
che s’infoglia nell’oro di quella sempiterna «rosa» di luce dove ApexMentis (e Apis-Mentis!) sugge «il puro fiore dell’intelletto»9; egli, l’eterno viaggiatore proveniente da quel «non-dove» che è l’a-(ou)topico paese dell’angelo che è dentro di noi (innerlich), quale messaggero, araldo, interprete. Il coro angelico, testimone del mistero e suo
esegeta, è davvero l’intermediario tra Dio e il mondo, una «scala» dalla terra al cielo, senza la quale non avremmo potuto sopportare la vicinanza immediata di Dio. «Essa unisce, ma anche separa», questo
è il senso ontologico della visione di Giacobbe. Il mondo angelico è
medio termine tra Dio e gli uomini. Il mondo degli angeli in rapporto all’essere «è» la scala di Giacobbe, ponendosi nel suo insieme in relazione positiva e sostanziale con il nostro universo10.
Queste alate creature circonfuse di luce salgono e scendono per
scale d’oro, simbolo d’unione tra cielo e terra e di ascensione verso
148
INTRODUZIONE
i cieli mistici in un viaggio iniziatico che anche i rituali sciamanici
volevano drammatizzare e che Dante metaforizza nel corso di tutta
la sua Divina Commedia:
di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
che par nel ciel quindi fosse diffuso11.
Altro è il loro tempo e altra la loro natura, e la loro pienezza d’essere
rovescia il nostro orizzonte sensibile secondo un punto di vista senza più alto e basso:
Viste dagli Angeli, le cime degli alberi forse
sono radici, che prendono linfa dai cieli;
e le profonde radici di un faggio
sembrano loro vette silenziose.
Non è per loro trasparente la terra
di fronte al cielo, e il cielo denso come un corpo?12
R.M. RILKE
Massimo Cacciari nota che gli Angeli, come insegna la Kabbalah,
«salgono e scendono nell’ampio spazio del Regno, tanto da domandarsi se il loro Signore stia “sopra” oppure “sotto”. La nostalgia per
il Punto supremo che ne determina, incontenibile, il movimento è la
stessa presenza (l’unica presenza concepibile) di quel Punto nelle
regioni del Regno». Del resto, nell’albero Sephiroth della Kabbalah si
rappresenta la totalità dell’essere spirituale, in dieci sfere, graduate come emanazioni di Dio, quali rami dell’albero della vita che ha
radici in alto, e la chioma in basso13.
Ma forse che in questo loro mondo capovolto – che sembra quindi
rispecchiarsi nel diagramma simbolico dell’albero cosmico, nel quale si sovrappongono due alberi celesti, di cui uno indirizza i propri rami verso l’alto e l’altro verso il basso, a indicare il movimento della luce che ascende e che ritorna – ontologicamente riflesso in uno specchio, noi non possiamo che riconoscere il nostro mondo immaginario,
la nostra «realtà» del sogno, sebbene, come nota Pavel Florenskij, «è
piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del
mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi»14.
Attenti al loro affaccendarsi – angeli-uccelli e api e farfalle –, tessono figure di luce, dis-velando gli innumerevoli Volti del Vero, gui-
149
INTRODUZIONE
de sapienti, vigili interpreti del senso che si dipana dalle cose visibili e da quelle invisibili. Attraverso di loro noi raccogliamo disperatamente il miele del visibile per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile, sostiene ancora Massimo Cacciari. Eppure, il loro
«esserci» unisce e divide insieme, la loro stessa natura di messaggeri rivela una separazione tra «alto» e «basso», divino e umano, così come l’arcobaleno sancisce una ritrovata (e quindi già perduta)
alleanza tra Dio e l’uomo. Per una seconda volta ancora le risa della
luce corsero sulle acque facendo indietreggiare le tenebre e apparire la Natura colorata15.
Fra arcobaleni cosmici e sguardi di astri-angeli, si moltiplicano
le creazioni del sogno e della poesia:
Che mondo di colori! […] – in mezzo al cielo dell’isola c’era un volo continuo di soli al tramonto – un poco più in basso correvano lune bianche – vicino all’orizzonte volteggiavano stelle – e appena un
sole o una luna discendevano, gettavano sguardi divini, come occhi di angeli, attraverso i fiori della riva. Arcobaleni separavano i
soli dalle lune, e le stelle correvano tra due arcobaleni e ricamavano d’argento la cupola variopinta del cielo. […] Improvvisamente,
l’aureola della figura invisibile divenne un altissimo arcobaleno,
poi scomparve in un fulgore infinito che inondava tutto il cielo16.
Specchio di luce increata, riflesso luminoso, l’Angelo si fa prisma di
Dio, ne rifrange la luce, diviene esso stesso arcobaleno, face irradiante di sublime aurora.
Come lo splendore della Luce primordiale si «addensa» e si fa
materia nella creazione che si differenzia nei molti colori, così anche la stessa «creaturalità» dell’angelo – che lo ribadisce in «sinantropia» con l’uomo –, lo moltiplica in mille riflessi mentre, nell’aria
nitida, cristallina, il suo volo riflette il barbaglìo della luce del Logos,
e si fa quindi parole moltiplicata di quella unitaria langue divina, in
molteplici rifrazioni di quell’Uno, nello stesso modo in cui i molti colori dell’arcobaleno si riassumono in quell’unico bianco – che è privazione di colore per eccesso di luce – simbolo di Colui-che-è, della
«Verità assoluta», emanazione irraggiante dell’Onnipresenza divina.
Perciò la manna bianca e brillante, nutrimento generoso inviato dal
cielo, per Origene è simbolo della parola di Dio, del suo candore di
Verità, poeticamente invocata da san Gregorio di Nissa come il giglio
del discorso, fiorita immagine che san Bernardo ribadisce:
la verità è realmente un giglio, il cui profumo anima la Fede ed il cui
splendore illumina l’intelligenza17
150
INTRODUZIONE
e che ci spiega forse il significato del candido giglio dell’Angelo annunciante, non riferibile dunque solamente alla purezza di Maria, ma
anche al Logos divino fecondante di cui si fa portatore e interprete.
[…] il fiore vola
alla liberazione –
Saldo dentro un anello
dove compatti posano
gli strumenti della
concezione […]18.
W.C. WILLIAMS
Per l’angelologia biblica sette sono dunque gli Arcangeli che officiano davanti al Velo, quelli che, secondo Clemente d’Alessandria, essendo i sette Primi Creati, sono posti ai supremi ranghi della gerarchia angelica. E sette sono i colori di base loro attribuiti, che si coniugano anche nelle tonalità intermedie. Oltre al bianco, colore angelico per eccellenza, abbiamo il blu, il porpora o il viola, l’arancio,
il giallo, il rosso, il rosa, il verde.
Scholem spiega il segreto teofanico dell’eptade arcangelica rifacendosi alle speculazioni misteriosofiche della Kabbalah sull’arcangelo Anafiele, il ramo di Dio. Potenza insondabile e senza limiti,
egli, l’Arcangelo supremo della visione di Ezechiele, è la volontà indivisa che genera le creature che sorgono da lui nella differenziazione. Un altro testo (il Libro della vera Unità) spiega che «Anafiele
è il Serafino e l’Angelo preposto all’unità, la cui forma è ramificata
in sette luci che sono poste davanti al luogo dell’Unità come un
Fuoco ardente, e che sono identici ai sette Serafini enumerati al capitolo VII del trattato di Hekhalot»19:
Davanti al fuoco solare dell’Onnipotente stava il mondo degli spiriti come un arcobaleno20.
L’Angelo è quindi il mistero del Volto divino (Luce delle Luci ), che si
manifesta in teofanie multiple e si scompone nelle multiple Luci angeliche siano esse rifrante secondo l’accreditato simbolismo del numero sette, oppure, secondo una tetrade che si articola parallelamente nei quattro «principi di splendori e delle luci»: gli Arcangeli
biblici Michele, Serafiele, Azraele e Gabriele, che circondano la Markaba il «Carro divino» della mistica ebraica, l’equivalente del Trono
divino e di cui sono insieme il supporto. L’Arcangelo Michele è l’Intelligenza della Realtà mohammadiana e Principe di tutte le Intel-
151
INTRODUZIONE
ligenze. È la colonna superiore alla destra del Trono e la sua luce è
una luce bianca. L’Arcangelo Serafiele è lo Spirito della Realtà mohammadiana e Principe di tutti gli Spiriti: è la colonna inferiore della destra del Trono. La sua luce è una luce gialla. L’Anima, principe di tutte le anime, è nell’Arcangelo Azraele, colonna superiore della sinistra del Trono, e la sua luce è una luce verde. Infine, la Natura, è tipificata nella persona dell’Arcangelo Gabriele, principe di
tutte le nature, demiurgo del nostro mondo, colonna inferiore della sinistra del Trono. La sua luce è una luce rossa. Erano questi i
quattro Arcangeli che non furono invitati a inchinarsi davanti all’Adamo primordiale, giacché essi sono precisamente la Luce davanti alla quale gli Angeli erano invitati a inchinarsi, ribadendosi in tal modo la loro identità con lo stesso Essere Supremo21.
ARCOBALENI ALATI
[…] e indossò le sue ali piumate
cosparse d’oro e dai molti colori, e la veste succinta
adatta al procedere rapido 22.
J. MILTON
Prisma di Dio, di ali multicolori s’adornerà l’Angelus interpres, assimilandosi iconograficamente a quegli altri mitici messaggeri divini, come Febe, la dea scesa dal Latmo avvolta in un manto azzurro
[…] ornato d’un velo,
che nell’aria si levava come rigonfia vela
scolpiti arcobaleni apparivano nella seta,
con ondose correnti bianche come latte del mattino […]23.
M. DRAYTON
E tale appare quel visitatore meraviglioso, davvero mitico e strano
uccello che, in una notte tra sprazzi abbaglianti di luce, quale meteora in luce dorata
simile ad un raggio brillante scaturito dal cielo, ma d’uno splendore ineguale
sorprende e scardina le placide certezze di quel Don Abbondio wellsiano, quel Vicario su cui si abbatte, fendendo l’aria, quell’inaudito
essere dai colori cangianti, in un turbine cromatico gravido di eventi:
152
INTRODUZIONE
[…] L’animale aveva le ali color dell’arcobaleno e delle zampe rosee!
Questo conflitto cromatico era senza dubbio oltremodo stimolante!
Tuttavia:
Non era niente affatto un uccello, ma un essere giovane, dal viso
bellissimo, vestito d’un abito color zafferano e provvisto d’ali iridescenti, attraverso le cui penne s’inseguivano come onde variopinte
molteplici colori: il porpora e il vermiglio, il verde dorato e l’azzurro cupo. […] Mai il vicario aveva ammirato un insieme di tinte più
splendide; né finestre, né ali di farfalle, e neppure lo scintillìo dei
cristalli visto tra i prismi. Nessun colore sulla terra poteva ad esse
venir paragonato.
Ma intendiamoci bene, ci avverte Wells con fine arguzia e maldicente malizia: l’angelo di questa storia è l’angelo dell’arte ! Non è dunque l’Angelo del Volto divino, inaccessibile e terribile nel suo riflesso splendore, né tantomeno quell’Angelo custode che la credenza
popolare ha ridotto a effemminata effige di stucco, dolciastra e funeraria, che
porta una veste di immacolato, purissimo bianco, con maniche;
è biondo, con lunghe trecce d’oro, ed ha occhi blu come il colore
del cielo. Esso è una donna pura, una pura donzella e una pura
matrona nella sua robe de nuit, con ali attaccate alle scapole delle spalle. Le sue occupazioni sono domestiche e simpatiche: veglia
sopra una culla o assiste un’anima sorella sulla via del cielo […]
o vigila, atteggiato, sull’eterno sonno del caro estinto nei pietosi cimiteri. No, certo! L’Angelo-cometa che ha travolto il buon Vicario è
invece l’angelo dell’arte italiana, policromo e gaio! Esso davvero proviene dalla terra dei bei sogni, da quel pittorico mundus imaginalis,
dove non esiste quello scialbato e banale «colore pallido», quel bianco gessoso e spettrale che si ottiene con il miscuglio di tutti gli altri
Ciò che lei chiama bianco, non esiste nel paese angelico – affermò
l’angelo –, per lo meno, questo strano colore pallido, che ottenete
con il miscuglio di tutti gli altri
ma dove ogni impossibile sogno cromatico si realizza, e dove
sulle piante non ci sono fiori, ma zampilli di fuoco colorato24.
In quello stesso «imparadisiato» giardino di colori, tra il «brusio della canzone cromatica» delle iridate ali dei beati Angeli musicanti
153
INTRODUZIONE
dell’Angelico, di quelle delle schiere così assorte nell’interiorizzata
visione del mistero del Guariento, o di quelle esuberanti del Cavallini, o di mille altri Figli della Luce il cui volo si è impigliato nell’arcobaleno e la cui immagine è stata poi catturata nel mobile specchio dello «sguardo d’anima» di un artista, è certamente sbocciata
anche la sacra icona di Leskòv, quell’Angelo davvero «indescrivibile», al cui cospetto trema di gioia il cuore:
Il suo volto, l’ho davanti agli occhi, era luminoso come Dio, pronto ad aiutare; il suo sguardo tenero; gli orecchi portavano dei fasci di raggi ad indicare che prestavano ascolto in tutte le direzioni; i suoi vestimenti ardevano, tanto erano sparsi di pietre preziose ed oro; la corazza era ornata di penne e sotto le ascelle passavano le cinture; sul petto portava l’immagine di Cristo Emanuel; nella sua mano destra la croce, nella sinistra una spada ardente! Meraviglioso, meraviglioso! I capelli sulla sua testolina erano ricciuti, di color biondo scuro e scendevano sulle orecchie in
boccoli ed erano fermati l’uno all’altro con un piccolo ago. Le ali
erano larghe e bianche come la neve davanti, dietro azzurro chiaro; le penne erano una accanto all’altra e tra un ciuffo e l’altro
biancheggiavano dei cirri. Guardando queste ali passava ogni angoscia; pregavi: «Proteggimi» e subito ci si sentiva tranquilli e tutta l’anima era in pace25.
Forma rivestita di splendore, l’Angelo è testimone della Rivelazione:
«non sarebbe concepibile» sostiene Padre Boulgakov «che l’arte delle forme e dei colori non avesse avuto principio nel mondo degli angeli, dominio della luce e delle forme pure. Gli angeli sono le luci seconde, specchi della Luce increata, dove non è ombra alcuna e che
supera ogni possibile forma. Tuttavia, come creature richiamate dal
nulla all’essere, esse contengono la possibilità di un “chiaro-scuro”
e, necessariamente, hanno un limite, dunque una forma. Il bianco
irraggiamento del Sole divino trascende ogni colore, esso è “iper-cromico”, ingloba tutte le tinte e i colori possibili. Le luci seconde derivano dal dominio di queste. Il mondo angelico possiede la ricchezza
e la pienezza delle forme e dei colori propri all’universo creato del
cielo e della terra. Esse rivestono il mondo della bellezza che l’arte
rende creativamente percettibile. […] La beltà del mondo e dell’arte
compone per noi una scala dei sensi che collega il cielo e la terra»26.
Così l’iconografia riveste gli angeli non soltanto di vesti resurrezionali, risplendenti, ma anche di diversi colori:
L’ospite è oro e cremisi
opalescente e grigio
di ermellino il suo farsetto27.
E. DICKINSON
154
INTRODUZIONE
Certo, l’epifania del mondo angelico quale si manifesta all’uomo è più
visiva che sonora; luce e colori sostituiscono parole e suoni, giacché
l’irraggiamento della gloria del Signore è interamente luminoso e si
manifesta in luce, figure e forme. Nell’estetica umana, questo corrisponde all’arte pittorica delle forme, del colore, dell’ombra e della luce. Scrive a tal proposito Mario Luzi, nella sua operetta dedicata alla luce: «Una fantasmagoria luminosa infatti, dentro lo splendore
fermo e costante del visibile regala prodigi alla metamorfosi intellettiva, sensitiva e spirituale dell’uomo che ne è al centro. […] Quiete
e movimento dentro lo splendore continuo esauriscono esteticamente le disposizioni intellettive fondamentali della mente umana»,
così che tutto si unifica nella sublimità della luce, dato che davvero «il linguaggio della luce ha pienamente instaurato la sua comunicativa»28.
Anche Dante «pittore» sublime di versi, la cui tavolozza si irida di
parole-colore, compone stupefazioni in alchimie di oro e colori, e,
icasticamente ci mostra il doppio fluire e defluire della Luce verso
quel Centro sacro, rappresentandolo con l’immagine del raggio luminoso che penetra una massa d’acqua senza disunirla:
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita29
così come raggi colorati gli Angeli si dipartono da quella etterna margarita di Luce divina a magnificarne la Gloria.
La visione della gloriosa Bellezza divina si moltiplica all’infinito
negli innumeri occhi che costellano le ali cherubiniche, davvero
«pavoni celesti» come anche l’Arcangelo Gabriele islamico, depositario della Rivelazione e guardiano del Paradiso. Chiamato anche
Spirito fedele, lo Spirito Santo, la Grande Legge, e, appunto il «Pavone degli angeli». E tale apparve al Profeta, che aveva sollecitato di
poterlo vedere nella sua vera forma, quella che aveva in cielo: «All’ora convenuta, Maometto vide apparire l’angelo dai monti Arafât,
riempiendo lo spazio tra Oriente e Occidente e ostruendo l’orizzonte: la sua testa toccava il cielo e i piedi poggiavano per terra. Aveva
migliaia di ali ricoperte di piume dai colori sgargianti»30.
Certo, «Egli è luce e occhio!», e così lo descrive, con amoroso stupore, anche Attar nel suo Poema celeste:
Quella notte il Pavone degli Angeli era nell’intimo uguale al corvo
dei Suoi riccioli. Nelle sue trecce vedevi due corvi neri, nelle mandorle dei Suoi occhi avvertivi che esse non si giravano attorno. Un
155
INTRODUZIONE
arco fatto di due archi, le Sue sopracciglia; estremità, le sue trecce, di quell’arco continuo. Tutta luce erano, e diedero origine, le
Sue trecce a due arcobaleni31.
Simbolo di percezione visionaria, la polioftalmia angelica è «specchio» la cui purezza di sguardo rispecchiando la purezza trasforma
ciò che contempla, e si dipinge «profanamente» nella ruota del pavone punteggiata da occhi d’ametista, di berillo e di smeraldo, e
che, dispiegata, simboleggia la volta celeste trapuntata di stelle.
Uccello solare, i cui molti occhi sono paragonabili ai raggi dell’astro,
il pavone – significante d’immortalità per una sua pretesa incorruttibilità, per il suo manto epifania terrestre della molteplice visione delle possibili forme celesti –, è da sempre assurto al rango di
ideogramma dello splendore celeste, della gloria divina, se anche altri angeloi mitici si arricchiscono di sguardi iridati:
[…] il vento soffia alto
il suo velo in aleggiante padiglione
è azzurro, e tutto brillante d’un milione
di piccoli occhi, come se tu spargessi,
sul più cupo, lussureggiante letto di campanule,
manciate di margherite32.
J. KEATS
La leggenda greca infatti, voleva che il bovaro Argo avesse cento occhi, di cui una metà vegliava durante il giorno e l’altra durante la
notte. E tuttavia egli si era addormentato! Così, mentre dormiva,
Hermes gli aveva tagliato la testa, e aveva fissato quei suoi cento occhi sul manto del pavone, del resto già riccamente colorato, rendendolo veramente regale, tanto che fu consacrato a Era, il cui volto per i cantori greci era splendente come il cielo stellato che si riverberava emblematicamente nella magnificenza del piumaggio del
sacro uccello. Pertanto, ritenuto incorruttibile già dai Romani, per
la simbolica cristiana questo sacro uccello diviene il simbolo dell’immortalità a cui si giunge attraverso la resurrezione, nonché
l’emblema della restaurazione dopo la morte. Aristotele e Plinio avevano già notato come ogni anno, all’inizio dell’inverno, il pavone
perda il suo piumaggio stellato, per riacquistarlo poi all’inizio della
successiva primavera. Si spiega così come possa anche essere diventato l’emblema di Gesù Cristo, e come gli angeli si siano poi dotati di ali coperte di piume di pavone, a significare il loro carattere
di esseri immortali, tanto che nell’arte, oltre alle ali dal piumaggio
«arcobaleno», sovente essi sono splendidamente adornati di ali di
uccello ma tarsiate dagli ocelli del pavone. Simbolo anche della ri-
156
INTRODUZIONE
nascita dell’anima e del Paradiso, questo terrestre uccello davvero
«polisemico», nel suo realismo iconografico si ritrova in molte rappresentazioni di carattere sacro, come quello, davvero magnifico
nella sua linea cangiante blu-turchino-verde che si mostra nel mosaico del nartece della Chiesa di Kahriè-Djanni (XIV sec.) a Costantinopoli, o quello miniato nella sua rutilante esposizione della
ruota blu-oro da Florentius per i Moralia di Giobbe e che si trovano alla Biblioteca Nazionale di Madrid, o, infine, quello dipinto da
Domenico Veneziano nella Adorazione dei Magi, che sembra vegliare sul tetto della sacra capanna.
E se la polioftalmia abbiamo visto essere tipica degli esseri anche
inferi – fossero essi i terrificanti custodi delle nebbiose rive dei morti, o lo stesso Angelo della Morte, insieme pietoso e terribile –, possiamo capire come anche il pavone, analogamente a quanto avvenuto
per il grifone, la fenice, l’ibis e altri psicagoghi, anticamente avesse
il privilegio di portare presso gli dèi le anime immortali per un destino felice33.
Psicagogo, dunque, il pavone, come psicagogo è l’Arcangelo Gabriele, «prisma» riflettente e insieme «flabello» di Dio. Era infatti il
flabello fatto di piume di pavone, a «velare» simbolicamente l’insostenibile splendore divino, così come i Serafini visti da Isaia accanto al Trono, con due delle sei ali di cui erano dotati, velavano la faccia del Signore. E variegate e preziose cortine ricamate nei quattro
colori sacri velano inoltre il sacro tabernacolo, immagine del cosmo
e ricettacolo della divinità, istituendo una simbologia cromatica rituale, che si ripeterà poi nel pettorale dell’officiante:
Fece anche il velo di giacinto, porpora, scarlatto e bisso ritorto, di
lavoro di più colori, variato e ricamato; e quattro colonne di legno
di setim, le quali dorò coi loro capitelli, fondendone in argento le
basi. Fece anche la tenda all’ingresso del tabernacolo, di giacinto, porpora, scarlatto e bisso ritorto a ricami […]34.
Questa quadricromia è dunque caratteristica delle prescrizioni cultuali chiaramente intenzionate e molto valorizzate. I colori – sempre
citati assieme e nello stesso ordine per più di trenta volte –, sono il
blu (teckeleth), il rosso porpora sfumante nel blu sino al violetto (argaman), il rosso scarlatto o cremisi (tola’ath), e il bianco splendente del bisso (schesch), mentre sono accuratamente scartati il nero,
il giallo e il verde, che tuttavia si ritrovano nelle dodici pietre preziose che decorano il pettorale del sommo sacerdote, che si riferiscono alle dodici tribù d’Israele. Inoltre secondo la tradizione della
Midrasch, Dio, forse alludendo a una simbolica cromatica della lu-
157
INTRODUZIONE
ce, mostra a Mosè sul monte Sinai fuoco rosso, fuoco verde, fuoco
nero e fuoco bianco, ordinandogli poi: costruiscimi una casa. I quattro colori usati per l’erezione della «casa» ricalcano quelli celestiali
nei quali si è manifestata la gloria di Dio e che vengono mostrati allo stesso Mosè, sostituendo il biblico blu-teckeleth e la porpora con
fuoco verde e nero, secondo un passaggio alla simbolica teosofica
posteriore del colore propria della Kabbalah. Questa interpreta i
quattro colori come allegoria dei quattro elementi, per cui il bisso
simbolizza la terra, su cui cresce il lino, la porpora il mare e l’acqua,
poiché viene ricavata dal sangue del mollusco, il teckeleth l’aria,
presente nel blu del cielo, lo scarlatto il fuoco35.
Come iridato marezzamento su superficie equorea carezzata da
un brivido di vento, trascolorante, la simbolica dei colori si compone e si scompone sull’eptagramma ormai accreditato dell’iride (violetto, indaco, blu, verde, giallo, arancio, rosso), e, secondo giochi di
luce, mobili gatteggiamenti di uno specchio luminoso, tutti questi
colori si rifrangono poi nelle ali e nelle vesti di quegli «arcobaleni volanti» che sono gli Angeli. E se l’Arcangelo Michele, emanazione irraggiante dell’Onnipotenza divina, risplende nell’accecante biancooro solare (bianchi per eccesso di luce sono infatti descritti i suoi capelli, «tradotti» poi nel più umano biondo delle raffigurazioni pittoriche, e bianche sono anche le sue vesti in gara di splendore con la
corazza d’oro, e, spesso nell’iconografia rinascimentale, sono d’oro
anche le ali), gli altri angeli si «colorano» variamente, così che:
solenni forme d’angeli scettrati,
fenici in volo adornano l’azzurro36.
A. PES
Imporporato è invece Gabriele, l’Angelo dello Spirito Santo che presso i filosofi rappresenta l’Intelligenza agente, l’ermeneuta dei mondi superiori, l’interprete delle Intelligenze cherubiniche superiori
che non hanno rapporto diretto con l’uomo. Egli si «tinge» di porpora (un rosso sfumato di blu) proprio per indicare la mediazione
tra le tenebre e la luce, tra il divino e l’umano, giacché il rosso in
questo caso simbolizza l’Amore di Dio e il blu lo Spirito di Verità, cosicché ne derivi Amore della Verità e sia riservato alla potenza di Dio
e dei suoi ministri37.
È l’Angelo saggio di Sohravardî, che si muove nello «spazio di
mezzo», l’eterno pellegrino, l’angelo dell’umanità. Rappresenta la
Sophia umana nel suo viaggio verso la conoscenza: egli è insieme
conoscenza e rivelazione. È davvero «ermeneuta», «datore di forme».
158
INTRODUZIONE
Al suo livello della gerarchia angelica «si produce una frantumazione del tutto in una moltitudine di forme», di cui il suo sapere è possibile ricomposizione38. Ed è quella «fiamma oscura» (nera o blu) che
intenebra l’ala, accentandola di occulto, che ri-vela una luce «che si
sottrae» o che si «occulta» completamente, giacché è un «nulla» che
in sé condensa l’infinito potenziale creaturale, così come la «luce
oscura» chiamata tenebra, è la pienezza della luce che acceca l’occhio: «Essa non si chiama tenebra perché le manca ogni luce, ma
perché nessuna creatura, neppure un angelo o un profeta potrebbe sopportarne o contemplarne la visione»39. È quella luce oscura,
troppo piena di tutte le altre luci, troppo scura per illuminare, assoluta, vicino a Dio e da cui traggono la loro luminosità tutte le altre luci.
Nell’Arcangelo Gabriele si uniscono:
L’Angelo che dà la gioia,
e quello che dà l’angoscia,
quello con l’ali trepide,
quello con l’ali immobili40.
G. MISTRAL
I due Arcangeli, il solare e dorato Michele, e tuttavia il punitore (come lo chiama Gabriela Mistral), e l’imporporato Gabriele che porta
l’ora perfetta – giacché è l’Angelo della conoscenza e della rivelazione, l’Angelo dell’annuncio –, sembrano aver assunto su di loro le
competenze che furono di Apollo e Dioniso. Armato e altero Signore
della «retta» verità, della consapevolezza del Logos che «tutto illumina», l’uno; avvolto nel rosso mantello di un Eros che continuamente trasforma il vivente in un perpetuo morire e rinascere, l’altro. Entrambi ci riportano alla contrapposizione-composizione dei
due aspetti del Logos e del Pathos e sono fonte di un diverso sapere misterico e iniziatico alla Sophia del divino: un sapere sapienziale
che proviene dall’intelligenza e uno che proviene dal cuore e dall’Amore. Così, dei due Arcangeli, l’uno è comandato dal pensiero
della luce, la cui purezza conferisce alla parola la nettezza adamantina di una separazione ben tagliata dal filo della sua spada, teso a
definire i contorni, laddove l’altro è rivolto al pensiero dell’ombra e
della mescolanza.
Insieme all’altro Arcangelo, quel
Raffaele dei nostri viaggi,
levriere d’oro delle nostre corse41
159
INTRODUZIONE
pellegrino dei percorsi dell’anima, che Gabriela Mistral assimila allo splendente uccello solare
Fagiano rosso quando ti levi
fagiano bianco a mezzo cammino
spirito planetario, appunto, associato al sole, per eccellenza quindi «viaggiatore», ma anche «custode» vigile del giovane Tobia, essi
formano la più tradizionale triade angelica della Bibbia.
L’angelo dunque è davvero Malak, «messaggero» e testimone di un
inconoscibile, che, quando per un baleno perforante la coscienza si
manifesta all’uomo, apre una faglia nel reale introducendo brividi di
nostalgia per un ineffabile «altrove». Come accade a Nerval, «visitato» in sogno da quell’angelo triste che reca in sé le stimmate di un
oscuro sapere, quasi troppo pesante da sopportare:
Mi perdei più volte nei lunghi corridoi, e attraversando una delle
gallerie centrali, fui colpito da uno spettacolo strano. Un essere di
grandezza smisurata – non so se uomo o donna – volteggiava penosamente al di sopra dello spazio e sembrava dibattersi entro
spesse nubi. Mancava di slancio e di forza, e cadde infine nel mezzo della corte oscura, impigliandosi e sfregandosi sui tetti e sulle
balaustre. Potei contemplarlo un istante. Era colorato di tinte vermiglie, e le sue ali brillavano di mille riflessi cangianti. Coperto di
una veste lunga dalle antiche pieghe, sembrava l’Angelo della Malinconia di Albrecht Dürer. – Non potei impedirmi di lanciare grida di spavento, che mi svegliarono di soprassalto42.
Eppure, quest’angelo triste, commenta Franco Rella, trasmette al
sognatore una gioia mai prima conosciuta. Comunica un nuovo sapere arcano e mistico:
[...] mi sembrava di sapere tutto, e che i misteri del mondo mi si
rivelavano in quell’ora suprema.
È questo sapere che porta il protagonista agli addii, al suo viaggio
verso l’Oriente, accompagnato da un «inno misterioso», che lo riempie di una gioia ineffabile, inseparabile dal brivido di un’arcana nostalgia della terra. Tutto cambiava forma intorno a me. Infatti, in
questa straordinaria esperienza non è intervenuto un angelo qualsiasi, ma Gabriele il dator formarum.
Rosso-pupureo dunque come colore della mescolanza, dello spazio di mezzo, del sapere che lega il cielo e la terra, delle molte forme
e i molti frammenti in cui noi abbiamo esperienza del mondo. Que-
160
INTRODUZIONE
sta conoscenza come pluralità e frammento, come mescolanza del
buio e della luce, si dà come cognitio matutina che introduce al pellegrinaggio della terra straniera alla ricerca della patria obliata,
viaggio che ci de-situa da ogni abitudine nel cuore stesso di atopia,
ma dove, però scopriamo le meraviglie del mondo43.
Di un intenso e luminoso scarlatto (un rosso saturo illuminato
dal giallo) invece brilla la
[...] turba ardente allineata,
che balza, ala su ala e fiamma a fiamma,
e come nembo esclama il Nome Occulto […]44.
W.B. YEATS
Sono i Serafini, il cui nome seraph (saraph) significa pienezza d’amore e perciò s’adornano di ali scarlatte gli angeli di pitture e monumenti cristiani, fra cui la volta di san Vitale a Ravenna, o quelli
dei manoscritti miniati del XIII e XIV secolo, in cui Re Davide appare inginocchiato davanti a un angelo dal viso, le ali e le vesti rosso vivo (simbolo dell’amore divino che anima il re-profeta).
Così, avvolta nel suo sapere iniziatico, Beatrice appare a Dante
«vestita di color di fiamma viva», oppure con veste bianchissima avvolta «in una nebula di colore di fuoco». Beatrice-Sophia è rossa e
splendente come il sole nascente, come l’Oriente e come il mattino,
giacché essa stessa è «figura del sole nascente». Il colore della veste
di Beatrice è attribuito qui alla virtù della carità, ma charitas è la
traduzione latina di Eros, che è platonicamente la via per giungere
alla bellezza, quindi charitas-amore è manifesto nel viso della Sapienza45.
E perciò color di fuoco sono le mani e il viso della Sophia dell’antica icona di Novgorod, rievocata nel suo smaltato simbolismo cromatico di Pavel Florenskij: «La figura centrale della composizione è
simile a un angelo vestito in dalmatica imperiale con i barmi e l’omoforion (il pallio). I suoi lunghi capelli non sono inanellati ma cadono sulle spalle. Il viso e le mani sono color del fuoco, dietro alle
spalle ha due grandi ali simili al fuoco e sulla testa una corona d’oro simile a un muro merlato. […] La testa è circondata da un’aureola d’oro e sopra le orecchie porta una specie di cuffia (toroki). È
la Sophia. Viene rappresentata seduta su un duplice cuscino che
giace su uno sfarzoso trono tutto d’oro che ha quattro piedi ed è
puntellato da sette colonne simili al fuoco. I piedi della Sophia posano su una grande pietra. Il trono è collocato in una stella ottagonale d’oro sullo sfondo di anelli concentrici azzurri e verdognoli, disseminati a loro volta di piccole stelle dorate».
161
INTRODUZIONE
Florenskij stesso commenta che, se le ali della Sophia denotano
chiaramente una sua specifica prossimità al mondo celeste, il loro
color fuoco, così come il corpo, ci dice che essa è la portatrice dello
Spirito ed esprime la pienezza della spiritualità, giacché nel simbolismo sacro dei colori «l’essere in sé (cioè, secondo noi, Dio, in se stesso, Padre e Trinità) è prevalentemente di colore rosso e bianco»46.
Colore della vitalità più piena e della gioia aurorale, il rosso ha un
«suono» dal timbro squillante e profondo insieme, e come
un qualche arcangelo del Mantegna, vestito di scarlatto e che suoni una buccina
anche il Settimino di Vinteuil risuona nella Recherche proustiana in
una colorazione nuova di gioia, quale appello a una gioia superterrestre, indimenticabile. Così come l’ardente e impetuoso angelo mantegnano si contrappone alla dolce gravità di un angelo del Bellini sonante la tiorba, mentre la Sonata si apriva su di
un’alba liliale e campestre, dividendo il suo breve candore per sospendersi all’intrico leggero eppur consistente di un pergolato di
caprifogli su dei gerani bianchi
il Settimino iniziava
in un mattino temporalesco già tutto tinto di porpora; e, in quel rosa di aurora, quell’universo ignoto veniva tratto fuori dal silenzio e
dalla notte, per formarsi progressivamente davanti a me. Quel rosso così nuovo, così assente dalla tenera, campestre e candida
Sonata, tingeva come l’aurora tutto il cielo di una misteriosa speranza47.
La voce vibrante, di tiorba del Septuor «ad un tempo ineffabile e
aspra», e intensamente rossa, non è dunque più la trascrizione sonora della compiuta luce bianca della bellezza plotiniana che risuona nella petite phrase della Sonata di Vinteuil; è invece protesa a una
vertigine di vita, al compimento di un’epifania angelica come «promessa purpurea dell’aurora». Vibra in lei un rosso che già nel Quatuor del Tempo ritrovato irraggiava gioiose luminosità scarlatte verso
forme di un mondo incognito, delizioso. Che si costruiva poco a
poco davanti a me. E quel mondo nuovo era immateriale, quella
forma singolare che esso proiettava davanti a me in una luce imporporata era la forma di una gioia differente dalle altre gioie come la gioia misteriosa e carica d’ombra che potrebbe emanare
dalla buona novella annunciata dall’Angelo del mattino48.
M. PROUST
162
INTRODUZIONE
L’anima non è più che uno sguardo celeste49.
G. TRAKL
Blu, azzurro, turchese, tutte modulazioni di quell’unica nota che
«canta» aria, cielo fisico e cielo spirituale. Il «suono» blu dispone l’anima alla contemplazione, al distacco delle cose terrene, alla placida nostalgia per la pace e la purezza. L’azzurro del cielo è la proiezione della luce sulla tenebra, il confine tra luce e oscurità, l’immagine profonda della creatura celeste, cioè del limite tra la luce
ricca di essere e la tenebra nulla: è sembianza del mondo ideale.
Colore della divinità uranica, il blu, e della sapienza divina, così che i Cherubini, le intelligenze angeliche perdute nella contemplazione del Volto divino, sono rappresentati intensamente azzurri,
e, alonato anche di intenso azzurro, davvero fuoco spirituale, sempre ci appare il Volto del Sacro. Si aureola di questo colore anche la
Sophia, «vero cielo» che «significa» l’altro cielo quale essenza eterea
e spirituale, tanto da capovolgere, nel pensiero di Florenskij, la tradizionale proposizione secondo la quale il cielo indica la Sophia, il
cielo azzurro, quindi alla Sophia si può attribuire l’alone azzurro.
Invece, egli dice, forse la Sophia è il vero cielo: nelle esperienze sofianiche c’è la percezione dell’azzurro, che è il vero simbolo della Sophia, e perciò il cielo (simbolo della Sophia) ci appare azzurro. Quindi, la Sophia è rappresentata con l’alone azzurro non perché il cielo sia azzurro, ma il cielo appare di questo colore perché la Sophia
possiede l’alone azzurro! Come la luce solare è il simbolo naturale
della Trinità, così l’involucro azzurro trasparente è il simbolo naturale della Sophia, secondo un rispecchiamento del mondo materiale e fisico in quello spirituale che nel «mistero azzurro» si fa
simbolo e allo stesso tempo realtà immediata e presente.
Così gli «esseri simbolici» si aureolano di azzurro, e la purissima
Vergine è ammantata di cielo trapunto di stelle e nimbata spesso di
una nube azzurra50, nonché inscritta in una «gloria» dorata ovale,
vera icona di Maestà, diadema di perfezione e bellezza del creato,
che fa esclamare il poeta assetato d’anima:
Non lasciare deserti i miei giardini
d’azzurro, di turchese,
d’oro di variopinte lacche
dove ti sei insediata
e offerta alla pittura
e all’adorazione51.
M. LUZI
Il blu-azzurro è certamente il colore emblematico della Vergine Maria, a significare la sua purezza inattingibile, ed è quindi il ceruleo
163
INTRODUZIONE
sofianico del suo abito a testimoniare il suo stato di Sempre-Vergine, mentre nella sua essenza di Deipara, in rapporto al Cristo, e quindi Madre per essenza, ella si avvolge in un manto purpureo (colore
della dignità regale e della spiritualità), oppure rosso scarlatto (colore della sofferenza e dell’amore infuocato).
Riscaldata dal fuoco dell’amore divino la fredda castità del pensiero s’ammanta di rosso. E tale ci appare la Teologia contemplativa dell’affresco di Simone Memmi nella cappella spagnola in Santa
Maria Maggiore a Firenze; il rosso dell’Amore Divino si coniuga al
bianco della sapienza divina e dell’azzurro che manifesta, attraverso la vita, lo spirito o il soffio di Dio. Se per rappresentare «l’essere
in sé» (cioè Dio in se stesso, Padre e Trinità) prevale il rosso e il bianco, lo Spirito di Verità, simbolizzato dall’aria e dalle ali, ha per colore il blu, che designa appunto la sapienza creatrice manifestata dal
soffio di Dio, e, unito al rosso, indica lo Spirito Santo, che, procedendo dal Padre e dal Figlio, riunisce in sé i colori dell’Amore Divino, Dio (rosso) e della Verità Divina, Gesù Cristo (blu)52.
Il rosso, il bianco e il blu simboleggiano quindi la Trinità. Infatti
i tre angeli del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca indossano indumenti di foggia differente, ma tutti giocati sulla stessa
triade cromatica. Assorti nel mistero di una contemplazione interiore, i tre giovani «stanno ritti impalati, immersi in un’atmosfera
senza tempo dove l’oggi e l’eternità sembrano avere la medesima
misura: non li scuote un gesto né un fremito che li strappi alla loro enigmatica esistenza». Tra i due angeli che rappresentano il Padre e il Figlio, si trova quello al centro, «vestito di una tunica bianca dai forti accenti classici, che sottolinea ancor più il suo diafano
lucore, viene a essere identificato con lo Spirito Santo»53.
Già nelle più antiche religioni il rosso e il blu simbolizzavano anche il fuoco etereo, ossia l’amore e la sapienza uniti nella persona
del padre degli dèi e degli uomini (azur infatti, nelle lingue orientali ha un significato di «fuoco»). Agni, il «dio rosso» del fuoco è seduto su di un ariete blu dalle corna rosse, e Ammon, il dio egizio che
rappresenta il Verbo Divino, era rappresentato sotto forma di un
uomo di colore blu, con una testa di ariete (simbolo del sole che entra nel segno dell’Ariete quando ricomincia la sua corsa), anche
Kneph, spirito di verità e creatore dell’universo, è blu. Anche GioveAmmone dalle corna di ariete è bluastro e, presso gli Indù, Krishna
viene rappresentato con il corpo azzurro.
Disse ancora il Signore a Mosè: «Parla a’ figli d’Israele e di’ loro che
si facciano delle frange per gli angoli de’ loro mantelli, aggiungen-
164
INTRODUZIONE
dovi dei nastri di color giacinto, acciò, vedendole, si ricordino di
tutt’ i comandamenti del Signore54.
Come il porpora, il giacinto è composto dalla mescolanza del rosso
e del blu, ma con dominante blu (laddove nel porpora domina il rosso). In quanto unione dei simboli di spirito di Verità e dell’Amore divino, questo colore genera il simbolo della Verità dell’amore. Per
questo, se i paramenti sacerdotali ebraici dovevano portare intessuti dei fili blu-violaceo (teckeleth), a «memoria» di Dio, anche Tommaso d’Aquino ravvisa nel color giacinto la contemplazione delle cose celesti, e vede in queste vesti l’immagine del rapporto con il cielo attraverso le opere di perfezione. Allo stesso modo anche le frange di giacinto delle coperte rituali sono da considerare come simbolo della tensione verso il cielo. San Girolamo sostiene che le vesti di giacinto del sommo sacerdote simboleggiano l’elevazione del
cuore al di sopra delle cose umane, proprio in quanto rappresentano l’elemento più rarefatto: l’aria55. E,
vestito di panni viola-azzurro, cinto di cordoni d’oro, con grandi
ali bianche dal fulgore di seta, la spada sollevata orizzontalmente nella mano sollevata
è l’Angelo evocato da Kafka, apparizione che irrompe, attraverso la faglia che s’apre tra sogno e realtà, nella angusta stanza che si dilata
mentre
larghe fratture ne aprono le pareti: ondate di colore ne invadono lo
spazio, colori della manifestazione: bianco radioso, giallo, giallo oro.
E, seppure subito dopo l’ingannevole epifania del verbum, egli si tramuti in figura di legno dipinto, secondo una metamorfosi inversa
che muta l’«uccel divino», vibrante di volo, in polena inchiodata alla
misura di una stanza, anche a noi rimane negli occhi questo fulgore, quale promessa di significato:
Un Angelo, dunque, pensai. Tutto il giorno vola verso di me e io,
scettico come sono, non lo sapevo. Adesso mi parlerà56.
Certo, ogni «sostanza» angelica qui si dissolve, ma, come nota appunto Massimo Cacciari, questa ironica dissoluzione non coincide
affatto con la negazione dell’Angelo; il mistero del suo messaggio si
mantiene nella metamorfosi dei suoi segni e trionfa pur nella più
tradizionale stereotipia rappresentativa, giacché, infine:
165
INTRODUZIONE
Già la sentenza della luce annega il suo grido,
giudice d’ombra, nel tuo nulla57.
R. ALBERTI
Secondo un’appercezione sofianica propria a certe speculazioni teosofiche, anche ognuno di noi «profanamente» avrebbe un’aura (involucro luminoso che circonda il corpo), il cui colore indicherebbe lo
stato spirituale del portatore dell’aura. L’azzurro esprimerebbe la religiosità, il violaceo la spiritualità, essendo il viola anche il colore proprio degli Arcangeli, segno della loro dignità sacerdotale, per la loro
posizione intermedia tra il mondo dell’essere (cioè il mondo delle
Intelligenze cherubiniche) e il mondo della Materia e della Natura58.
Dante riveste di porpora, emblema della castità, le Quattro Virtù
Cardinali, che danzano sul lato sinistro del mistico carro che avanza nel Paradiso Terrestre e quando il corteo giunge presso una pianta dispogliata, e il Grifone vi lega il carro, questo si gemma di color
d’ametista
men che di rose e più che di viole
colore aprendo, s’innovò la pianta59
significando così una sintesi tra il rosso ardente dell’amore divino
e il viola purpureo della divina carità. E, profanamente, simbolo di
veritiera fedeltà d’amore, è anche il fiorellino che ne porta il nome:
O dona solo un fiore che significhi
la verità d’amore o l’amore
di verità – ossia, una violetta60.
M. MOORE
Vestita di viola e di porpora è perciò spesso rappresentata la Deipara, la Madre di Dio che, nella sua regale dignità, ci appare in lontanante splendore:
e so chi mi guarda nell’anima: mi guarda la Regina del cielo da
una violacea distanza61.
P. FLORENSKIJ
Infatti, il viola è il colore della spiritualità, ma anche della «separazione», come della perdita e della «ricordanza» – quando tinge le vesti del lutto e della penitenza –, nonché colore nunziante il trionfale avvento della luce, quando si ferma la ruota della notte e nel suo
estenuato trascolorare:
166
INTRODUZIONE
Vaghi angeli color malva
spengevano le verdi stelle […]62.
J.R. JIMÈNEZ
e vidi uscir dall’alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private delle punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traevan dietro e ventilate63.
DANTE ALIGHIERI
Verdi come tenere foglie primaverili – simbolo dell’eternità della speranza, che è tale perché deve essere «sempre viva» nell’animo degli uomini –, appaiono le creature angeliche, «guardiane» del Purgatorio dantesco. Anche le aureole degli angeli, oltre alle vesti, secondo Dionigi
l’Areopagita, possono essere verdi, poiché vi è davvero in loro qualcosa di giovanile e verdeggiante, che fa esclamare al poeta estatico:
O alberi di vita, quand’è inverno per voi?64
R.M. RILKE
Tuttavia, secondo Romano Guardini, seppure i «giovani» angeli danteschi con il loro biondo capo, il verde chiaro della veste e delle ali,
hanno un aspetto di freschezza giovanile piena di speranza gioiosa
e di ardimento, «il loro volto esprime tanta potenza che l’occhio non
lo sostiene», e lo loro «tenerezza» non è scevra di severa oggettività,
«lontani» davvero, «altri» dalla turba dolente delle anime penitenti,
proprio in quel loro colore verde, così «alieno» al mondo dell’uomo65.
Composto dal giallo, colore solare che qui significa la rivelazione
dell’Amore e della Sapienza di Dio, come oro spirituale, luce perfetta
riflesso del Verbo e del blu, simbolo dello Spirito di Verità, colore
della manifestazione della Sapienza divina, il verde è quindi il colore della creazione tramite la Sapienza e l’Amore di Dio, e la rivelazione di queste virtù divine all’intelligenza della creatura umana attraverso lo Spirito e quindi sarà simbolo delle opere compiute per la
rigenerazione dell’anima, e per questo anche emblema della Carità.
Si forma così una triade simbolica dei colori divini: il rosso (l’Amore), il blu (la Sapienza); il verde (la Creazione).
E se l’abito della terra non è bianco, ma verde, è perché, secondo la simbolica cabalistica dei colori, questo colore rappresenta l’effetto della Sefira della Grazia, Hesed, la forza della divinità che fluisce e si dispensa senza impedimenti nella creazione visibile. Di con-
167
INTRODUZIONE
tro al rosso ardente e bruciante della Severità, sta il verde della Grazia creatrice e dispensatrice, così mentre il fuoco consuma tutte le
cose perdurano grazie al verde e perennemente si rinnovano nell’eterno ciclo della creazione66.
Secondo Ezechiele, l’Eterno si trova al centro della sfera dell’Amore, circondato da altre sfere che ricordano i colori dell’arcobaleno, e
in cui il blu e il verde sono vicini, a significare come la luce dell’illuminazione divina sia concessa a ciascuno, a seconda delle proprie
possibilità. Inoltre, se nella Bibbia si rintracciano numerose allusioni alle tre sfere concentriche che circondano Dio – delle quali l’una, appunto quella rossa, è la sfera dell’Amore, mentre quella blu è
la sfera della Sapienza, e la terza, verde, è quella della Creazione –
così anche i miniaturisti e i pittori antichi, che bene conoscevano tale simbolica cromatica, accostavano questi tre colori vicino o attorno al Cristo in Gloria, sia nel nimbo che lo circonda, sia nelle aureole degli angeli posti ai lati del Salvatore, sia anche nel basamento del suo trono, i cui gradini sono appunto rossi, blu e verdi.
Questi colori sacri si ritrovano anche in altre religioni antiche,
per esempio nel Bagavadam, Visnù è rosso quando, nella prima
sfera, egli è creatore tramite il fuoco che è amore. È blu nella seconda sfera, quando s’incarna in Krishna, che rivela la sapienza del
dio, ed è verde nella terza sfera, quella della vita terrestre, come
Visnù-Krishna.
Ma anche nelle altre civiltà antiche il verde aveva questo ovvio significato di creazione e di rigenerazione, e in India, ancora, il dio
Ganesh, un equivalente indù dell’Hermes greco, è appunto verde, e
Rama, altra incarnazione di Visnù, ha il viso verde ed è portato sulle spalle dalla verde scimmia Hanuman. Verde era Osiride, il «rinato» (che era nero quando significava invece la morte) e, in Grecia
verde era Afrodite, l’Anadiomene, nata dai flutti e dal membro mutilato di Urano: la Venus Genitrix, immagine della rigenerazione e
della rinascita annuale, che era accompagnata dalle tre Grazie simbolizzanti le tre sfere: Aglaia, dalle rosse vesti, rappresentava la sfera del fuoco; Eufrosine, che aveva la veste e la sciarpa blu, era l’emblema dell’aria, mentre la sciarpa di Talia era verde, poiché ella presiedeva alla vegetazione.
Ma se verde era appunto il colore del rigoglio della vegetazione,
e quindi «colorava» le deità agresti, verdi capelli e verdi barbe fluenti avevano anche le divinità marine a significare il «verde» grembo
delle acque rigeneranti, utero primigenio gravido di plasma vitale.
Ci attira a sé, ci dissolve
nel gorgo senza fondo
168
INTRODUZIONE
della sua verde accoglienza,
ci disfa, ci riforma
leggeri
nel suo arioso grembo,
madre-maga-dominica
elargitrice di assenza […]67.
M. LUZI
Il verde si rivela simbolo di ogni rigenerazione, terrena e naturale,
come anche spirituale. La Madonna e Gesù bambino furono vestiti di questo colore quando si volle rappresentare l’iniziazione spirituale di Maria e del suo divino Figliolo, nonché la liberazione della
Vergine dalla corruzione della tomba. San Giovanni, generalmente
vestito di rosso, talvolta indossa un mantello verde a significare la
sua iniziazione alla conoscenza di Dio. E tuttavia questo colore può
anche indicare una «acerbità» spirituale, se infatti, secondo antichi
testi talmudici, le anime degli uomini comuni, prima di venir purificate nel fuoco del Purgatorio sono di un color verde pallido a causa della loro imperfezione dovuta all’essere ancora troppo legate al
mondo dei vivi e al ricordo nostalgico di una vita appena perduta e
tuttora rimpianta, che il verde appunto evoca e significa68.
LUMEN OPACATUM
S’intorbida la luminosa spera,
perde azzurro, riflessi, trasparenza69.
M. LUZI
Da quanto abbiamo detto possiamo dunque concludere che per la
simbolica mistica il rapporto tra luce e colore è equivalente a quello
tra spirito e corpo? Certamente il colore è la «corporeità» della luce –
anzi, secondo la poetica proposizione dello sceicco Mohammad Karim-Khan Kermani nel suo misteriosofico ed esoterico studio sulla
simbologia del colore Il libro del giacinto rosso –, la luce è la spiritualità (l’elemento spirituale, l’angelo) del colore, e cioè «il colore allo
stato spirituale» o spiritualizzato, mentre il colore è la «corporeità» (l’elemento corporeo) della luce, e cioè la luce allo stato materializzato70.
La luce incolore, tutta spirituale, bianca, s’addensa nel rossoarancio e s’intorbida nel blu ctonio. Perciò, secondo la teoria altrettanto mistica di Pavel Florenskij il colore è la risonanza dell’incontro a mezz’aria fra la nera polvere della terra e la luce d’oro di-
169
INTRODUZIONE
scesa dai cieli; cozzando, esse risuonano come turchino allorché
predomina la polvere, come rosso quando vince la luce, come verde quando luce e polvere si pareggiano.
Il colore, luce addensata, «manifestazione in potenza» che partecipa della creaturalità – giacché appartiene al mondo della rappresentazione – facendosi mediatore tra luce e materia, con un valore
simbolico, ermeneutico e sacramentale, può tuttavia velare lo splendore della Luce assoluta, e, addensandosi sempre più, opacizzarsi
fino a «intorbidare» l’angelica purissima epifania. Così, secondo una
teosofia sciita vi sono due fuochi, uno è il fuoco divino
vampata di luce pura che risplende e illumina senza devastare e distruggere nulla. È il cespuglio ardente che illumina senza consumarsi
mentre l’altro è quello che esperimentiamo nel nostro mondo della
«mescolanza», che viola il mondo della luce, apportandovi corruzione e morte, secondo un processo demoniaco71. È il fuoco opaco, devastante e distruttivo, oscurato dalla densità del fumo, che l’immaginario riconosce proprio alle profondità infere, dove spira con furia il fuoco nereggiante nell’orrore del trono satanico sommerso da
strano fuoco e da zolfo tartareo 72.
L’intera simbolica dei colori si basa necessariamente sul concetto di luce, e se tutte le religioni concordano nel trasferire tale concetto
all’entità divina; il colore, quale manifestazione della luce non può
avere, in origine, altro significato se non quello di designare l’epifania
della divinità. I diversi colori sono quindi, necessariamente, simboli
delle diverse modalità di manifestazione dell’entità divina, rappresentano i suoi differenti aspetti e le sue diverse modalità di rapportarsi alle sue emanazioni. Ma se questo può essere vero per la simbolica pagana del colore, che attribuisce a ogni divinità un particolare
attributo cromatico che lo identifica e lo particolarizza, non lo sarebbe altrettanto per le religioni monoteiste, dove vi si oppone la natura non sensibile del Dio non rappresentato. Ma, come abbiamo visto,
attraverso gli angeli la natura non sensibile di Dio si manifesta e la
luce omogenea e intatta divina si «scompone» nelle epifanie angeliche,
che si pongono a mediazione, quali «ponti», «scale» che uniscono il divino con l’umano, così come l’arcobaleno salda cielo e terra.
La simbolica dell’arcobaleno «il più vistoso simbolo naturale», è
complessa e – come del resto per ogni simbolo – polisemica. La Genesi parla dell’arcobaleno inviato dopo il diluvio universale, come
«patto» sensibile della promessa fatta a Noè di non ripetere più la distruzione della terra tramite le acque:
170
INTRODUZIONE
[…] porrò nelle nubi il mio arco, e sarà segno dell’alleanza fra me
e la terra. Quando avrò coperto il cielo di nubi, l’arco mio apparirà fra le nubi e mi ricorderò del patto mio con voi e con ogni essere che vive in carne: e non verranno più le acque del diluvio a
sterminare tutti i viventi […]73.
Secondo Scholem, l’arcobaleno non è tanto un estetico «colorato riverbero dello splendore dell’entità divina», quanto simbolo della
riappacificazione dopo il castigo, tanto che gli antichi commentatori
paragonano la forma stessa dell’arco all’abbassarsi di una spada
dopo il combattimento. L’arcobaleno, mediante l’armonia dei colori propria di un fenomeno della creazione, e secondo la funzione di
evidenziazione affettiva propria al colore, «accenta» la natura del
patto, la rende evidente a ogni uomo. La sua interpretazione simbolica di manifestazione della gloria divina nella teofania profetica
è avvenuta invece in una stesura più tarda della Bibbia, nella visione del profeta Ezechiele, che vede il trono divino, la Markaba, circondato da uno splendore
simile allo splendore dell’arcobaleno, che appare tra le nubi in un
giorno di pioggia.
Ma nel colore risiede il mistero della generazione, se nella Bibbia il
termine che sta a indicare «colorato» (Brith) è femminile, mentre il
segno del colore (Oth Brith) è maschile, così che l’arcobaleno diventa metafora significante dell’armonia tra generare e concepire, simbolo dell’unità interiore, hierós gàmos, sacra unione, tra cielo e terra, tra maschile e femminile.
Il segno dell’alleanza per eccellenza diventa infatti il segno della circoncisione, e anch’esso attesta il patto con Dio, proprio nella sottomissione a Lui delle forze sessuali generatrici. Di più, a conferma di
ciò, la parola che nella letteratura ebraica significa «arco» (Kescheth)
non indica soltanto l’arcobaleno, ma, in quella rabbinica, anche il pene. L’affermazione della Genesi ho posto il mio arco tra le nubi si spiega allora nell’unione del principio maschile (l’arco) con il principio
femminile (le nubi). L’arcobaleno indica dunque anche il rigenerarsi
della creazione, e «rispecchia» nell’armonia percettibile del colore, l’altra superna e non percettibile armonia. Così come nel mondo superiore «si fondono» i colori nascosti e invisibili nello splendore della luce, di sotto invece, nel «percettibile» arcobaleno, essi si scompongono
e si evidenziano quali simboli dell’unità inferiore74.
Ma se la luce mistica è isomorfa all’ascensione che si aura in
progressive rarefazioni del colore – sino a raggiungere la trasparen-
171
INTRODUZIONE
za acromatica dello splendore che avvolge e significa il deus Absconditus –, il suo incupirsi nell’ispessimento materico rivela un inverso progressivo movimento di caduta nel regno tartareo del tempo e
della morte, invertendo anche la significatio simbolica da uranica e
divina in infera e ctonia. Ed è l’azzurro, per eccellenza colore che
mantiene le preziose trasparenze del cielo, colore dell’immanenza e
della manifestazione, a farsi colore-crocevia tra alto e basso, tra l’innalzarsi e l’inabissarsi dell’ala dello spirito. L’azzurro che si brina,
schiarendosi e «s’inzaffira» nell’incontro con il bianco-luce, s’intenebra invece nelle spire petrigne dell’opacità più nera, indizio di un
doppio abisso inaccessibile sospeso sopra di noi e sotto di noi.
È davvero allora il blu tenebra che si fa colore, finestra che si apre
sulla notte. Non più luminoso occhio della Verità, ma cifra cangiante
dell’ombra, poiché invero:
[…] Nessuno può sapere quale dio
o quale demone sorride nella notte di un occhio blu75.
V. HUGO
Il blu scuro indicato dalla parola ebraica teckeleth, può essere etimologicamente riferito a takhith quale «confine» (con il nero), ma anche «quintessenza di tutti i colori», come la trasparenza dello zaffiro che «contiene» in forma di trono la pura trasparenza della luce
bianca: «una luce bianca sta sopra e sale diritta e sotto di essa c’è
una luce blu o nera che costituisce un trono per quella bianca».
Bagnato di «luce nera», che rappresenta il sensoriale, in contrapposizione all’intellettuale luce bianca, questo blu è indice del
trapasso dal mondo puramente spirituale a quello materiale e attua
l’unione tra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso76. Così nel blu
del teckeleth è simbolizzato anche l’oscuro potere del femminile materico (da mater-materia) e l’ambivalenza della sua natura; infatti
esso non è soltanto il femminile che genera la vita, ma possiede anche una componente distruttiva, apportatrice di morte. E questo
blu scuro, anche per Artemidoro, che forse ripeteva un passo del
Talmud, era un colore «in rapporto di simpatia con la morte», divenendo quindi «presagio di morte» per chi lo sognasse.
Si spiega quindi come il blu sia considerato in molti paesi colore del lutto, anche se in questa concezione si riverbera l’idea di uno
«spiritualizzarsi» del defunto, appunto, nell’azzurro, così come accadeva nell’antico Egitto, dove il morto diventava di lapislazzuli,
cioè della sostanza stessa degli dèi, secondo una funzione mistica
magica e talismanica dell’azzurro, qui immagine terrena del cielo
172
INTRODUZIONE
stellato in una funzione dispensatrice di «vera» vita dopo la morte (il
blu-azzurrato rappresenta l’eternità di ciò che esiste in sé, eternità
di Dio e quindi immortalità dell’anima77).
E blu saranno quindi i fiori dell’anima, fiori del sacrificio, come
queste genziane, appartenenti alla misterica botanica di Lawrence,
grandi e scure che sembrano oscurare il giorno con il loro azzurro
nebbioso della tenebra di Ades, simboliche torce che portano al mondo infero dell’autunno e di Persefone, i cui fiori furono sempre di colore blu:
[…] fiori-torce dell’oscurità
nebbiosa e blu, oscura blu vampata
di Ades, lampade nere delle sale
di Dio, che bruciate blu scuro
e diffondete buio, buio blu, come le lampade
pallide di Demetra, diffondono
luce, guidatemi allora, fatemi strada78.
In quanto poi l’Albero dei Morti è nutrito e consumato dalla luce blu,
questo colore viene inteso quale simbolo dell’altro lato del campo demoniaco. Nello Zohar all’Albero della Vita, «d’oro e di vermiglio», si
contrappone l’Albero della Morte (che è in realtà l’Albero della Conoscenza del bene del male) avvolto dalla fiamma di una luce blu-nera «che consuma e distrugge tutto ciò che le si attacca da sotto». E
blu erano i demoni tellurici o uranici, quali Mahamaya, dio buddistico, di colore blu scuro, coperto di cenere e dall’aspetto terrifico. Di
questo colore era anche Ekajata, altra dea buddistica, dal viso distorto dal furore. Tale era anche la diavolessa giapponese Karitei-mo
(«madre blu»), sposa del diavolo e divoratrice dei figli di altre madri.
E se la statua di Saturno era di pietra nera, anche i suoi sacerdoti
erano neri ma indossavano abiti azzurri, così come i suoi seguaci in
processione. L’opposizione del nero e del blu quindi rappresenterebbe la lotta, che si manifesta nel tempo, della vita e della morte
nello stato spirituale e in quello materiale. Anche il tempio e la statua di Hermes erano di pietra azzurra, mentre una delle due mani
era bianca e l’altra nera, un’ala bianca e l’altra blu. Il colore azzurro unito al nero è l’attributo dell’iniziando che distrugge le porte della morte spirituale con la potenza della verità, il bianco invece attesta la piena rinascita. Questi colori erano quindi i simboli dell’iniziazione, dello psychopompós, di colui che conduce le anime a varcare le porte della morte spirituale79.
A custodia di un ingresso senza ritorno era invece il demone etrusco Charun (Caronte), figura semi-animale e terrifica, dotato di den-
173
INTRODUZIONE
ti digrignanti, di ali, con serpenti sulla testa o in mano, la cui pelle
era blu scura. Alfonso Maria di Nola lo interpreta come significante
del disfacimento della carne, dato che anche il blu del collo di Shiva
è «l’equivalente cromatico della dissoluzione cadaverica», venendo a
rappresentare così il principio tanatico della natura80.
Nelle rappresentazioni di Visnù, il passaggio dal blu chiaro – indizio di uranica spiritualità e sapienza divina – al blu scuro, indicherebbe la possibilità delle tentazioni alle quali la natura umana
è sottomessa. Infatti il blu dei demoni figura anche la falsa sapienza ispirata dallo spirito del male che pretende di contrastare l’opera divina, discutendola o addirittura negandola.
Colore dei demoni uranici (come quel demone dell’etere fiammeggiante dipinto in un papiro egizio81), questo blu cupo, offuscato e
nerastro (il kuáneos omerico) si addice invero principalmente al governo del mondo infero e ctonio, tanto che Di Nola lo riferisce anche
al colore della pelle del dio Osiride, che secondo un successivo mito di Serapide, così simbolizzava il governo del regno infero dal quale elargiva la fecondità alla terra egiziana82. Perciò l’Angelo malvagio
nel mosaico di sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, quello che rappresenta la separazione delle pecore dai capri, è completamente vestito d’azzurro, proprio perché l’aria densa e scura è di quel colore,
ormai privo di luce, così come tutto blu è spesso raffigurato Satana,
come nel frammento musivo del Giudizio Universale della Basilica
di Torcello, dove un enorme Satana blu è assiso su di un trono serpentiforme e attorniato da una miriade di diavoletti volanti, anch’essi intensamente blu, cui si contrappongono, anche cromaticamente, i due terribili angeli che spingono i dannati e che sono di
un luminoso bianco-oro83.
Di questa tinta infera è anche quel demone Eurinomo, descritto
da Pausania, la cui pelle sta tra il blu e il nero, colore «simile a quello delle mosche che si accalcano attorno alla carne», e che Pierantoni definisce «strutturale», tipico delle elitre di certi insetti, o che
barbaglia nel collo dei piccioni, e che rimanda immediatamente all’immagine laida di Belzebub Signore delle mosche. Tuttavia questo
blu-nero che s’accende d’uno splendore viola scolorante nel sole, è
certo simbolicamente ben diverso da quella luce nera assoluta vicino a Dio (che non è «assenza», bensì «indistinto» che in sé tutto contiene: ogni luce e ogni colore possibile) che l’abate Suger ricreava
con i suoi vetri blu-viola a Saint-Denis per «costruirsi un paradiso
da percorrere tutte le mattine uscendo dalla sua terra ancora terrestre»84.
174
INTRODUZIONE
È l’Angelo, l’Angelo Verde che sta
seduto lassù con le gambe disposte
come… come… gli antichi Mandei
della Persia raffiguravano il diavolo.
L’ambiguo Angelo Verde che appare all’alchimista John Dee nel romanzo «alchemico» di Gustave Meyrink, non partecipa certamente
della verdeggiante rigenerazione della Grazia divina che alitava nelle ali e nelle vesti degli angeli danteschi. Ha invece tratti minacciosi, terribilmente augusti e
Il suo corpo si fa radiante e trasparente come un enorme smeraldo, gli occhi che guardan giù verso di noi rilucono come pietre
lunari vive: le labbra fini e sottili hanno un sorriso stereotipato di
una strana, enigmatica bellezza.
Davvero, questo sguardo di smeraldo, già prima presentato nella
sua terribile enigmaticità,
Il viso dagli occhi spalancati senza ciglia era di una immobilità indescrivibile. Qualcosa di terribile, di paralizzante, di mortale, eppure nel contempo di quanto mai emozionante e di augusto si sprigionava da quello sguardo immobile, e farmi gelare fin nelle ossa85
è animato dal malefico «raggio verde» degli occhi di Satana, che in
certe antiche vetrate indicava appunto la sua diabolica intelligenza
attratta verso il male, indizio del possesso di una scienza maledetta.
Quella stessa luce verde scintilla inquietante anche negli occhi delle streghe, evocazione del regno di quell’altro Eros, legato all’amore
tenebroso sconosciuto a chi non sia passato per l’iniziazione dell’odio. Del resto Satana stesso viene rappresentato sovente del tutto
verde, secondo l’opposizione simbolica che trasforma il senso positivo della rigenerazione nel suo negativo di follia, di degenerazione
morale. Sono dunque verdi i diavoli che volteggiano sulla Vittoria di
S. Michele sull’Anticristo del Maestro de Arguis (1440 circa), e con testa, artigli e ali membranose verdi su corpi zoomorfi, sono i diavoli
del ciclo degli affreschi di Luca Signorelli per il Duomo di Orvieto
(1499-1503), così come tutto verde è il diavolo squamoso di una vetrata della Cattedrale di Bourges (XIII sec.)86. Questo verde è quella
rabbia verde e grigia che sconvolge il volto del malvagio, è quel riflesso d’ombra che opacizza in seminagioni di tristezza i rubescenti
riflessi angelici quando li sfiora il freddo alitare di un nero volo.
Una corona – un cerchio di diamante – s’aprì
in alto, nell’aria di porpora, e raggi divini
175
INTRODUZIONE
colpivano quella meteorica catena
e consacravano doppiamente questa bellezza,
eccetto quando, tra l’Empireo e quel cerchio,
passava uno spirito con le sue scure ali.
Ma, sui loro pilastri, i serafini hanno già visto
la tristezza opaca del nostro mondo;
quel verde-grigio che la Natura predilige
come tomba della beltà […]87.
E.A. POE
E certo anche
Dell’asfodelo, il verdognolo fiore, fiore infero povera cosa senza colore […]88
appartiene al pallido mondo della sbiadita memoria.
Così anche il verde serpente, animale che rappresenta l’eternità,
e il cui colore indica appunto la rigenerazione delle anime ammesse alla dolcezza di una vita immortale, si trasforma nel suo opposto
satanico, e acquista significati inquietanti di malefica fascinazione.
L’unione sacramentale del rosso e del verde, fuoco e acqua celesti, espressione dello jeròs gámos tra Amore e Carità
Per tua virtù il fuoco è come messe corallina e l’acqua è simile a
corazza di smeraldo89
si rovescia completamente nell’infernale icona dantesca, quando
appaiono le tre furie di sangue tinte:
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte90.
Il senso pieno di questo «degradarsi» del verde, del suo offuscarsi
nella «caduta» dallo stato etereo della luce alla densità della materia, è espresso nel racconto dell’origine del Santo Graal, tagliato in
un solo grande smeraldo, quello stesso che cadde dalla fronte di Lucifero, quando fu precipitato dal cielo. Ma in questo verde tuttavia
riposa il segno della misericordia di Dio, se questa santa coppa potrà essere toccata soltanto da coloro che non hanno mai commesso il peccato, o che hanno riacquistato questo diritto dopo aver riscattato la loro colpa in un penoso tragitto di sofferenza91.
[…] scorgemmo una cataratta di sangue misto a
fuoco, e a pochi tiri di sasso da noi emerse
e riaffondò la voluta squamosa di un mostruoso
serpente […].
176
INTRODUZIONE
Così si erge il Leviatano di Blake, la bestia terrifica, simile a una vetta di rocce dorate.
Aveva, come quella della tigre, la fronte a strie verdi e porpora. Subito ne vedemmo le fauci e branchie rosse pendere proprio sopra
la schiuma rabbiosa, tingendo la nera profondità di bagliori di
sangue, mentre avanzava verso di noi con tutta la furia di un’esistenza spirituale92.
Abbiamo visto sopra come l’iconografia demonica legata ai colori azzurro o verde si richiami essenzialmente alla figure dei demoni pagani, i quali, come gli dei preposti alle acque, o alla vegetazione, erano spesso verdi per significare l’eterna rigenerazione del vivente. La
tonalità bluastra della pelle o degli abiti è invece più propriamente
ctonia. Le Keres di Thanatos (ker rimanda a «destino») che avevano
il compito di condurre le psychai (anime) nell’aldilà, sono infatti
rappresentate alate, di color nero o bluastro, avvolte però in un rosso mantello di sangue umano, e colte in atto di bestiale ferocia. Si
moltiplicano gli esempi della valenza infera del blu, se anche la furia Aletto era evocata da Virgilio come dai crini cerulei (caerules)
(Eneide, VII, 346), mentre tuttavia il cromatismo immaginale rappresenta essenzialmente il diavolo nella tradizione bicromia infernale e ctonia del rosso-nero, segnale di violenza, morte e rovina93.
Così, se l’angelo nero appare a Dante fero d’aspetto e nell’atto acerbo – mentre, correndo agile fende l’atra caligine di Malebolge: con l’ali aperte e sovra i piè leggero! 94 –, il drago rosso dell’Apocalisse guerreggia con l’Arcangelo di Luce, con quel Michele raggiante di bianco
e d’oro:
E apparve un altro portento nel cielo, ed ecco un gran drago rosso con sette teste e dieci corna e nelle sue teste sette corone: e la
sua coda strascicava la terza parte delle stelle del cielo, e le precipitò sulla terra. […]
E ci fu una gran guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli guerreggiarono col drago. […] E fu precipitato giù il gran drago, il serpente antico, ch’è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutta la
terra e i suoi angeli furono precipitati con lui95.
Il colore del drago rimanda alla violenza infernale pronta a ogni efferatezza per contrastare il Bene, e se le sue sette teste indicano i
sette peccati, le dieci corna rivelano le trasgressioni ai dieci Comandamenti divini, e i diademi indicano le false iniziazioni che inducono lungo i sentieri dell’errore e del peccato. Questo rosso, fulvo e abbrunato, che già nei demoni pagani rivelava il lato demonico del So-
177
INTRODUZIONE
le, è simbolo del fuoco infernale, fumoso e denso, il quale, opposto
all’aranciato uranico fuoco divino, diventa significante dell’odio infernale, del tradimento. Perciò in numerose miniature il diavolo appare dipinto con questo colore fulvo, sia come drago che come figura, metà bestiale e metà antropomorfa, dai piedi biforcuti e dalla
lunga coda. Anche Giuda, tradizionalmente rappresentato con i capelli fulvi, indossava vesti bruno-rossicce così come lo stesso mantello di Cristo al momento della tentazione era raffigurato di questa
rugginosa tonalità di rosso, proprio per indicare la sua esposizione
al male nella lotta contro Satana. In Egitto era considerato molto pericoloso usare questo colore rossiccio-fulvo, in quanto si riteneva
predisponesse all’influenza del terribile dio Seth-tifone, lo spirito del
male. In opposizione al verde rigenerante della foglia appena gemmata, è questo invece il colore delle foglie riarse, e simbolizza la morte spirituale, la degradazione morale che serpeggia nella «dolorosa»
selva dantesca:
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da nessun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e n’volti;
non pomi v’eran, ma sterpi con tosco [...]96.
Da sempre, si sa, il rosso è colore per eccellenza ambivalente: colore del sangue e della vita, tanto che Brahma, creatore del mondo era
dipinto di rosso, e in Grecia rosso era l’amore rigeneratore; così che
rossi erano la testa e il viso di Pan, dio della generazione, al quale si
attribuiva un corpo bianco, delle corna dorate e una testa appunto
rossa, secondo la triade divina degli Elleni: bianco-Luce, oro-Rivelazione, rosso-Amore divino. Eros non aveva infatti ali di fuoco?
Tuttavia, per l’intrinseca polisemia del simbolo, anche il rosso
rovescia il suo significato, e da significante del fuoco dell’amore divino, vira verso le passioni contrarie andando a simbolizzare la
morte, sia fisica che morale, come produzione del male e della falsità, della gelosia, della collera, tutti attributi che attengono alle figure demoniache, come quella donna infernale dell’Apocalisse, «figura» della città di Babilonia, fonte di ogni abominio, meretrice assetata di sangue:
E vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, ribollente di
nomi blasfemi, che aveva sette teste e dieci corna. E la donna era
vestita di porpora e di scarlatto, e scintillante d’oro e di pietre preziose e perle, e aveva un calice d’oro nella sua mano, colmo di abominazione e delle impurità della sua prostituzione […]97.
178
INTRODUZIONE
Il colore scarlatto, composto di rosso e di giallo, qui rovescia il suo
significato di amore spirituale, proprio del Verbo divino e viene a indicare la violenza e il crimine, la falsa «apparenza», il carattere satanico del mostro, confermato dai nomi empi che lo ricoprono98.
Proseguendo nella regola delle opposizioni, per cui a ogni valenza positiva di un colore se ne contrappone una negativa, il rosso si
unisce ad altri colori rovesciandone la significazione, così che di corazze color del fuoco (che indica la fiamma materiale), di giacinto (dove la presenza dell’azzurro indica il fuoco astrale), e di zolfo (dove il
giallo è inacidito dal verde a significare il fuoco ermetico), sono vestiti
i terribili cavalieri evocati dal suono della tromba dell’Angelo
dell’Apocalisse:
[…] avevan corazze di fuoco, di giacinto e di zolfo, e le teste de’ cavalli
[eran] come teste di leoni, e dalle lor bocche usciva fuoco e fumo e
zolfo [...]99.
Se i colori «positivi» partecipano della trasparenza luminosa del cielo, valorizzati dalla «brillanza» dell’irradiarsi del divino, quelli «negativi» s’addensano e si opacizzano, contaminandosi del tenebrore
uliginoso della materia. Ma il colore in sé, comunque, sempre indica un «discendere», un partecipare alla seduzione dell’essere, alla
sensualità della vita, alle sue moltiplicate bellezze.
Sappi che quella donna rivestita di tutti i colori era il mondo terreno, pieno di ogni delizia
dice Gabriele a Maometto, che per averla disdegnata, sarà senza
peccato100.
Perciò, se gli angeli, esseri incorporei di luce e di fuoco, polle inestinguibili di riverberato splendore, per manifestarsi all’uomo, «scendono» attraverso la scala cromatica dell’arcobaleno, l’ascesa verso
la vera vita dello spirito, verso l’estatica contemplazione dell’Essere,
abbandona invece il colore nello splendore totale del bianco, a indicare l’abbandono dell’ingannevole trama dei sensi e l’avvenuta rigenerazione dell’anima nel superamento della tentazione del peccato. E, poiché nell’Apocalisse il Cristo promette che:
Chi vince, sarà così vestito di bianco, e non cancellerò il suo nome dal libro della vita [...]101
179
INTRODUZIONE
il bianco simbolizzerà allora la ricompensa degli eletti, e certamente al cospetto delle schiere angeliche:
Chi più sofferse la tribolazione
Sarà distinto dalle vesti bianche,
Indicano le vesti colorate
I vincitori di minore grado102.
E. DICKINSON
180
INTRODUZIONE
Capitolo VII
IL PAESE DEGLI ANGELI:
GIARDINI-PARADISI
Del paradiso non so parlare nel modo dovuto, perché non
ci sono mai stato: è troppo lontano, mi dispiace. E poi non
ne sarei stato degno. Ad ogni modo quello che ho saputo da
certi saggi di quei luoghi, ve lo dirò volentieri1.
J. MANDELVILLE
In effetti, come parlare del Paradiso se non ripercorrendo la memoria di un immaginario edenico perduto e proiettato in un futuro
sognato? Ogni paradiso, certamente come dice Proust, è necessariamente un «Paradiso perduto» ricostruito sulle trame di una memoria, il che denuncia un implicito paradosso. Afferma infatti Joseph Rykwert: «Un oggetto che è sempre stato perduto non può –
nel senso usuale della parola – venir ricordato. Tuttavia questa memoria non è propriamente memoria di un oggetto, bensì, piuttosto,
di uno stato, di qualcosa che è esistito […]» 2. Uno stato di felicità
primordiale, di «fusione» senza conflitti, che i miti edenici rappresentano nella condizione «paradisiaca» di quando il cielo era molto
vicino alla terra o si poteva facilmente raggiungere per mezzo di un
albero, di una liana o di una scala, o salendo una montagna.
Quando il cielo è stato brutalmente «separato» dalla terra, ed è diventato inesorabilmente lontano, lo stato paradisiaco ha avuto fine
e la condizione umana è diventata quella attuale, con il suo dolore
e il suo rimpianto3. Così la «cacciata dal Paradiso» è metafora di ogni
separazione, di ogni perdita, di ogni colpa! Ma anche della necessità, per entrare nella storia, individuale e collettiva, di operare questo taglio, questa cesura dall’indifferenziante stato di natura.
Essere cacciati da quel Paradiso, è forse davvero la condizione
«per dirlo»? Solo la perdita ne rende possibile il discorso, e la sua
lontananza nel tempo e nello spazio ne permette l’articolarsi nella
sintassi immaginativa.
Stratificandosi nella memoria collettiva intessuta dei miti e dei riti, il Paradiso è una terra sconosciuta eppure continuamente evocata come familiare presenza. Tópos straordinario del desiderio dove
una visione immanente e una struttura materiale, o un sistema di
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INTRODUZIONE
rapporti s’intessono in reciproca interdipendenza. Giardino delle delizie dei sensi, la cui entità fisica si riproduce e si moltiplica nelle innumeri rifrazioni dei «paradisi» terreni; oppure città futura che cristallizza e «astrae» in gemmate mirabilia di luce, l’umanissima architettura idealizzata nell’affabulata Gerusalemme Celeste, strutturando una rete di modelli metaforici e mitici, naturali o architettoniciutopistici intorno al doppio referente di giardino e di città. Parádeisos
è infatti un giardino recintato (il latino hortus conclusus), ameno luogo di piacere (locus deliciarum). Nell’antico persiano pairidaeza significa «recinzione», mentre l’armeno pardez sta per «giardino recintato»4.
E come negare l’esistenza di un arborescente archetipo «paradiso», se
la Genesi esplicitamente lo rievoca nella descrizione di quel giardino
dell’Eden, posto a Oriente, meravigliosamente irrigato, nel cui cuore
di folta verzura cresceva il dorato-vermiglio Albero della vita?
Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di
delizia: ivi pose l’uomo da lui formato.
Si costituisce così il primo modello del Paradiso Terrestre biblico sul
modello persiano dell’apiri-daeza («orto circondato da un muro») che
l’antico ebraico adattò nella forma pardès, poi tradotto in parádeisos, che è anche il giardino (gan) nella rispecchiante evocazione di
una campagna felice (eden) dove tutto è bellezza e dolcezza di vivere, nel pieno dispiegarsi della soddisfazione dei sensi: vista, olfatto,
udito, nel tripudio dei colori, dei profumi, delle dolcissime armonie
dei suoni naturali, nell’abbondanza delle acque5.
Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e
buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male. E dal luogo di delizia usciva ad irrigare il paradiso un fiume, che poi si divide in
quattro rami6.
Infanzia felice dell’umanità caratterizzata da un convergere nell’immagine del giardino di tópoi mitici e leggendari, tutti legati al ricordo fantasticato di una perduta felicità propria di un’età dell’oro.
Certamente più «luogo psichico» che fisico; seppure descritta con
ogni allettamento sensuale, la topografia edenica, nel suo attraversare secoli e paesi, non individua mutamenti rilevanti. Al massimo,
come rileva Giuseppe Tardiola, osserveremo uno spostamento verso quadranti orientali sempre più onirici e immaginali.
Tra cielo e terra, il Paradiso Terrestre viene così talvolta situato su
una montagna che è al centro di un’isola posta all’oriente estremo,
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INTRODUZIONE
nel paese del sole nascente, vera insula mundi o comunque collocandosi in un «altrove» inaccessibile, a significare così il mistero della trascendenza e dell’ascensione mistica dell’uomo e simbolizzare il
cammino interiore dell’Illuminazione (e ogni mistico, dopo l’ascensione di Cristo, sarà «rapito» verso le ineffabili altezze della Luce). Del
resto l’idea di un’isola segregata e inaccessibile, incognita dimora di
beati gratificati da una sovrumana felicità, è idea antichissima: dall’Elisio, alle leggendarie Isole Fortunate, all’Atlantide di Platone, alle terre raggiunte dai favolosi viaggiatori di Mille e una notte 7.
Il Paradiso Terrestre, che è in questo mondo, in terra nelle parti d’oriente, e’ istà sopra un monte altissimo sopra tutti gli altri monti del
mondo, tanto è altissimo8.
Racchiuso da un’alta muraglia, coperta di verde muschio, che ne fa
un vero hortus conclusus, oppure protetto da una cinta di fuoco che
sembra sgorgare dalla spada fiammeggiante del cherubino posto a
sua protezione e sorveglianza, l’Eden originario nell’immaginario poetico si tarsia di mille colori, e si smemora nell’esuberanza degli effluvi odorosi:
[…] ed ancora più alta
della muraglia appariva una chiostra di alberi immensi
ricca di splendidi frutti, e fiori e frutti avevano
un riflesso dorato misto ai colori allegri degli smalti:
e il sole vi imprimeva i suoi raggi più lieto
che sulla bella nuvola serale, o nell’umido arco,
dopo che Dio ha rovesciato pioggia sulla terra;
così quel paesaggio si presentava piacevole. E l’aria
resa da pura, purissima lo incontra e ispira al cuore
grazia primaverile e gioia, cancellando
ogni tristezza, non la disperazione. Le brezze gentili
dispensano aleggiando profumi naturali, bisbigliano dove
rubarono le loro balsamiche spoglie […]9.
Così anche il padiglione che Milton descrive nel suo Paradiso perduto, evidenzia la sua dimensione incorrotta e invulnerabile; il suo
recintato abbraccio ne fa luogo di intimità e di protezione, «contenitore» per eccellenza di ogni sentimento positivo, «luogo dove la memoria e il sogno si realizzano nell’atemporalità dello spazio concreto, arrestato e conservato». E certo, se il Paradiso è il luogo del soddisfacimento e se gli spazi chiusi sono i più appaganti, allora certamente la fenomenologia del giardino recintato è esplicitamente
paradisiaca, a prescindere dal fatto che tale appagamento sia spirituale o puramente erotico.
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INTRODUZIONE
Prima della caduta, nel giardino dell’Eden, dimora luminosa, irrorata da sorgenti profumate, tutto era davvero felicità, in un’esuberanza di vita senza ombre di presagi di morte. L’uomo viveva in
piena armonia con la natura e gli animali e senza sforzo comunicava con il mondo divino. Da qui si è originata la potente e radicata nostalgia per questa condizione primaria innocente e felice che
ha strutturato diversi modelli paradisiaci, caricandoli di volta in
volta di valenze più sensuali o più spirituali, secondo una serie di
ambivalenze determinanti. Una di queste è la luce, che sustanzia la
geografia sacra dell’Eden (spesso descritto come una montagna) e
lo circoscrive, tanto che Efrem Siro (n. 373) – nel solco della letteratura cristiana dell’Alto Medioevo –, negli Inni ne accentua le connotazioni luminose e lo paragona all’alone di luce che circonda la
luna o alla corona d’oro che Mosè aveva posto intorno all’altare –
quasi una sorta di «aureola« simile a quella dei beati – affermando:
«Così il Paradiso circonda il mondo e la terra e il mare sono compresi in esso»10.
Potremmo forse credere che il pensiero di Dio, quando creò il Paradiso, assomigliasse al sogno di Keats: Cosicché mi misi subito a
comporre/ un mazzo di splendori brillanti ?11
Pur essendo quindi luogo per eccellenza della «manifestazione» di
Dio e degli angeli, questo paese della Luce, terra, incorrotta e variopinta nell’occidente cristiano e medioevale non avrà però orizzonti
accesi di rutilanti e affocati colori, bensì sfumati, «pastellati» da una
luce diffusa, quale di sole mattutino che dolcemente irradia libero
da nubi o foschie.
Mentre negli Inferi domina una luminosità crepuscolare, fumosa, il Paradiso è certamente la terra della luce, non però il regno del
sole. «Esiste unicamente il sole mattutino, che però non appare come disco rotondo, ma come corna ramificate che si allargano». Sarà
perciò il cervo simbolo «naturale» del Paradiso, posto a Oriente, nel
luogo del sole nascente, giacché, come ci ricorda Arturo Graf: «basta ripensare un istante ai caratteri e gli offici propri del sole in tutte le mitologie, e in specie del sole nascente, per tosto avvedersi che
l’Orïente, cioè quella plaga della terra onde si leva l’astro datore di
vita e dispensatore di letizia, doveva, in virtù di un’associazione di
concetti non meno naturale che inevitabile, parer più acconcia a
porvi la culla dell’uman genere. Il giocondo ricetto della prisca felicità e della vita immortale»12.
Nella perfetta atemporalità di un’aura dolce, sanza mutamento 13,
immerso in una luce temperata, irradiato splendore proprio a una
luce tutta mentale, bianco e diffuso, «perlaceo» – cosicché, infatti, la
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INTRODUZIONE
perla immacolata e pura e chiara prefigura il cielo e ne significa la
dolce irradianza – il paesaggio parrebbe così appiattirsi in una dimensione quasi bidimensionale, e tuttavia, poiché il prototipo del
Parádeisos è il giardino-oasi orientale, sogno sensuale e voluttuoso, rifugio di frescura e di vegetazione all’arsura desertica, esso sarà
comunque sempre intensamente verde, ornato di esuberanza arborea come di cinta gemmata, simile al képos islamico, che, se è
metafora del Paradiso coranico, appartiene però anche al «modello»
universale dell’immaginario paradisiaco, che esalta il miraggio di
una perfetta e immortale felicità dell’anima e dei sensi finalmente in
armonia. Esso è velato, certo, perché territorio sacro, spirituale, inviolabile, «chiuso» al peccatore, generoso invece di ogni ebbrezza per
colui che pazzo d’amore vi si inoltri nell’estasi della visione divina:
è ebbro il giardino, ebbro il prato, ebbro il bocciolo, ebbra la spina!14
secondo una doppia metafora erotico-mistica che si rispecchia nella stessa doppia natura, spirituale e sessuale del giardino:
[…] tu non vedrai che un ricco giardino e un verde orto di splendente bellezza, incanti che trasportano i cuori e colmano lo spirito di chi è vicino e di chi è lontano: alberi che spuntano in un attimo, mirti che diffondono il loro profumo, acqua che dovunque
scorre. Il giardino appare nei suoi abiti migliori, con un flessibile
cinto […] con profumi freschi e soavi, non con erbe secche e deboli, non con alberi vecchi […]15.
Descrizione che sembra rispecchiarsi fedelmente in posteriori paradisi cristiani, quale questo, di cui parla Isidoro da Siviglia, che ne
giustifica anche una derivazione etimologica:
Il paradiso è un luogo dell’Oriente il cui nome tradotto dal greco
in latino ha dato hortus. Inoltre in ebraico viene chiamato Eden,
che nella nostra lingua significa deliciae. La congiunzione delle
due parole dà hortus deliciarum. In esso sono piantati alberi d’ogni sorta, in particolare alberi da frutta, e contiene anche l’albero della vita: il freddo e la canicola vi sono sconosciuti, l’aria è
sempre temperata. […] Nel mezzo sporge una fontana che lo irriga per intero e che, dividendosi, dà origine a quattro fiumi. Dopo
il peccato all’uomo è proibito l’accesso a questo luogo. In effetti
esso è circondato da ogni lato da una fiamma simile a una spada
a doppia lama, cioè da un muro di fuoco che sale fino al cielo. È
stato dato ordine a un cherubino […] di vietare l’ingresso al paradiso a ogni spirito e a ogni carne16.
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INTRODUZIONE
Dio creò un «giardino» perché Adamo vi vivesse la felice innocenza
edenica, e questo giardino-paradiso era un’area irrigata, fertile di
alberi da frutto e di alberi decorativi, ma Jack Goody, sorprendendoci, sottolinea come, almeno nella versione biblica, suoni qualcosa di curioso. L’Eden di Adamo era infatti privo di fiori, mentre
grande rilievo avevano invece le sostanze aromatiche17. Per lo meno,
la Bibbia menziona soltanto alcuni fiori, forse identificabili con il giglio bianco (Lilium candidum) e il Pancratium maratinum, il «giglio o
rosa di Sharon». Sembrerebbe che soltanto una volta, nel Cantico
dei Cantici (VI, 2) si faccia riferimento alla raccolta dei fiori:
Il mio diletto è sceso nel suo giardino, alle aiuole degli aromi, per
pascolar ne’ giardini a coglier gigli
mentre si descrivono numerosi frutti (mela, uva, fico, noce, melagrana) e si evocano aromi (aloe, incenso, nardo, mirra, cannella),
tutti comunque trascrizioni simboliche della totalità delle seduzioni dell’Eros, che si esprime in una continua esaltazione del corpo
amato, delle sue illanguidite delizie… e delle sue mancanze anche!18
Così i fiori comunque nominati non sembrano evocare ingenue
arcadie o mistiche contemplazioni, bensì piuttosto cerosi candori
virginei, estenuati, sensuali aromi oppiacei, femminee tumescenze.
Soprattutto la rosa, fiore dal turgido potenziale simbolico, per eccellenza significante della femminilità e dell’eros, e tuttavia anche
mistico, se può incarnarsi nella più sublimata e candida rosa sempiterna dell’Empireo dantesco, «vulva» di floreale luce divina «in forma di candida rosa» che si espande nella concentrica spirale dei petali che contiene i beati e in cui «s’inflora» la schiera angelica paragonata a schiera d’ape, che nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie. Davvero «estrema luce floreale» che si manifesta nel
mezzo del cielo, culmine dello sviluppo spirituale dell’uomo, come
il loto dei buddisti, come appunto la rosa sempiterna dei beati, «che
si dilata dal suo centro – giallo lago di luce – s’innalza come un anfiteatro verso la Sorgente della Luce»19. La stessa Vergine Maria è
paragonata alla rosa: il nome del bel fior ch’io sempre invoco 20. Nell’umana parvenza di giovinetta appena sbocciata alla vita, sta anche la «rosa mistica» in forma di Sophia, di abbagliante splendore,
giacché nella vicenda della rosa s’appalesa tutta la storia della donna: dal bocciolo verginale che è la Kore, la fanciulla in sé racchiusa e inconsapevole, al pieno espandersi della sensuale maturità (e
maternità), allo sfiorire della vecchiezza, sì da rendere questo fiore
universale metafora dell’intima essenza femminile, sino anche a
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INTRODUZIONE
cangiare completamente di senso virando verso le labirintiche spire di un’estrema sensualità «captativa», e quindi anche distruttiva
e divorante, «fantasma incarnato» delle angosce maschili di castrazione, tanto da far esclamare a Mallarmé che è
simile alla carne della donna, la rosa crudele, Erodiade in fiore
del chiaro giardino, innaffiata d’un sangue selvaggio e radioso!21
FLORALIA
Fiocchi d’una purpurea neve, i petali
di rosa empiron zolle e muschio. Gigli
candidi illanguidivano sfiniti
come il capo e le spoglie d’un morente22.
P.B. SHELLEY
Anche la bianchezza singhiozzante dei gigli (Mallarmé) non è esente
da ambiguità! Accreditato simbolo di purezza, innocenza e virginità,
nella tradizione biblica il giglio è simbolo dell’abbandono al volere divino, come anche dell’elezione, perciò è il fiore che l’Arcangelo Gabriele tiene tradizionalmente in mano nell’atto dell’Annunciazione a
Maria; eppure, secondo Angelo de Gubernatis, era attributo «fallico»
di Venere e dei satiri: «senza dubbio a causa del vergognoso pistillo
e, perciò, simbolo di generazione». Il suo profumo, come denuncia
ancora Huysmans: «è assolutamente il contrario di un casto profumo: è una mescolanza di miele e pepe, qualche cosa di acre e di dolciastro, di pallido e di forte»23. Bivalente simbolo di castità e insieme
di generazione (ma non era dunque questo, infine, il significato
dell’Annunciazione che potremmo immaginare «detta» nelle parole
ardi d’amore come un giglio chiuso?), è certamente il più adatto a evocare baudelairiamente i trasporti dello spirito e dei sensi 24. Anche per
la malinconia, e il languore che gli sono propri, il simbolismo androgino di questo fiore sembra convergere essenzialmente verso la
catena significante femminile e lunare, dove si armonizzano i contrari, giacché la casta e fredda Selene è anche preposta alla fertilità:
E tu facesti la bianchezza singhiozzante dei gigli che,
rotolando su mari di sospiri ch’ella sfiora
attraverso l’incenso azzurro degli orizzonti impalliditi
sale pensosamente verso la luna che piange!25
S. MALLARMÉ
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INTRODUZIONE
Indubbiamente non mancavano i fiori agli antichi ebrei, ma questa loro sostanziale assenza, sia nei testi sacri che nell’uso rituale,
sarebbe stata intenzionale – dato che ancora oggi non si usano fiori o piante nelle cerimonie alla sinagoga o al cimitero – poiché, secondo il Talmud, i non-ebrei durante le cerimonie ponevano intorno al capo degli idoli corone di rose e di spine (come anche sul capo degli animali da sacrificare), e quindi l’astensione da tali offerte
distingueva il popolo eletto.
Ma, forse, in questa sorta di «dimenticanza» hanno inciso, oltre
che a queste connotazioni più squisitamente religiose, altre di tipo
«difensivo», in quanto corone di fiori erano previste nei riti sanguinari dei Fenici che consistevano anche nel sacrificio di bambini a
Bàal Ammone (e come dimenticare che più tardi gli Ebrei stessi furono accusati dai Cristiani di praticare tali orridi rituali sacrificali,
giustificando così sanguinosi pogrom?).
Infine, la valenza sensuale delle colorate e profumate corolle, rimandava a un simbolismo erotico ancora troppo paganamente dionisiaco, come anche a corrispondenze magico-simboliche di una cosmologia certo anch’essa tutta pagana. Infatti i fiori, come i colori,
le pietre preziose, i metalli, gli animali, avevano corrispondenze planetarie e sottostavano a un codice simbolico ben preciso. Per esempio un Greco che volesse offrire una ghirlanda o un mazzolino a Zeus,
doveva portargli delle violette o della malva. Ad Ares invece dei garofani rossi o dei cardi (la simbologia è davvero trasparente, in questo caso!). Ad Afrodite, ovviamente, delle rose o dei mirti; ad Hermes
dei myosotis (il pudico «non-ti-scordar-di me») o dei piccoli fiori in
grappoli. Ogni fiore aderiva quindi simbolicamente alle qualità del
dio cui doveva riferirsi: fiori del colore del destino, per Zeus; fiori spinosi o scarlatti come la guerra, per Ares; profumate e sensuali corolle per la dea dell’amore; il «fiore della memoria», fonte delle arti
per il misterico Hermes26.
E tuttavia anche quel casto paesaggio edenico di Luce inviolata tra
[…] sentieri
equorei che passano serpeggiando tra
solitudini calme e verdi, abitate
da forme troppo lucenti […]27
nel continuo processo di ri-creazione immaginale che sembra procedere per successive stratificazioni e impreziosimenti, si variegò sempre più di colori:
quando due fiori vicini,
ognuno con il loro colore,
188
INTRODUZIONE
si uniscono l’uno all’altro
e formano un unico fiore,
mettono al mondo un nuovo colore28.
EPHREM
Sul basso-continuo del verde profondo della verzura, s’intrecciò la
melodia cromatica delle variate corolle: screziati anemoni, alti tulipani, teneri gelsomini, tuberose dolcissime; forse, chissà, anche quel «pagano» languido e mitico narciso fra tutti il più soave, che fissa gli occhi
in angoli d’un’acqua che corre, e muore nella sua bellezza. Certamente
tutti i fiori più rari d’ogni clima crebbero rigogliosi in quel giardino!29
Erbari preziosi, certo tracciati da angelici stili come su antiche
pergamene dorate, si gemmarono in alluminate miniature, imperlate di rugiada di sole 30:
Dalle valanghe d’oro del vecchio azzurro, nella luce prima, e dalla neve eterna degli astri tu staccasti un tempo i grandi calici per
la terra giovane ancora e vergine di disastri.
Il giaggiòlo fulvo, coi cigni dal collo fine, e quel divino alloro delle
anime esiliate, vermiglio come il puro alluce del serafino che il pudore delle aurore calpestate soffonde di rossore31.
come nel giardino-paradiso «incorrotto» di Shelley, dove i fiori
[…] come
lampade di miniera su nascoste
gemme, risero al cielo scintillando,
esultando ciascuno al mite sole
penetrate di luce e di profumo […]32.
Solitario, di privilegiato destino, sta invece l’amaranto immortale, fiore «eterno» (deriva infatti dall’aggettivo greco amàrantos, ovvero «che
non appassisce»), capace di nascondere, come dice Shelley, con le sue
esili ali d’arcobaleno la forma della Morte. Lo si trova nell’Elisio – insieme con altre in fluorescenze dai magici poteri, come il nepente citato nell’Odissea (IV, 221), buono ad allontanare gli affanni; o il molu, l’erba magica dalla radice nera e dal fiore bianco dato da Hermes
come antidoto alle magie di Circe (X, 305). Fiorisce a ombreggiare la
fonte presso l’Albero della Vita, dove fluisce il fiume della beatitudine
che scorre in mezzo al cielo e lascia fluire sopra i fiori elisi una corrente d’ambra. Con questi fiori che non appassiscono, gli Spiriti eletti allacciano le chiome risplendenti intessute di raggi 33.
Il giardino-paradiso, sempre più «luogo del segreto», si struttura figurativamente nei linguaggi della nostalgia, e il «troppo pieno» colma
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INTRODUZIONE
il vuoto dell’assenza e rivela l’ansia dolorosa dell’attesa, che struttura
le forme dell’eccesso. Nel ricordo che si allontana, sempre più diviene
locus voluptatis, e massimamente in quello arabo, si embricano, in un
lussurioso tripudio, tutte le felicità dei sensi.
Nel Corano, il Paradiso è posto nel cielo, presso il Loto del Termine. Grande come il cielo e la terra messi insieme, vi si entra attraverso porte custodite da angeli, e garantirà ai suoi abitanti un clima piacevole senza mai sofferenza per troppo calore o rigore di freddo. I beati godranno di una natura benevola e lussureggiante, giacché il Signore vi ha fatto sulla terra un tappeto […] mandando dal
cielo dell’acqua; si compiaceranno della fresca pace di giardini irrigati, di color verde fondo, sotto i cui alberi scorrono torrenti e fiumi,
così che ovunque si ode l’armonioso mormorio di fontane, sorgenti, ruscelli:
E, sotto altri due giardini ancora verdi, verdi cupissimi con due
fontane, fontane sorgive e copiosissime, e con frutti e con palme
e con melograni […]34.
Locus abundantiae, il Paradiso islamico – dove scorrono fiumi di latte, di vino e di miele, stracarichi di frutta, di vigneti, di palme – sembra divenire l’archetipo dei futuri popolareschi e ingordi Paesi di
Cuccagna. Ma a queste delizie «primarie», visive, olfattive e alimentari, che rivelano l’eterna ossessione della penuria alimentare e della sete, se ne aggiungono altre di ben più sofisticata e squisita natura. Su giacigli elevati, su verdi guanciali, su tappeti dal fondo di
broccato, gli eletti, che sembrano in parte «arborizzati» anch’essi,
giacché sono descritti con baffi verdi 35, sono adornati con sete e gioielli (la cui descrizione appartiene al mondo feerico delle Mille e una
Notte); potranno bere in calici e coppe «d’argento e di cristallo» insieme alle sinuose huri dai neri occhi di gazzella,
buone e belle, dagli occhi grandi e neri, nelle lor tende racchiuse,
mai prima toccate da ginn né da uomini
adagiate su verdi cuscini e splendidi tappeti, avvolte nei settanta
veli, che sembrano convogliare su di sé tutta la misteriosofica fascinazione dai colori dell’arcobaleno. Le dolci fatiche dell’amore saranno velate di fumi aromatici della profumata legna d’aloe che arde, con crepitio sommesso, in piccoli recipienti preziosi, e stordite
dalle fragranze di muschio aleggiante nell’atmosfera: il profumo
preferito di Maometto!36
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INTRODUZIONE
Su troni ornati d’oro e di gemme adagiati […] fra loro garzoni d’eterna gioventù trascorreranno con coppe e bricchi e calici freschi
limpidissimi […] e frutti a piacere e a volontà carni delicate d’uccelli e fanciulle da’ grandi occhi neri a simiglianza di perle nascoste nel guscio […]. S’aggireranno fra piante di loto senza spina e acacie copiose di rami e ombra ampia e acqua scorrente e
frutti, molti, mai interrotti e mai proibiti e altri giacigli37.
Di fronte alla «sobrietà» del Paradiso biblico, anche quello cristiano
è certamente, a paragone di quello islamico, di una sensualità meno diretta, più sublimata. Questo scrigno di allettamenti che è il
giardino, è più spiritualizzato, meno dichiaratamente sensuale, se
non attraverso una simbolizzazione dei vari elementi costituenti
una topografia tipicamente femminea (un «rotondo» uterino, fecondato dalla «Luce-fallo» divina) e al cui interno i fiori, simboli anch’essi «ginecologici», si alternano alla erettile fallicità degli alberi,
e che, nel suo essere recintato, costituisce in realtà una sorta di ouroboros, un’icona di totalità. Nel rotondo «uterino» dell’ouroboros,
simbolo di eternità e della totalità, si riconosce anche il simbolo del
concepimento, quale «contenente» che circonda e protegge il «contenuto» e divenendo così anche figura dell’androgino, della riunificazione dello yin e dello yang.
Il giardino-paradiso è allora metafora di un regressus ad uterum,
quale ritrovata onnipotenza androginica, riunificazione del maschile e del femminile, come negazione di ogni separazione? Certo, è utopia di una «rifondazione» del proprio essere, di un ritorno alle sorgenti prime dell’esistere, che si attualizza tuttavia anche in ogni
estasi d’amore.
Così, nel rievocato giardino-paradiso, primo, mitico grembo della vita, nell’intrecciarsi delle variate melodie della luce fra cupole di
rami, l’estasi percettiva inturgida lo sguardo, sino all’acme di una
sorta di orgasmo visivo:
estasi
dal cerchio imporporato
sale […]
e davvero
da un tale pozzo il colore trabocca sopra un orlo di porpora!38
191
INTRODUZIONE
BESTIARI PRODIGIOSI E ALTRE MIRABILIA
[…] Ed il
colore fu dedotto
dal vuoto
per ridestarsi qui –
Ma la forma venne a poco a poco39.
W.C. WILLIAMS
In questo utopico paese, che è l’Eden originario («non-luogo» che
nella sua a-topicità è pure fortemente radicato nella nostra geografia immaginale), vero paradiso dei sensi, il mundus imaginalisi si
sbriglia in moltiplicazione di prodigi, nella progettazione di sequenze relative continuamente ricreantesi in anamorfosi immaginali, in
concrezioni leggendarie sempre più stratificate, sì da popolarsi di
bestiari fantastici, dal Grifone in corsa alata sui colli e per aspre vallate 40, alla già nota Fenice (animali che, del resto, popolavano le mirabilia dell’India favolosa dei viaggiatori medievali):
Ed eccoci al monte Adamans, dove si trova l’uccello Grifone dal
capo d’aquila, quattro zampe e coda bovina. Sempre nello stesso
monte si nasconde, nel suo nido di cinnamomo, la Fenice, che ha
creste come ruote di pavone. Essa, ogni mille anni, prende fuoco
nel suo stesso seno e nuova rinasce dalla fiamma41.
Si tratta certo di quel grifone, animale favoloso e «biforme» – per metà
aquila e per metà leone – che trascina il paradisiaco carro trionfale sognato da Dante (secondo l’accreditata simbologia cristologica che raffigura in lui la duplice natura umana e divina del Cristo, giacché, oltre all’oro divino, il bianco misto al vermiglio dà il colore della carne):
le membra d’oro avea quant’era uccello
e bianche l’altre, di vermiglio miste42.
Ma anche di quell’altro, mitico grifone, guardiano dei tesori nascosti e soprattutto dello smeraldo, la più apprezzata pietra preziosa
colorata in cui si convoglia una doppia simbologia, cristologica e satanica. Infatti dallo smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero precipitato fu intagliato il Santo Graal, la coppa che raccolse il sangue
del Redentore. Ancora alla fine del XV sec. Jehan de Cuba scriveva che gli smeraldi più belli sono quelli
che sono tolti e rapiti dei nidi dei Grifoni, che custodiscono questa pietra con grande crudeltà
192
INTRODUZIONE
e, nell’iconografia simbolica del Medioevo, il grifone, per il suo terribile becco e per i potenti artigli da carnivoro, spesso raffigurava
Satana43. A lui si affianca quella Fenice prodigio in forma di uccello,
che per Giorgio Manganelli, pareva nascere, nell’ingranirsi di un virtuosistico sforzo simbolico,
non da Dio, ma da un progetto platonico, una sorta di imitazione
mentale di un ipotetico, non impossibile progetto divino44.
Topografia luminosa, il Paradiso Terrestre è terra per eccellenza popolata dall’essere alato, giacché l’uccello «che fende le vie dell’aria»
è davvero universo di delizie 45, e mentre l’araba fenice di porpora vestita e ’l capo d’oro (Augello eguale alle celesti forme)46, fornisce il
pretesto per richiamare l’esistenza di un altrove divenuto irreale, sotto quest’aura azzurra come un’alta tenda47 – avvolta nell’aureola di
quella «nebbia mistica» che cela allo sguardo del non-iniziato le terre immaginali –, al riverbero di una luce di cristallo, si agitano le
penne d’oro dell’uccello descritto da Marco Polo, e quelle rosso fiammate dell’Uccello del Paradiso, il cui nome evoca la sua origine.
Davvero «uccello impossibile», quest’ultimo, stemma araldico alato per sempre bloccato nell’eternità di un volo metafisico (la leggenda lo diceva privo di zampe e perciò costretto a volare senza posa,
anche durante il sonno, in una sorta di iconica allegoria del volo), la
cui vocazione angelica si ribadisce nel suo etereo nutrimento, giacché pareva si cibasse soltanto di aromi trasportati dal vento e di rugiada48. Così la «Paradisea apoda», irruzione violenta dell’immaginario nel reale della natura, forse burla dell’Altissimo, o anche
medievale allegoria che svela e occulta l’adito dell’impossibile al
supremo
risplende, più brillante del piumato oro della sera, nell’impudico
sciorinare di quel caudato trionfo di piume, che, nella loro stremante insensatezza, si dichiarano fabbricazioni di menti angeliche. Poiché questi uccelli, per dirla ancora con Manganelli,
peccano di eccesso! […] sono troppo belli. C’è qualcosa di dissennato
in quel dispiegamento di piume d’oro, rugginose, fiammee, brunite:
quelle sagome caudate che alludono a voli arcaici, forse di pianeta
in pianeta: quei corpi ora brevi ora soffici, ora dilungati a meditazione di un tuffo verticale, ora potenti di un potere tutto araldico, un
tassello di colori duramente giustapposti, senza sfumature49.
193
INTRODUZIONE
La nostra sgranata meraviglia si arricchisce di echi, in questo elegante gioco di scambio tra terrestre ed empireo, in questo continuo
transitare per i corridoi labirintici del fantastico, per ritornare sempre a referenti più genuinamente mistici ed esoterici, come quello
dell’Axis mundi, l’asse di unione tra cielo e terra, che può essere sia
la fiamma di fuoco molto chiara e alta che pareva toccasse il cielo, e
contenesse una scala tutta lavorata di pietre preziose di cui parla san
Brandano, sia il più universale albero della vita dove nidifica la Simurg, uccello ovviamente immortale, di forma angelica. Flaubert lo
descrive di piumaggio aranciato e metallico, dalla testina umana,
provvisto di quattro ali, di artigli di avvoltoio e di un’immensa coda
di pavone. Figura davvero paradisiaca questa, e nell’Incantesimo della Simurg di Sohravardî lo si narra come un uccello mistico che si
nutre di fuoco e non appartiene né all’Occidente né all’Oriente. Il suo
simbolo, universale lo colloca oltre ogni luogo geografico reperibile
nell’atlante. Il suo canto, magico, sarebbe capace di provocare un’esperienza musicale che sfocia in una conoscenza liberatrice50.
Ma il catalogo del bestiario paradisiaco non si limita agli uccelli. Per gli arborescenti sentieri si aggira infatti il bianco unicorno:
È questo l’animale inesistente
che pure
[…] ebbe uno spazio sempre
e in questo spazio terso e dispiegato
lieve il capo levava senza obbligo, quasi,
d’esser vero […]51.
R.M. RILKE
Oltre al corpo di forma equina, caratteristica fondamentale dell’Unicorno (o Liocorno) è quel lungo, fallico corno diritto, spesso scanalato a spirale, che si erge sulla sua fronte e che rivela una sua discendenza dagli dèi solari. Elegante, ma indomabile e molto temibile, si favoleggiava che non potesse essere catturato da nessun cacciatore. Soltanto una vergine poteva aver ragione di lui, aggiogandolo
con la propria castità. Animale significante dunque la purezza, era
anche considerato uno degli emblemi di Cristo, «puro fra tutti». Nessuno, come affermava Erodoto, è però mai riuscito a vederlo, se non
nei dipinti. Eppure questo altero animale «mirabilmente elusivo»,
«rompicapo dei cacciatori», si staglia di gran lunga il più altero del
creato ben dritto contro questo schermo d’aria intessuta che è la foresta, e avanza impetuoso con l’alterigia del pavone, invero
194
INTRODUZIONE
tanto prudente da sparire per secoli e poi riapparire ogni volta sfuggendo alla cattura […]?52
M. MOORE
A lui s’unisce il Cervo, araldico animale d’anima, emblema di rinascita e resurrezione, immagine zoomorfica del sole nascente:
Vidi venire dal Sud il cervo-sole:
i suoi piedi si posavano per terra,
ma i suoi palchi toccavano il cielo53.
Con le sue corna simboleggia il divaricarsi dei rami di quell’altra
icona paradisiaca che è l’Albero della Vita la cui presenza, insieme
all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, costituisce un fondamentale elemento di distinzione dell’Eden dal Paràdeisos della
Mesopotamia e della Persia.
Degli infiniti alberi, di ogni specie, che furono piantati dal divino giardiniere ne vengono infatti nominati, soltanto due, quelli che
furono fatali ai nostri progenitori (e a noi!), di cui, l’uno (quello della vita) era permesso, e l’altro (quello della conoscenza) vietato. Tuttavia lo stesso testo sacro talvolta sembra confonderli in un unico
albero, confluendoli in unico simbolo che è «centro», se non topografico, certamente immaginario. Attorno a questi alberi paradisiaci, senhal dagli infiniti livelli e che sembrano tutti ruotare attorno al concetto di morte-rinascita, si esprimono valenze messianiche, giacché, secondo la tradizione medioevale, è dal seme di un albero del Paradiso Terrestre che germoglierà il legno della Croce. Ma,
se l’Albero della Vita rappresenta un principio di unità, quello del
Bene e del Male indica invece il principio della dualità nell’opposizione. Dice infatti lo Zohar che questo albero
si nutriva da due lati opposti e li riconosce come chi mangi nello
stesso tempo dal dolce e dall’amaro. Traendo la sua sostanza da
due direzioni contrarie, le riconosce e risiede in esse: ecco perché
è chiamato «bene e male»54.
Mangiando di questo albero, l’uomo diviene vittima della «ruota delle dualità», entra cioè nel ritmo delle generazioni.
Impossibile non notare l’universalità di questo simbolo e non evidenziare la stretta affinità che gli alberi paradisiaci della vita e della
scienza hanno con gli alberi meravigliosi di altre mitologie, col soma
degli Indiani, con l’haoma degli Iraniani, con l’albero delle tradizioni
caldeo-assire, o con quello dell’immortalità che insieme ad altri alberi
meravigliosi sorge nel Kue-lun dei Cinesi, oppure con quello che, tut-
195
INTRODUZIONE
to splendente di pomi d’oro, era custodito gelosamente nell’Orto delle Esperidi55.
L’Albero della Vita si ergeva in mezzo a loro
alto eminente e carico di frutti
dolci come l’ambrosia e d’oro vegetale
e vicina alla vita era la nostra morte: infatti
l’Albero della Conoscenza gli cresceva accanto
conoscenza acquistata a caro prezzo, ottenuta
per conoscenza del male56.
J. MILTON
Nei recessi viola dell’ombrosa frescura delle loro fronde, meditando
veleni, ambigue presenze s’annidano in attesa, pur partecipando
della bellezza e del lucore verde-dorato di quel vegetale Paradiso:
la lucertola verde e il serpente
d’oro, simili a fiamme sprigionate
si svegliano dal loro sonno immemore57.
P.B. SHELLEY
E proprio verde-oro è l’«antico serpente», l’eterno nemico, presente
come un odore, come l’aroma di un’idea, la cui insidiosa profondità
mai può essere svelata:
Un sorriso che il dente biforca
e illumina di bramosia,
sul Giardino s’arrischia e s’aggira,
e il mio triangolo di smeraldo
tira la lingua a doppio filo […]
Bestia sono, ma acuta,
il mio veleno, benché vile
si lascia indietro la saggia cicuta!
[…]
Venite a me, razza sventata!
Io, eretto e scaltro, simile
sono alla necessità!58
P. VALÉRY
E d’oro erano, e dolcissimi, oro e bronzo vegetale i frutti proibiti, così insidiosamente offerti dall’astuto tentatore miltoniano:
I frutti pendevano bruniti, la buccia dorata59.
196
INTRODUZIONE
POMARIA
L’enigma della natura del frutto proibito incautamente gustato dai
progenitori, Adamo ed Eva, ha attirato l’ingordo interesse di esegeti, filosofi, e psicoanalisti, alla ricerca di quel senso che dia finalmente ragione della nostra condanna. Secondo alcuni si trattava del
fico, dolcissimo frutto il cui oro interiore come miele solidificato che
si racchiude nel favo vegetale giallo-verde (secondo quel cromatismo
di base del Paradiso stesso che sposa il verde della lussureggiante
vegetazione al colore dorato della luce), si scioglie fra le labbra nell’avido morso, giustificando così, in questo sensuale simbolismo di
fecondità, l’attribuzione tradizionale di una natura sessuale del peccato di Adamo ed Eva. Da qui deriverebbe anche la convenzione iconografica della foglia di fico come duplice segnale di pudore, ma anche di «accentazione» implicita di ciò che si vuol celare:
E poi viddero l’albero della grazia, il quale era grandissimo e girava d’intorno intorno bene un terzo miglio, e le foglie sue parevano
d’oro e d’ariento, grandi a modo di foglia di fico, e li pomi suoi erano tanto dilettevoli a mangiare che parevano lavorati confetti: tanto erano dolci e saporosi a mangiare, che mai fu in questa vita cosa tanto dolce e saporosa a gustare, quanto erano quelli pomi60.
Più comunemente si suppone invece che il frutto proibito fosse simile a una mela. Secondo alcuni esegeti della Bibbia, era forse quell’ambiguo «frutto a globo, giallo quando è maturo, grande come una
mela», che è il colicinto velenoso, o quel frutto ingannevole detto «mela di Sodoma» giallastro e peloso (di «pelle vellutata») che si dissolve in
fumo e cenere, oppure uno simile alla mandragola che ha frutti gialli e tondeggianti, e che per i suoi poteri afrodisiaci è chiamato «mela
dell’amore». Un frutto, comunque, dolce come l’ambrosia e d’oro vegetale, giallo come un sole materializzato che splenda tra il verde oro
delle fronde. Esso è sensuale richiamo ai piaceri dei sensi, ma anche,
come lo definisce Ceronetti61, «metafora della conoscenza» che sancisce l’inevitabilità del passaggio «illuminante» da un’unità indifferenziata (lo stato edenico simbiotico) a un «mondo di generazione», giacché mangiare il frutto è gesto legato al principio di fecondità, e tuttavia, attraverso questo atto, che inizia la catena delle generazioni, irrompe nella creazione la temporalità e la morte. Eva si ciba avidamente del frutto senza sapere che stava inghiottendo la morte 62.
La macchia dell’amore
è sul mondo!
197
INTRODUZIONE
Giallo, giallo giallo
rode nelle foglie,
spalma di zafferano
i bifidi rami che poggiano
massicci
contro il cielo di porpora!
Nessuna luce
solo una macchia densa come miele
stilla di foglia in foglia,
di membro in membro e corrompe
tutto il colore del mondo63.
W.C. WILLIAMS
Potremmo quindi paragonare la raccolta della mela al furto del fuoco, che il mito individua come «peccato originario» di hybris prometeica? Certo, anche secondo Mario Bacchiega il segreto del frutto proibito va ricercato nel rapporto fra la mente dell’uomo (nella conoscenza del bene e del male) e l’ingestione del frutto scoperto dalla donna, nella quale del resto, anticamente, si riverberava la figura della Grande Dea, la Signora delle piante e delle erbe, da cui si
estraevano i phármaka dai duplici poteri, curativi e velenosi, in
virtù dei quali era chiamata Pharmakis. Ella era la Signora del giardino e dei suoi segreti, delle sue meraviglie come dei suoi pericoli e
delle seduzioni di vita e di morte che si trovavano nei fiori e nelle erbe a effetto stuporoso.
Il dono di Eva non rimarcherebbe quindi tanto un rapporto cibosesso, bensì cibo-mente. Ma, in quel cibo che è frutto della conoscenza, stimolatore della mente, come lo definisce il Corano, e che
aprirebbe la «porta del cielo», vi si potrebbero quindi davvero riconoscere – nell’effetto stimolante oppure mortifero –, quelle sostanze (droghe) che acuiscono il pensiero, entusiasmano i sensi, vitalizzano il corpo, ma che producono anche sogni, visioni, allucinazioni e sono tanto usate nelle pratiche rituali dei popoli antichi?
Il divieto nascerebbe, allora, ancora una volta dalla necessità
della mistica ebreo-cristiana di differenziarsi da una «paganità» ancora troppo vicina? Mario Bacchiega sostiene che «La cultura religiosa occidentale rifiuta l’uso rituale della sostanza esilarante ai fini dell’esperienza religiosa. La cultura religiosa occidentale privilegia invece una consapevole, concreta, non illusoria prospettiva del
sacro, sentito come stupore dell’esistere davanti a un mondo inspiegabile, misterioso»64.
Eppure fu proprio da questa trasgressione di Eva, primo atto di
curiosità e di libertà, che iniziò l’ingannevole eppur prezioso percorso della creatività umana! Felix culpa, allora? Certamente forse fu
198
INTRODUZIONE
peccato di «disobbedienza», ma nello stesso tempo anche processo di
individuazione e di differenziazione, che nasce da un conato di libertà da cui zampilla la storia. Del resto l’ambiguità della creazione
stessa dell’Albero del Bene e del Male, non si rispecchia e si riafferma in una sorta di struttura antagonistica della psiche umana?
Dolorosa confessione dell’inevitabile scacco di quell’imperioso, sempre eccessivo seppur anche vitale, principio del piacere che continuamente trascolora verso scenari di morte. Infatti, potremmo dire
con Blake, per l’uomo la vita è davvero Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno!
Senza Contrari non c’è progresso. Attrazione e Ripulsa, Ragione
e Energia. Amore e Odio sono necessari all’Umana esistenza.
Da questi contrari scaturisce ciò che l’uomo religioso chiama
Bene e Male. Bene è la passività che ubbidisce a Ragione. Male è
l’attività che scaturisce da Energia.
Bene è il Cielo, Male è l’Inferno65.
Da allora, comunque, di gialla polpa furono sempre i fatali «frutti
proibiti», turgidi di destino, dai pomi «d’oro» delle Esperidi, al «pomo
della discordia» del giudizio di Paride, alle mele, anch’esse d’oro, che
fecero perdere la fatale corsa ad Atlante.
L’ambiguità del frutto proibito (giacché in ogni proibizione si nasconde un invito alla trasgressione) è riflesso dell’ambiguità stessa
del suo colore giallo, che, nell’affinità con l’oro si collega da una parte alla catena significante del Logos (giallo-oro era anche il colore di
Apollo), e quindi della conoscenza divina attinta per illuminazione,
quale rivelazione dell’Amore e della Sapienza di Dio. Il giallo è quindi colore della gioia, della perfetta Luce divina, riflesso del Verbo,
che si riflette «mistericamente» nel riflesso solare che brilla nel colore ma che secondo la bivalenza stessa dell’oro – che è anche «materia» contraffattibile –, dalla generosa solarità del dono facilmente
trascolora nell’analità avida dell’avarizia. Così, quando questo giallo solare si schiarisce o si «sporca» della patina verde dell’ossidazione, questo stesso colore può virare verso il tradimento, l’infamia,
la menzogna. Giuda infatti doveva essere vestito di giallo, e tale lo
si rappresentava nelle vetrate del XVI secolo. Questo diventa allora il colore della seduzione e della sensualità, come anche della vendetta divina e della purificazione dopo il castigo, se di zolfo fu la
pioggia che annientò Sodoma e solforate erano talvolta le camice
che rivestivano le streghe condannate al rogo66.
Nella dolcezza traditrice del frutto, che nella forma, rotonda come
seno, si fa anche promessa di un appagamento di sensuale oralità,
199
INTRODUZIONE
converge tutta la bivalenza del giallo, il quale nella pura luminosità
materializzata dell’oro, si rivendica apparentato alla luce e, nella più
carnosa opacità del pigmento, vira verso valenze ambiguamente sensuali e «terrene», rispecchiando la divaricazione caricata anche di valenze simboliche tra valori di «luminanza» e «opacità» di cui abbiamo
già parlato in precedenza. Scrive Michel Lagrange:
[…] appare nettamente l’opposizione tra colori opachi e colori traslucidi, colori aperti e colori chiusi, colori-tomba e colori-passaggio. Senza dubbio si ritrova la dualità della carne e dello spirito,
dell’apparenza e dell’assenza.
Egli poi definisce così il giallo:
Giallo ferita e balsamo,
giallo evocante altri segnali,
giallo sesamo, insieme fiamma e gelo67.
L’ambiguità del colore del frutto, si rispecchia nell’ambiguità del
serpente, davvero «nodo» inestricabile di sensi, concrezione immaginale di molteplici e opposti significati, che in sé riunisce e significa la dialettica del cosmico oscillare ondulatorio tra cielo e terra,
bene e male, vita e morte:
Del Serpente ci attrasse il Ragionare
Di bene e male, di virtù e di vizio
Dubbio di sé geloso, lacrimata follia,
[…]
Nell’Argomentare bicorne
Nel fingere forcuto […]68.
W. BLAKE
Animale universalmente ritenuto ctonio, il serpente in ciò si pone al
polo opposto dell’uranica leggerezza dell’uccello: «il serpente è per
l’uccello ciò che l’oscurità è per il giorno, vale a dire il suo opposto».
Tuttavia entrambi sono mediatori tra due mondi o stati dell’essere,
nonché «portatori di segni», e se l’uccello è mediatore tra il basso e
l’alto, fra la terra e il cielo – e quindi per eccellenza «nunzio» della Luce, fratello dell’angelo e in ciò angelos anch’esso –, tuttavia anche il
serpente è vettore di unione tra il profondo, il tellurico – il ventre ctonio della terra – e l’alto, giacché vi sono serpenti alati, tanto che rettili e draghi spesso appaiono raffigurati come forniti di ali (sebbene
queste siano membranose e notturne, tali da apparire piuttosto triste parodia delle piumate meraviglie uccellesche). Quindi, forse, pri-
200
INTRODUZIONE
ma di essere condannato a strisciare, anche il serpente aveva le ali,
e diventare alati come uccelli è un’acquisizione e allo stesso tempo
un ritorno alla condizione originaria?69 Manganelli sostiene che
è probabile che i rettili da un lato e uccelli dal lato opposto rappresentino i punti estremi della fantasia notturna, dell’ebbrezza
onirica del cosmo. […] Se i rettili sembrano indugiare negli anfratti dell’ombra, gli uccelli ruotano intorno al centro, ossessivo e
paradossale della luce70
divenendo entrambi presenze insieme stregonesche e teologiche.
Se l’uccello è figura dell’illuminazione della Grazia, il serpente è
piuttosto il simbolo dell’acquisizione profonda di una coscienza misterica che traversa i territori della morte e perviene a una più «alta» consapevolezza passando per la dissoluzione del Sé. Tale percorso iniziatico è simbolizzato appunto da questo animale che, per
la sua «muta» annuale, è simbolo ovunque di immortalità ed è quindi assurto all’officio di psicopompo.
Ma la polisemia del serpente ci stupisce ancora di più se consideriamo come primitivamente esso simboleggi l’acqua: l’acqua sulla terra e sotto terra – fiumi, laghi, fonti – nonché l’acqua del cielo
che cade sulla terra, ossia la pioggia, giacché – in quanto simbolo acquatico – questo animale ha anche un rapporto con l’acqua del cielo, le nubi, il fulmine il tuono e l’arcobaleno.
Il concetto di «serpente-arcobaleno», proprio in particolare agli
aborigeni dell’Australia (ma anche ad altre popolazioni sparse in tutto il mondo), esprime questo legame e interdipendenza tra ogni opposizione duale, cioè tra alto e basso, cielo e terra, terra e acqua, vita e morte, e infine tra maschile e femminile, e se l’ouroboros, il serpente arrotolato su se stesso, è geroglifico di totalità, in Cina l’arcobaleno era, come unione dei colori chiari e scuri, anche rappresentazione dell’unione del femminile (yin) e del maschile (yang).
L’androginia dell’arcobaleno rispecchia quella del serpente, che
essenzialmente legato alla Luna, viene considerato il suo «fallo» fecondante, raggio vivente che penetra il grembo della Terra Madre.
Dagli splendenti colori (come l’arcobaleno appunto) il serpente è nastro vivente capace, come quello, di inarcarsi come ponte, e come
quello, unire cielo e terra.
La costellazione simbolica ingrappolata attorno alla doppia figura
arcobaleno-serpente converge ovunque nei miti delle origini a essa
collegati, così che, se per i giavanesi l’arcobaleno è un grande serpente che beve l’acqua del mare e la sputa sulla terra (ed è quindi
simbolo di fecondazione e fertilità), per gli antichi slavi dell’Europa
201
INTRODUZIONE
orientale è un enorme serpente che beve l’acqua e la deposita sulle
nuvole, oppure, inversamente, in alcune tribù australiane, il serpente-arcobaleno sale in cielo in forma appunto di arco multicolore e beve la pioggia per farla cessare. Altrove l’arcobaleno è visto come un
gomitolo di serpenti di vari colori che insieme formano un ponte, sotto il quale è pericoloso sostare, giacché sia l’arcobaleno che il serpente ovunque sono figure numinose, concrezioni misteriche di plurime valenze sacre, nel senso etimologico di sacer, anche «pericoloso».
Infatti l’introduzione del colore nel mondo è rottura dell’unità originaria della luce che ora si articola oltre il ritmo binario luce-ombra,
è accettazione della differenziazione e quindi dell’avvicendarsi vitamorte. Lévi-Strauss ha evidenziato come, secondo certi miti amerindi, la colorazione del piumaggio degli uccelli, e quindi l’introduzione
della bellezza e della varietà nel mondo, derivi da un atto peccaminoso o cruento (furto o uccisione), una sorta di «peccato originario»
che sancisce la nascita della cultura come rottura dell’unità simbiotica uomo-natura, così come nell’Eden quel fatale morso non soltanto afferma l’identità nel possesso che si «marca» nel segno dei denti
sulla polpa succosa, ma acquisisce anche la nettezza di un taglio tra
uno stato «di prima» e un «dopo» ormai totalmente diverso.
Vi è davvero una sorta di «aura» simbolica attorno al serpente
che si raggia in molteplici direzioni per riconvergere poi a una sostanziale unità di senso, che in realtà è quella di un’unità nella differenziazione di una totalità, appunto «uroborica» che in sé mantiene tutte le particolarità.
Abbiamo visto sopra come il serpente si riconosca nell’elemento
tellurico e in quello acquatico, così come in quello aureo, e infine in
quello igneo. Infatti questo animale è anche fiamma: l’ureo che si ergeva sul diadema del faraone era quello stesso che adornava il capo di Râ. Con il suo alito velenoso sputava vampe mortali, era l’«adirato», l’infuriato, il fiammante, il distruttore71.
Ritornando all’etimologia dei Serafini, non ci sorprende più, ora,
scoprire che saraph significhi in ebraico «bruciare», «ardere», ma anche «serpente»72. E, se a guardia dell’Eden perduto Dio pose i Cherubini, come non ricordare ancora che in Mesopotamia i karibu (o
kuribi o karibâti, cioè i «benedicenti») erano esseri teriomorfici alati, forse grifoni, posti a guardia dei palazzi assiri e babilonesi?
L’icona anamorfica del serpente-serafino si rivela davvero «centro», nodo simbolico in cui confluiscono plurimi significati strutturati in complesse catene di simboli che trasmigrano da un teriomorfismo mitico e magico a una «angelicità» che pure ne conserva
tracce consistenti. La loro funzione è quindi straordinariamente si-
202
INTRODUZIONE
mile a quella che hanno svolto serpenti e draghi, da sempre mitici
custodi del tesoro. Così come il serpente custodisce cose preziose
per l’uomo, come acqua e tesori – in quanto animale della terra, esso vigila su pietre preziose e metalli rari, e in questo, ancora si assimila all’arcobaleno, alla cui base, come tutti ben sanno, giace sotterrata una pentola d’oro!73 – così anche l’Angelo scintillante, come
fiamma che svetti verso il cielo, custodisce il Paradiso originario, «tesoro dell’anima», e ne impedisce l’accesso agli indegni. Anch’egli è di
terribile aspetto, come quell’angelo che si mostra, nell’ottavo cielo (di
risplendente topazio), ai «celesti pellegrini» Maometto e Gabriele?
E Gabriele batté alla sua porta. E subito venne a noi un angelo di
luce, il cui chiarore era settantamila volte maggiore di quello del sole. Esso aveva settantamila teste, ed ognuna aveva settantamila volti, ed ogni volto settantamila occhi: e ciascun occhio aveva settantamila pupille. […] Quell’angelo ci aprì la porta e noi entrammo74.
MISTICA LAPIDARIA
Sacramento di luce
fu la promessa75.
S. VIRGILLITO
Il Paradiso Terrestre non è però soltanto «tesoro» dello spirito nel godimento ininterrotto della presenza divina. Questa felicità infatti si
materializza oltre che nella profusione naturale di colori, profumi,
suoni, anche nello splendore di gemme che lo costituiscono e nel
fanno uno scrigno di mirabilia minerali, come quello evocato da
Ezechiele, circondato da un muro di pietre preziose:
in Eden, giardino di Dio tu eri coperto di ogni pietra preziosa […]
e camminavi in mezzo a pietre di fuoco76
e ricco anche al suo interno di particolari «virtudi»:
È noto che nel Paradiso gli alberi e l’erbe e tutte le cose che v’erano avevano speziali virtudi. E medesimamente tutte le pietre,
ch’erano nel Paradiso, erano tutte chiare e risplendenti e di tanti svariati colori, che tutte parevano pietre preziose77.
E cristalli o pietre preziose (carbonchi) o perle, dotati tutti di particolari virtù, risplendevano sulle teste dei draghi e dei serpenti!
203
INTRODUZIONE
Si dice che ancora in India in una valle di nome Iordia, si generino certi serpenti, intorno ai cui colli nascono dalle pietre preziosissime: i loro bagliori vengono detti […] «szmaragdi»78.
Succosamente, Arturo Graf riporta altre mirabolanti «cartoline» delle fantasticate Indie, sempre relative a draghi e serpenti guardiani
di tesori, come questa di Giordano di Sévèrac che narra di come
nella terza India, ov’è il Paradiso:
sono dragoni in grandissima quantità, i quali recano sul capo pietre lucenti, detti carbonchi. Questi animali giacciono sopra arene
d’oro, e crescono assai, e mandan fuori un fiato puzzolente e infetto, simile a densissimo fumo, quando si leva del fuoco. A certi
tempi si raccolgono insieme e mettono le ali, e cominciano ad alzarsi per l’aria; ma allora, per voler di Dio cadono […]79.
Nel serpente che «osa» le ali, si ribadisce l’inesorabile destino infero.
Zoologia favolosa, difformi mirabilia, che partecipano certamente dei mirabolanti orizzonti onirici orientali, ma non soltanto. Dal
latino vipera deriva l’antico francese voivre che nella letteratura fantastica di quel paese designava un mostro, un serpente alato che
aveva per occhio un rubino, corrispettivo del diamante che si formava sulla fronte dei draghi, certo a ribadire la loro funzione di guardiani di tesori, in particolare di quelli riposti nel profondo ventre
della terra, così da simbolizzare la funzione misterica, propria alla
loro possibilità di entrare in rapporto con le forze telluriche per poi
riunificarle con quelle uraniche attraverso la mediazione dell’elemento acquatico, umido-generatore, secondo un agire per eccellenza iniziatico, tanto che gli sciamani, secondo una magia simpatetica, si ornavano la testa con cristalli, iridescenti come l’arcobaleno e trasparenti come l’acqua. Infatti il cristallo di rocca, come il
quarzo, simbolizza l’elemento celeste nelle iniziazioni, così come
l’acqua sacra e potente dei rituali iniziatici del medicine-man australiano è considerata quarzo liquido80.
Più svelti del pensiero empiono il baratro
di baleni solari. Dritti, obliqui,
forano il buio sottosuolo e svelano
i segreti del cuore della terra:
infinite miniere di diamanti,
d’oro, di pietre preziose, di gemme
impensabili, grotte sostenute
sopra colonne cristalline, sparse
d’argento vegetale; e pozzi colmi
d’un fuoco ancora irraggiunto […]81.
P.B. SHELLEY
204
INTRODUZIONE
Da questo immaginario sempre più sontuoso, che ora è anche catalogo di ogni possibile mirabilia minerale, si costituirà il repertorio
della cristallomanzia, basata sulle virtù magiche delle pietre, tanto
amata e diffusa nell’antichità, così da arrivare ad affermare: «Si trovano pietre preziose che hanno grandi virtù. Chi ne porta addosso
qualcuna non può essere colpito né da ferro né da acciaio, né può
perdere sangue»82.
La mistica delle pietre preziose attraversa la storia del pensiero
e delle credenze, a indicare una continua corrispondenza tra alto e
basso, giacché le pietre erano considerate emanazioni degli astri, ed
erano a questi profondamente legate, in quanto «rappresentanti» in
terra delle loro virtù. Proprio grazie a questo rapporto di «simpatia»
gli astri influiscono fortemente sui minerali e sulle pietre preziose,
dotate di virtù mediche, misteriose, mistiche e magiche.
Su corniola il talismano
porta al pio fortuna e bene;
quando ha un onice per fondo,
[…]
ogni male tien lontano,
te e il luogo anche difende83.
J.W. GOETHE
Secondo la legge delle corrispondenze, a ogni pianeta corrisponderebbe un colore e una pietra, secondo una simbologia riconosciuta,
e con poche varianti, che collega le «virtù» del colore e della pietra a
quelle del pianeta che rappresentano, per cui al Sole corrisponderebbe l’oro (come colore) e il diamante; alla Luna, l’argento e la perla; a Marte il rosso e il rubino; a Venere l’azzurro e quindi lo zaffiro
oppure il corallo rosa; a Saturno ovviamente il nero e il viola e quindi l’onice nero e l’ametista; a Mercurio il verde e lo smeraldo, o il diaspro; a Giove il blu-porpora e perciò l’ametista, il giacinto, ma anche
lo zaffiro.
Non materia inerte, ma vivente embrione minerale, la pietra preziosa, è frutto di una lentissima gestazione nel profondo utero della
terra che ha catturato seminagioni di luce e le ha custodite nel suo
grembo, nutrite della fiamma degli abissi84. Secondo Paul Claudel
c’è voluta la compressione cosmica, l’azione che è passione di un
mondo in rivolta contro la propria inerzia, l’amplesso tellurico, il
vomito di un fuoco interiore, quello che dal punto più profondo è
capace di scaturire sotto una mano inesorabile, lo schiacciarsi
millenario di questi strati che si compenetrano, tutto il mistero,
tutta l’officina metaforica, per arrivare infine e questo brillante, a
205
INTRODUZIONE
questo cristallo sacro, a questa noce perfetta e trasparente che
sfugge alla putrefazione del mallo85.
Formate di luce ctonia ed energia che proviene dal basso, le pietre
preziose rappresentano naturalmente le ricchezze sconosciute dell’inconscio, nocciolo di conoscenze segrete e, nel travaglio della loro lavorazione, nella trasmutazione dallo stato di bruta opacità a
quello di traslucida trasparenza, simbolizzano il passaggio iniziatico dall’oscurità della materia allo splendore luminoso dello spirito,
dall’imperfezione alla perfezione, dall’ignoranza alla conoscenza; la
Gerusalemme Celeste sarà così edificata e rivestita di pietre preziose. E, specularmente, il pettorale d’oro del sacerdote sarà ricamato di pietra come il cielo lo è di stelle, e ogni pietra (in totale dodici suddivise in quattro ranghi di tre) simbolizzerà una delle dodici tribù di Israele:
Farai anche il razionale del giudizio, lavorato a più colori […] d’oro,
giacinto, porpora, cocco tinto due volte a bisso ritorto. […] Fermerai
su di esso quattro file di pietre preziose; nella prima: sardio, topazio, smeraldo; nella seconda: carbonchio, zaffiro, jaspide; nella quarta: crisolito, onice, berillo. Saranno incastrate nell’oro, fila per fila.
E porteranno i nomi dei figli d’Israele [...]86.
Rendere omaggio all’Essere Supremo indossando questo «gioiello» i
cui «occhi» di luce – riflesso ciascuno di una qualità particolare e intrinseca –, si aprivano verso l’inconoscibile, dissuggellava al Sommo
Sacerdote la via della conoscenza oracolare, squarciando il velo della pura apparenza materiale. Ogni pietra preziosa brillerà così come la virtù che essa esprime, a cominciare dal diamante,
questo crogiolo di ogni geometria, questo roveto di raggi intrecciati che apparve a Mosè nel deserto, questo grido interiore in cui
si ripercuotono i sette colori dell’iride
come lo descrive, ammirandolo, Claudel, il quale, operando la distinzione tra pietre opache e lucide, definisce queste ultime, nella
sfaccettatura che ne moltiplica l’incidenza prismatica,
un sole che deve i suoi raggi alla geometria87.
Il diamante, re delle pietre preziose, «figlio» maturo e incorruttibile
dell’abbraccio alchemico delle forze della terra e del cielo, forgiato
dal fuoco ctonio, in sé racchiude la raggelata trasparenza equorea
ed è per questo simbolo del «centro». Per la sua bianchezza trasparente, questo «vuoto solido» che è invece «nodo» di fasci di luce co-
206
INTRODUZIONE
lorata, pronta a irraggiare non appena lo sfiori la luce nel suo intimo roveto ardente, questo
poliedrico rifrangente che attira e concentra in sé ogni angolo di
incidenza e di riflessione
si riconosce pietra magica per eccellenza,
il brillante delle favole che splende in fronte a Melusina88.
Però nella sua forma meno matura di cristallo di rocca o di quarzo,
è anche la pietra dell’iniziazione, collegata al serpente-arcobaleno,
usata dal medicine-man.
Io ti donerò una pietra bianca
così si dice nell’Apocalisse, ma se il bianco trasparente, la luce bianca del diamante e del cristallo indica la Sapienza divina – ossia quella spirituale, acquisita con lo studio –, invece la sapienza che deriva
dalla pietà si riveste di pietre bianche opache, di un bianco simile in
tutto a quello delle vesti di lino che rivestiranno i «degni». Invero, se
queste ultime brillano di luce riflessa (come quelle pietre dell’indecisa luna, l’opale, gemma color di squame 89), le prime invece conservano le vibrazioni del colore puro da ogni mescolanza e riverberano
quindi di luce propria, secondo un chiaro simbolismo mistico che attribuisce per esempio non al blu profondo del lapislazzuli o a quello
verde-dorato del turchese (cui venivano attribuite anticamente virtù
di talismani contro il malocchio), bensì al «casto» zaffiro, la capacità
di rievocare la visione della Luce divina, cui si ricollega per eccellenza tutta la simbologia legata all’azzurro e che diviene perciò emblema della purezza e della forza luminosa del regno divino90.
È davvero quel Dolce color d’orïental zaffiro che Dante riferisce alla Vergine Maria,
[…] il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira91
e che Claudel collega direttamente al Verbo, e lo descrive nel suo
[...] colore di firmamento, colore di profondità, quest’occhio eternamente aperto, dove si distingue talvolta una specie di pupilla
(gli zaffiri stellati) abisso di visione di cui è detto del Profeta, perché tutto è stato creato nel Verbo: «Io ti fonderò su zaffiri»92.
207
INTRODUZIONE
Di zaffiro saranno, infatti, le fondamenta della Gerusalemme Celeste,
così come di splendente, incorruttibile zaffiro era il trono che conteneva l’Inconoscibile – «Colui che è» –, e di zaffiro, infine, erano le tavole delle leggi ricevute da Mosè sul Sinai, proprio a ribadire il destino
di sacralità di questa pietra.
Io non amo i diamanti:
è meglio lo smeraldo dal «bagliore di lampada nell’erba»:
e anche la modestia può abbagliare93.
M. MOORE
Sacro è anche lo smeraldo, la cui luce verde risplende nel pettorale del sacerdote, evocando il significato esoterico e insieme il potere rigeneratore di questa pietra. Incastonato nell’anello degli abati
mitrati, come pietra della castità e della fedeltà, simbolizza il Verbo
e circonda come arcobaleno il trono di Dio94.
Certo per il suo colore verde, la tonalità più propria al registro
cromatico della Natura e quindi rievocante anche le divinità silvane e agresti e la magia del loro verde sperma, questa pietra, nel suo
meraviglioso «bagliore d’erba» cristallizzato, era usata anticamente
come talismano. Era la pietra dei veggenti, la pietra di Hermes, ma
anche, nel suo aspetto nefasto, collegata agli spiriti del male, permette infatti di evocarli e di conversare con essi.
Un solo raggio della mia luce è per lui barriera invalicabile, un
mio solo sguardo è smeraldo che l’accieca95.
Come pietra di Lucifero, e quindi metafora di una scienza maledetta, lo
smeraldo si oppone allo zaffiro, pietra della purezza e della scienza divina e quindi della speranza, a significare l’opposizione bene-male, come è illustrato in un pezzo di oreficeria barocca appartenente al tesoro di Monaco: un trionfante san Giorgio vestito di zaffiro e oro, montato su un solare cavallo bianco che atterra un dragone di smeraldo96.
E ognuno aveva il colore del fuoco e della pietra:
fuoco era il cuore e duro come pietra97.
SANÂ’Î
Il colore intensamente rosso del rubino, invece lo destina naturalmente ad assimilarsi al sangue (perciò a essere usato, omeopaticamente, per la preparazione di farmaci antiemorragici!). Forse, sempre
per questo suo collegamento con il sangue, davvero «succo della vita»,
208
INTRODUZIONE
il rubino nell’antichità era considerato l’emblema della felicità; se
cambiava colore era sinistro presagio per il suo possessore (ricordate l’anello donato alla Bella dall’infelice Bestia innamorata? L’offuscarsi della purissima luce della pietra avvertiva dalla sua prossima
morte!). Rubescente luce, risplendente più della brace più incandescente (in latino carbunculus, appunto, carbone ardente) scaccia ogni
tenebrore e significa l’ardente amore divino98.
Rovente
roseto
calice traboccante99.
S. VIRGILLITO
Dante chiama faville vive gli angeli che si tuffano nel fiume di luce
quasi rubin che oro circunscrive, mentre vivo topazio sono i beati che
questa gioia preziosa ingemmi100, a formare la splendente anima del
Paradiso. Nel fiero topazio ritroviamo anche il colore del sole; non il
bianco puro, che si può equiparare alla Verità astratta:
È lo spirito applicato a un’opera, è l’attività qualificata tramite un
oggetto. È la mens del poeta latino che penetra la materia e attraverso tutte quelle sfumature che vanno dallo zafferano al marrone carico, persuade a diventare oro e, meglio dell’oro, a diventare la materia di questo mondo intero del colore101.
NOVALIS
Perciò nel topazio c’è la sapienza che impedisce la pazzia: esso è la
luce che scaccia i fantasmi e ogni malinconia.
era il fiore e pensieroso del mondo,
nelle cui mani aperte tremavano
diademi d’imperïali ametiste102.
P. NERUDA
L’aurorale ametista, che ha in sé anche la ghiacciata trasparenza
d’abbrividenti tramonti, deriva dal greco ametusios («che non è ebbro»), ed è naturalmente la pietra della temperanza, che previene
ogni ebrietà, sia fisica che spirituale, così che anticamente si credeva salvaguardasse anche dai veleni. Il suo dolce splendore, che si richiama al colore della casta violetta, irraggia dall’anello vescovile, dichiarandosi simbolo cristiano dell’umiltà. Pietra della chiaroveggenza senza difetto, della sapienza e della padronanza di sé, per quel
suo colore misto di azzurro e di rosso, di cielo e di sangue, è emble-
209
INTRODUZIONE
ma della Resurrezione della carne e della vita eterna, supremo gradino della Gerusalemme Celeste: La terra offre al cielo una coppa di
questo vino! 103
Cantico delle sfere è questa rosa
di porpora che dal limo traspare104.
A. PES
La più misteriosa delle pietre è però il giacinto, dall’incerto colore, che
sembra abbracciare le solarità del rosso-arancio come anche la profondità incupita del granato. Era la pietra cara a Giove, salutifera, che
preservava dalle epidemie, e che, quale freddo «fuoco astrale», era capace di spegnere l’ardore di ogni altro fuoco. Naturalmente, quindi,
simbolizzava la vita religiosa, l’ascetismo, e la fede costante che trionfa sulle passioni105.
Il minerale fu come una stella
sprofondata e sepolta.
A colpi di pianeta, grammo a grammo
nascosta fu la luce106.
P. NERUDA
Se le pietre preziose, luminosi raccolti «imperlati di gelo» che la natura matura nel buio del proprio grembo, indicano la trasmutazione dalle tenebre alla luce, giacché tutto è stato concepito nella luce
e nel colore, quando si incastonano nella purezza solare dell’oro esse sacrano l’alleanza tra natura e cultura. E dato che davvero un
mistero d’amore nel metallo riposa, il gioiello non è soltanto fiore di
vanità, ma conoscenza esoterica, «figura» dell’anima, della sconosciuta ricchezza dell’inconscio. Nel fuoco delle sue gemme lo sfaccettarsi dei colori planetari107, stabilisce un’ideale corrispondenza tra
un simbolismo che si ramifica dal mondo della magia e della salute del corpo alla sfera del trascendente e quindi alla salute dell’anima. E poiché, secondo una concezione cosmologica medievale, le
pietre preziose, frutto del ventre umido e oscuro della Terra, sono
tuttavia di così purissima natura e luce da esser paragonata a stelle, ne saranno naturalmente ornati gli angeli dall’aspetto di fiamma,
dalla veste splendente come neve, dotati di un corpo simile a una luce brillante108.
E quando poi presi sonno, subito venne a me l’angelo Gabriele, e
mi si rivelò in questa forma: il suo volto era più bianco del latte e
della neve e i suoi capelli erano più rossi del corallo. E aveva sopracciglia ampie, e bocca bellissima e ben formata, e denti bianchi e splendenti; e indossava vesti bianchissime e maravigliosa-
210
INTRODUZIONE
mente ornate di perle e pietre preziose. E portava due cinture,
una sul petto e l’altra intorno ai fianchi, come usano gli uomini;
ed esse erano d’oro purissimo, mirabilmente ornate, e ciascuna
più alta di un gran palmo. E le sue mani erano rosse come il fuoco e i piedi e le ali erano più verdi e splendenti di uno smeraldo109.
La natura ignea degli Angeli, esseri luminosi, sfavillanti, «astri» anch’essi per la luce siderale che li riveste, è evidenziata iconograficamente quando la loro fronte si adorna di un diadema di forma triangolare color rosso fiamma, oppure d’oro culminante in una lingua di
fuoco stilizzata. Per descriverne l’apparizione subitanea e sconvolgente anche nel Vangelo si usa la parola «abbagliante» (astraptùse dal
participio di astrapto: «lampeggio, baleno, getto, lampo, scintillio») così da evocare il paragone con il fulmine110. Ma giacché, per la loro natura di esseri «intermedi» (Nunzi Siderei), essi «sono» specchi caleidoscopici nei quali si rifrange in vividi colori la luce bianca e assoluta
dell’Inconoscibile, si fanno «luce corporea», polarizzandosi nei vari colori dell’arcobaleno e si pongono a sigillo delle confluenze simboliche
tra mondo astrale e mondo terreno. Così su di loro, «stelle del firmamento dello spirito», brillano quelle altre «stelle», luce coagulata del
firmamento sotterraneo, in una corrispondenza mistico-cromatica,
così come i giusti
brilleranno nel cielo come faville e si differenzieranno l’uno dall’altro in splendore e senza dubbio in colore, come stelle111.
P. CLAUDEL
Si intrecciano così relazioni simbolico-iconografiche tra gerarchie
angeliche, le pietre del razionale (il pettorale biblico del sacerdote)
e l’astrologia, per cui, come a ogni pietra corrisponde un astro, così anche una gerarchia angelica e a ogni pietra si possono collegare particolari qualità e virtù (infatti lo smeraldo simbolizza la castità, l’innocenza fisica e morale; lo zaffiro, la scienza delle cose sante; il giacinto, l’ascetismo, la fedeltà, la vita religiosa; l’ametista è la
saggezza, la padronanza di sé, mentre il topazio è l’emblema dell’attività, così come il diamante significa l’iniziazione e la fede giurata e il rubino, l’amore ardente e la forza di vincere). Quando ornano le persone e le vesti degli angeli ne significano la virtù, cosicché questi, gemme celesti, brillano dello splendore variato delle loro virtù e la «luce» delle pietre e dei metalli si rivela metafora di ben
altra luce, ovvero quella dello spirito112.
Di preziosi monili ingemmati s’adornano sovente gli angeli dipinti dai grandi pittori del Rinascimento italiano, primo fra tutti Piero della Francesca che riveste letteralmente i suoi angeli di gioielli
211
INTRODUZIONE
risplendenti: collane, pendenti, spille, diademi, secondo un intrecciarsi simbolico tra colori e materie. Anche la grande pittura nordica adorna e appesantisce i suoi biondissimi angeli con abiti intessuti d’oro e di pietre preziose, e con splendidi gioielli (diademi,
spille). Fra tutti basti ricordare il sontuoso gruppo dei tre angeli della Adorazione della Pala Portinari di Hugo van der Goes, abbigliati
con mantelli regali e dalle policrome ali del pavone (proprio a ribadire questa loro «regalità astrale»); oppure quell’assorto san Michele
del Giudizio Universale di Rogier van der Weyden, la cui implacabile giustizia è addolcita da riverberi preziosi di sete, gioielli e dalle
ocellanti ali ingemmate di luce.
Tuttavia, è interessante anche notare una contraddizione nell’attribuzione delle pietre stesse, che, secondo la loro simbologia cromatica, non sempre corrispondono al colore assegnato all’angelo.
Così, se i Serafini sono rossi, la sardonica a essi corrispondente è
una pietra dura venata di nero, bianco e rosso; ai Cherubini, azzurri, corrisponde il topazio (giallo), ai Troni, gialli, invece il diaspro, che
è verde con macchie rosse come di sangue vivo.
In generale, anche l’attribuzione cromatica agli ordini angelici è
molto variabile, tranne che per i Cherubini e i Serafini, che sono
sempre azzurri e rossi, mentre i Troni, per esempio – benché Kirschbaum li indichi con il colore giallo –, sono iconograficamente molto
variati, e se il Guariento li ritrae seduti in cerchi concentrici di arcobaleno, con rami gigliati, nel Battistero di Firenze sono invece rappresentati in veste talare con una mandorla azzurra. L’iconografia
può dunque variare, ma Bussagli afferma che la monocromia rappresenta una costante, e sta sempre a indicare l’appartenenza ai primi tre ordini, siano essi blu, rosso, verde o viola pallido. I parametri cromatici sono dunque generici, e tuttavia, come abbiamo visto,
con alcune varianti che servono a stabilire una sintassi simbolicocromatica, fermo restando che l’attribuzione cromatica riveste sempre un significato di «umanizzazione», cioè di una resa epifanica del
sacro, «tradotto» dal colore nella gamma percettiva ed emozionale
umana113.
Vieni ti mostrerò la sposa […] e mi mostrò la città santa, Gerusalemme che scendeva dal cielo da (presso) Dio. […] Le fondamenta della muraglia della città (sono) adorne d’ogni sorta di pietre preziose: il primo fondamento (è) diaspro, il secondo zaffiro, il
terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto sardonico, il sesto
sardo, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo crisopazio, l’undecimo giacinto, il dodicesimo ametista114.
212
INTRODUZIONE
La mistica delle pietre preziose si riverbera dunque anche nella Città
futura, e si riferisce, ancora, al perduto Paradiso che già in Ezechiele
(XXVIII, 11-16) risplendeva nel colore solidificato delle pietre preziose. La mutevole apparenza del colore così diventa «eterna» sposandosi
– jeròs gámos di fuoco – alla luce, come bene si conviene all’eternità
del Paradiso.
Una Natura, quella paradisiaca, forse davvero capace di retorica,
consapevole di stile, esperta in citazioni 115, se è in grado di rispecchiare l’universo naturale in quello minerale in revisioni sempre più
sofisticate, trasformando il giardino edenico da granaio di profumi
e colori in paesaggio ingemmato, luogo archetipico di metamorfosi.
Tale è il Paradiso di fiaba delle Metamorfosi di Piktor di Herman
Hesse:
S’accorse infatti che tutt’attorno a lui, nel paradiso, gran parte
delle creature si metamorfosava con grande frequenza e che anzi tutto quanto fluiva in una magica corrente di eterna trasformazione. Vedeva fiori diventare pietre preziose oppure volarsene via
quali frullanti uccelli. Accanto a lui, d’un tratto più di un albero
scompariva: era defluito in sorgente, e quell’altro era divenuto
coccodrillo […]116.
Ma è certo che, dopo aver imitato il modello del giardino-paradiso
islamico, vero scrigno di gioielli, anche il Paradiso cristiano, lastricato di pietre preziose, si assimila sempre più alla Gerusalemme
Celeste: diviene castello, città, in cui le mirabilia vegetali e animali
lasciano sempre più spazio alle mirabilia urbane:
si era un castello molto bello e molto bene murato d’intorno di
pietre preziose tutte chiare come oro, ed eravi torri e torricelli tutti molto ben fatti. Le porte […] mezzo d’oro e mezzo d’ariento […],
le vie d’intorno e lle case comunali e palagi grandi molto ben lavorati dentro e fuori che sarebbe cosa impossibile a ddirlo117.
Dall’idea di giardino-paradiso si passa dunque a quella della Città
futura, quella Gerusalemme Celeste «città armoniosa» per eccellenza, luogo paradisiaco e beato, proiezione eterna del perduto Paradiso
Terrestre, mondo intermedio tra terra e cielo dove regna un’armonia
di luce e colori, in un quadro di eterna primavera.
Le Goff nota giustamente la sua posizione escatologica eccezionale: «non so se sia mai stato sottolineato il fatto che la tradizione
giudaico-cristiana, partita da un concetto di Paradiso originale tutto naturale, tale da proporre all’umanità come prospettiva di felicità
213
INTRODUZIONE
paradisiaca – intesa come ritorno alle origini, all’era dell’oro cristiana – l’immagine di un giardino, l’ha a poco a poco sostituita con
quella di una città […]», così «[…] il futuro eterno dell’umanità, la cornice in cui si collocano i suoi ultimi giorni felici è una città». Ed è sulla visione della Città eterna, così come appare nel Libro di Isaia (LVI,
11) che si chiude l’intera Bibbia
E le dodici porte son dodici perle, una per una: ognuna delle perle era una porta sola. E la piazza della città, oro puro come vetro
trasparente118.
APOCALISSE, XXI E SS.
Una Città «futura», eterna, dunque ci attende, con porte di perla e
alberi di corallo?
La perla, fiore del mare (detta anche margarita) è infatti attributo angelico di perfezione, riflesso di quella luce intellettuale nel cuore che la visione beatifica concresce, appunto come perla, attorno
agli angeli. Davvero «grano metafisico», condensazione di ogni valore, goccia di latte astrale, per Claudel solidificazione della coscienza, l’astrazione fino alla luce di tutti i colori, una concezione immacolata, che ci significa, nel suo tranquillo splendore, la sublimazione degli istinti e la spiritualizzazione della materia. Essa è «stella polare» perfetta liberatasi da ogni effimero dell’essere, aurora eternata che apre l’accesso all’eterna beatitudine della Gerusalemme Celeste, come sposa angelicata, ingemmata, poiché, infatti, la perla,
che anticamente era legata alla sfera della fecondità essendo dedicata ad Afrodite (che come «perla» vivente era sorta dalla conchiglia
delle acque del mare), era considerata femminile e lunare119.
È questa «verginità angelica», la cui luce non è più il fulgore tagliente di minerale, ma tenerezza intima, del rotondo, rosato, chiarore senza ombra alcuna, non può che emanare il suo oriente luminescente delle creature angeliche, insieme a quell’altra straordinaria concrezione in cui convergono il regno vegetale quello minerale e quello animale: il corallo! E se la perla, seppure frutto del mare, in sé prefigura anagogicamente il cielo in quanto «immacolata,
pura e chiara e infinitamente rotonda e di tonalità luminosa», il corallo, sangue della Medusa, partecipa sia del simbolismo dell’albero (asse del mondo), sia di quello delle acque profonde (origine del
mondo), nonché di quello del sangue, del cui colore anche si tinge.
Secondo la sua attribuzione magico-simbolica, il corallo aveva il
potere di preservare dall’epilessia, curare punture velenose e prevenire dal fulmine, per questo i monili fatti con rametti di corallo
erano donati tradizionalmente ai neonati come amuleti e talismani
214
INTRODUZIONE
portafortuna. E forse proprio per quel suo carattere «arborescente»
– che lo rende l’anello prezioso della catena simbolica che da una
parte si collega all’edenico albero della vita e dall’altra al cervo (suo
doppione animale), ma che anche sembra rappresentare la vitale e
«rossa» arborescenza delle vene del corpo –, questo monile spesso si
trova al collo di Santi Bambini, come quello della Madonna di Senigallia, o quello della Pala di Brera, amorosamente dipinti da Piero
della Francesca?120
La simbolica stratificata delle pietre preziose, dunque, in numerose risonanze ci riporta al sogno paradisiaco che trascorre dal giardino originario, l’Eden, alla Gerusalemme Celeste, tutta di gemme
e d’oro, e in cui del giardino rimane soltanto l’Albero della Vita, che
ogni mese dà il suo frutto e guarisce con le sue foglie. Luogo del
beato ritorno, ormai in forma di città (a base quadrata), è la Città armoniosa e non più figura di un ritrovato Paradiso tutto naturale.
Non è più tesa al «grembo originario» l’utopia del ritorno, ma a una
cinta muraria, seppure splendente della felicità della conoscenza
divina. Il percorso iconografico e simbolico del giardino-paradiso
quindi trasmigra dalla sua primaria topografia edenica circolare e
protetta da cinta che rimanda ai significanti femminili materni della Grande Dea, al futuro paradiso-città a pianta quadrata, che si riconosce nel potere ordinatorio e paterno del Logos, segnando quindi il passaggio dal mondo della Natura a quello della Cultura121. Come nota Mc Clung, in linea generale si può affermare che, in quanto appartenente a un passato, il giardino paradisiaco è arcadico e
ubertoso; in quanto proiettato verso il futuro, nel compimento della storia, è racchiuso nella città, anzi diventa esso stesso città. La
storia del Paradiso sarebbe allora la storia della perdita della fede
nella possibilità di una natura pastorale, cioè non artefatta, benigna senza riserve, limitazioni o minacce, e invece l’istituirsi e il rafforzarsi di un ideale urbano e civilizzato, sempre più distante dalla naturalità originaria. Si evidenzierebbe cioè un passaggio dal «regime materno», di Natura – che si simbolizza nel «rotondo» uterino
del giardino recintato –, al regime paterno, di Cultura, che si traduce nella geometria angolare della Gerusalemme Celeste122.
E questa città-gioiello, assimilata alla sposa che sfoggia tutti i suoi
ornamenti, rivela come nell’ideogramma «città» si costituisca un immaginario utopico e fiabesco, che si riflette in quel mondo dipinto di
luce che è la cattedrale, le cui vetrate, gioielli di cristallo, sono davvero porta verso la Luce. Qui, per la prima volta, sembra che sia la
materia stessa a essere luminosa, e, infatti, la luce che diffonde la
cattedrale non sembra affatto provenire dall’esterno, ma come zam-
215
INTRODUZIONE
pillare da sorgente segreta. Se ne volessimo descrivere fedelmente
l’effetto, bisognerebbe dire: «la luce si propaga dalle pareti stesse, le
pareti brillano» in un accordo di mistica armonia luce-colore123.
[…] a quella vetrata d’ostensorio che un’arpa sfiora,
un’arpa formata dall’Angelo col suo volo della sera [...]124.
S. MALLARMÉ
Affascinante caleidoscopio di colori che trascolorano ai diversi tocchi
della luce, tessitura di trasparenze e riflessi, barbagli e scintillii, così come la pietra era portatrice di un significato per chi fosse capace
di innalzarsi verso l’immateriale mondo dello spirito, attraverso la
contemplazione dei suoi colori splendenti (giacché la luce è attributo stesso di Dio), ancor più la superficie di vetro, vibrante luce incastonata nel gioiello figurato della vetrata stessa, è messaggio, anzi
qualcosa di più, un’autentica lezione divina: «Le pitture sono per i laici (per gli illetterati cioè) lezioni e scritture. Le vetrate sono scritture
divine che versano la chiarezza del vero sole (cioè di Dio) nell’interno
della chiesa, vale a dire, illuminandoli nel cuore dei fedeli»125.
Nel suo privilegio di essere pittura luminosa, la vetrata, nuova arte della luce, è «icona» che fa percepire immediatamente lo splendore della Città di Dio, rendendo accessibile ai sensi ciò che nessun occhio umano vedrà mai; e poiché questa è davvero «realmente un cristallo» – sia per la sua sostanza diafana, incorruttibile e luminosa,
che per la forma, essendo infatti la «cristallizzazione», nell’eterno presente, di tutto ciò che il divenire (il mondo del mutamento e del tempo) comporta, imperiture quintessenze –, nella chiesa illuminata da
vetrate si poteva riconoscere la città splendente che «scendeva dal
cielo appresso Dio avendo la gloria di Dio» e la cui luce era «simile a
pietra preziosissima, a guisa di una pietra di diaspro cristallino»126.
Le sue pareti diafane e brillanti richiamavano alla mente il «muro costruito di diaspro» e «la città d’oro puro simile a vetro puro». E nelle
scintillanti vetrate incastonate nelle mura, si ritrovavano le pietre
preziose evocate dalla Bibbia. «Nelle vetrate, insomma, si doveva vedere qualcosa di sacro e insieme di favoloso, una pittura che univa
il potere delle gemme decantate nei Lapidaria (trattati sulle virtù soprannaturali delle pietre) con la proprietà meravigliosa di poter essere traversata e quasi compenetrata da una sostanza estranea, la
luce, senza esserne modificata»127. Così Enrico Castelnuovo, nel suo
bel libro dedicato alle vetrate, nota come queste avessero trasformato la chiesa in qualcosa di molto simile alla Gerusalemme
Celeste di cui si profetizza nell’Apocalisse, e in cui fin dai tempi più
216
INTRODUZIONE
antichi le chiese cristiane avevano cercato un modello, evocando nel
contempo il giardino di Dio nell’Eden, certo come quel tapis eblouissant et doré de myosotis en verre (tappeto vetroso, scintillante e dorato, di myosotis) che faceva apparire al giovane Proust la chiesa di
Combray come bloccata in un’eterna primavera, in quella trama della dolce tappezzeria di vetro dai riflessi azzurri e obliqui di un azzurro
che è promessa d’angeli 128, che lo sguardo, seguendo l’oscillazione di
un sorriso momentaneo di sole, modulava «in una pioggia fantastica e fiammeggiante che gocciolava dall’alto della volta oscura», o che
animava in preziose e instabili figure di luce:
attraverso il vetro di volta in volta spento e riacceso in instabile e
prezioso incendio, l’attimo dopo essa aveva preso il fulgore d’una
coda di pavone. […] dopo un minuto le piccole lastre a losanghe
avevan preso la trasparenza profonda, la durezza infrangibile di
zaffiri che fossero stati giustapposti su un immenso pettorale, ma
dietro i quali si sentiva, più caro di tutte quelle ricchezze, un fuggevole sorriso di sole […]129.
Il colore-luce della vetrata dissolve lo spessore dei materiali, contraddicendo la sua stessa vocazione di barriera, di chiusura, e prepara il profano alla promessa, all’alba luminosa della Rivelazione. Lo
stesso colore inverte qui la sua direzione e, dalla materia «conduce
alla luce», secondo un riattivarsi dalla simbolica ascensionale.
Attraverso la finestra, che mette in comunicazione due mondi, e
negli oculi vetrati in cui la luce è eternata nella trappola della trasparenza, in piscine di luce dove angeli e santi navigano à la renverse, si dispiega un teatro del sogno. Sulle pareti, sul pavimento
fattosi tappeto di luce, si disegna una topologia fantastica che ripartisce dialetticamente il visibile e l’invisibile. Quasi lanterna magica ante litteram, il racconto figurale della vetrata si «proietta» sullo schermo della pietra la quale diviene così, da un lato, un fascio
di raggi, scompostamente indecifrabili, dall’altro superficie dove si
realizza la Rivelazione. Il puro colore si sustanzia in immagine, il
corpo mistico si manifesta come corpo iconografico130.
Certo, come sostiene Bachelard, nei cristalli e nelle pietre preziose convergono due forme di immaginazione, una aerea (di ascesa), e una terrestre (di profondità), in un vitale intrecciarsi dinamico della danza dell’immaginario. Nei cristalli, grazie a un vincolo invisibile, i colori del cielo vengono conservati sulla terra. È possibile sognare in modo aereo l’azzurro dello zaffiro, come se la pietra fosse una concentrazione dell’azzurro del cielo; è possibile sognare in
modo aereo il fuoco del topazio, come se esistesse un rapporto sim-
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INTRODUZIONE
patetico con il sole calante. Si può sognare in modo terrestre l’azzurro del cielo immaginando di condensarlo nel cavo della propria
mano, divenuto zaffiro131.
Sì, davvero, anch’io amo che il colore mi conduca alla luce come
fanno le vetrate e le vecchie liturgie, e amo affacciarmi alla finestra
dei colori per esplorare i bulinanti raggi tra germogli di tenebre.
Al fondo del mio giardino
questa sera ci sarà
una Luce.
[…]
Fra l’apiombo dei rami,
ci saranno stasera,
alla Luce dintorno,
gridi d’uccelli cesellati in capolavori132.
M. LAGRANGE
218
INTRODUZIONE
Capitolo VIII
IL RITORNO DELL’ANGELO
Creatura d’Elisio! Chioma solelucente
occhi fondomare, azzurromare:
Spirito di Letizia, che t’induce
sotto cieli imbronciati? 1
E. BRONTË
Il problema di Satana preoccupa i nostri contemporanei. Il satanismo incide pesantemente sulla cultura di transizione che caratterizza la nostra epoca, indubbiamente più marcata dalle tenebre dell’angoscia che dalla luce della speranza. Satana è presente nella letteratura, nel cinema, nelle credenze degli «atei» di questa composita e metamorfica società di fine millennio. E l’Angelo?
Nonostante la fioritura di apparizioni di «angeli custodi» che sembrano una via di mezzo tra le immagini dei santini trinati della nostra infanzia, e quelle degli agenti di qualche celeste compagnia di
assicurazione, certamente la presenza dell’angelo nella nostra caotica quotidianità, priva di silenzi e di azzurri, è molto timida e, probabilmente, sconsolata. Come quei malinconici e languidi angeli simbolisti evocati da Mallarmé angeli del giardino e del crepuscolo, solitari cantori lunari di un ormai lontanissimo splendore:
Intristiva la luna. Serafini in lacrime
sognando, l’archetto alzato nella calma
dei fiori vaporosi,
rapivano da moribonde viole bianchi
singhiozzi, in un glissando sull’azzurro
delle corolle […]2.
Perché, ahimè, chi può oggi, fra la cacofonia davvero «dia-bolica» di
una vita sempre più accelerata e purtuttavia insoddisfacente che ci
separa da noi stessi, ascoltare «il brusio delle ali dell’angelo», messaggero del silenzio delle vaste azzurrità dell’anima?
Eppure, l’imago mundi che l’angelologia ci trasmette è fondamento di quel mundus imaginalis senza il quale il nostro sguardo interiore
si inaridisce e si dissecca come landa desertica deprivata di senso.
Ma sempre ritornano gli angeli recando sfere di cielo!3
219
INTRODUZIONE
Molteplici sono i volti dell’Angelo, che è riflesso del Volto divino e come prisma invaso da luce ne riflette e scompone in vari fasci colorati i molteplici irraggiamenti.
L’Angelo non è soltanto messaggero, egli è l’intermediario tra Dio
e l’uomo, è il mal’äk Yahweh, «l’inviato di Dio» con funzioni dello stesso Yahweh, ipostasi del lato di questi volto all’uomo, che nella sua
molteplice epifania indica un processo di differenziazione della personalità divina. Nella sua «creaturalità» egli è un «essere espressione» dell’immanenza alla divinità, così da permettere un rapporto con
la sfera divina senza comprometterne la trascendenza.
Vi sono angeli messaggeri e angeli guardiani, mediatori di Dio nel
mondo, spiriti-anima che partecipano del sensibile e sono il frutto
di un’angelologia elaborata sul modello iraniano che oppone i due
principi personali del Bene e del Male, di Luce e di Tenebra; astriangeli che costituiscono l’armata dei cieli nei testi poetici della
Bibbia, nelle liturgie di Qumrân, negli apocrifi di Enoch, angeli segnati dal sigillo del nome proprio, inviati diretti di Yahweh, come
Michele, Raffaele o Gabriele, e, infine, i più umili e dolci, «anonimi»,
angeli custodi preposti alla cura di ciascun fedele4.
Ora, certamente, l’Angelo è l’immagine di Dio, manifestazione del
Suo Volto, specchio puro limpidissimo, la cui faglia incorrotta ritrasmette tutta la gloria divina, eppure, potremmo chiederci giustamente come è possibile che il Signore, che è senza volto, possa riflettersi in uno specchio. Come, può, l’Invisibile, l’Absconditum tradursi in immagine? Donde nasce questo enigma dell’angelo? Il problema dell’angelo attraversa tutta la nostra storia, ed è davvero anche un nodo culturale che implica la necessità di una profonda riflessione sul rapporto fra l’umano e il trascendente, fra gli esseri «di
terra» (formati con la terra e che vivono sulla terra), e gli esseri «di
luce» o – come dice il Talmud ebraico – fra quelli «di sotto» e quelli
«di sopra», così che la gerarchia angelica si fa mediatrice fra il sensibile e l’intelligibile. Portatori di una parola divina (Logoï ), gli angeli
salgono e discendono tra il Creatore e il mondo, giacché essi stessi «sono» parole divine, anime immateriali per essenza, puri riflessi del Logos 5.
Come colui che collega la capacità con l’incorruttibilità, che coniuga il tempo con l’eternità per speculum et in aenigmate, l’Angelo si precipita nel nostro mondo attraverso il varco della bellezza.
Come negare la sua sconcertante apparizione, davvero «meravigliosa»
e perturbante, per quel suo insinuare una lama di metafisica inconoscibilità nel mondo della pretesa realtà, demistificando ogni nostra materialistica certezza? E sembra parlare degli angeli Elvio Fa-
220
INTRODUZIONE
chinelli nelle sue riflessioni sulla «mente estatica» e di come nella loro epifania si denunci la «miseria incurabile della teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime
sin dal principio», giacché, per ascoltarli, occorre «accogliere chi?
Un ospite – interno». E oltre «il territorio della mistica. Non la religione istituita. Ma la mistica come zona irriducibile, inassimilabile,
refrattaria alla religione stessa. Apex mentis. Mistica che nello stesso tempo è rapporto percettivo, percezione possibile ad alcuni se non
comune a tutti. […] Le cose che vengono da un’altra parte, come un
accento imprevisto che muta, che sposta l’intera figura. […] Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia»6.
Gli Angeli sono tutti tremendi. Eppure, ahimè,
io invoco voi, uccelli d’anima, che quasi fate morire,
pur sapendovi […].
R.M. RILKE
Chi siete voi dunque? Certo da noi inesorabilmente «Altri», specula verso il cielo rivolti, forse assorti, nella contemplazione di voi stessi:
specchi: la bellezza che da voi defluisce
la riattingete nei vostri volti.
R.M. RILKE
Soltanto ci fate pervenire pallidi riflessi di quel fulgore a noi inattingibile, e che ci esilia – noi, per cui sentire è anche svanire –, eppure nello stesso tempo ci accende!
[…] e la bellezza
oh, chi la trattiene? Sul volto la sembianza
sorge e spare senza posa. Come rugiada dell’erba novella
quel che è nostro svapora da noi […]7.
R.M. RILKE
Nelle vostre molteplici epifanie figurali, stella, uccello-anima, apis sophiae, scala celeste, arcobaleno, prisma diffrangente dalla Luce divina, voi, Angeli, attraversate lo spettro dei significati e l’angelologia
si dilata alle dimensioni di un sistema cosmologico e investe dell’irraggiarsi dei suoi significanti i ciottoli della nostra esistenza, riassumendo in sé tutte le molteplici epifanie mitico-simboliche della luce,
secondo una permanenza figurale che salda l’esperienza mistica a
quella mitica. Infatti il cammino dell’esperienza mitica verso l’esperienza mistica comporterebbe una progressiva demolizione delle
221
INTRODUZIONE
strutture ontologiche che danno forma al mondo empirico, e inversamente, una costruzione di strutture mistiche che si allontanano
dalle forme naturali. Scholem infatti scrive che «quasi tutti i mistici
da noi conosciuti descrivono queste strutture come configurazioni di
luci o di suoni, che peraltro vengono a loro volta dissolte e sostituite
dall’amorfo, quando l’esperienza mistica procede ulteriormente»8.
L’Angelo si porrebbe dunque davvero in uno «spazio di mezzo» tra
la raffigurabilità propria del mito e la trascendenza mistica, tra la partecipazione alla realtà sensitiva della physis e l’ineffabilità mentaliz~ma e nou
~s, eternamente abitante del
zata della psyché, «ponte» tra so
limite, in transito tra visibile e invisibile. Possiamo concordare quindi
con Giulio Corrivetti per come l’ermeneutica angelologica proponga
oggi anche temi e suggestioni particolarmente in linea con le intersezioni attuali tra psicologia, filosofia, antropologia di fine secolo, suggerendo accostamenti e sviluppi in aree tematiche di grande coinvolgimento e interesse psicologico-antropologico. Si pensi, per esempio,
al «rapporto mente-corpo» che storicamente si caratterizza come dibattito sui rapporti tra Io e cervello, secondo prospettive sia filosofiche
che biologiche e psicologiche, alla ricerca di un recupero di un concetto ontologico dell’uomo. Il «tema dell’invisibile» in relazione a una
condizione particolare della comprensione umana detta anticipazione
(ossia anticipazione dell’invisibile come qualcosa che non c’è ancora,
che non si dà ancora alla nostra coscienza, ma che può compiersi come «intuizione rappresentazionale linguistico-simbolica», così come,
per esempio, avviene nelle anticipazioni artistiche, nell’atto creativo, o
nei rapporti di comunicazione interpersonale, dove l’interazione sui
vari livelli anche non linguistici permette una percezione anticipata
della risposta. Anticipazione, del resto, insita in ogni progettualità che
si proietta verso un futuro possibile) o la «trasformazionalità» – (come
capacità di vivere una «disidentità», superando la dimensione panica
di perdita, di «un non essere più, ma non essere ancora», realizzando
una dinamica capacità di autotrasformazione che nell’incontro-scontro con l’Angelo diviene illuminazione trasfigurativa, espressione della
com-prensione) – e il con-fine, tópos marcato del significato di «limite»,
di demarcazione tra due aree, due realtà, e, nell’evocazione degli angeli, tra due mondi, quello della realtà, da sollecitare con una particolare condizione della coscienza di noi stessi, dell’universo che ci circonda e dei rapporti che attraversano questi mondi9.
L’Angelo non è soltanto «figura» significante dell’universo religioso, messaggero e interprete insieme della Parola divina: «laicamente» egli è l’ermeneuta delle dimensioni dell’invisibile, di un universo
oltre-mondano, di un al-di-là del percettibile che affonda le sue ra-
222
INTRODUZIONE
dici nell’ineffabile, psicologicamente potremmo dire nell’inconscio. Si
rivela quindi comunque rappresentazione figurale di un «altrove» sia
esso percepito come oltre-mondano o oltre-psichico. Come la poesia
– di cui del resto si fa icona vivente –, l’angelo abita le frontiere dell’impercettibile. L’angelo «alato» si slancia oltre i margini dei sensi,
nidifica negli intervalli. Grumo di cielo, incandescenza che si gela,
nebulosa che si coagula10, egli si concretizza in lampi di visibilità, davvero fosfemi d’anima, carichi di presagi d’infinito.
Nella sua diffrazione luminosa, l’Angelo impunemente percorre
lo spettro cromatico, dove tra «colori inevitabili» scintillano dei «cromatismi mai visti»11. Egli evade verso gli ultra e gli infra-confini. Tra
il rosso e l’arancio, tra l’indaco e il violetto, sfumature inafferrabili; al di là del violetto e al di qua del rosso: dei colori evitano il nostro sguardo, eppure tessono l’invisibile trama su cui si ricama l’arazzo del volo angelico.
Quando la porta angelica fiammante affollata di liuti è dischiusa12
W.B. YEATS
anche i suoni fuggono, dietro la gamma grossolana dei semi-toni,
simmetricamente verso gli infra e ultra-confini, a comporre quel
«brusio delle ali degli angeli» che s’inscrive sul pentagramma paradisiaco di un sovrumano silenzio. Un silenzio che non è certo quello di sudario dell’eterna assenza infernale (l’enfer, c’est absence
eternelle esclama Victor Hugo13) – e che è invece contrappuntisticamente marcato dalla cacofonia tumultuosa della disperazione – e
nemmeno quel silenzio di pece, di lapidario che assale la desertica
solitudine dell’uomo lontano dalla sua creaturale armonia, che è:
Durissimo silenzio
tra noi uomini e il cielo,
arido
per aridità di mente
o scomparsa degli angeli
rientrati nel Verbo, muti,
alla sorgente […]14
M. LUZI
bensì un fiorito silenzio intessuto di un’armonia musicale «dia-logante» che ne informa la struttura e che opera il miracolo di una
spirituale trasformazione del numerus sonorus delle Sfere, dell’astrale necessità de li etterni giri. A questa musica si contrappone
quella satanica, il cui apice tuttavia è l’assoluto silenzio, la deserti-
223
INTRODUZIONE
ca assenza di voce che regna nel fondo dell’Inferno. Questo silenzio
assoluto è simmetrico e opposto all’ineffabile inimmaginabile, ultrasensoriale armonia di luce che struttura il Paradiso, e «l’universo
appare abbracciato tra questi due silenzi»15.
Così, nello sfaccettarsi dei suoni planetari che si riverberano nell’eptacordo cromatico s’ingranisce lo «splendore profondo, sontuoso dei colori, dei suoni. Non più accompagnamento, sostegno delle
cose. Sono la loro anima nuova, venature profonde diventate ora visibili. Offerte»16.
E l’angelo Israfel, le corde del cui cuore sono un liuto, e ha voce
dolcissima fra tutti gli esseri creati da Dio17.
Invero, l’Angelo che Cacciari evoca come «ermeneuta del silenzio dei
mondi superiori», icona dell’invisibilità è tuttavia anche «uccel divino» che dispiega «balzachianamente» il suo canto di luce:
La luce generava la melodia, la melodia generava la luce. I colori
erano luce e melodia, il movimento era un numero della Parola.
Tutto era sonoro e diafano e mobile insieme18.
H. DE BALZAC
Potremmo usare per lui la stessa immagine sonora che Shelley dedica all’allodola:
Non versa l’arcobaleno
gocce tanto lucenti
come piovon da te melodie19
e, poiché il numero, come misura e sinonimo di armonia, costituisce la pietra angolare su cui Dio ha costruito l’universo (Ma tu hai
disposto tutto con misura numero e peso, Sapienza, IX, 20), gli Angeli musicanti rappresentano il segno indelebile nell’economia della creazione e della continua presenza divina nell’economia della
salvazione20.
Abbiamo già definito l’angelo, «scala» dei valori cromatici, ma anche di quelli sonori, quindi, e di ogni altra misura, peso e dimensione; egli percorre l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Enorme e terribile, nella Bibbia sconvolge l’umana misura:
E vidi un angelo forte scender dal cielo, ravvolto in una nuvola, e
l’arcobaleno (era) sul suo capo e il volto (era) come il sole, e i suoi
piedi come colonne di fuoco, e aveva nella sua mano un libricino
aperto. E posò il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra, e
224
INTRODUZIONE
gridò a gran voce, come quando rugge il leone, E poi che ebbe gridato, parlarono i sette tuoni (con) le loro voci21.
Ma, avendo descritto le analogie funzionali che uniscono l’angelo e
la luce, nei fenomeni di irraggiamento, di proiezione, di colorazione,
avendolo dichiarato «essere di luce», il suo corpo, per una sorta di
esasperazione metaforica, non potrebbe forse considerarsi come l’iperbole figurata di quel einsteniano corpuscolo chiamato «fotone»?
Questa ipotesi, avanzata da Cocteau, è indubbiamente intrigante,
e peraltro non contrasta con quanto da noi detto finora a proposito dell’angelo-luce, dell’angelo-arcobaleno. E allora, l’Angelo si raggruma in seme di cielo, in favilla di brace sofianica, mélissa dei nettari della luce, e il movimento ondulatorio delle sue apparizioni-sparizioni lo riduce a un vertiginoso granello di luce veritiera che l’occhio distratto dell’anima soltanto a momenti cattura e riproietta
sullo schermo della percettibile visibilità:
E la mia sorpresa era dovuta
soprattutto al modo
in cui queste bizzarre creature
apparivano sparivano
mai andando da un luogo
ad un altro ma sempre
all’improvviso sorgendo22.
J. COCTEAU
Il suo continuo e rapido movimento, come di lampo, tra il visibile e
l’invisibile gli garantirebbe certo l’invisibilità, tuttavia, in questo suo
affaccendarsi tra mondi paralleli, l’angelo si è dovuto rivestire di
una «visibilità», secondo una «sospetta» rappresentazione inventata dalla necessità dei sensi, un «simulacro» necessario seppur ambiguo, trompe-l’œil ingenuo che lo costringe alla misura della finitudine umana:
Sapendo che gli occorreva prendere
affinché lo vedessi
l’aspetto in cui l’arte ci mostra
le dee e gli dèi
egli inalberava di volta in volta
i travestimenti classici
dell’invisibilità23.
J. COCTEAU
Ingabbiato ormai in questa icona d’ali, purtuttavia, per smagliature significanti, egli ancora evade alla macchina rappresentativa e si
225
INTRODUZIONE
professa eterno viaggiatore tra i due piani dell’essere, mediatore del
senso, «ermeneuta» di un «altrove» ineludibile all’esperienza umana,
interpres di un’inestinguibile conato di indicibilità, di un inestirpabile bisogno di mistero, che lo strappa alla forma che lo chiude:
Con un cenno della fronte respinge
lungi da sé ogni vincolo, ogni limite
perché per il suo cuore passa alto e immenso il cielo
degli eventi che ricorrono eterni24.
R.M. RILKE
Egli infatti, è latore del mistero, della «cifra» del desiderio inappagato e inappagabile di una suprema conoscenza, dello svelamento del
senso supremo. In lui si ri-vela, nel duplice movimento di svelamento
e di ri-occultamento, un linguaggio sommerso dall’imperialismo della percezione. Un poliedrico linguaggio-luce (In ogni parola brillano
mille luci, sostiene lo Zohar 25); un polifonico linguaggio «di fuoco» che
si struttura nella sintassi dell’aspirazione all’ascesa e alla trasfigurazione. Giacché da sempre l’uomo ha preteso ingannare l’attrazione
centripeta della gravità materica del corpo, evadendo con il pensiero
e l’immaginazione verso infiniti alati e la simbolica della luce si è fatta mediatrice tra il mondo della materia e quello dello spirito, fosse
pure il fuoco personificato in Agni, e mediatore divino, o il lampo fugace delle ali di Hermes, proteso al volo, o s’ingranisse negli ocelli
gemmati delle ali angeliche, o, infine, s’increasse linguaggio divino!
È dunque linguaggio iconico, l’Angelo? Messaggero e traduttore
~ma divino, fecondatore dell’universo
della Parola, che è fuoco e so
del pensiero. Su di lui convergono tutti gli antichi simboli uranici e
luminosi a costituire una catena significante che unisce cielo e terra, tanto che l’immaginario da sempre lo adorna di corone, aureole, spade, ali atte a colmare la faglia tra i due mondi e lo riveste di
colori a squadernare tutta la gamma dei sentimenti umani che su
di lui si riverberano. E così anche la sua apparizione varia, come
varia la storia dell’immaginario dell’uomo e trapassa dall’Angelo
«crepuscolare» e terribile della Bibbia: «testimone dello scandalo della separazione tra Dio e il suo popolo, terribile come fuoco divoratore, rosso-cupo rubino e ametista della notte, […] è messaggero di
tutti, catastrofi, punizioni per l’umanità che vive il peccato della storia e nella vacua superbia del proprio sapere», alla trascolorante
nuova fisionomia di fulgido candore, addolcita dall’aurora di speranza che si inaugura con i Vangeli, dove la sua apparizione «eleva
nei chiarori della luce, perché ogni messaggio dell’angelo reca gioia
di nascite e resurrezioni»26.
226
INTRODUZIONE
L’Angelo si protende così verso Maria, le ali palpitanti come vivente arcobaleno, nell’annuncio davvero fatale: «Il suo corpo, come
innamorato, si innalza e trema come arcobaleno. Non sa ancora dove si poserà, né in quale senso andrà, né di quale tinta si colorerà.
Lo stato corporale che precede l’entrata di una idea nella sua espressione detta, comincia con l’aurora boreale di una sorta di totalità dispiegata a ventaglio […]» e le sue ali si colorano di tutte le tinte, di
cui una sola resterà27.
Il «discorso» che si intesse fra il protendersi dell’Angelo e lo speculare movimento vergineo tratteggia e definisce lo spazio aurorale
dell’evento che nella creaturalità del corpo si fa patria della parola.
La mia ala è pronta al volo,
ritorno volentieri indietro,
poiché se restassi per tempo vitale,
avrei poca fortuna.
Questa citazione dei versi di G. Scholem apre il capitoletto dedicato da Benjamin all’Angelus novus, titolo di un quadro di Klee: «Vi si
trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su
cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali
distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una
sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è
impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui
volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al
cielo, Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa tempesta»28.
L’Angelus novus, dunque, è l’Angelo della storia al cui sguardo
non si offrono che le rovine e le catastrofi del passato; è l’esegeta di
una dimensione del tempo, inarrestabile, che si frammenta in infiniti segmenti lineari fino al dispiegarsi apocalittico della storia. Egli
è turbato davanti alle ferite del dolore umano, davanti alla frustrazione della storia, all’infelicità che ne deriva; tutto questo disturba
la sua missione «angelica» di innalzare inni di gloria dinanzi al trono di Dio, così che ristà, stupefatto e assorto quale appunto lo coglie il disegno di Klee29.
Ma «come è possibile conoscere ciò che mai sta» e dargli un volto
e un nome che lo «dica»? E, infine, l’angelo soltanto «rappresenta»,
«trasmette», oppure «è»? Cacciari afferma che l’Angelus novus «è dunque per così dire, l’immagine dell’Angelo immanente all’individualità
227
INTRODUZIONE
più singola e irrepetibile della creatura. […] Il simbolismo del passaggio, essenziale in ogni angelologia, viene qui a coincidere con la
stessa icona dell’Angelo. Non più l’Angelo “passa”, trasmette, intercede, ma egli stesso è passaggio»30.
Figura dell’istante che è bloccato nella sua irrepetibile singolarità, l’Angelo già si precipita nella storia, entra nella temporalità,
quando, come Angelo-Spirito Santo, Gabriele, nell’Annuncio a Maria, egli «dice» l’Evento messianico e fonda la novella dimensione
della Storia. Egli, l’Angelo nunziante, non soltanto «trasmette» ma
«è» anche l’evento che si eternizza nella «parola» che viene qui a
coincidere con la stessa icona dell’angelo, a fondamento di un tempo della crisi che coincide con il tempo del ritorno, tempo del desiderio e dello stupore,
Gli angeli tutti sono presi da un nuovo turbamento
quello stupore palpitante colto da Rilke nel suo Angelo nunziante
che sembra sorpreso nell’atto di frenare il vertiginoso volo (forse in
un vorticare rosso-oro delle vesti, dei capelli e delle piume, come
l’angelo di Grünewald davanti al quale si ritrae una biondissima
Vergine ancora quasi bambina?)31:
[…]
(mi ha preso la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta,
[…].
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno ad aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta32.
Nunzio di vita, nella sua funzione teofania ed ermeneutica, messaggero di luce e nocchiero di un «tramite» verso la luce, l’Angelo
della Vita è anche tuttavia l’Angelo della Morte, e se gli antichi raffiguravano sia Eros che Thanatos alati, e come rispecchiantisi l’uno nell’altro, così anche l’Angelo, simbolo metamorfico del cambiamento, è metafora dell’uno e dell’altro! Egli, il Nunziante, il messaggero, è symbolon della perduta gioia, ma anche garante di un
suo possibile recupero, seppure attraverso un percorso di morte e
rinascita, così che non trovare o perdere il contatto con lui vuol dire sicuramente smarrirsi nel deserto dell’incertezza e dell’inconoscibile: è «disertare»!33
228
INTRODUZIONE
Più tardi un Angelo, le porte
dischiudendo, verrà, lieto e fedele,
per ravvivare gli appannati specchi
e risvegliare le nostre fiamme morte34.
C. BAUDELAIRE
Iniziatore dunque a un più alto grado dell’esistere, l’Angelo, certo,
marca la nostalgia di un Eden perduto, il suo stesso esistere «segnala» e ricorda il doloroso distacco dall’infanzia dell’umanità pretesa incolpevole. Il suo sguardo ci obbliga a riconoscere la pietrosa
necessità del viaggio nella vita, che impone una catena di morti e di
rinascite, giacché ogni separazione, ogni «salto» da uno stato dell’essere all’altro, sono da noi avvertiti come dolorosa morte di una
parte dell’Io, che «rinasce» poi nella metamorfosi continua della concatenazione del tempo. S’intrecciano innumeri fili di nascite e di
morti a intessere il policromo arazzo del destino, e l’Angelo è allora
«terapeuta» del male di vivere: egli, il «custode» attento, esercita la
sua funzione di assistenza, protezione, guida al cammino psicologico-spirituale, in una valenza di psicagogo e di psicopompo. Guida spirituale nel percorso del vivere, baluardo contro la potenza seduttiva del male, compagno nel momento supremo della morte, secondo una rilettura del nobile magistero a lui assegnato, quale è testimoniato poeticamente dal Salmo 91:
Te la sciagura non colpirà.
Il flagello girerà al largo
Dalla tua tenda
Comanderà ai suoi angeli
Di vegliarti dovunque andrai.
Le loro mani ti fasceranno
Pietra di morte schiverà il tuo piede35.
Coabitando la vicenda umana, egli vigila, «compagno» dei nostri pensieri, presenza consolatrice della cruda materialità della nostra esistenza. Eppure da noi anche sottoposto ad abusi, tanto da volerlo talvolta congelare in un’icona di bontà gessosa e funerea, dolcissimamente priva di ogni attendibilità, come quegli angeli dallo sguardo
bianco che accompagnano, mano nella mano, il fanciullino premorto,
la vergine, o la sposa adorata, lungo i vialetti ombrosi di un silente
camposanto. O come quelle preraffaellite figure ancillari, ambiguamente sororali (forse migrazioni cristiane delle antiche fate-ondine?):
229
INTRODUZIONE
Ha morbidi capelli,
che ondeggiano al vento,
occhi dolci e gravi
che ti placano con uno sguardo
e danno luce, le paure uccidono.
(Non è favola davvero)36.
G. MISTRAL
Oppure lo immaginiamo accreditato, come un solerte funzionario a
ognuno di noi, sempre disponibile a interventi soprannaturali di
protezione e di soccorso, smascherando in tal modo il nostro irrisolto bisogno infantile di protezione, la nostra regressiva pulsione
di dipendenza, e insieme l’insopprimibile narcisismo che ci fa ancora ritenere «centro» del cosmo. Ma anche una solitudine acerba e
un terrore indicibile della vita e della morte, unite a una perdita di
fiducia della nostra bontà, che ci spinge a chiamare a raccolta le potenze benefiche, inaridite in noi, proiettandole su immagini che rivestono il senso di un «Sé buono», ideale, perduto. Così l’Angelo custode acquista la valenza psicagogica di mentore, rivelandosi anche,
psicologicamente, proiezione simbolica e idealizzata del Sé.
Tuttavia, l’Angelo non custodisce soltanto, ma induce, «educa»,
vuol trasformare e trasfigurare. Trascurando questa dimensione «ermeneutica» del magistero angelico, oggi si fa un gran parlare (abusandone) della «missione» pratica degli angeli custodi che si manifesterebbero (come voci o intuizioni fulminanti o altro) nel corso di
esperienze alle frontiere della morte dalla quale, appunto, l’angelo
sottrarrebbe il fortunato «protetto»37. Una banalizzazione che tuttavia rivela l’angoscia abbandonica e il bisogno di una relazione «altra», protettiva, da parte dell’uomo contemporaneo che vive un’angosciosa solitudine pur immerso nelle folle anonime delle metropoli.
Infatti ogni relazione è densa di significati affettivi e simbolici, e
quindi anche il rapporto che si stabilisce con il divino è tutto percorso dall’ambivalenza desiderio-paura propria al vissuto con delle immagini significative che hanno strutturato la nostra percezione del mondo esterno ma anche interno. Ambivalenza che si coniuga tutta tra il bisogno e la negazione, tra l’eccesso e l’assenza, e
che si struttura tra il troppo-pieno (mancanza di spazi) e il troppovuoto (solitudine).
Non stupisce più, quindi, se anche i simboli relativi alla sacralità
luminosa – si manifesti essa come Luna o Sole, sommi «poteri» della vita, o come Dio supremo –, riflettono la diffrazione delle immagini parentali – essenzialmente quella paterna, che si manifesta di
volta in volta come padre buono o padre cattivo, fecondatore o di-
230
INTRODUZIONE
struttore, benevolo e vigile con i suoi mille occhi raggianti di splendore, o tremendamente fallico nella sua polioftalmia persecutoria e
superegoica – tanto da farle ritenere dalla psicoanalisi «classica»
una proiezione paranoica delle angosce edipiche di castrazione, così come testimonierebbe un «caso clinico» di paranoia e delirio a
sfondo religioso divenuto famoso: quello del Presidente Schreber.
Questi, secondo Freud, era affetto da un «complesso paterno». Nelle
sue memorie descriveva le terribili angosce persecutorie e i deliri
che lo attanagliavano, ritenendo che i «raggi» divini (da lui chiamati «miracoli divini») emanati da un Dio geloso e possessivo che lo penetrava, avessero il potere di distruggere o ricostruire parti interne
del suo corpo38. Nell’angosciante delirio di Schreber sembra condensarsi tutta l’ambivalenza «mitica» ingrappolata intorno all’imago del Sole-Dio-Padre quale che sia la sua interpretazione. Così, anche, l’Angelo, il messaggero divino, il mal’äk Yahweh non è soltanto l’epifania del volto benevolo di Dio, egli è anche l’interpres del suo
lato più oscuro, tenebroso e violento. Enigma terribile che da sempre angoscia l’uomo e che trova voce anche oggi nell’interrogativo di
un poeta, Roberto Carifi, secondo cui Dio si scopre «inseparabile dal
senso del male, deve averlo incontrato nel fondo insondabile e contrastato della sua sostanza. Come ha potuto espellerlo, liberarsi del
negativo che era in lui? Il mondo è la memoria del male, il tormento a cui Dio si espone: ogni cosa di questo mondo gli ricorda l’immemorabile, la notte che minaccia la sua luce», e davvero, allora:
«Questo è il nostro destino: siamo l’inconscio di Dio, la traccia vivente di ciò che ha rifiutato»?39
E angeli torbidi, collerici,
carbonizzarono la tua anima,
il tuo corpo40.
R. ALBERTI
L’Angelo sterminatore che inonda di sangue la terra riveste allora la
funzione distruttrice e apocalittica di Yahweh, così come l’Angelo
guerriero ne rivela il carattere bellicoso e la funzione conoscitiva che
si manifesta proprio nell’attributo della spada (già incontrata come
simbolo fallico solare) e che è simbolo concreto del bene e del male, del Logos atto a «tagliare» e «separare», a distinguere con la nettezza del filo della sua lama i confini della giustizia.
È dunque il lato oscuro di Dio che perseguita Giobbe? Certo, la
sua ambivalenza paterna verso gli uomini si smaschera proprio nell’istituzione dell’arcobaleno, a Se stesso ricordo, e per l’uomo «garanzia» di una promessa di riappacificazione.
231
INTRODUZIONE
Inoltre, se il serpente è il volto oscuro del Serafino, così anche
Satana, nel suo essere personalità antagonista di Dio, ne esprime
forse l’aspetto tenebroso, «separato». Ma, allora, se diabolos significa «separazione», la figura «necessaria» di Satana, che per alcuni
è indizio di una frattura interiore di Dio – in quanto biblicamente
sembra essere più che l’avversario, il «servo» di Yahweh –, riveste il
significato di personificazione delle miserie del mondo, di quella irriducibile spinta al dolore e alla violenza che sembra suggellare il
destino dell’uomo? E tuttavia anche di quella sua incoercibile tendenza alla vicenda di crescita di un Sé autonomo, libero e creativo,
che si esprima pur anche nella ribellione, e che, con la cacciata dal
Paradiso ricevette «senso e destino», in quanto rimarcante il passaggio dallo stato di natura a quello più maturo della coscienza di
sé41. E se il giardino, l’hortus conclusus edenico è metafora uterina
e generativa, l’esserne stati cacciati è il sigillo di una «nascita», di
una avvenuta «separazione» dell’uomo edenico, infantile, in tutto dipendente da Dio, figura simbiotica di padre-madre che si articola
nella doppia immagine benefico-nutritiva e gelosa-castratrice. E se
ancora, Satana, nella sua seduttività, rivelerebbe la «faccia» femminile di Dio – per quella sua identità ofidica che tradisce la vicinanza tellurica e ctonia con il mondo delle antiche madri, che è vicino alla terra e all’oscurità dell’inconscio (Saitân è infatti il nome di
un serpente)42 –, egli, biblicamente, è anche uno dei bene ha-‘elohim,
ossia uno dei «figli di Dio» (di cui i Cherubini e i Serafini mantengono tratti mitici teriomorfi, originari della sfera profana) e ciò comporta in lui il superamento e la polemica con gli aspetti «animali» di
vitalità e di forza, degli antichi dèi stellari. Del resto, come sostiene
una studiosa, la Schärf, se l’universo è creazione di Dio, non può
esservi nulla che non sia in Dio stesso, quindi anche il lato oscuro
gli appartiene ed è ben espresso nel Vecchio Testamento, laddove,
nel Nuovo apparirebbe, nel Cristo, come una «riparazione», mentre
in Satana «il processo divino di differenziazione, il separarsi e il farsi manifesto del lato oscuro di Dio, è giunto al completo distacco.
Esso è ora diventato un “complesso autonomo”, una persona staccata»43.
Eliade nota che è probabile che la figura di Satana sia modellata in base all’influenza del dualismo iranico; un dualismo mitigato,
giacché Satana non coesiste sin dal principio insieme a Dio, e tuttavia «occorre, d’altra parte, tener conto anche di una tradizione più
antica, che concepiva Jahvè come totalità assoluta del reale, vale a
dire come coincidentia oppositorum in cui coesistevano tutti i contrari, e dunque anche il “male”. […] È probabile che Satana sia il ri-
232
INTRODUZIONE
sultato allo stesso tempo di una “scissione” dell’immagine arcaica
di Jahvè (conseguente alla riflessione sul mistero della divinità e
dell’influenza delle dottrine dualistiche iraniane […]»44.
Nella cacciata dal Paradiso, quindi, si potrebbe anche leggere
«psicologicamente» la vicenda affettiva di una gelosa ambivalenza di
un padre-madre, che, se da un lato offre ai figli la piena godibilità
della vita, dall’altra ne nega una totale conoscenza (cioè una piena
autonomia, che sarebbe distacco), pena la vendetta, che è castrazione e morte; oppure, se ritorniamo alla metafora del Paradiso grembo-materno, luogo di nirvanica beatitudine, «stato di natura» marcato dall’assenza di ogni dolore o responsabilità, la cacciata da esso viene a significare il parto-nascita, e la rottura della simbiosi originaria che si opera con il taglio del cordone ombelicale, di cui il padre di fa tuttavia garante, e che la spada angelica fiammeggiante significa. L’espulsione dallo «stato di natura» sancirebbe allora l’inizio della fatica del vivere, ma anche l’accesso al simbolico, al significante paterno che introduce al mondo della cultura45.
L’ambivalenza di Dio (che si esprimerebbe nella scissione DioSatana), rivelerebbe perciò la duplice spinta affettiva tra il «generare» e il «trattenere», indizio di una difficoltà a «far nascere» pienamente il figlio e a riconoscergli una totale autonomia e un pieno potere conoscitivo e sessuale.
La figura di Satana si è dunque evoluta da un originario concetto di «figurazione» di una parte di Dio, quella più violenta e arcaica
legata agli aspetti più istintuali e animaleschi (che si rintracciano del
resto ancora nei Cherubini e nei Serafini), sino a scindersi completamente, rappresentando questo aspetto della personalità divina
«autonomamente». Tuttavia, aspetti inquietanti permangono nelle
pieghe della Sacra Scrittura. Così anche «la lotta con l’angelo» si rivelerebbe, nel suo enigmatico svolgersi, dotata di una duplicità di significati.
È indubbio che l’immagine di un «Dio avversario» contro cui lottare, sia pure nella figura «numinosa» dell’Angelo, è davvero perturbante e fortemente angosciante, nonché mortalmente pericolosa per
l’integrità dell’essere (giacché lottare è «con-fondersi» con l’altro!), così come se ne fa interprete con il suo grido Rainer Maria Rilke:
Ma chi, se gridassi mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire […]
perché:
233
INTRODUZIONE
Gli Angeli sono tutti tremendi […]
[…]
Si movesse ora l’Arcangelo, il pericoloso, si movesse
da dietro le stelle
di un passo soltanto, giù verso di noi: con la violenza
del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio cuore. Chi
siete voi?46
Invero, se la Parola è l’Angelo di Dio, che scende sull’uomo come «parola alata», che è anche «parola-folgore» e lo sconquassa come «parola-profetica» e lo seduce con la violenza della sua rivelazione, allora
l’incontro dell’uomo con il divino è l’assalto di una parola sovrana, «rigorosa» e risplendente che «inizia» e nello stesso tempo terrifica. E
non è infatti la Parola divina come gladio, se anche nell’Apocalisse è
detto: «[…] e dalla sua bocca esce una spada affilata, perché con essa percuota le genti»? 47
La funzione mediatrice dell’Angelo si traduce quindi in quella di
interprete, in quanto, anche in contesti profetici proiettati verso il
futuro a rivelare un destino, si esige un lavoro di interpretazione, di
delimitazione di ciò che si deve o non si deve fare, a significare la
lotta eternamente rinnovata tra luce e oscurità, coscienza e inconscio, quale si manifesta anche nell’episodio di Giacobbe:
Ed ecco, un uomo lottò con lui sino a giorno. Il quale, vedendo di
non poterlo vincere, lo toccò nel nervo di una coscia, e subito vi restò senza forza. Poi gli disse: «Lasciami andare che è già l’aurora».
Rispose Giacobbe: «Non ti lascerò andare, se non mi benedirai»48.
La lotta con l’Angelo è dunque un confronto simbolico che si svolge nella notte dello spirito (nell’esilio della coscienza), e, in questo
suo significarsi come scontro del figlio con la severità della Legge del
Padre si rintraccia in realtà un processo di crescita interiore che si
distilla nel crogiolo del Sé sotto la spinta violenta del fuoco alchemico della Parola, giacché l’Angelo è specchio riflettente la «luce»
della conoscenza (e della coscienza) la quale a sua volta è specchio
«ustorio», incandescente, al color bianco, di una combustione spirituale49. Questa lotta, impari all’apparenza, è allora una sorta di
«opera al nero», salvifica però, distillazione d’anima (psyché) sottoposta alla rossa fiamma aurorale del sole dell’Eros, giacché proprio
nell’aurora si significa la congiunzione dell’uomo esteriore con l’uomo interiore, nel momento in cui la coscienza trascolora dalla conoscenza del vero alla sua «ri-conoscenza» e si genera il rebis spirituale, l’androgino ermetico che esprime simbolicamente l’avvenuta
riconciliazione nel Sé dei contrari, poiché esso è stato sempre sen-
234
INTRODUZIONE
tito come immagine esemplare dell’uomo perfetto, in cui coabitano
sia la coincidenza degli opposti che la totalità primordiale (l’Adamo
primordiale era androgino). L’Angelo ne è la pura rappresentazione
idealizzata, venendo così a significare una realizzata e armonica totalità nel Sé di tutti gli opposti, del maschile e del femminile, dell’Eros e del Logos, del conscio e dell’inconscio, che anche Balzac aveva
ben rappresentato nel suo Séraphîta-Séraphîtûs, l’Angelo duplice eppure inscindibile!50
La lotta con l’Angelo si rivela quindi anche come l’immagine più
vera dell’interiorità, dell’essere umano che deve lottare contro le
proprie forze regressive, del suo dover uscire dalle «tenebre» dell’inconscio alla «luce» della consapevolezza di sé (e, l’abbiamo già vista, questa simbologia di alba e di crepuscolo, nell’Arcangelo imporporato dalle due ali, una di notte e una di luce!):
Irrompi e m’assali.
Prigioniero mi trascini
alla tua luce, che non è la mia,
per giostrare con me […]51.
R. ALBERTI
La lotta è quindi collegata alla metamorfosi, e lo spavento davanti
all’Angelo, è lo spavento davanti al cambiamento che ogni crescita
impone e che è sentito come castrazione simbolica, come perdita di
una sicurezza ritenuta onnipotentemente eterna. Da qui si origina
la figura mitica dello «zoppo», che significa, proprio nella sua mutilazione parziale, la perduta pretesa onnipotenza narcisistica, e che,
se è marca di imperfezione, pure consente un più forte impatto con
il mondo del reale, nell’avvenuta acquisizione di un potere adulto e
non immaginario, giacché, appunto, a questo versante appartiene
l’onnipotenza del tutto «impotente» ad agire nella realtà!
Nel mito la zoppia denuncia sempre un rapporto con l’aldilà, con
il soprannaturale, sia esso infero o divino. È zoppo chi ritorna da
una discesa agli inferi, e sono zoppi gli esseri ctonio-infernali. La
malformazione del piede è dunque un marchio che testimonia il
contatto con la divinità da cui è derivata la conoscenza dei segreti
celesti, e ha quindi un valore iniziatico. Inoltre, il simbolismo sessuale del piede denuncia l’aspetto fortemente erotico della lotta cui
il vincitore risulta azzoppato, e infatti «seduttore» è il diavolo, rappresentato sovente zoppo (e zoppo era divenuto Efesto, anche lui in
seguito a una «brutta caduta» dal cielo come ribelle), così come nelle credenze popolari ogni uomo zoppo era ritenuto libidinoso52.
La lotta determina dunque la ferita, che, oltre a essere segno di ca-
235
INTRODUZIONE
strazione simbolica, è anche «sigillo» di uno scontro marcato dall’ambivalenza di un corpo-a-corpo che è tuttavia anche attrazione irresistibile, «seduzione» violenta, momento in cui la distanza tra Dio e
il mondo terreno è abolita, e in cui, nella vampa fusionale dell’incontro, è a rischio l’integrità dell’Io, che nel nome si riconosce e si identifica. Qual è il tuo nome? dice l’Angelo a Giacobbe e continua:
«Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, ché se fosti forte
lottando con Dio, quanto più avrai vittoria lottando con gli uomini?». Giacobbe allora lo interrogò: «Dimmi, come ti chiami?». Ma
quegli rispose: «Perché mi domandi il mio nome?». E in quello stesso luogo lo benedisse53.
La lotta con l’Angelo è dunque la lotta dell’uomo-Giacobbe con il
proprio nome, con la propria identità? Vale a dire, secondo quanto
sostiene Böhme, che l’Angelo rivendica la sua co-identità con Giacobbe, come se dicesse:
Io sono Israele in te stesso. Il mio nome è il tuo.
In effetti, l’Angelo non ha nome: l’Angelo è un nome. È il nome di Dio
nell’uomo che deve coesistere con il suo nome proprio. È il sigillo di
un geloso possesso paterno, ma anche di una sua legittimazione, è
il simbolo comune per il quale ciascuno si significa all’altro. Un «nominare» e un «esser nominato», che, se appartiene alla sfera del linguaggio, è però anche vera e propria assunzione corporea, quella
stessa che Dante aveva come sempre colto, con il genio di quella
sua corta favella, coniando termini di più profonda compenetrazione fisico-spirituale, quali incontrarsi, intuarsi 54.
Già non attendere’io tua dimanda
s’io m’intuassi come tu m’immii55.
L’incontro con l’Angelo, è dunque una «seduzione» mortale che cura, un’iniziazione cruenta ai segreti della sapienza che è anche un
attingere alle profondità della sfera più sconosciuta, «senza nome»
del proprio essere, attraverso una discesa infera nel magma tenebroso e violento dell’inconscio per poi risalire alla luce della coscienza, nello stupore di un ritrovarsi:
«Ho visto Dio faccia a faccia, eppure sono rimasto vivo». Subito si
levò il sole […] e andava zoppicando56.
236
INTRODUZIONE
La lotta con l’Angelo biblico indica un incontro che è più simile, mi
sembra, all’idea che se ne fa Rilke – per il quale incontrarsi con l’angelo è sempre azione aberrante, violenta, sconvolgente, e perciò marcata dal segno violento della seduzione (nel senso derivato da sedducere, portare via, stornare da se stesso) –, più che a quella di Claudel che, se ascrive la seduzione all’azione aberrante del diavolo, all’Angelo attribuisce piuttosto un atto di induzione (quale azione conforme al corso naturale delle cose verso il loro fine, sempre dolce,
correttiva, terapeutica)57.
Inversamente, di angeli zoppi si popola il mundus imaginalis moderno, che ha osato guardare l’inguardabile e ne è rimasto fulminato corrompendo (davvero sed-ducendo) con il suo sguardo meduseo
quello limpido dell’Angelo accorso in suo aiuto. Ma del resto, in
questo suo creaturale trascolorare tra mente e corpo, in questo suo
essere messaggero tra cielo e terra, l’Angelo «patisce» ormai un eccesso di umanizzazione che lo contamina.
Fu allora che l’Angelo si chinò
a raccogliere il fiore
e si macchiò la veste
del rosso sangue degli uomini58.
Non è più l’Angelo corrusco e terribile della Bibbia, «altro» dall’uomo
nella sua smisuratezza, né quello neotestamentario, con «le ali spiegate verso l’alto, il movimento diritto davanti a sé», immerso nel suo
contemplante fulgore, e neppure quello dantesco severo e sereno,
limpido sguardo al sicuro da ogni tempesta di umana passione, davvero «creatura dell’indifferenza, corpo a priori sottratto al desiderio e
al Dominio che lo conduce»59, identico a quello che Cacciari vede
avanzare obbedendo al «soffio» (non vento ma «intenzione» divina) che
lo dirige, senza voltarsi mai indietro 60. Egli è piuttosto un angelo sempre più romanticamente melanconico o nostalgico, volto, all’indietro,
intriso di Sehnsucht di un non-più-essere-a-casa, struggimento d’esilio d’anima, oppure sottilmente corroso da interne venature di sensuali languori simbolisti, perso nella sua paresse Angélique:
Fra i morbidi veli argentei degli incensi
mormora l’angelo delicate preghiere
da cui nasceranno alla tristezza e alla voluttà
quelle anime cui si piegheranno gli uomini.
Ecco, piange l’angelo dai capelli risplendenti
Ecco, meravigliosa e suprema,
la parola segreta che induce all’amore
brucia sulle sue labbra d’oro, al di sopra del Tempo!61
P. VALÉRY
237
INTRODUZIONE
Sedotto dall’uomo, l’Angelo discende nel nostro esilio. «Il nostro “sapore” smemora l’Angelo. Dimentica, bevendo “il vino chiaro” dei nostri tratti, la corda che lo teneva fisso al Principio»62. La sua «discesa» nella raggiunta piena creaturalità si colora della poesia della desolazione e il gioco di specchi tra terrestre e divino, che il suo Logos
sembrava rappresentare in armoniose corrispondenze, si rifrange
in dissonanze improvvise. Vuoti, casi, imprevisti vi fanno irruzione.
La lotta che l’uomo ingaggia con l’Angelo è dunque scandalo insuperabile, e «la possibilità di questa catastrofe – che l’Angelo, invece di sedurre, possa finire sedotto – corre, come un basso continuo,
oscuro e minaccioso, lungo tutto l’itinerario dell’angelologia»63. Già,
infatti, narra la Genesi, e poi il Libro di Enoch, alcuni Angeli furono
sedotti dalle figlie degli uomini. Essi, creature del primo giorno, rinunziarono al loro stato divino e al Cielo e liberamente si unirono
alle donne:
I figli di Dio, che videro esser belle le figlie degli uomini, si presero in moglie, fra tutte, quelle che loro piacquero64.
La potenza di Dio ancora una volta è minacciata dalla seduzione del
desiderio di un amore tutto terreno, sensuale. Questo è il peccato
che minaccia una seconda caduta dei suoi angeli, e nel Libro di Enoch
si ribadisce il racconto di questa grande crisi angelica. Per amore
delle figlie dell’uomo, alcuni angeli rinunciano al Cielo e al loro stato. Con le donne generano i Giganti che tormentano la terra e ne divorano le creature. È quindi l’uomo che insegna all’angelo a peccare? Ma lo stesso Enoch sostiene anche che il «commercio» tra angeli
e le figlie dell’uomo introdusse le arti nel mondo, e soprattutto fu la
fonte della rivelazione dell’alchimia. È dunque uno scenario iniziatico quello che si apre su questa seconda ribellione angelica?65 Ecco
come anche si manifesta l’Angelo ambiguo dell’esoterismo e della
gnosi, dietro il cui sorriso appare, come in un palinsesto, la smorfia ironica del ribelle, forse non dissimile a quella degli Angelos negros, angeli gitani, ambigui e surreali di Garcia Lorca, il cui volo recide le vene d’azzurrità fra un sibilante frusciare di metalli:
Angeli con grandi ali
di coltelli di Albacete66.
Dunque, ancora una volta «l’ordine» egoico stabilito si scompagina
sotto l’urto della passione, in un «empio» conato per un’impossibile unione del luminoso mondo uranico con quello tellurico, oscuro
dell’inconscio.
238
INTRODUZIONE
Ma l’uomo ha ascoltato la sua voce
e voi quella della donna – bella ella è,
la voce del serpente meno sottile del suo bacio,
il serpente nient’altro che polvere vinta; ma lei attrarrà
dal cielo una seconda schiera per infranger la legge celeste.
Così Byron in un suo poemetto citato da Jung, narra la passione
peccaminosa degli angeli Samiasa e Azaziel per le figlie di Caino,
Anah e Aholibamah; passione che infrange la barriera posta tra i
mortali e gli immortali, portando la catastrofe. Infatti Dio, pentito di
aver creato l’uomo, decreta il diluvio; l’acqua elemento materno,
creativo, fecondativo, abbandona i suoi limiti naturali e si gonfia fino a coprire le cime dei monti e a sommergere tutti gli esseri viventi.
La passione, commenta Jung, deve essere distrutta, anzi si «autodistrugge», giacché, con la sua potenza «materna» primordiale introduce il caos nell’ordine del Bene e del Logos paterno67.
Nell’Angelo, ormai «troppo umano», la luce incolore precipita nella materia colorata: precipitando nella visibilità umana ora l’angelo è una macchia visibile sull’invisibile, un ematoma sull’azzurrità
radiosa che si rivela tuttavia anche catino alchemico, bagno di reattivo blu che permette la sua apparizione68.
L’angelo ribelle per solidarietà con l’uomo si assume la cangianza
delle contraddizioni umane, e si colora della poesia della desolazione.
La creaturalità piena e dolente che Cacciari riscontra peculiare
alle forme angeliche di Klee, ci rimanda al rapporto mente-corpo,
ma anche conscio e inconscio, ragione e istinto e, se l’angelo è messaggero tra cielo e terra, lo è anche tra il celeste e il bestiale, tra l’aspirazione verso un’idealità sublimata e un libero sgorgare delle
passioni. Ora, l’antico teriomofismo angelico sembra acquistare nuovo senso e significato nella moderna iconografia, ricca di animaliangeli, quasi sempre Angeli ribelli per i quali il celestiale non è disgiunto dal demoniaco, e il cui movimento ascensionale si alterna
a rovinose cadute.
Come quegli alteri angeli-animali dipinti da Osvaldo Licini, che
sembrano «unire la tiara allo zoccolo e trasvolare l’aere tra scie d’azzurro, conservando tracce di una loro precedente natura luciferina
nella coda originaria di demoni» (perché so che presto/ un angelo fatto di tutto/ a prendermi scenderà/ angelo o demonio/ che sia fa lo
stesso/ poco importa […]./ È un miracolo […] ).
Finalmente, oh, finalmente sono arrivati
gli angeli a cavallo precursori dell’anima mia
in silenzio per bussare alle porte di questo cuore
mio tanto indurito nella memoria di vederli un giorno
239
INTRODUZIONE
finalmente arrivare a piedi e a cavallo
da in mezzo al cielo con le loro spade di seta
fiammeggiante da mezza estate in pieno mezzogiorno
puntate verso il mio cuore da sembrare angeli
strani al mondo vestito di blu.
Ma il vostro sorriso è d’oro di compatimento [...]69.
O. LICINI
Fra i mille altri, anche l’Angelo di uno scultore, Riccardo Dalisi, si
protenderà nella sua ascesa con ali enormi, spiegate a vela, intensamente turchine, astratto geroglifico dell’ascesi che pur mantiene (o
forse soltanto ricorda?) un residuo di «materialità» nella testina diabolica che sembra «radicare» al suolo la figura protesa invece verso
la luce nel movimento metaforizzato della freccia davvero simbolo di
ferente luce 70. E ogni angelo è un po’ sagittario quando l’immagine
naturale dell’ala è sostituita da quella tecnologica della freccia e l’amplificazione del movimento trasforma l’ascensione in slancio, come in
quegli angeli «trasvolatori» di Licini, icone tutte correlate a una riaffermata sconfitta della gravità attraverso la «miracolosa» messa in
equilibrio delle forme, che fa di essi anche dei nietzschiani «funamboli», sempre in bilico tra l’ascendere e il precipitare71.
Ma ogni angelo cammina sulla corda, in equilibrio tra l’apoteosi
vittoriosa e la sconfitta! E se l’Angelo-acrobata dell’Annunciazione di
Cocteau entra nella storia attraverso la finestra72, inversamente precipitano rovinosamente dal cielo i volatili del Beato Angelico, anamorfismi immaginali evocati dall’ironia corrosiva, eppure stranamente tenera, di Tabucchi che li vede arrivare creature dell’insonnia,
stanche, fragili, struggenti schegge larvali d’eternità, fuori orbita e
forse troppo in fretta precipitate nel visibile e perciò malformate:
Il primo volatile arrivò un giovedì di fine giugno, all’ora del vespro,
quando tutti i frati erano in cappella per la funzione. […] Era una
creaturina rosea, dall’aspetto morbido, con delle braccine giallastre come quelle dei polli spennati, ossute, e due zampe anch’esse molto magre, con le giunture prominenti e delle dita callose come quelle dei tacchini. Aveva un volto da bambino vecchio, ma liscio, con due occhi neri e grandi e una lanugine al posto dei capelli; e lo guardava, dibattendo stancamente le braccia, come mimando un volo che non poteva riprendere, quasi fosse un movimento ripetitivo e obbligato. Era rimasto impigliato fra i rami di un
pero […].
Davvero buffa creatura, e patetica, questo «volatile» che appare al
pittore-frate Beato Angelico: goffo, che non sa camminare, ma che
compensa questa miseria corporale, e la nega, nella magnificenza
240
INTRODUZIONE
delle ali, policromo «sigillo» angelico; infatti le due enormi ali che ricoprivano tutto il fogliame dell’albero e si muovevano alle brezza insieme alle foglie:
Erano fatte di piume ocra, gialle, turchine e di un verde smeraldo come quelle del martin-pescatore, che ogni tanto si aprivano a
ventaglio, toccando quasi terra e poi si richiudevano, rapidissime,
scomparendo una dentro l’altra.
Anche più stridente è il contrasto figurale dell’altro, il secondo «volatile», dal volto femmineo e bello e il corpo come di strano insetto
un grillone, a questo assomigliava, lungo e magro com’era, e tutto dinoccolato, con degli arti fini fini che si aveva paura a maneggiarli, e quasi traslucidi, verde-chiaro come gli steli del grano
non ancora maturo
eppure anch’esso dotato di due straordinarie «macchine per volare»:
due ali diafane, trasparenti, polifonico inno al superamento dell’opacità materica del mondo «di quaggiù»,
che somigliavano proprio a quelle delle libellule, ma grandi e affusolate, trasparenti, di un rosa azzurrato, e d’oro, con un reticolo
finissimo come un velo73.
Così gli angeli-animali di Tabucchi, forme lacunose che riflettono l’essenziale nostalgia per una perduta infanzia dello sguardo74 – (quella che consente invece, al Beato Angelico di ritrovare l’essenza angelica nella natura spuria delle creature) –, sono precipitati nel vertice della materia per trasmettere il loro messaggio, facendosi tramite della sconosciuta Bellezza «di lassù». Altri, invece, «incauti» rimangono impaniati nell’ambiguo splendore «di quaggiù», angeli caduti, per sfida di luciferina hybris, per amore… o per imprudenza!
Un Angelo, imprudente viaggiatore
tentato dall’amore del difforme,
che si dibatte in fondo ad un enorme
incubo cupo come il nuotatore [...]75.
C. BAUDELAIRE
Ormai, dal fuoco dell’amore da cui prendeva gioia sciogliendosi in
canti eterni, dall’alto del cielo attraverso gli spazi interstellari e i silenzi cosmici, in un solo istante l’Angelo è stato precipitato. «La scissione della fonte è perdita del Paradiso, è scadimento delle proprie
241
INTRODUZIONE
perfette e immutabili forme in rovinose deformazioni antropiche»76.
Caduti nel silenzio delle cose, ammutoliti nella paralisi di un linguaggio ormai inadeguato, gli Angeli, con lo sguardo fisso sulla nostra desolazione, le ali impigliate irresistibilmente nella foresta pietrificata delle città, ci guardano:
Se esiste l’Angelo dell’Architettura
esso s’impigliò
con le sue ali di cera
tra lamiere taglienti della torre […]77.
A. CUONO
Silenziosi ci interrogano, forse ansiosi di carpire la nostra essenza,
il nostro fatale destino (giacché «la stessa presenza dell’uomo tormenta l’angelo»!78).
In un tempo in cui Dio si è ritirato dal mondo, e lo scandalo della sua assenza, della sua afonia, lo ha dichiarato «morto» tout-court
(«Sei dunque morto, non era finzione il tremendo necrologio. Abbiamo appreso del tuo decesso quando il lutto si è reso innominabile,
quando l’ombra ci sembrò definitiva»79), dai silenzi desertici – annoiati d’eternità – discendono gli Angeli attratti dalla morte, come
quelli, metropolitani e postmoderni, di Wim Wenders che vagano per
Il cielo sopra Berlino, testimoni di un’epocale orfanità. O meglio, relitti alla deriva di un progetto cosmico che si avvicina alla sua implosione apocalittica. «Dal tempo della cacciata, da quando Iddio
voltò le spalle al mondo e cacciò i nostri angeli, essi abitano il cielo
che sovrasta la città sull’antica barriera e sui cumuli di macerie,
viaggiano insieme alle nuvole, di tanto si posano, ali-stanche accolti
dalle ali-dai-riflessi-dorati dell’Angelo della pace, guardano dall’alto, condannati a rimanere, angeli della seconda caduta, per sempre
e solo testimoni dei fatti, attraversati da un metafisico dolore, il cuore gonfio della nostalgia del ritorno, essi stessi “assetati dall’estrema lontananza del non-dove”: la strada era così lunga, la vertigine
violenta, affidano il loro indicibile alle nostre parole»80.
Strappati dai loro «nidi di utopia», accampati sopra una pasoliniana grigia stinta metropoli, gli angeli di Wenders hanno dimenticato le ali iridate, e contemplano un mondo privo di colori ingrigiti nei loro lunghi cappotti e il capo chino all’ascolto della melopea
di dolore e di colpa che fluisce verso di loro dai pensieri degli uomini.
Vestito come tutti gli altri,
non mi si vedono l’ali.
242
INTRODUZIONE
Nessuno sa come fui.
Non mi riconoscono81.
R. ALBERTI
L’Angelo ora non è più il «guardiano della soglia», l’hölderliniano
Angelo della dimora, custode della sacralità della parola e quindi
della poesia – giacché «si dà l’Angelo dove si dà poesia, egli appare
per la parola e nella parola che lo invoca» –82, ora egli è, davvero, destinato alla caduta; la vertigine della disfatta lo attira irresistibilmente, essendo ormai contaminato e corrotto dall’«alito» venefico
dell’uomo che spegne in lui la face di luce purissima.
O lampada dal becco d’argento: i miei occhi ti scorgono in aria,
compagna della volta delle cattedrali, e cercano la ragione di tale
sospensione. Dicono che i tuoi bagliori rischiarino, durante la notte, la turba di coloro che vengono ad adorare l’Onnipotente […] e
che tu mostri ai pentiti il cammino che porta all’altare. […] Lascia
sprofondare nelle tenebre le colonne delle basiliche: e quando una
folata della tempesta su cui turbina il demonio, nel santo luogo,
spargendovi il terrore, invece di lottare coraggiosamente contro la
raffica appestata del principe del male, spengiti subito al suo soffio ardente, perch’egli possa, senza che lo si veda, scegliere le sue
vittime tra i credenti inginocchiati.
Così Maldoror, personificazione del male e della violenza dell’istintualità, «seduce» l’Angelo-lampada, l’Angelo-guardiano, il portatore di
luce (e quindi tuttavia già ambiguamente luciferino) e, nella lotta che
si accende, se l’uno attacca con un’invisibile spada, l’altro si sforza di
avvicinare la sua bocca al volto angelico, sì da contagiarlo con la sua
impurità:
L’uomo del mantello, mentre riceve crudeli ferite da un invisibile
gladio, si sforza di avvicinare alla propria bocca il volto dell’angelo.
[…] L’altro perde energia, e sembra presentire la sua sorte. Lotta ormai debolmente, e già vede il momento in cui il suo avversario potrà baciarlo a suo agio, se è questo che vuol fare. […] Ecco fatto:
qualche cosa di orribile sta per rientrare nella gabbia del tempo!
Dai miasmi putridi del bacio corrosivo si spande la necrosi come abbruciante cancrena diffusa
Oh! guardate!… guardate dunque!… la guancia bianca e rosea è
diventata nera come un carbone!
L’Angelo, vinto, ormai non è altro, che
una forma nerastra, le ali bruciate, che dirige penosamente il suo
volo verso le piaghe del cielo83
243
INTRODUZIONE
eppure, lo sguardo che i due si scambiano al punto estremo di questa visitazione blasfema è carico di ambiguità («Quello sguardo li
legò d’eterna amicizia»), quella che sembrava l’eterna lotta tesa a
sancire, definendola, la separazione tra bene e male si rivela, al
contrario, una sulfurea possibilità di intesa e di complicità!
Ma allora, davvero, l’Angelo patisce di quell’eccesso tutto umano
che è passione e dolore, e che rompe ogni divino divieto?
Angelo pieno di gaiezza, dimmi:
conosci tu l’angoscia e i singhiozzi,
i rimorsi, gli affanni, l’onta, i dubbi
terrori di quelle orride nottate
che comprimono il cuore come carta
spiegazzata? Conosci tu l’angoscia,
Angelo pieno di gaiezza?84
C. BAUDELAIRE
Chi sei dunque oggi, Angelo? Angelo misero. Angelo frammentato.
Angelo interiorizzato nella passione dell’anima. Angelo caduto. Sono così gli angeli dell’iconografia desublimizzata del moderno in bilico tra i due mondi del sentimento. Distolti dal concentrarsi nel puro silenzio. Sono gli angeli di Cacciari: afferrati da un mondo che
non conosce più i confini tra delitto e azione eroica. Angeli confusi
e sconosciuti, piuttosto investiti dalla luce azzurro-nera del saturnino «sole di sotto», che non da quella luminosa-dorata dell’Empireo. Irrimediabilmente caduti, che vanno cercati
nelle pozzanghere che non sanno custodire una nuvola85.
Della migrazione dei simboli propri alla mitologia solare che abbiamo rintracciato nel trionfante iconismo angelico sembra sia rimasto solo il versante «oscuro», quello della sparizione, dell’eclissi sotto il gelido morso di un’alba lunare che invade, come spettro premonitore, la coscienza contemporanea.
Non più specchi di luce, transito di vita: Narcisi! Effimere immagini rispecchiatisi, sottoposte agli inganni del desiderio, attraversate dal dubbio e dalla morte!
Una specie di Angelo era seduto sul bordo di una fontana. Ci si rispecchiava, e si vedeva Uomo, e in lacrime, si meravigliava forte di
vedersi nell’onda nuda preda di una tristezza infinita. […] Il viso era
il suo, il dolore che vi era dipinto, gli sembrava del tutto estraneo.
Una sì miserabile apparenza, intercedeva, esercitava, interrogava
invano la sua spirituale sostanza meravigliosamente pura86.
244
INTRODUZIONE
Riflettendosi-meditandosi nello specchio d’acqua, l’Angelo si fa anthropos. Ma questa immagine, nota Cacciari, non lo fa innamorare:
«Essa lo dispera». Da riflesso della Luce della conoscenza perfetta,
da «Fiore dell’anima», come può essere de-caduto, precipitato in questa «stazione» che è all’origine delle miserie dell’uomo? S’interroga
l’Angelo, melanconico, sull’origine di questo male che lo ha afferrato: «Vi è dunque altro oltre la luce?». E tuttavia «egli non cessa mai
di conoscere e di non comprendere» poiché in lui è comunque la
Parola e, all’infinito moltiplicata nel rifrangersi di riflessi, la Parola
è nello specchio, che continua a «riflettere» l’immagine ineludibilmente «altra», in cui egli mai potrà identificarsi fino in fondo87.
Infatti, pur nel loro coinvolgimento e coappartenenza alla vicenda umana, nonostante tutto, gli Angeli sono incredibilmente lontani dal mondo degli uomini, alienati da ogni umana intimità: senza
tasche, secondo la fulminea e certo «laicissima» (ma quanto psicologicamente sottile!) definizione di Silvio D’Arzo, il cui angelo Mirco
non parlava mai di politica né aveva le tasche. Perché non era un
uomo: era un angelo. Solo gli uomini, strano, hanno le tasche: ne
sentono un bisogno potente, irresistibile […].
Anche un altro suo personaggio, in un’altra novella, scopre questo
qualcosa di diverso, che egli non riusciva ancora ad afferrare negli
angeli che lo accompagnano e gli parlano con voce che faceva pensare a polvere di stelle. Il suo ritorno dopo la visitazione del regno
della Morte (o del Sogno?) è marcato da questa scoperta:
E si sentiva tutto caldo ora: tutto caldo di sangue e di carne e stanco, per il cammino, alla maniera degli uomini. Sentì, anche, vivissimo, imperioso, il bisogno di sprofondar le mani nelle tasche, così intime e sue. Tornava ancora in mezzo agli uomini88.
Eppure li vogliamo tra noi, gli Angeli, li abbiamo evocati: «angeli del
progresso», della modernità: nei mille travestimenti che abbiamo loro imposto, invadono il quotidiano, saturandolo.
Roland Barthes, in un suo studio, ormai classico, degli anni Cinquanta, sull’importanza che il messaggio pubblicitario ha acquisito nella vita moderna, rilevava quella che allora era «l’ultima», sorprendente, metamorfosi angelica operata dalla pubblicità mitologica dei «saponificanti e detersivi», attraverso l’ipervalutazione simbolica della purificazione che si fondava sul vanto di un liquido appunto purificatore, una sorta di «fuoco liquido» che «uccide» lo sporco, o di una polvere che «illumini» di bianchezza, sacrandoli, i no-
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INTRODUZIONE
stri paramenti quotidiani. Infatti, scrive Barthes, «nel repertorio delle immagini “Omo”, lo sporco è un piccolo nemico gracile e nero che
se la batte a gambe levate», e secondo Gilbert Durand, ciò che occorre rilevare è che «Omo» o «Persil» (o gli altri più attuali «Dash»,
ecc.) non sono che le ultime metamorfosi pubblicitarie dell’archetipo poliziesco e giustiziero del puro Arcangelo vittorioso sui suoi demoni. Nella sua diuturna lotta per «un bianco che più bianco non
si può», «l’Arcangelo della neve» sconfigge l’«oscuro nemico» che si
insinua e s’annida nella trama delle nostre «anime»-guaine di tessuto! Davvero metafora quanto mai esplicita della contemporanea
degradazione del simbolismo sacro89.
Così oggi, commenta sempre G. Durand: «Spada, lama di fuoco,
torcia, acqua e aria lustrale, detersivi e smacchiatori costituiscono
il grande arsenale dei simboli diaretici di cui l’immaginazione dispone per troncare, salvare, separare e distinguere dalle tenebre il
luminoso valore».
Ma non soltanto guerriero sterminatore del male, bensì anche
«messaggero» di parole, «epifania» del Volto divino e quindi «mediatore» di immagini, è l’Angelo! E poiché, in questo nostro mondo che
ha spinto agli estremi il processo di desublimizzazione, il «Verbo» si
è fatto tecnologia, lo spazio è intersecato da legioni di messaggi di
cui l’Angelo è insieme latore e regista, egli «fotografa», «trasmette» e
quindi svela, mostra, significa, perseguendo una nuova carriera,
astratta, scientifica e informale.
Un angelo ha portato giù dal cielo una lettera90.
R. ALBERTI
Gli Angeli hanno dunque ripreso a volare? E quale è la loro ultima
metamorfosi? Michel Serres, nel suo libro La Légende des anges (La
leggenda degli angeli) ha appunto reinterpretato gli intermediari celesti come precursori, anzi prototipi mitici, «archetipi» dell’era informatica e del suo funzionamento mediale, evidenziando e sottolineando, con accostamenti iconografici talvolta suggestivi, l’equivalenza
tra Annunciazione e TG («l’angelo» della TV che reca la «buona – anzi “cattiva”– novella»!), tra linguaggi celesti e codici elettronici. Si ribadisce così l’attualità dell’Angelo (proprio in quanto «messaggero»)
quale forma simbolica di una realtà sempre più fondata su mezzo e
messaggio, in un mondo, quello di oggi, sempre più centrato sull’onnipotenza dell’informazione, divenuta anima di ogni trasformazione.
Dunque il Verbo torna a farsi carne in una nuova «incarnazione» profana? La nuova Città-mondo industrializza i segni, fabbrica le cose
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INTRODUZIONE
con l’informazione, costruisce l’universo «con il vento», superando il
materialismo nella logica simbolica? Qui, sostiene Serres, «il verbo si
è fatto carne, vale a dire vetro, acciaio, cemento, macchina, mondo.
Le tecnologie rimpiazzano le tecniche per incarnare il logos»91.
Angeli-aviatori (come già gli angeli-aereoplani di Apollinaire), postini di villaggio globale, viaggiatori che salgono e scendono cieli
senza scale, e che recano messi inesauste di «informazioni»; essi, il
cui mestiere ora è di dare un corpo all’incorporeo, hanno operato la
trasformazione rendendo incorporeo il corporeo. Abitando una dimensione ou-topica, quale icona speculante, interpres, angelo-proiettore, camera-oscura, angelo-catodo, angelo-video, ora egli è davvero «specchio che separa ed è strada a un tempo»92. E se la Morte,
in una fatale irruzione nelle stanze dei viventi, va e viene attraverso gli specchi, questi, se sono ancora il «mestiere dell’Angelo», tuttavia non riflettono più «il permanente che si dà nell’immagine», l’inalterabile presupposto di tutto ciò che lo specchio riflette, bensì
«l’effimero», l’aleatorio, il discontinuo e infine il mutevole volto di
una nuova realtà «virtuale», sradicata, «deduttiva», davvero, volto di
Mâyâ dai mille inganni. Allora, è vero che «gli esseri dell’iperspazio
forse ci penetrano come la luce penetra il cristallo e ci recano felicità o infelicità, salute o morte»93.
Nell’icona di luce dell’Angelo si con-fonde ora, inestricabile, il pelago oscuro delle forze di Thanatos?
Certo, da mattina a sera, le disgrazie non ci danno requie. Catastrofi, incendi, terremoti, epidemie, stupri, assassini, volti di cadaveri sfigurati… I nuovi Angeli dell’Apocalisse rovesciano su di noi una
pioggia incessante e sinistra di «messaggi», così che Terrore e Pietà,
i due principali moventi della Tragedia, si annullano alla deriva di
un mare di immagini infinitamente frammentate e ossessivamente
ripetute di una sola, stessa figura: la Morte.
Ma, se i messaggeri scompaiono davanti al messaggio, essi trovano qui anche la stazione della loro passione e della loro morte! E
se l’alba del secolo appena trascorso vedeva l’Angelo quale supporto simbolico dell’immagine dell’uomo nuovo, in questo nostro tempo rabbrividito da presagi di incipiente oscurità, cui ormai si accompagna solo la certezza del dolore, la creatura angelica, la cui tunica era di neve e ora, per inversa alchimia de-sublimante si è oscurata di fango, taciturno spiegando a vela le ali 94, sorvola la notte della tragedia della modernità che ha convertito la desolazione del mondo in una pietrificata sfilata di fantasmi.
E tuttavia cercateli questi Angeli, affaticati di terra e di fango, le
cui ali fremono del ricordo del cielo: essi sono necessari, giacché in
247
INTRODUZIONE
loro si racchiudono «l’essere e il conoscere»95 e, nel loro abitare una
dimensione oltre-mondana, a-(ou)topica, nel loro proporsi come testimoni dell’invisibile, essi soli, icone di meditazione, ci offrono una
possibile intercessione tra il mundus imaginalis e il ristretto cosmo
del visibile. La loro funzione ermeneutica sta proprio nell’aiutarci a
decifrare l’esperienza della contraddittorietà del reale attraverso l’irrinunciabile esigenza del simbolico, il solo sistema di pensiero capace di penetrare, per via di intuizione, nel velo del mistero più recondito, e che è, al contempo, strumento di comunicazione che permette di adeguare il messaggio di conoscenza del destinatario, giacché la natura peculiare della comunicazione simbolica è proprio
quella di essere passibile di diversi gradi di interpretazione, a seconda del livello di colui che interroga96.
Cercateli, cercateli:
nell’insonnia delle condutture dimenticate,
nei canali ostruiti dal silenzio delle spazzature.
[…]
perché io li ho veduti,
in quei momentanei rottami che appaiono nelle nebbie.
R. ALBERTI
Se Dio ormai si manifesta soltanto sotto forma di assenza e il suo
silenzio ha disperato e precipitato il cielo che si è riversato sulla terra: la Città-stella, palpitante di luci, ha oscurato il cielo, ormai disseccato. E non l’ineffabile musica delle orbite celesti abita la moderna Città-mondo, che si rivela essere piuttosto Babele, luogo dell’insensatezza, piuttosto che la realizzata speranza di una Gerusalemme Celeste, luogo del compimento del senso.
Fra Mulinelli di città, incarnazioni nuove di Inferni-Purgatori:
Ressa di mare e di terra,
nomi, domande, ricordi,
a faccia a faccia.
Mucchi di freddo rancore,
a corpo a corpo.
R. ALBERTI
E pur anche Angelo disilluso, Angelo cenerognolo, di carbone («Brutto
di fango e fuliggine»), di sabbia, indifferente o tragico («Tizzone fulminato, splendore senza uscita […] lividezza senza evasione […] carbonchio vuoto, nero»), vieni, tu nostro Angelo della nostalgia seppure forse ti aspettano città senza vivi né morti !
In questo crepuscolo d’anima abbiamo perduto il ricordo del Pa-
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INTRODUZIONE
radiso: tuttavia s’annida ancora in noi, profonda, l’inestirpabile nostalgia dell’invisibile, dell’ineffabile nel palpito d’ala iridato che ci
inizi ad altra realtà, che non questa, capace soltanto di fabbricare
falsi dèi e angeli caduti, e poiché il ricordo del cielo è nel contempo
memoria della luce, allora tu, Angelo della luce, ritorna, rispondi alle nostre litanie della speranza:
Angelo morto, risvegliati!
Dove sei? Su, illumina
Col tuo raggio il ritorno!97
R. ALBERTI
Ascolta il nostro grido, esaudisci la nostra ritrovata speranza, aiutaci a ricomporre la nostra frammentata identità che, nella confusione della pluralità «disordinata» delle immagini che affollano la
nostra mente e la nostra vita (questa sì, davvero, ora dia-bolica, divisa, scissa dalle fonte prima dell’essere) ci condanna all’oscurità
della coscienza:
Il mondo ha sete d’azzurro,
tu verrai a soddisfarla!98
A. RIMBAUD
249
INTRODUZIONE
250
INTRODUZIONE
Appendice
ANGELI FUTURI
Ma finché i colori permangono,
vi sono ricadute prodotte dalle passioni
che determinano palpiti e sussulti […] 1.
M. BRUSATIN
L’Angelo, oggi, è ancora il ponte iridato fra l’uomo e il divino, punto di incontro di un sincretismo religioso che percorre la storia dall’antichità del mito sino a rivelarsi figura comune a tutte le religioni monoteiste? L’Angelo di questo nuovo millennio, erede di quell’Altro, che già alla fine di quello appena trascorso, è stato trascinato giù dall’Empireo, dalla contemplazione felice della Luce per partecipare alla tragedia umana, è ancora l’interpres del nostro desiderio di riunificazione fra alto e basso, tra sacro e profano, tra ragione e sentimento?
Questo Angelo, davvero novus, che partecipa della storia umana
è dunque ancora l’Angelo iridato della Luce o, quello oscurato, delle Tenebre? O non rappresenta forse, l’Angelo grigio e neutro, figura dell’erranza e del dubbio, creatura esitante il cui luogo è un «altrove», che si situa in nessun luogo? Evoca, questo Angelo la presenza
di un Altro cui tendere? È portatore di una Parola che illumini le tenebre del non-conoscersi, del non-sapersi? Quale messaggio, o quale silenzio vuoto di parola significante, riflette oggi questo «specchio»
della nostra stessa psiche?
Dopo l’annuncio della «morte di Dio», gli Angeli della modernità
sono precipitati da un cielo ormai vuoto, e, sempre più gravati del
peso di un destino tutto terreno, si sono «incarnati» per partecipare alla Storia. Nell’Angelo tragico, marchiato dalle stimmate del dolore e della passione, si sacralizza tuttavia la vicenda umana.
Egli, prisma di diffrazione della luce del Logos, si «colora» dei colori dell’uomo e della sua carnalità, come l’Angelo di Wenders che,
sceso su una Berlino monocromatica bianco-nera e dopo aver vagato su e dentro una grigia e malinconica metropoli – in cui i pensieri e i dolori degli uomini esalano una melopea di densa malinconia – decide di rinunciare al proprio essere puro spirito, per vivere
quei sentimenti e quelle passioni che lo escludono, per accorgersi
poi di essere diventato «uomo» quando, per la prima volta, vede
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INTRODUZIONE
uscire da una ferita della propria mano una rossa sostanza: il sangue! Nuovo «Adamo» (di adamath, l’argilla rossa, fu plasmato il primo uomo: «rosso e vivente»), l’Angelo è alla scoperta di questo suo
inedito mondo, che, improvvisamente, si colora intorno a lui.
Ultimo della schiera degli angeli «caduti» dal cielo sulla terra – da
quelli evocati da Enoch ai moderni – l’Angelo del Novecento, si fa
specchio della sorte umana, anzi, la sposa, innalzandola a una dignità che si tinge dei colori, ambigui, del sacro.
L’Angelo non più testimone di Dio, sceglie di essere testimone dell’Uomo, di partecipare alla sua esistenza; non più metafora del «Nome di Dio», egli partecipa alla «Carne» dell’Uomo: carne martoriata, in
cui scorre tuttavia la rossa vena dell’esistenza, nei suoi contrapposti
valori di Eros e di Thanatos, di vita e di morte, di passione, sempre.
Abbiamo dunque visto sfilare, in tutte le varie espressioni dell’arte, dalla pittura, alla scultura, alla poesia, al cinema, angeli «colorati» della materia e degli affetti del mondo. Ma ora, agli inizi di un
nuovo millennio che ci appariva già gravido di attese inquietanti, e
che sembra realizzare i timori e le angosce più antiche e profonde,
ci assale il dubbio se davvero gli Angeli siano ancora tra noi, e, se
lo sono, in quale aspetto si siano celati, poiché, dolorosamente, ci
sentiamo gravati da una epocale orfanità.
La nostra civiltà in realtà da tempo sta invertendo il dinamismo
che portava anche Dio, oltre che gli Angeli, verso una «incarnazione», una partecipazione ai colori della vita, al mondo degli affetti
umani. Dopo l’implosione psichica senza ritorno della modernità,
che ha fondato un nuovo spazio – tempo interno alienato dalla
realtà –, marcato da un disagio psichico che ha di nuovo instaurato l’età dell’angoscia, oggi l’uomo sorseggia, sino all’ubriacatura, le
nuove droghe dello schermo e del sesso. Una nuova Babele si annuncia nell’incombente multiculturalismo globale? Certamente in
un mondo in cui dominano i media, il «messaggio» che «produce» il
mondo, che lo crea, può anche interromperlo (come del resto ci rivela anche la filmografia – arte, questa, testimone puntuale di questi
ultimi anni – da Truman show, a Matrix, ecc., dove si lacera, letteralmente, lo schermo dell’illusione che nasconde l’assenza di ogni
realtà).
Ancora una volta è la fantasia visionaria degli scrittori e degli artisti in genere che ci «rivela», anticipandolo, il nostro futuro? Soprattutto la science fiction raggiunge talvolta vette di efficacia visionaria realmente sconcertante. Così, nel romanzo cyberpunk di W.
Gibson, Luce Virtuale, un’ipotetica (ma quanto?) «Repubblica del
Desiderio» sembra realizzare piuttosto i nostri incubi più segreti:
252
INTRODUZIONE
Poi vide la terza figura, e disse: «Gesù».
Era grande come le altre, ma fatta di immagini televisive, che si
muovevano e si intrecciavano fra di loro, riuscendo a malapena,
sembrava, a mantenere una forma: qualcosa che avrebbe potuto
essere un uomo o una donna. Gli faceva male agli occhi cercare
di guardare troppo da vicino una singola parte. Era come cercare di guardare un milione di canali contemporaneamente, e il rumore che ne usciva era come quello di una valanga di rocce, una
specie di sibilo che in un certo senso non era neppure un suono.
Nuovi angeli, più terribili di quelli antichi, appaiono ad annunciare una nuova Apocalisse.
Nella Metropoli, davvero «Città-mondo», dove le tecno-logie diventano «linguaggio»,
scorre la carne luminosa dei giganti, urlando la sua litania di sogni notturni alle avenidas in attesa
un mondo totalmente impregnato dall’invasività delle immagini, tanto che:
[...] Rydell si era fatto l’idea che quella gente pensava che la Tv
fosse il mezzo preferito da Dio per comunicare e il video stesso
una specie di roveto perennemente in fiamme2.
Nella grande produzione di massa, nel già realizzato villaggio globale, regolato dai media e dal profitto, si affievolisce l’esperienza
del mondo, in un rifrangersi di immagini, fantasmi seduttivi delle
cose, che hanno soppiantato la realtà in «parvenze della vita», pura simulazione dell’energia vitale, come già «prevedeva» R.M. Rilke
nell’ormai lontanissimo 1925, in una lettera al suo traduttore polacco, citata nell’interessante saggio di Giorgio Concato, L’angelo e
la marionetta. Il mito del mondo artificiale da Baudelaire al cyberspazio 3.
Il desiderio che miri all’oggetto, quel desiderio dell’Altro (anche in
noi), di cui l’Angelo si faceva garante, ponendosi a ponte fra il reale e il simbolico, ormai vacilla sotto la spinta della radicale trasformazione del rapporto con la realtà, con un effetto di derealizzazione che induce a un senso doloroso di perdita e di mancanza: «Il destino delle cose sembra condurci a un bivio: da una parte l’illusione di possesso offertaci dalla fantasmagoria delle immagini della
merce ci permette di non accorgerci della perdita di realtà subita
dal mondo immedesimandoci con la vicenda degli oggetti, divenendo noi stessi, senza che ce ne rendiamo conto, “parvenze della vita”,
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INTRODUZIONE
dall’altra abbiamo invece l’opportunità di patire consapevolmente la
mancanza e la perdita, di interiorizzarle e di elaborarle […]»4.
Dunque, davvero, per usare le parole di Rilke, la terra non ha alcun altro scampo che diventare invisibile, pervasa com’è da immagini pure, prive di qualità e di corpo, feticci di una seduzione mediatica, volta alla glorificazione dell’artificiale, istigante il desiderio
verso un sex-appeal dell’inorganico?
Oggi l’uomo sembra volersi in realtà «disincarnare», spogliare
idealmente del peso di quel corpo-passione (che richiede anche l’accettazione della morte) e farsi invece – lui ancora vivo – angelo: angelo-energia. Privo di ali, sognarsi «volatile», fatto della sostanza eterea e a-cromatica della luce e dell’energia. Assistere
all’eclissi del corpo-carne per approdare all’apoteosi aurorale di
un purissimo corpo-mente, passando attraverso la stazione del
corpo-cosa5.
Mentre gli Angeli «sedotti» della modernità (come quelli di Wenders)
non possono vivere senza corpo, spinti dal desiderio di diventare
uguali agli esseri umani, di condividerne il destino, gli uomini rigettano questa carnalità e si sognano nuova, e inedita, genealogia
di esseri angelici.
E se l’Angelo era «specchio» all’uomo, oggi lo è il Cyborg, nuovo angelo dello spazio virtuale della Rete, che sembra realizzare gli eterni
sogni di onnipotenza e di dominio:
Giullare? Angelo. Io volo per i cieli informatici, violando inediti territori virtuali, trasportato dal vortice impetuoso di un inarrestabile
progresso: nuovo «messaggero» di un nuovo avvento, ermetico portatore del verbo e mi esalto di un nuovo misticismo del sapere. Apprezzo diversi tipi di verità. Volo nella Base come un Angelo, traducendo tutte le affermazioni in numeri. E non sono forse i numeri
l’armonia del Logos divino? Io creo nuove armonie di suoni e di forme, demiurgo del futuro, ri-creo nuove cosmologie con la nuova Parola. Vi prometto l’Eternità. Non più il puro ritorno nel grembo, come tentazione rappacificante e annichilente: io vi annuncio l’esaltante ri-fusione germinale, neurotica, nella grande Matrice. Entrate
dunque con me nel fluido scorrere dei canali della Rete, sarò il vostro traghettatore verso le nuove sponde della virtualità… vi prometto di realizzare i vostri sogni e i vostri incubi, i vostri desideri e
le vostre paure. Dimentichi ormai del fardello di corpo-carne, rinati ad un disincarnato corpo-mente, avrete la sensazione di essere
non uno, ma più feti, galleggianti in un liquido caldo, confortevole.
Tutto è così calmo, lento, piacevolmente indistinto. E tutto l’Universo sarà di nuovo un solo grande, androgino, utero-cervello pulsante di pensieri e di immagini. A voi, che soffrite ancora dello scandalo della «morte di Dio-padre», io prometto nuovi «paradisi»6.
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INTRODUZIONE
La Città-stella, piena di luce e di colori, aveva attirato gli Angeli che
sciamavano verso di lei, ansiosi di vestire i colori della vita, ma le stelle-lampade sono scese sulla terra, con la loro luce profana hanno
oscurato il cielo, e ora l’uomo, inversamente, inizia una sua fuga verso la nuova «terra promessa» e la Città Celeste, la Gerusalemme Celeste cui anelare, è un «non-luogo» che si dilata nell’immensità dell’universo, una città interstellare, o una rete di energia che catturi le
nostre parole e i nostri pensieri e si dilati oltre i confini dello spazio e
del tempo?
Anguéliki Garidis in un suo saggio Les anges du désir, analizza
l’accesso scientifico allo stato angelico, attraverso le opere di fantascienza, che raccontano le avventure di uomini o di creature extraterrestri che divengono, grazie a esperienze scientifiche assai sofisticate, simili agli angeli delle leggende più antiche. L’immaginario
mistico è rimpiazzato da una scienza affatto immaginaria e spirituale, che anzi si rivendica invece razionale e tecnica7.
Soprattutto la serie di Arthur Clarke, Odissea nello spazio evoca
l’«angelizzazione» sia di esseri umani che di ultraterrestri che, da
creature di carne, diventano a poco a poco «energia pura», divinità
autocreate capaci di dirigere l’universo e forgiarne di nuovi.
Chiamiamoli Primogeniti. Benché non fossero nemmeno lontanamente umani, erano fatti di carne e ossa. […] Nelle loro esplorazioni incontrarono la vita sotto molti aspetti e osservarono il
travaglio dell’evoluzione in migliaia di mondi. […] E poiché, in tutta la Galassia, non avevano trovato nulla di più prezioso della
Mente, ne incoraggiarono ovunque il sorgere. Diventarono agricoltori nei campi delle stelle, seminarono, e a volte raccolsero.
La metamorfosi si prolunga in tempi incommensurabili:
Avevano trasferito dapprima i loro cervelli, e poi soltanto i loro
pensieri, in nuove splendenti dimore fatte di metallo e di plastica.
In esse, vagabondavano tra le stelle. Non costruivano più navi
spaziali. Erano essi stessi navi spaziali.
Ma anche l’èra delle entità-macchine aveva avuto una durata assai breve. […] Erano riusciti a divenire creature di radiazione,
esenti finalmente dalla tirannia della materia.
In ultimo, [...] si erano trasformati in pura energia […].
Ormai essi erano i padroni della Galassia, di là dalla portata del
tempo. Potevano vagare a loro piacimento tra le stelle […]8.
Questi demiurghi di luce e di energia hanno il misterioso e terribile potere di modificare l’evoluzione biologica degli abitanti dei mon-
255
INTRODUZIONE
di, accelerare il loro adattamento all’ambiente e la loro intelligenza,
attraverso la mediazione di un uomo fatto angelo, l’astronauta David Bowman. Divenuto immortale, giunto alla fine del suo lungo
viaggio interstellare, e senza più il peso arcaico della materia-corpo, è reso «mediatore», messaggero tra l’uomo e loro stessi, «Arcangeli delle stelle». Egli diviene angelo passando attraverso la «Porta
delle Stelle» creata dalle entità superiori che dominano sulle stelle
e che utilizzano i misteriosi monoliti neri come «catalizzatori» delle
«Menti» da risvegliare per indurle al cammino che le condurrà, forse, a un’angelizzazione finale.
La glorificazione della «Mente», anche se non umana, si ottiene
anche in Hal, il computer di bordo, reso immortale dal film di Kubrick, e che, curato e «riabilitato», diventerà poi il «compagno» di David Bowman. Hal, una pura intelligenza artificiale, ora non è più
un’entità meccanica bensì è assunta a un’essenza assoluta.
Così, nota Garidis, le immagini religiose, spesso trasformate, snaturate, derise o dimenticate nella letteratura, sono riprese dalla fantascienza, che le riutilizza mantenendo intatte le loro caratteristiche
mistiche.
Forse un eguale destino ci attende. Una metamorfosi da corpopsyché, luogo di eterna contesa delle passioni, in pura Mente, obliante i colori della vita e della morte, imitazione maldestra di un’impossibile angelizzazione?
256
INTRODUZIONE
Parte terza
IMMAGINI
257
INTRODUZIONE
258
INTRODUZIONE
[…] simile al caos, il mondo invisibile voleva generare
tutte le cose in una sola volta, una figura germogliava
dall’altra […].
J. PAUL
Figura 1. Hieronymus Bosch (1453-1516), Trittico del Giardino delle delizie, grisaglia su
tavola. Madrid, Museo del Prado.
[…] entro una sfera di cristallo il mondo vive il terzo giorno della Creazione,
sotto un cielo denso di nubi che si ammassano verso la sommità […] la terra
si coagula […] nella grisaglia variata dei colori bruni (I, cap. I, p. 21, nota 3).
259
INTRODUZIONE
Che arcobaleno è questo nero arcobaleno che si leva?
ANONIMO
Figura 2. Albrecth Dürer (1471-1528), La Malinconia, inc. B 74, 2° stato, 1514. Biblioteca Nazionale, Parigi.
[…] eppure, grigi o neri arcobaleni da sempre rilucono nell’immaginario
depresso […] (I, cap. I, p. 22).
260
INTRODUZIONE
aspettava trepidando
la mandorla degli occhi,
dagli occhi il loro misterioso dardo.
M. LUZI
Figura 3. Simone Martini (1284-1344), Maestà (particolare), 1315, dipinto murale. Siena,
Palazzo Pubblico.
[…] la «mandorla» dell’occhio, nodo d’immortalità, partecipa al mistero sacro
della luce […] il mito dell’occhio si interseca con la mistica della luce. L’occhio
è «finestra» dell’anima […] specchio del mondo […] (I, cap. I, pp. 25-26).
261
INTRODUZIONE
così mi circonfulse luce viva:
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
DANTE ALIGHIERI
Figura 4. Cristo in gloria (XII sec.), affresco. Abbazia di San Isidoro, Léon, Spagna.
[…] nell’iconografia gloriosa medioevale le Maestà del Cristo e della Vergine erano inscritte in una mandorla a significare come la natura divina si nasconda sotto la natura umana, così come il frutto della mandorla si cela sotto la scorza. La mandorla simbolizza quindi il mistero
della luce […] (I, cap. 1, p. 25).
262
INTRODUZIONE
[…] branchi di pesci
guizzano con le pinne e le scaglie lucenti
sotto le onde verdi e spesso s’addensano a frotte nel mare […]
[…] vagando fra cespugli di corallo,
e giocando con rapidi scatti riflettono al sole
le squame sinuose maculate d’oro […].
J. MILTON
Figura 5. Il segno dei pesci, codice di astrologia del XII sec. d.C. Biblioteca Nazionale,
Parigi.
Il raggio luminoso rivelò uno stupefacente trofeo di colori dominati da
rossi e arancioni stupendi, opulenti come un quadro di Matisse. Le tinte
vivaci della zona crepuscolare apparivano per la prima volta dalla creazione del mondo. Girammo tutt’intorno cercando di appagare gli occhi a
quello spettacolo. Nemmeno i pesci dovevano mai averlo visto prima:
Perché quei colori così sfarzosi dovevano essere posti in un luogo dove
nessuno poteva vederli? (I, cap. II, p. 38).
263
INTRODUZIONE
L’oscuro, il chiaro
il loro mutuo avvicendarsi,
la storia umana, inestinguibile pedaggio.
M. LUZI
Figura 6. La dea malvagia Shurpanaka, marionetta del Teatro delle Ombre.
La luce bianca è quella degli dèi, la rossa dei demoni, la gialla dei lemuri, mentre quella azzurra è quella degli uomini e quella nera degli esseri infernali, secondo un progressivo «oscurarsi» materico e spirituale (I,
cap. II, p. 45).
264
INTRODUZIONE
Così la via delle selve è incerta sotto la luna
scarsa di luce quando nell’ombra
il cielo è scomparso, quando la notte
distesa di nero ha tolto i colori dall’aria.
VIRGILIO
Figura 7. Ogata Körin, Divinità del vento e del tuono, inizio XVIII sec., Periodo Edo, coppia di paraventi a due ante dipinti a colori e fondo oro su carta (cm 66 x 183 cad.). Museo
Nazionale di Tokio.
[…] al riconosciuto valore positivo luminoso del bianco, significante di purezza, di vita di nobiltà, si affianca un pallore opaco, livido e infernale,
colore di morte e disperazione: è il pallidus latino, che si oppone al bianco luminoso (albus, candidum, niveus) e che significa metaforicamente il
soggiorno sotterraneo senza luce né colore […] (I, cap. II, p. 49).
265
INTRODUZIONE
Domna […] Diana, Artemis, Ishtar, ed è anche Proserpina
la forza del nero femminile. Il nero della terza regione della
terra. La donna incarnata negli inferi, e che mai riaffiora
oltre il livello degli inferi.
A. ARTAUD
Figura 8. Iside, la dea egizia della fertilità, con in grembo il dio solare Horus, tarda età
del bronzo. Museo del Louvre, Parigi.
Erano infatti «nere» le Grandi Dee, ctonie e notturne: da Persefone (la forza
del nero femminile) a Demetra, a Iside, tutte dispensatrici di fertilità e che
si sono poi iconograficamente riedite nelle Vergini nere cristiane (I, cap. II,
p. 49).
266
INTRODUZIONE
O Dio di ogni Dio! Fai salire la litania della Luce.
Fai trionfare il popolo della luce. Guida la Luce
Verso la Luce. Amen.
S.Y. SOHARAVARDÎ
Figura 9. Sette martiri, mosaico della navata (prima metà VI sec.). Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.
Riflesso dell’inconoscibile, è la Luce celeste incolore o poco colorata, ed
il bianco mistico si «sovraillumina» con riflessi d’oro, giacché il dorato è
pure sinonimo di bianchezza e l’oro è pura goccia di Luce mineralizzata […] (I, cap. II, p. 52).
267
INTRODUZIONE
Quanto grande sei tu mio Dio!
Di gloria e di splendore sei vestito
Ravvolto di luce come in un manto
i cieli srotoli come un tappeto.
SALMO
104
Figura 10. San Demetrio, icona, oro e smalti (XII sec.). Kunstgewerbemuseum, Staatliche
Museen zu Berlin.
«[…] come una visione sfolgorante, straripante di luce si mostra l’icona»,
in quanto è «visibile rappresentazione di spettacoli misteriosi e soprannaturali» (I, cap. II, p. 55).
268
INTRODUZIONE
Visione? Sì, visione
[…]
con le sue terre, i suoi azzurri,
i suoi ori. O delirio
di sovrumana grazia.
M. LUZI
Figura 11. Beato Angelico (1400-1455), Annunciazione, parte superiore di un reliquiario. Museo di San Marco, Firenze.
È sempre quindi visione celeste, davvero delirio di sovrumana grazia,
ovunque quella sottile rete di luce d’oro si posi, ad aprire spazi di trascendenza o di silenziosa magia […]. Il fondo dorato poi, toglie ai corpi il
loro essere tangibili, li rende ieratici e apre prospettive di lontananze […]
(I, cap. II, p. 55).
269
INTRODUZIONE
[…] e quando il sole apparve, era rosso
e brillante […] e nessuno poteva fissarlo […]
abbagliava e mandava raggi in tutte le direzioni.
RACCONTO AZTECO
Figura 12. Inti, il dio del sole degli Inca, maschera d’oro. Museo Arqueologico y Galerias
de Arte del Banco Central, Quito.
La legenda de los Soles narra come il Quinto sole degli aztechi nasca da
un sacrificio divino nel fuoco, evidenziando un’ulteriore rifrazione simbolica della luce: il rosseggiare della fiamma, sia essa fuoco celeste, solare o terrestre (sua emanazione) si aggiunge al cromatismo aureo, uranico e a quello paradisiaco del bianco (I, cap. III, p. 57).
270
INTRODUZIONE
Il Signore della Stella Mattutina
Stava nel mezzo, tra la notte e il giorno:
Come un uccello ad ali aperte che aspetta
Con l’ala destra splendendo di luce,
E la sinistra nell’oscurità.
D.H. LAWRENCE
Figura 13. Il disco solare del carro di Trundholm, è dorato soltanto da un lato per rappresentare il sole del giorno e quello della notte. Nationalmueet, Copenaghen.
E vi sono tuttavia due Soli! Quello del giorno e quello della notte, giacché nel suo eterno, giornaliero viaggio da Oriente a Occidente, egli, come
recita l’inno orfico, è a destra padre dell’aurora, a sinistra della notte (I,
cap. III, p. 64).
271
INTRODUZIONE
La luce non è solo gloriosa e sacra, ma anche vorace, carnivora e spietata.
Essa divora tutto il mondo senza distinzione.
APOCALISSE
Figura 14. Due leopardi, avorio e rame, lunghezza cm 80 circa, artista del Benin (prob.
XIX sec.). The British Museum, Londra.
[…] nero è anche il numinoso Sole notturno: il «Sole dell’oltretomba» [… raffigurato] in forma di giaguaro dalla splendente pelliccia gialla con rosette
nere («maculato» come la «lonza» di peccato e di morte dantesca?) (I, cap.
III, p. 71).
272
INTRODUZIONE
L’Universo è come un ghiaccio, un ghiacciato mondo di gioielli.
LÜ-TZU
Figura 15. Il Sole e la Luna, dalla mostra «Tarot, jeu et magie». Gallerie Mazarine della
Biblioteca Nazionale di Parigi, 17 ottobre 1984 - 6 gennaio 1985.
Al raggiare bianco-dorato o fulvo del Sole si alterna il ruscellare argenteo della luce lunare […] che oppone alla bruciante secchezza dell’astro
diurno una stillante frescura d’ombra (I, cap. III, p. 74).
273
INTRODUZIONE
Alle sorgenti così chiare
nell’incanto lunare.
E.A. POE
Figura 16. Sandro Botticelli (1445-1510), La nascita di Venere (part.), olio su tela. Galleria degli Uffizi, Firenze.
E come al Sole si addice l’ardore del fuoco, così la Luna si bagna della casta
freddezza delle acque, e perciò la conchiglia e la perla, pur nel loro prestigio erotico (derivato dall’analogia vulva-conchiglia, che è anche lunare perché «creata dai raggi della luna») brillano assorte nel loro opalescente biancore (I, cap. III, p. 75).
274
INTRODUZIONE
Guarda la bellezza del crescente, che, apparendo,
lacera con i suoi raggi di luce le tenebre
come una falce d’argento che, tra i fiori brillanti
nell’oscurità miete narcisi.
IBN AL-MOTTAZ
Figura 17. Il Parmigianino, (1503-1540), Diana (part.): Il bagno di Diana, affresco.
Fontanellato (Parma), Rocca San Vitale.
[…] se il Sole è porta dell’immortalità, la Luna è al tempo stesso porta
del Cielo e porta degli Inferi. Artemide la luminosa e Hecate l’oscura […]
(I, cap. III, p. 78).
275
INTRODUZIONE
Sole e luna e giorno e notte e uomo e animale
ciascuno con un suo splendore.
M. MOORE
Figura 18. Fuxi e Nu-wa, dipinto su canapa del VII sec. prov. da Turfan, Cina. National
Museum of Korea, Seoul (Nei miti della creazione taoisti i corpi serpentiformi di Fuxi e
Nu-wa rappresentano il Sole e la Luna, simboli della fecondità e del rinnovamento).
La dualità anima-ragione (che in sé riflette ogni altra dualità: Apollo e
Dioniso, maschile e femminile, ardente attività e mistica passività) corrisponderebbe alla dualità Luna-Sole e anche a due destini misterici […] (I,
cap. III, p. 79).
276
INTRODUZIONE
splendono sotto il giogo gli stalloni,
quando, frenati i cavalli e il carro dal giogo d’oro,
maestoso egli li guida attraverso il cielo, all’oceano.
INNI OMERICI
Figura 19. Bassorilievo di Elisio sul suo carro, 300 a.C. Staatliche Museum, Berlino.
Posto al centro dell’universo, così dai Greci antropomorfizzato come Helios,
ovunque tuttavia il Sole miticamente si aggira impetuoso per le azzurre
praterie celesti, sul suo carro di luce dalle rosse ruote infuocate, a segnare l’arco del tempo che eternamente transita tra tenebre e luce (I, cap. IV,
p. 85).
277
INTRODUZIONE
Come messaggero del Sole e suo interprete
segreti messaggi prenderò da lui e vi porterò la risposta.
E poi che vado come sole, brillerò su rovinati deserti,
fuggirò dai luoghi abitati, parlerò deserte parole.
G. AD-DÎN RÛMÎ
Figura 20. Il carro del sole di Surya, miniatura indiana XVIII sec. scuola Mewar. India.
[…] e poiché elevazione e potenza sono, in effetti, sinonimi, tutti gli dèi
uranici sono accompagnati da attributi luminosi e dinamici, e alla «rotondità» cosmica, «figura» di perfezione, evocata dalla ruota, dal rosone, dall’aurea corona solare, dall’aureola […] si affiancano naturalmente simboli erettili e guerrieri, quali torcia, spada, arco […] (I, cap. IV, p. 85).
278
INTRODUZIONE
[…] la sua testa e i capelli eran bianchi come la candida lana,
come la neve e i suoi occhi come fiamma di fuoco.
APOCALISSE
Figura 21. Albrecth Dürer (1471-1528), Apocalipsis cum figuris. La prima apparizione del
Figlio dell’Uomo fra i sette candelabri, Ed. latina e ted. 1498, xilografia. Kupferstichkabinett, Berlino.
[…] di bianco candido splendono la chioma e le barbe dei sacri vegliardi,
«figure» ideali di saggezza, riverberante la luce divina […]. Questo isomorfismo del Sole, dell’oro, dei capelli e delle barbe bianche ci ricorda anche
altre attribuzioni sacrali di assai diverse derivazioni culturali e geografiche
[…]. Se il dorato è quindi sinonimo di bianchezza, il valore di «luminanza»
e «brillanza» assimila egualmente il bianco all’oro e lo avvalora ancora una
volta significante luminoso e solare (I, cap. IV, pp. 88-89).
279
INTRODUZIONE
Sole, Sole! […] Inganno risplendente!
Tu che mascheri la morte, Sole,
sotto l’azzurro e l’oro di una tenda
dove i fiori tengono assemblea.
P. VALÉRY
Figura 22. Il Sole della vita e della morte, XVI secolo, rappresentato da un teschio con
un fiammeggiante tridente d’oro, XVI sec. Monastero di Kye, Ladaklt, India.
Inestricabilmente, nel mitologema solare s’intrecciano la sfera uranica e
quella ctonia […] (I, cap. IV. p. 93).
280
INTRODUZIONE
Io odo i cavalli dell’ombra, le lunghe criniere agitate,
gli zoccoli gravi in tumulto, le bianche pupille guizzanti,
il nord su di loro dispiega una notte avvolgente, strisciante.
W.B. YEATS
Figura 23. Hieronymus Bosch (1453-1516), Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio (part.).
Madrid, Il Prado.
A navicelle volanti si ormeggia ovunque il sogno vagabondo […] e i figli e
le figlie del Sole, progenie e filiazione eroica, veleggiano anch’essi su carri
volanti trainati non sempre da alati cocchieri, quali cigni e aquile, ma
anche da ambigui esseri teriomorfi come cavalli, dragoni, serpenti […] (I,
cap. IV, p. 95).
281
INTRODUZIONE
La luce alimentata dai due vasi
dell’olio nero e dell’olio bianco.
D.H. LAWRENCE
Figura 24. Artista azteco o mixteco, Serpente a due teste, XV sec. Incrostazione di turchesi e conchiglie su armatura di legno, cm 44,5. The British Museum, Londra.
Il drago, sebbene ad alcuni (come Lawrence) appaia come un simbolo solare: simbolo dell’aurea fluente del corpo, ed Euripide chiami Helios serpente nato dal fuoco, tuttavia esso è il più perfetto rappresentante delle
forze ctonie della terra e delle acque (I, cap. IV, p. 96).
282
INTRODUZIONE
Figura 25. Ch’ên Jung (attivo tra il 1210 e il 1260), I nove draghi, Periodo Sung (part.),
Rotolo, inchiostro con tocchi di rosso su carta. Fond. F.G. Curtis, Museum of Fine
Arts, Boston.
283
INTRODUZIONE
[…] un uccello
v’è che s’innova e rinasce lo stesso da sé, che gli Assiri
hanno chiamato Fenice: non pascesi d’erbe o di biade,
ma solamente di gocce d’incenso e di succo d’amomo […].
OVIDIO
Figura 26. Hokusai (1759-1849), Fenice, colori su carta, cm 38,5x52. Prov. Obuse,
Gansho-in.
[…] e se il Sol levante è spesso paragonato ad un uccello, di uccelli solari
si immagina la dominazione della luce; in primis quella misteriosa fiamma
che vola, ala del lampo, quel leggendario uccello di fuoco che s’infiamma
del suo stesso fuoco, rinasce dalle proprie ceneri, quella Fenice […] immagine concettuale della vita e della morte […] (I, cap. IV, p. 99).
284
INTRODUZIONE
Oh, se i giardini dove erra il pavone
sui delicati piedi per gradini
antichi […].
W.B. YEATS
Figura 27. Pavone, particolare del mosaico del nartece interno (XIV sec.). Chiesa di
Kahrié-Djanmi, Costantinopoli.
[…] per l’immaginazione dinamica il volo è una bellezza primaria, seppure la magnificenza del piumaggio si noti appieno quando l’uccello si posi
a terra, così perdendo però il suo «statuto» di uccello […]. Come il pavone, appunto, l’uccello dai cento occhi, che, per il brunito oro degli ocelli
e il cangiante splendore azzurrato del piumaggio, è assimilato da Bachelard a un «museo minerale» […] (I, cap. IV, pp. 106-107).
285
INTRODUZIONE
[…] le facce tutte avean di fiamma viva
e l’ali d’oro […].
DANTE ALIGHIERI
Figura 28. Guariento (1338-1370 circa), Angeli corazzati e armati (Principati), tavola
(part.). Museo Civico, Padova.
[… nella] costellazione simbolica nella quale convergono la luminosità, la
solarità, la purezza, la spiritualità, come anche la regalità e la verticalità
[…] che edificano cosmogonie centrate sulla luce secondo costanti ipervalutazioni della brillanza e del fulgore […] (II, cap. V, p. 112-113).
286
INTRODUZIONE
In che cosa differisce il blu dagli altri colori?
Nel fatto che il blu è simile al mare, il mare è simile alla volta
Celeste, la volta celeste è simile al trono della gloria.
SEFER HA-HABIR, LIBRO FULGIDO
Figura 29. Dittico Wilton (1395 circa) tavola (part.). National Gallery, Londra.
Illuminandosi […] con l’oro, l’azzurro si iperdetermina in valori di sacralità e regalità sia quella divina che quella secolare, terrena (che ne è il
riflesso), così che, infine, questi colori (azzurro, bianco, oro) si rivelano
colori dell’ascensione […] (II, cap. V, p. 112).
287
INTRODUZIONE
Strani
appaiono animali
alle finestre
l’Ariete
l’Aquila
il Toro
[…]
S. VIRGILLITO
Figura 30. Il Toro, simbolo di san Luca Evangelista (part.), mosaico (circa metà del VI
sec.). Sant’Apollinare in Classe, Ravenna.
[…] secondo una rappresentazione antropomorfica o teriomorfica delle
costellazioni, che trova una sua espressione iconografica appunto nel
serpente celeste, la cui «cinta» stellare uroborica, simbolo di eternità […],
come sfogliando antichissimi bestiari favolosi […] (II, cap. V, p. 120).
288
INTRODUZIONE
Figura 31. Cosmè Tura (1430 c.-1495), Marzo (part. dell’Ariete), affresco. Palazzo Schifanoia, Ferrara.
289
INTRODUZIONE
[…] di raggi di sole splendente
una tiara dorata gli cingeva il capo,
e sulle spalle piumeggiate d’ali non erano meno lucenti
quelle sue chiome ricciute che ondeggiavano […].
J. MILTON
Figura 32. Maitre de Saint Sébastien, Josse Lieferinxe (XV sec.), San Michele che uccide il drago, tavola. Avignone, Musée du Petit-Palais.
E, aureolato di luce ultraterrena, appare l’Arcangelo Michele, angelo per
eccellenza «solare», in cui sembra convergere tutta la simbologia elioidea
del dorato, dello splendente e del radiante (II, cap. V, p. 123).
290
INTRODUZIONE
In quell’attimo
– oro e lapislazzulo –
aiutami, Maria, t’inciderò
per la tua gloria
per la gloria del cielo. Così sia.
M. LUZI
Figura 33. Simone Martini (1284-1344), Annunciazione, tempera su tavola. Galleria
degli Uffizi di Firenze.
[…] in preghiera d’oro e d’azzurro dipinse la sua Maestà, la sua dolcissima e lontanissima Vergine in trono, il senese Simone Martini […] a significare la compresenza in Lei della gloria del cielo e della terra […] (II, cap.
V, p. 125).
291
INTRODUZIONE
[…] e il corpo e le ali cosparsi
di occhi quasi che fossero stelle […].
J. MILTON
Quindi vien l’allegrezza ond’io fiammeggio […].
DANTE ALIGHIERI
Figura 34. Edward Burne-Jones (1833-1898), Cristo in trono attorniato da serafini (rossi)
e cherubini (blu), mosaico (part. dell’abside), 1885. S. Paolo Dentro le Mura, Roma.
I Cherubini, «gli oranti», quali segni della presenza divina, «occhio divino»
di Yahweh, appaiono nell’Apocalisse e circondano, palpitanti d’estasi, e in
un moto trattenuto, il trono di Dio. Il fatto di essere «pieni d’occhi davanti e dietro» (simbolo astrale) li caratterizza come esseri cosmici.
[…] I Serafini, il cui nome deriva dalla radice sarapu (o saraph), «ardere»,
«bruciare», sono caratterizzati da tre paia di ali, e, infuocati da un rubescente eros divino, appaiono osannanti […] (II, cap. V, p, 127).
292
INTRODUZIONE
[…] la gioventù del cielo
si stava esercitando in giochi eroici, ma attorno
erano appese alte armi celesti, gli scudi, le lance
e gli elmi, che sfolgoravano tutte di diamanti e d’oro.
J. MILTON
Figura 35. Heinrich Füssli, (1741-1825), Satana, bozzetto per il Paradiso perduto di J.
Milton. Kunsthaus, Zurigo.
Il colore biondo della chioma angelica ci rimanda alla «eroica» chioma
fulvo-dorato (xantós) degli eliadi, figli del Sole, che, come gli Angeli sono
«Progenie della Luce», e poiché la trascendenza è armata e la luce è folgore e spada, anche l’«armata dei cieli» […] si riveste di simboli guerrieri […] (II, cap. V, p. 128).
293
INTRODUZIONE
Cadde folgorato, cupo, silenzioso,
triste, la bocca aperta, i piedi verso i cieli
l’orrore dell’abisso impresso livido sul volto.
V. HUGO
Figura 36. Osvaldo Licini (1894-1958), Angelo ribelle su fondo giallo (1949), olio su tela.
Al brusio delle ali dell’Angelo risplendente, piumato canto vibratile di
luce, si sostituisce ormai il rallentato precipitare dell’Angelo folgorato, il
cui volo muto, avvolto in pulviscolo d’ombre, affonda nell’addensata luce
oscura, divorante (II, cap. V, p. 140).
294
INTRODUZIONE
[…] Baldezza e leggiadria
quant’esser puote in angelo ed in alma
tutta è in lui […].
DANTE ALIGHIERI
Figura 37. Luca Signorelli (1450-1523), L’Annunciazione della Vergine (part.), tempera
su tavola. Pinacoteca di Volterra.
[…] dal peccato deriva la caduta […]. Allora si invertono totalmente i simboli propri all’ascesa catartica dell’ascensione alata, secondo l’isomorfismo bontà e altezza, luce e leggerezza, purezza, volo e libertà, che s’incarna in figure di eterna giovinezza e leggiadria (ricordate quell’arcangelo Gabriele che Dante ammirato coglie davanti a Maria in atteggiamento innamorato sì che par di foco)? (II, cap. V, p. 141).
295
INTRODUZIONE
Arcobaleno arcano circonda il pozzo scuro,
soglia del caos antico la cui ombra è il nulla.
Spirale che divora i Mondi e i Giorni!
G. DE NERVAL
Figura 38. L’Inferno, miniatura romanica (1028).
[…] se l’arcobaleno, nei suoi sette colori cui si riferiscono i sette angeli
astro-logoi, che circondano il Trono «a ruota» come segni zodiacali, è appunto immagine dello zodiaco luminoso, un inverso, straordinario, zodiaco infernale si disegna nel proteiforme regno delle tenebre che abbracciano tutto il mondo, e che «hanno dodici terribili camere di tormenti, e in
ogni camera si trova un Arconte con fattezze diverse: coccodrillo, gatto,
serpente, toro, cinghiale» (II, cap. V, p. 143).
296
INTRODUZIONE
[…] fui affatto abbagliato
da uno splendore, veleggiante veloce verso il basso
che mi costrinse subito a velare gli occhi e il viso […].
J. KEATS
Figura 39. Raffaello Sanzio (1483-1520), Liberazione di San Pietro (particolare dell’affresco); Stanza di Eliodoro. Le Stanze di Raffaello, Musei Vaticani, Roma.
[…] la potenza angelica è davvero «speculante», e in quanto l’Angelo è
specchio divino – per il quale «conoscere» è «riflettere» nell’istante la Luce
che egli eternamente circuisce –, egli moltiplica la propria specularità e
si fa così specchio in cui riflettere anche la propria ridente bellezza (II,
cap. VI, p. 148).
297
INTRODUZIONE
[…] di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che non seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
che par nel ciel quindi fosse diffuso.
DANTE ALIGHIERI
Figura 40. Scuola di Avignone, (XV sec.), La scala di Giacobbe. Avignone, Musée du
Petit Palais.
«E vide in sogno una scala rizzata sulla terra, la cui cima toccava il cielo:
gli angeli di Dio salivano e discendevano per essa» (Genesi).
[…] Queste alate creature circonfuse di luce salgono e scendono per
scale d’oro, simbolo d’unione tra cielo e terra e di ascensione verso i cieli
mistici […] (II, cap. VI, pp. 148-149).
298
INTRODUZIONE
[…] e indossò le sue ali piumate
cosparse d’oro e dai molti colori […].
J. MILTON
Figura 41. Pietro Cavallini (?-1340/50), Angeli (particolare del Giudizio Finale), affresco. Chiesa di S. Cecilia in Trastevere, Roma.
Prisma di Dio, di ali multicolori s’adornerà l’Angelus interpres assimilandosi iconograficamente ad altri mitici messaggeri divini […] (II, cap. VI, p. 152).
299
INTRODUZIONE
Vaghi angeli color malva
spengevano le verdi stelle […].
J.R. JIMÈNEZ
Figura 42. Edward Burne-Jones (1833-1898), L’Arcangelo Samuele con in mano un calice, mosaico (particolare dell’abside), 1885. S. Paolo Dentro le Mura, Roma.
[…] il viola è il colore della spiritualità, ma anche della «separazione», come della perdita e della «ricordanza», quando tinge le vesti del lutto e
della penitenza, nonché colore nunziante il trionfale avvento della Luce,
quando si ferma la ruota della notte nel suo estenuato trascolorare […] (II,
cap. VI, p. 166).
300
INTRODUZIONE
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traevan dietro e ventilate.
DANTE ALIGHIERI
Figura 43. Mattias Grünewald, (1480-1514), Concerto angelico (part.). Altare dell’Annunciazione di Isenheim.
Composto dal giallo, colore solare che qui significa la rivelazione dell’Amore e della Sapienza di Dio, come oro spirituale, luce perfetta riflesso del
Verbo, e del blu, simbolo dello Spirito di Verità, colore della manifestazione della Sapienza divina, il verde è quindi il colore della creazione tramite la Sapienza e l’Amore di Dio […] (II, cap. VI, p. 167).
301
INTRODUZIONE
S’intorbida la luminosa spera
perde azzurro, riflessi, trasparenza.
M. LUZI
Figura 44. Michel Pacher (1483), De Brixen. Alte Pinakothek, Monaco.
[…] Satana stesso viene rappresentato sovente del tutto verde, secondo
l’opposizione simbolica che trasforma il senso positivo della rigenerazione
nel suo negativo di follia, di degenerazione morale. […] Questo verde è quella rabbia verde e grigia che sconvolge il volto del malvagio, è quel riflesso
d’ombra che opacizza in seminagioni di tristezza i rubescenti riflessi angelici quando li sfiora il freddo alitare di un nero volo (II, cap. VI, p. 175).
302
INTRODUZIONE
Ora il Signore Dio sin da principio aveva
piantato un paradiso di delizia: ivi pose
l’uomo da lui formato.
GENESI
Figura 45. Pol e Herman de Limbourg, Très Riches Heures du duc de Berry (14131416), Le Paradis Terrestre, miniatura. Museo Condé, Chantilly.
Tra cielo e terra, il Paradiso Terrestre viene talvolta situato su una montagna che è al centro di un’isola posta all’oriente estremo, nel paese del
Sole nascente, vera insula mundi o comunque collocandosi in un «altrove» inaccessibile, a significare così il mistero della trascendenza e dell’ascensione mistica dell’uomo e simbolizzare il cammino interiore dell’Illuminazione […] (II, cap. VII, p. 182-183).
303
INTRODUZIONE
[…] ed ancora più alta
della montagna appariva una chiostra di alberi immensi
ricchi di splendidi frutti, e fiori e frutti avevano
un riflesso dorato misto ai colori allegri degli smalti […].
J. MILTON
Figura 46. Lodato sia Colui che ha creato l’universo con la Parola, miniatura, 1470.
Museo d’Israele, Gerusalemme.
Prima della caduta, nel giardino dell’Eden, dimora luminosa, irrorata da
sorgenti profumate, tutto era davvero felicità, in un’esuberanza di vita
senza ombre di presagi di morte. L’uomo viveva in piena armonia con la
natura e gli animali […] (II, cap. VII, p. 184).
304
INTRODUZIONE
[…] tu non vedrai che un ricco giardino e un
verde orto di splendente bellezza, incanti
che trasportano i cuori e colmano lo spirito
di chi è vicino e di chi è lontano […].
M.J. RUBIERA MATA
Figura 47. Buraq, il cavallo alato che portò Maometto in Paradiso, stampa popolare islamica.
Locus abundantiae, il Paradiso islamico – dove scorrono fiumi di latte, di
vino e di miele, stracarichi di frutta, di vigneti, di palme – […]. Ma a queste delizie «primarie», visive, olfattive e alimentari, che rivelano l’eterna
ossessione della penuria alimentare e della sete, se ne aggiungono altre
di ben più sofisticata e squisita natura (II, cap. VII, p. 190).
305
INTRODUZIONE
[…] questi uccelli […] peccano di eccesso!
[…] essi sono troppo belli. C’è qualcosa di
dissennato in quel dispiegamento di piume
d’oro, rugginose, fiammee, brunite […].
G. MANGANELLI
Figura 48. D.G. Elliot, Paradisea Sanguinea, in Monograph of the Paradiseidae or Bird of
Paradise, Londra-New York 1873, in-folio.
Topografia luminosa, il Paradiso Terrestre è terra per eccellenza popolata dall’essere alato, […] al riverbero di una luce di cristallo, si agitano le
penne d’oro dell’uccello descritto da Marco Polo, e quelle rosso fiammate
dell’Uccello del Paradiso, il cui nome evoca la sua origine. Davvero «uccello impossibile», quest’ultimo, stemma araldico alato per sempre bloccato nell’eternità di un volo metafisico […] (II, cap. VII, p. 193).
306
INTRODUZIONE
È questo l’animale inesistente! […]
Tanto prudente da sparire per secoli e poi riapparire
ogni volta sfuggendo alla cattura […].
M. MOORE
Figura 49. La Dame a la Licorne. La vue, tappezzeria. Museo di Cluny, Parigi.
[…] il catalogo del bestiario paradisiaco non si limita agli uccelli. Per gli arborescenti sentieri si aggira il bianco unicorno […]. Oltre al corpo di forma
equina, caratteristica fondamentale dell’Unicorno (o Liocorno) è quel lungo,
fallico, corno diritto, spesso scanalato a spirale, che si erge diritto sulla fronte e che rivela una sua discendenza dagli dèi solari (II, cap. VII, p. 194).
307
INTRODUZIONE
[…] il mio triangolo di smeraldo
tira la lingua a doppio filo […]
[…]
Venite a me, razza sventata!
Io, eretto e scaltro, simile
sono alla necessità!
P. VALÉRY
Figura 50. Masaccio (1401-1428), Adamo ed Eva, affresco. Cappella Brancacci, Firenze.
E proprio verde-oro è l’«antico serpente», l’eterno nemico, presente come
un odore, come l’aroma di un’idea, la cui insidiosa profondità mai può
essere svelata […] (II, cap. VII, p. 196).
308
INTRODUZIONE
E Gabriele battè alla sua porta. E subito venne a noi un angelo
di luce, il cui chiarore era settantamila volte maggiore di quello del
sole. […] Quell’angelo ci aprì la porta e noi entrammo.
IL LIBRO DELLA SCALA DI MAOMETTO
Figura 51. Maometto portato dagli angeli di Dio, miniatura (part.), 1583. Museo delle
Arti turche e islamiche, Istambul.
Ne Il Libro della Scala di Maometto (una sorta di Divina Commedia araba) si narra il viaggio iniziatico di Maometto tra cielo e terra sotto la guida dell’Arcangelo Gabriele […]. I due santi pellegrini salgono per otto sfere o «cieli» successivi, ciascuno caratterizzato da un metallo o da una
pietra preziosa […]. Meta del viaggio è la Verità ovvero il Paradiso (II, cap.
VII, nota 74, p. 203).
309
INTRODUZIONE
Il minerale fu come una stella
sprofondata e sepolta.
A colpi di pianeta, grammo a grammo
nascosta fu la luce.
P. NERUDA
Figura 52. Piero della Francesca (1420-1492), Sacra conversazione. Teste di angeli (part.).
Pinacoteca di Brera, Milano.
E poiché, secondo una concezione cosmologica medievale, le pietre preziose, frutto del ventre umido e oscuro della Terra, sono tuttavia di così
purissima natura e luce da esser paragonata a stelle, ne saranno naturalmente ornati gli angeli […]
[…] su di loro «stelle del firmamento dello spirito», brillano quelle altre
«stelle», luce coagulata del firmamento sotterraneo […] (II, cap. VII, pp.
210-211).
310
INTRODUZIONE
Rovente
roseto
calice traboccante.
S. VIRGILLITO
Figura 53. Roger Van der Weyden (1400-1464), S. Michele pesa le anime, particolare del
Polittico del Giudizio Universale. Beaune, Hôtel-Dieu.
[…] san Michele del Giudizio Universale […] la cui implacabile giustizia
è addolcita da riverberi preziosi di sete, gioielli e dalle ocellanti ali ingemmate di luce (II, cap. VII, p. 212).
311
INTRODUZIONE
[…] a quella vetrata d’ostensorio che un’arpa sfiora,
un’arpa formata dall’Angelo col suo volo della sera […].
S. MALLARMÉ
Figura 54. Angelo musicante con galoubet e tamburin, vetrata (XIV-XV sec.). Chiesa di
Bulat-Pestivien, Francia.
Nel suo privilegio di essere pittura luminosa, la vetrata, nuova arte della
luce, è «icona» che fa percepire immediatamente lo splendore della città
di Dio, rendendo accessibile ai sensi ciò che nessun occhio umano vedrà
mai […] (II, cap. VII, p. 216).
312
INTRODUZIONE
Creatura d’Elisio! Chioma sole lucente
occhi fondomare, azzurromare:
Spirito di Letizia, che t’induce
sotto cieli imbronciati?
E. BRONTË
Figura 55. Jacopo da Pontormo (1494-1556), Angelo dell’Annunciazione, part. Cappella
Capponi. Santa Felicita, Firenze.
[…] l’Angelo è l’immagine di Dio, manifestazione del Suo Volto, specchio
puro limpidissimo […]. Come può, l’Invisibile, l’Absconditum tradursi in
immagine? Donde nasce questo enigma dell’angelo? […] Come colui che
collega la capacità con l’incorruttibilità, che coniuga il tempo con l’eternità
[…] l’Angelo si precipita nel nostro mondo attraverso il varco della bellezza […] (II, cap. VIII, p. 220).
313
INTRODUZIONE
Non versa l’arcobaleno
gocce tanto lucenti
come piovon da te melodie.
P.B. SHELLEY
Figura 56. Fra Angelico (1400-1455), Angelo musicante, part. della cornice del Tabernacolo del Linaioli. Museo di S. Marco, Firenze.
[…] poiché il numero, come misura e sinonimo di armonia, costituisce
la pietra angolare su cui Dio ha costruito l’universo […] gli Angeli musicanti rappresentano il segno indelebile nell’economia della creazione e
della continua presenza divina nell’economia della salvazione (II, cap.
VIII, p. 224).
314
INTRODUZIONE
(mi ha preso la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta,
[…]
Tu sei la grande, eccelsa porta
verranno ad aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.
R.M. RILKE
Figura 57. Mattias Grünewald (1480-1514), Annunciazione, particolare dell’Altare dell’Annunciazione di Isenheim.
[…] l’Angelo già si precipita nella storia, entra nella temporalità, quando,
come Angelo-Spirito Santo, Gabriele nell’Annuncio a Maria, egli «dice»
l’Evento messianico e fonda la nuova dimensione della Storia […] che
coincide con il tempo del ritorno, tempo del desiderio e dello stupore […]
quello stupore palpitante colto da Rilke nel suo Angelo Nunziante che
sembra sorpreso nell’atto di frenare il vertiginoso volo (forse in un vorticare rosso-oro delle vesti, dei capelli e delle piume, come l’Angelo di Grünewald davanti al quale si ritrae una biondissima Vergine ancora quasi
bambina?) (II, cap. VIII, p. 228).
315
INTRODUZIONE
E angeli torbidi, collerici,
carbonizzeranno la tua anima,
il tuo corpo.
R. ALBERTI
Figura 58. Marx Ernst (1891-1976), L’Angelo del focolare o Il Trionfo del surrealismo
(1937), olio su tela. Collezione privata.
[…] l’Angelo, il messaggero divino […] non è soltanto l’epifania del volto
benevolo di Dio, egli è anche l’interpres del suo lato più oscuro, tenebroso
e violento. […] L’Angelo sterminatore che inonda di sangue la terra riveste
allora la funzione distruttrice ed apocalittica di Yahweh […] (II, cap. VIII,
p. 231).
316
INTRODUZIONE
Fu allora che l’Angelo si chinò
a raccogliere il fiore
e si macchiò la veste
del rosso sangue degli uomini.
A. CUONO
Figura 59. Anna Maria Bartolini, Angelo (1995), matita, carboncino e pastelli, cm 70 x
100. Collezione privata, Firenze.
[…] in questo suo creaturale trascolorare tra mente e corpo, in questo suo
essere messaggero tra cielo e terra, l’Angelo «patisce» ormai un eccesso di
umanizzazione che lo contamina. […] Sedotto dall’uomo, l’Angelo discende
nel nostro esilio. «Il nostro “sapore” smemora l’Angelo. Dimentica, bevendo
il “vino chiaro” dei nostri tratti, la corda che lo teneva fisso al Principio» (II,
cap. VIII, p. 237-238).
317
INTRODUZIONE
perché so che presto
un angelo fatto di tutto
a prendermi scenderà
angelo o demonio
chi sia fa lo stesso
poco importa […]
È un miracolo.
O. LICINI
Figura 60. Osvaldo Licini (1894-1958), Angeli primo amore (1955), olio su tela.
[…] come quegli alteri angeli-animali dipinti da Osvaldo Licini, che sembrano «unire la tiara allo zoccolo e trasvolare l’aere tra scie d’azzurro,
conservando tracce di una loro precedente natura luciferina nella coda
originaria di demoni» […] (II, cap. VIII, p. 239).
318
INTRODUZIONE
Angelo pieno di gaiezza, dimmi:
conosci tu l’angoscia ed i singhiozzi,
i rimorsi, gli affanni, l’onta, i dubbi
terrori di quelle orride nottate
che comprimono il cuore come carta
spiegazzata? Conosci tu l’angoscia,
Angelo pieno di gaiezza?
C. BAUDELAIRE
Figura 61. Paul Klee (1879-1940), Angel, Still Feeling his Way, 1939. Felix Klee Collection,
Bern.
Ma allora, davvero, l’Angelo patisce di quell’eccesso tutto umano che è passione e dolore e che rompe ogni divino divieto? […] Chi sei dunque oggi,
Angelo? Angelo misero, Angelo frammentato, Angelo interiorizzato nella
passione dell’anima. Angelo caduto. Sono così gli angeli dell’iconografia desublimizzata del moderno in bilico tra i due mondi del sentimento. Distolti
dal concentrarsi nel puro silenzio […] (II, cap. VIII, p. 244).
319
INTRODUZIONE
Un angelo ha portato giù dal cielo una lettera
R. ALBERTI
Figura 62. Riccardo Dalisi, Angelo, scultura in lamiera, h: cm 280. Collezione Dalisi,
Napoli.
Gli Angeli hanno dunque ripreso a volare?
[…] e poiché il ricordo del cielo è nel contempo memoria della luce, tu allora, Angelo della luce, ritorna, rispondi alle nostre litanie della speranza […]
Il mondo ha sete d’azzurro,
tu verrai a soddisfarla (II, cap. VIII, pp. 246-249).
320
INTRODUZIONE
Debiti iconografici
Il Diavolo, «Abstracta», n. monogr. n. 36, aprile 1989 (II-7, 10).
«Angeli», Centro Di, Firenze, 1994 (II-34).
Hieronymus Bosch, «Art dossier», n. 21, febbraio 1988, Firenze, Giunti (I-23).
n. 13, maggio 1987 (I-16).
n. 38, settembre 1989 (II-8, 32).
n. 48 luglio-agosto 1990 (II, 22).
British Museum, Musei del Mondo, Milano, Mondadori, 1967 (I-14, 24).
Da Giotto al Mantegna, catalogo della Mostra: Palazzo della Ragione, Padova, 1974,
Milano, Electa (II-1).
J. Delumeau, Le Paradis, Paris, Fayard, 2001 (II-18, 23, 26).
Dürer. Incisioni, A. Vallardi, Milano, 1964 (I-2, 21).
«FMR», Parma, F.M. Ricci, n. 38, 1985 (I-6).
n. 30, gennaio-febbraio 1985 (I-15).
n. 24, giugno 1981 (II-6, 14, 20).
n. 16, novembre 1983 (II-19).
Forma e Colore. I Mosaici Ravennati, Firenze Sadea, Sansoni, 1964 (II-2).
R. Gilles, Il simbolismo dell’arte religiosa, Roma, Arkeios (I-9, 27).
Mattias Grünewald (H. Ziermann), Monaco-Londra-New York, Prestel, 2001 (II-15, 29).
Hieronymus Bosch, Köln, B. Taschen, 1973 (I, 1).
Hokusai, catalogo della Mostra a Palazzo Reale, Milano, ottobre 1999-gennaio 2000,
Milano, Electa, 1999 (I-26).
Il mito del sole (a cura di M. Singh), Milano, Silvana, 1993 (I-8, 12, 13, 18, 19, 20, 22).
I Maestri del Colore. Il Parmigianino, n. 24, Milano, F.lli Fabbri, 1964 (I-17).
La Pinacoteca di Volterra, Firenze, Arti Graf. Giorgi & Gambi, 1989 (I-9).
La Pittura Italiana. Gli Iniziatori del Rinascimento, Skira, 1956 (I-11; II-13, 28).
La Révolution Surrealiste, catalogo della Mostra al Centro Pompidou, Paris, 2002 (II-30).
G. Knapp, Angel, Archangels, Munich-New York, Prestel (I-10; II-27, 33).
Simone Martini (a cura di M. Pierini), Milano, Silvana, 2000 (I-3, II-5 ).
Museo Nazionale di Tokio. Musei del Mondo, Milano, Mondadori, 1968 (I-7).
Musei Vaticani. Roma. Musei del Mondo, Milano, Mondadori,1968 (II, 11).
Museum of Fine Arts, Boston. Musei del Mondo, Milano, Mondadori, 1969 (I-25).
National Gallery. Musei del Mondo, Milano, Mondadori, 1970 (II, 2).
Pesca e pescatori nell’antichità, a cura di A. Donati, P. Pasini, Milano, Leonardo Arte,
1997 (I-5).
321
321
INTRODUZIONE
Pinacoteca di Brera. Musei del Mondo, Milano, Mondadori, 1970 (II-24).
Michel Serres. La Légende des Anges, Paris, Flammarion, 1993 (I-4; II-4, 12, 16, 17, 25).
Cosmè Tura. L’opera completa, a cura di R. Molajoli, Milano, Classici dell’Arte Rizzoli,
1974 (II-3).
Osvaldo Licini, Catalogo della Mostra a Palazzo Reale, Milano, giugno-ottobre 1994,
Firenze, Artificio, 1994.
322
INTRODUZIONE
Note
Capitolo I
J. Milton, Paradiso perduto, trad. R. Sanesi, libro III, vv. 1-3, Milano, Mondadori, 1984, p. 109.
2.
J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, Parma, F.M. Ricci, 1977, pp.
41-42.
3.
«[…] entro una sfera di cristallo il mondo vive il terzo giorno della Creazione,
sotto un cielo denso di nubi che si ammassano verso la sommità, accentuando il senso di separazione. La terra si coagula e si separa anche dalle acque che
intorno le fanno anello. Mentre il suo primo germinare e nascere è lento e faticoso, quasi sordamente rombante nella grisaglia variata nei colori bruni» (S.
Orienti, R. De Solier, Hieronymus Bosch, Milano, Alfieri & Lacroix, 1974, p. 82).
4.
E. Gombrich, «The Heritage of Apelles. Studies in the Art of the Renaissance»,
in R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, Torino, Boringhieri, 1981, pp.127-128.
5.
«Il libro dell’Apocalisse», IV, in La Sacra Bibbia, Firenze, Salani, 1963, p. 1766.
6.
Anonimo, «Un’elegia quechua sulla morte di Atahualpa», in M. León-Portilla,
Il rovescio della conquista, testimonianze azteche, maya e inca, Milano, Adelphi,
1974, p. 178. La perturbante immagine dell’«arcobaleno nero» percorre la poesia. Si noti per esempio questo verso di J. Paul (Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., p. 9): «[…] un nero arcobaleno di nuvole temporalesche s’inarca
su questa terra abbandonata». S. Esenin («Ironia», in Poesie e poemetti, Roma,
Avanzini e Torraca, 1968, p. 144) scongiura invece un «arcobaleno di ghisa» di
non gravare su campi e fiumi.
7.
«Bellezza che è colore e armonia» (Agostino, De Civitate Dei, XXII, 19, 2, in F.
Rella, Bellezza e Verità, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 10).
8.
J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., p.10.
9.
Ibidem, pp. VII-VIII.
10.
R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., p. 13.
11.
V. Ronchi, Storia della luce, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 6.
12.
R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., pp. 13-16, 17. Per la storia delle teorie
del colore si vedano altresì M. Barberis, Teorie del colore, frammenti per un’analisi fenomenologica, Bologna, Esculapio, 1991, p. 40 e ss; J.W. Goethe, La
storia dei colori, a cura di R. Troncon, Milano-Trento, Luni, 1997.
13.
Platone, «Timeo», in Dialoghi, Torino, Einaudi, p. 451.
14.
M. Barberis, op. cit., p. 41.
15.
R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., p. 17.
1.
323
INTRODUZIONE
D. Alighieri, La Divina Commedia, «Paradiso», XXX, vv. 49-51, Firenze, La
Nuova Italia, 1985.
17.
M. Luzi, «Petrarca», in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano,
Garzanti, 1944, p. 43.
18.
La mandorla rappresenta il mistero della luce, cioè l’oggetto della contemplazione, il segreto dell’illuminazione interiore. Nell’iconografia medioevale una
mandorla aureola il Cristo o la Vergine come rappresentazione della luce celeste e insieme emanazione della beatitudine paradisiaca e velo della visione beatifica. Inoltre essa corrisponde all’arcobaleno, secondo l’Apocalisse (IV, 3): «Colui che siede è come una visione di diaspro verde o di corniola: un arcobaleno
intorno al trono è come una visione di smeraldo» (J. Chevalier, A. Gheerbrant,
Dictionnaire des symboles, Paris, Seghers, 1973, I, p. 43).
19.
Leonardo da Vinci, «In quanta distanzia si perdanno li colori delli obbietti de
l’occhio», in P. Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, IX, Colore, Milano, Ricciardi-Einaudi, 1979, p. 2129.
20.
R. Pierantoni, L’occho e l’idea, cit., p. 32.
21.
Ibidem, pp. 22 e 42.
22.
Citato in F.A. Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972.
23.
R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., pp. 44-46. Nel 1873 Golgi riuscì a evidenziare le cellule nervose, mediante una colorazione legata da una reazione
ancora «misteriosa», rendendole visibili contro uno sfondo trasparente.
24.
M. Moore, «La mente è una cosa che incanta», in Le poesie, trad. L. Angioletti
e G. Forti, Milano, Adelphi, 1991, p. 269; è posto in coda al volume il saggio di
T.S. Eliot, Il fascino di un microscopio.
25.
R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., p. 122.
26.
I. Newton, Proposizione VII, libro I, parte II, in V. Ronchi, op. cit., p. 293.
27.
A. Huxley, Le porte della percezione, Napoli, Devil Books, s.d.
28.
G. ad-Dîn Rûmî, Poesie mistiche, trad. A. Bausani, Milano, Rizzoli, 1980, p. 111.
29.
M. Barberis, op. cit., p. 39.
30.
Aristotele, «De Anima», in Opere complete, Bari, Laterza, 1973, vol. IV, p. 145.
31.
D. Alighieri, Convivio, III, IX, Milano, Rizzoli, 1952, p. 188. In questa opera
Dante considera il processo della visione come un fenomeno connesso all’ingresso di raggi luminosi attraverso la pupilla.
32.
Ibidem, XIV, p. 208.
33.
Ibid., XIV, p. 209.
34.
M. Barberis, op. cit., pp. 50-51: «La luce di Avicenna è una qualità degli oggetti che si manifesta nella vista, dove nella definizione dell’unità aristotelica
del mondo prevale una visione fortemente sublimata». Dante, sempre nel
Convivio (III, XIV), ispirandosi ad Avicenna, riprende la differenza tra «luce», come «agente primo» «raggio», quale movimento della luce, e «splendore» che è
l’immagine riverberata della «luce prima».
35.
D. Alighieri, Paradiso, III, vv. 10-15, cit.
36.
M. Barberis, op. cit., p. 50.
37.
Ibidem, p. 51.
38.
J.W. Goethe, La teoria dei colori, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 11.
39.
J.Z. Young, I filosofi e il cervello, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 136.
40.
P. Simondo, Il colore dei colori, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 25.
16.
324
INTRODUZIONE
J. Milton, op. cit., libro IV, p. 183.
P. Simondo, op. cit., p. 27.
43.
A. Schopenhauer, La vista e i colori, Milano, SE, 1988.
44.
I. Newton, «Principi matematici della filosofia naturale», Torino, UTET, 1965,
citato in R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 274.
45.
Ibidem.
46.
«Mischio, cioè mescolato, significa corrotto» scrive F.P. Morato, letterato e studioso del colore del XVI sec., e aggiunge: «il mischio mostra bizzarria di testa»
giacché usare più colori, anche nella propria veste, «dimostra una mente molto
bizzarra e piena di vari appetiti» (F. Barocchi, op. cit., pp. 2173 -2178). La varietà
dei colori anticamente era considerata infatti segno di bizzarria, di confusione, se
non di malvagità e di peccato (si pensi a tal proposito alla «bestia maculata» che
appare a Dante nella «selva oscura». Nel Convivio, invece il poeta citando S.
Agostino, fa coincidere l’«uomo maculato d’una passione» con il concetto di
«deformità» morale. Anche le meretrici, infatti, vestivano «vesti divisate». Si veda
altresì M. Pastoureau, La stoffa del diavolo, Genova, il Melangolo, 1993).
47.
J. Cocteau, «Le caméléon», in Le Potomak, in Œuvres complètes, vol. 2, Genève, Marguerat, 1950.
48.
G.C. Argan, Introduzione a J.W. Goethe, La teoria dei colori, cit., p. XI.
49.
J.W. Goethe, La teoria dei colori, cit., pp. 2 e 14.
50.
A. Schopenhauer, op. cit., p. 38.
51.
Il tre è ovunque un numero fondamentale. Esprime un ordine intellettuale
e spirituale, riferito a Dio, al cosmo e all’uomo. Primo numero dispari, in sé
contiene il Cielo e la Terra, essendo anteriore alla loro polarizzazione. È dunque il numero perfetto, espressione di totalità e di compimento, e la sua simbologia è vastissima (J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., IV, pp. 333-338).
52.
M. Barberis, op. cit., pp. 47-48; R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, cit., p. 130.
Per la simbologia del sette si veda J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., IV, pp.
170-179.
53.
Ibidem, p. 11. Per i molteplici significati del codice tricromatico bianco-rosso-nero. Si veda A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, Palermo, Medical Books, 1997.
54.
M. Barberis, op. cit., p. 11.
55.
M. Moore, «Luce è linguaggio», in Le poesie, cit., p. 201.
41.
42.
Capitolo II
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 154.
V. Ronchi, op. cit., p. 41.
3.
P. Bianucci, Il sole, Firenze, Giunti, 1992, p. 238. «Negli infiniti oggetti che ci
circondano i colori dipendono dal modo di reagire degli elettroni alle onde dello spettro visibile. Quando la materia è investita dalla luce i suoi elettroni vengono sollecitati a compiere piccolissime vibrazioni che, a loro volta, corrispondono all’emissione di luce. I colori risonanti vengono assorbiti e convertiti in
calore, cioè non più riemessi nel visibile ma nell’infrarosso, a causa della particolare struttura in cui le molecole sono organizzate. La frequenza non risonante viene invece riemessa, con un maggiore o minore allargamento spettra1.
2.
325
INTRODUZIONE
le. Così, per esempio, una foglia ci appare verde perché assorbe tutti i colori
tranne il verde, e così via. Una miscela di vari coloranti, infine, appare nera
perché converte in energia termica (infrarosso) tutte le frequenze luminose che
riceve» (ibidem, p. 240).
4.
J.Y. Cousteau, Il mondo silenzioso, Milano, Mondadori, 1971, p. 194.
5.
M. Barberis, op. cit., p. 13.
6.
M. Moore, «I pesci», in Le poesie, cit., p. 71.
7.
J.Y. Cousteau, op. cit., pp. 193-194.
8.
Ibidem. La licha era il grosso pesce di cui sopra.
9.
J. Milton, op. cit, libro VII, vv. 401-406, p. 329.
10.
P. Simondo, op. cit., p. 48.
11.
Ibidem, p. 49.
12.
Ibidem.
13.
AA.VV. Colore, Milano, Idea Libri, 1982, p. 218.
14.
Secondo C.G. Jung «l’immagine istintuale si scopre non sulla banda rossa
ma sulla banda viola della scala dei colori. La dinamica degli istinti è localizzata per così dire nella parte infrarosso dello spettro, mentre l’immagine istintuale si trova nella parte ultravioletto» (C.G. Jung, «La dinamica dell’inconscio»,
in Opere, vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1967, p. 228). «Il viola dell’aura prodotta
da un essere umano tramite l’effetto Kirlian è un indice di spiritualità se la tinta è chiara, un sintomo di depressione quando è scura. L’autoconsiderazione
dà radiazioni porpora, una preferenza per il violetto nel test di Lüscher è sintomo di immaturità» (AA.VV., Colore, cit., p. 218).
15.
«L’ayahuasca è spesso associata ad auree viola e allucinazioni blu scuro: questo può indicare un plasma termico, forse visibile solo nello spettro UV» (T. Mc
Kenna, Vere allucinazioni, Milano, Shake Ed. Underground, 1995, pp. 84 e 78-79).
16.
A. Overath, «Fragments d’azur», in AA.VV., Azur, Catalogue de «L’esposition
azur», Gand, Fondation Cartier-Snoek-Ducaju & Zoon, 1993, p. 55.
17.
S. Ejzenštejn Il Colore, Venezia, Marsilio, 1982, p. 68.
18.
A. Rimbaud, «Voyelles», in Poesie, trad. D. Bellezza, Milano, Garzanti, 1977,
pp. 30-31.
19.
M. Lagrange, «A la fenêtre des couleurs», in AA.VV., Figures. Du noir au blanc,
Dijon, Ed. Univ. de Dijon (EUD), 1991, Cahier n. 6-7, p. 95 e ss.
20.
A. Merini, La presenza di Orfeo, Milano, Scheiwiller, 1993, p. 26.
21.
M. Lagrange, op. cit., p. 98.
22.
Ibidem, p. 106.
23.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 155.
24.
S. Ejzenštejn, op. cit., p. 91.
25.
P.B. Shelley, «La nuvola», in Poesie, trad. G. Conte, Milano, Rizzoli, 1989, p.
215.
26.
R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975, pp. 230, 303.
27.
M. Singh (a cura di), Il mito del sole, Milano, Silvana, 1993, p. 90.
28.
V.N. Zalesskaya, Y.A. Piatnitsky, «Il Sole nell’arte bizantina e russa», in M.
Singh, op. cit., p. 265.
29.
R. Guénon, Simboli della scienza sacra, cit., p. 303.
326
INTRODUZIONE
Il libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), a cura di G. Tucci, Torino, UTET, 1972,
pp. 126 e 18; Introduzione di G. Tucci.
31
Ibidem, p. 47.
32.
J. Paul, «Il Sogno di Emmanuel», in Il discorso del Cristo morto e altri sogni,
cit., pp. 15 e 17.
33.
M. Barberis, op. cit., p. 94. Per il valore simbolico del colore e il suo emergere
in «codici» cromatici nei vari ambiti culturali: mito, arte, fiaba oltreché nell’antropologia, si veda A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
34.
J. Keats, Endimione, trad. V. Papetti, libro I, vv. 579-580, Milano, Rizzoli,
1988, p. 37.
35.
J. Milton, op. cit., libro VII, vv. 578-579, p. 339.
36.
B. Box, in P. Bianucci, op. cit., pp. 99-100.
37.
C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 324 e 393.
Per il «serpente arcobaleno» e il suo legame con la Via Lattea, si veda anche H.
Egli, Il simbolo del serpente, Genova, ECIG, 1993, p. 162. Per i vari miti legati all’arcobaleno e i loro significati dinamici, cfr. A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
38.
G. Apollinaire, «La Grâce exilée», in Opere, trad. M. Pasi, Parma, Guanda, 1976,
p. 186.
39.
R. Guénon, Simboli della scienza sacra, cit., p. 108.
40.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 66.
41.
R. Guénon, Simboli della scienza sacra, cit., p. 109.
42.
H. Corbin, L’immagine del Tempio, Torino, Boringhieri, 1983, p. 91. La forma del Tempio divino, sia che si manifesti nel Tempio di Salomone, nella Ka’ba
della Mecca, o nel Castello del Santo Graal dei Templari, o altrove, si istituisce
– nello schema ideale e nel piano costruttivo – quale, appunto, «centro», somma di tutti gli equilibri e di tutte le rispondenze.
43.
A. Artaud, Eliogabalo, Milano, Adelphi, 1969, pp. 17 e 16.
44.
B. Berlin, P. Kay, Basic Color Termes, Los Angeles, University of California
Press, Berkeley, 1969; si veda anche AA.VV., Il sentimento del colore, Como, RED,
1990; AA.VV., Figures. Du noir au blanc, cit.; A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
45.
A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
46.
W.B. Yeats, «Gli uccelli bianchi», in Poesie, trad. L. Traverso, Firenze, Vallecchi, 1973, p. 11.
47.
A. Artaud, op. cit., p. 16: «Domina […] Diana, Artemis, Ishtar, ed è anche
Proserpina la forza del nero femminile. Il nero della terza regione della terra. La
donna incarnata negli inferi, e che mai riaffiora oltre il livello degli inferi».
48.
G. Busi, E. Lowental (a cura di), Mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1995, Introduzione, p. XXXV.
49.
P. Virgilio Marone, Eneide, trad. E. Cetrangolo, libro VI, vv. 701-702, Firenze,
Sansoni, 1966, p. 511.
50.
Ibidem, libro VI, vv. 270-271, p. 486. Per il significato «infero» del bianco-nero si veda anche J.M. André, «La symbolique des couleurs dans l’eschatologie
romaine: essai de geographie infernale», in AA.VV., Figures. Du noir au blanc,
cit., pp. 58-70.
51.
Per indicare quella grandezza che serve per rappresentare in modo preciso
30.
327
INTRODUZIONE
il «chiarore» che uno vede sopra una superficie luminosa o illuminata, si usano due termini: luminanza che indica la grandezza fisica, e brillanza, quella
psichica (V. Ronchi, op. cit., p. 307).
52.
Anche nel citato Libro tibetano dei morti si distingue tra epifanie luminose
«trasparenti, abbaglianti paurose» emanazioni del divino e quelle «fosche non
abbaglianti» che provengono dall’Inferno, e giacché il dio delle opere buone è
bianco e il demone delle opere cattive è nero, con sassolini, rispettivamente
bianchi e neri, essi sanciranno il giudizio finale del morto. Ritroveremo questa
differenziazione tra brillante, trasparente e opaco del colore, «confine» tra angelico e demonico nella seconda parte di questo lavoro. Per la ricca gamma significante «buono e cattivo» del bianco-nero, si veda anche AA.VV., Figures. Du
noir au blanc, cit. e A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
53.
W. Burroughs, «The Soft Machine», in Il pasto nudo. Appendici, Milano, Sugar,
1964, p. 25; H. Melville, Moby Dick, Milano, Mondadori, 1976. Sul simbolismo
del bianco buono-cattivo, si veda A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli
e colore, p. 136 e ss., e A. Castoldi, Bianco, Firenze, La Nuova Italia, 1998.
54.
J.J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi, Napoli, Guida, 1989, pp.
88-91.
55.
E.A. Poe, «Il Corvo», in Tutte le poesie, trad. T. Pisanti, Roma, Newton Compton,
1982, pp. 133-141.
56.
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1972,
pp. 83 e 34.
57.
A. Portelli, «Introduzione alla letteratura afro-americana», in AA.VV., Altri lati del mondo, Roma, Sensibili alle foglie, 1994, pp. 33-68. Si veda anche A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit., p. 138 e ss.
58.
Ibidem, p. 32. La citazione è tratta da Autobiografia di Malcom X, Torino,
Einaudi, 1967, pp. 197-199.
59.
J. Knuf, «L’opposition élémentaire: le noir et le blanc comme signe», in AA.VV.,
Figures. Du noir au blanc, cit., pp. 26-55.
60.
G. Durand, op. cit., pp. 153-155. Si veda anche J. Chevalier, A. Gheerbrant,
op. cit., III, p. 150.
61.
G. Scholem, «I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica ebraica» in AA.VV., Il sentimento del colore, cit., p. 64. L’antica concezione ebraica disegna un cosmo tripartito in livelli progressivi di luce, in fasce splendenti, alla cui sommità è posto il trono del Signore. La nozione di cielo evoca in tal modo la figura di striscia avvolgente luminosa (G. Busi, Introduzione a Mistica
ebraica, cit., p. LV).
62.
Salmo 104, in G. Ceronetti (a cura di), I Salmi, Torino, Einaudi, 1994, p. 239.
63.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976, p. 50.
64.
J. Keats, Endimione, cit., libro I, v. 326, p. 268.
65.
M. Luzi, La Luce (del Paradiso di Dante), Forte dei Marmi, Gall. Pegaso, 1994,
p. 8.
66.
S.Y. Sohravardî, «Libro d’Ore», in H. Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 268.
67.
G. Durand, op. cit., p. 121.
68.
G. Dumézil nel suo Gli dèi dei Germani (Milano, Adelphi, 1974) ha studiato
il simbolismo dell’oro nei Germani a proposito dei «miti della vitalità» e degli dèi
della fecondità, notando come l’oro sia una sostanza ambivalente, motivo di
ricchezze come causa di sventure. Si veda a tal proposito anche G. Durand, op.
cit., p. 265.
328
INTRODUZIONE
«Una volta» racconta Renée, una giovane schizofrenica che era in cura da A.
Séchehaye, «mi trovavo al patronato e vidi improvvisamente la sala diventare immensa e come rischiarata da una luce terribile, elettrica e che non dava vere ombre […]» (A. Séchehaye, Diario di una schizofrenica, Firenze, Giunti Barbera, 1955).
G. Durand (op. cit., p. 143) afferma che in questo caso patologico si ha a che fare
con l’ossessione angosciata della luce, del brillante e della levigatezza ma sempre
però legati alla segnalazione degli oggetti, degli esseri e degli elementi.
70.
P.B. Shelley, «Prometeo liberato», in Poesie (1989), cit., p. 77.
71.
G. Groddeck, Questione di donna, Parma, Guanda, 1980, p. 29.
72.
D. Alighieri, La Divina Commedia, cit., «Inferno», XXIII, vv. 64-65. Del resto,
il significato etimologico della parola «ipocrita», sarebbe «coperto d’oro» (R. Gavioli Fabbri, Il colore nella Divina Commedia, Atti della Fondazione Giorgio
Ronchi, XLIV, n. 5, settembre-ottobre 1989, p. 262).
73.
G. Durand, op. cit., p. 145.
74.
P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano, Adelphi, 1977, pp.
140-141, 137, 50-70.
75.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 42.
76.
D. Alighieri, Paradiso, XXI, vv. 28-30, cit.
77.
M. Barasch, Luce e colore nella teoria artistica del Rinascimento, Genova,
Marietti, 1992, p. 30. Il conflitto fra queste due posizioni continua anche nel
Rinascimento. Gli artisti che dipingevano alla «maniera greca» usavano ancora le
zone dorate del dipinto per rappresentare le luci, mentre il Cennini le considerava rappresentazioni della materia degli oggetti d’oro, ponendosi in questo a cavallo
tra l’antica pratica medioevale e quella «moderna», naturalistica (propugnata in seguito da Leon Battista Alberti), che adottava soluzioni pittoriche che dessero l’illusione dell’oro senza ricorrere al metallo vero e proprio. Ibidem, pp. 32-48.
78.
P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, cit., p. 135.
79.
Nella Margarita philosophica, popolare enciclopedia del Quattrocento, si descrive lo splendor come riflesso della luce soprannaturale, il cui significato non
è esauribile attraverso l’osservazione empirica. Marsilio Ficino, sul finire del secolo, usa il termine splendor per indicare il massimo grado di luminosità in
una scala di luci e di colori, senza fare però alcun riferimento al tipo di materia. Infatti, se nei testi antichi di cui poteva disporre un umanista del Quattrocento (per lo più opere greche tradotte in latino), splendor designa un alto
grado di luminosità, senza far riferimento al materiale (nel Timeo di Platone
«fulgido» «splendente» e «brillante» vengono usati come sinonimi e nel De coloribus et artibus Romanorum, trattato pseudo-aristotelico del Rinascimento, l’identità fra splendore e brillantezza è evidente nel passo in cui l’autore affianca «lo splendore e il risplendere» all’«oscurità e opacità»), nel Medioevo il concetto di splendor aveva acquistato, in teologia e nelle opere letterarie a essa collegate, una connotazione metafisica, in quanto riflesso della luce divina e non
quindi una semplice qualità del materiale (M. Barasch, op. cit., pp. 50 e 49).
80.
D. Alighieri, Paradiso, II, vv. 32-36, cit.
69.
Capitolo III
Racconto azteco trascritto da Padre Bernardino de Sahagun (XVI sec.) citato in
E.M. Moctezuma, «Gli Aztechi: Il popolo del Sole», in M. Singh, op. cit., p. 369.
1.
329
INTRODUZIONE
Y. Bonnefoy, Dizionario delle mitologie e delle religioni, Milano, Rizzoli, 1989,
vol. II, p. 843.
3.
J.P. Russel, «Il sole nella cultura di Zoroastro», in M. Singh, op. cit., pp. 23549, e Y. Bonnefoy, op. cit., vol. II, p. 1199.
4.
Così di getto, e dopo aver sentito le proprie guardie cantare un inno (presumibilmente pagano) al sole nascente, un patriarca della Chiesa armena del XII
sec., San Nerses Shnorhsli, compose un inno cristiano per l’officio dell’alba (J.
R. Russel, op. cit., p. 244).
5.
F. Hölderlin, Iperione, trad. G. Vigolo, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 50.
6.
K. Kerényi, Figlie del Sole, Torino, Einaudi, 1949, p. 29.
7.
F. Hölderlin, in K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 21.
8.
Così scrive D.H. Lawrence nel suo commentario all’Apocalisse (in K. Kerényi,
Figlie del Sole, cit., p. 26) e aggiunge: «Che cos’è il nostro meschino amore per
la natura – la natura a cui ci si rivolge come a una persona! – al paragone di
quel sublime vivere-col-Cosmo ed essere-onorati-dal-Cosmo!».
9.
R.S. Virgillito, Incarnazioni del fuoco, Bergamo, Moretti e Vitali, 1991, p. 45.
10.
K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 24.
11.
M. Singh, op. cit., pp. 95-97.
12.
J. Lacarrière, «Il sole nella cultura tradizionale francese», in M. Singh, op. cit.,
pp. 316-317.
13.
R.C. Hope, in M. Green, «Gli dèi del sole nell’antica Europa», in M. Singh, op.
cit., p. 309.
14.
M. Singh, op. cit., p. 87.
15.
«Il Vangelo secondo san Matteo», XVII, 2, in La Sacra Bibbia, cit., p. 1391. In
altre lezioni la veste è «candida come la luce»: si ribadisce la «bianchezza» come simbolo della qualità radiante della luce solare, in molti contesti perciò
uguale al bianco (si veda anche L. Luzzatto, R. Pompas, Il significato dei colori
nelle civiltà antiche, Milano, Rusconi, 1988, p. 121).
16.
Apocalisse, I, 15-16, cit., p. 1764 e ancora in Matteo, XXII, 43, cit., p. 1402:
«Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro». È da notare come anche qui il bianco sia sinonimo di luce purissima.
17.
La frase è citata in K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 27.
18.
Libro dei morti, Brescia, Paideia, 1991, cap. LIV. Si veda altresì L. Luzzatto,
R. Pompas, op. cit., p. 100.
19.
M. Homet, Alla ricerca degli dei solari, Milano, Longanesi, p. 179. Per il simbolo della mano nell’arte rupestre, si veda M. Singh, op. cit.; E. Anati, Origini
dell’arte e della concettualità, Milano, Jaca Book, 1989; A.R. Verbrugge, Le
symbole de la Main dans la Préhistoire, Compiègne, 1969.
20.
J.F. Romano, «La cultura solare nell’antico Egitto», in M. Singh, op. cit., p. 328.
21.
K. Kerényi, Figlie del Sole, p. 27.
22.
M. Barberis, op. cit., p. 44.
23.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 77. L’Autore evidenzia come i nomi delle divinità supreme indo-ariane rivelino il binomio originario «luce (giorno)-sacro» che sarebbe all’origine di Dieus, l’ipotetico dio del cielo luminoso, comune a tutte le tribù ariane (cfr. il sanscrito div, «splendere», «giorno»; dyaus, «cielo», «giorno» e dios, dies, deivos, divus) che si potrebbe intravedere nell’indiano Dyaus, nell’italico Juppiter, nell’ellenico Zeus, nel germa2.
330
INTRODUZIONE
nico Tyr-Zio, tutte divinità supreme rivelanti i loro legami organici col cielo sereno e lucente (ibidem, p. 74).
24.
«Le corps parsemé d’yeux», in A.K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi
di simbolica e arte, Milano, Adelphi, 1987, pp. 317-321 (si veda anche Platone,
Timeo, cit., 47 b).
25.
E. Haingham, I misteri dell’antica Britannia, Roma, Newton Compton, 1994, p.
103.
26.
M. Singh, op. cit., p. 125.
27.
W. Blake, in E. Zolla, Archetipi, Venezia, Marsilio, 1988, p. 132. Si veda anche M. Eliade, Mefistofele e l’androgino, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971,
pp. 160-169, e il cap. VIII della seconda parte del presente volume.
28.
«A Helios», 7, VIII, in Inni orfici, Roma, Ãs’ram Vidya, 1986, p. 39.
29.
M. Singh, op. cit., p. 39. Si tratta di una scultura etrusca del V sec. a.C. conservata al Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo. Simili concezioni orientali dell’immortalità e della reincarnazione dell’anima in cui forze opposte di elementi fiammeggianti emergono dall’acqua e spiccano il volo verso il cielo appariranno nell’iconografia indiana. Nel buddismo Vajrayama, per esempio, è la
divinità serpentiforme Pancharaksha, raffigurata con molte teste che si stagliano su un’aureola fiammeggiante e l’intero corpo costellato da «mille occhi»
mentre emerge dall’acqua spumeggiante e ascende al cielo (ibidem, p. 40).
30.
D.H. Lawrence, Il serpente piumato, Milano, Mondadori, 1971, p. 249. Ritroveremo ancora nella seconda parte del presente volume (capp. V-VI) questa
iconografia delle due ali, una di tenebra e una di luce, nell’Angelo imporporato, a significare la doppia valenza di luce e di ombra, cioè di passaggio.
31.
Invocazione al sole contenuta in un papiro magico di Berlino, pubblicato da
G. Parthey, analizzato da K. Diltley, e citato in R. Caillois, I demoni meridiani,
Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 12. In Egitto, infatti, Râ rappresenta il Sole
dominatore allo zenit in opposizione a Kepri (colui che diviene) il sole che si leva, e ad Atoun (la cui radice è tus «non essere») il sole che cala; è Râ stesso a dire a Iside: «Io sono Kepri la mattina, Râ a mezzogiorno, Atoun la sera» (ibidem).
32.
Turner aveva accompagnato questa citazione al suo quadro L’Angelo ritto nel
sole (R. Caillois, op. cit., p. 125).
33.
J. Paul, «Rintocchi finali», in Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., p. 8.
34.
Testi religiosi egizi a cura di S. Donadoni, 246 (Pyr. 252 a-252 b), Torino,
UTET, 1970, p. 62. «Gli occhi di Horus erano uno bianco e uno nero, oppure uno
rosso, o uno oro e uno argento e rappresentavano il Sole e la Luna. Il bianco
era simbolo della luce solare quando era in opposizione al nero o al rosso, mentre contrapposto all’oro simboleggiava la luna e in questo caso era detto “occhio
bianco d’argento”» (L. Luzzatto, R. Pompas, op. cit., p. 121, n. 11). Il bianco era
il colore di Horus, il dio solare raffigurato come falco sormontato dal disco solare in opposizione al nero ctonio di Osiride e al rosso malefico di Seth.
35.
F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume, Milano, Adelphi, 1970, p. 11.
36.
P. Valéry, Il cimitero marino, trad. M. Tantino, vol. II, Torino, Einaudi, 1966,
p. 13.
37.
C. Ossola, Introduzione a R. Caillois, op. cit., p. XI.
38.
R. Caillois, op. cit., pp. 55, 19, 41. «Incubo», deriva dal latino incubus (essere che agisce sul dormiente), dal tema di incubare (giacere sopra), indica un essere demoniaco, o genio malefico che, secondo antiche credenze mitologiche,
opprime la persona, soprattutto se in stato febbrile, nel sonno dandole un sen-
331
INTRODUZIONE
so di soffocamento o congiungendosi carnalmente con lei: da qui anche il significato di sogno spaventoso, terrificante, caratterizzato da senso di oppressione e angoscia (A. Duro, Vocabolario della Lingua Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1986-1994). Si distingue tuttavia tra incubo
(demone maschile che seduce in sogno donne), e succubo (demone femminile
che seduce in sogno uomini); R. Caillois, op. cit.
39.
M. Homet, nel suo Alla ricerca degli dei solari, racconta che il fiume Tapirate
aveva una sorgente in un lago misterioso e inavvicinabile per la presenza dei
terribili indiani Caiapos: «Questo lago si chiama Jacaré Vermelho (coccodrillo
rosso) o Cobra Vermelha (cobra rosso), cosa che sta a dimostrare che i simboli sacri del dio sole sono identici a quelli della regione mediterranea» (p. 41).
Infatti anche nell’antico Egitto l’ureo «ardente» che si ergeva sulla fronte di Râ
era assimilato all’occhio del dio sole («l’ardore dell’alito infuocato del suo ureo»).
Si vedano altresì Testi religiosi egizi, cit., p. 71 e Libro dei morti, cit., p. 60 e, per
le significazioni simboliche del serpente, H. Egli, op. cit.
40.
W. Blake, in E. Zolla, Archetipi, cit., p. 58.
41.
G. Durand, op. cit., p. 145 (si veda il cap. IV del presente volume a proposito della Chanson de Roland).
42.
M. Homet (op. cit., p. 48) nota come, verso il Duemila a.C., il culto fallico di
Cadmos, il dio rosso dei Fenici, fosse esteso lungo tutte le coste dal Baltico
all’Indo. Per il culto del fallo si vedano anche M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit; J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit.
43.
W. Blake, «Dal Manoscritto Rossetti», in Visioni, trad. G. Ungaretti, Milano,
Mondadori, 1993, p. 53.
44.
J. Paul, «Il duplice rossore», in Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit.,
p. 76.
45.
J.J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi, cit., p. 503.
46.
«A Eros», 32, LVIII e «A Pan», XI, in Inni orfici, cit., pp. 101 e 49.
47.
A. Artaud, op. cit., p. 49.
48
Secondo la tradizione ebraica Adamo fu appunto impastato con l’adamah (argilla rossa) e il suo nome significa «rosso e vivente». Nelle lingue di ceppo slavo
«rosso» corrisponde a «vivo e bello» (L. Luzzatto, R. Pompas, op. cit., p. 215; M.
Brusatin, Storia dei colori, Torino, Einaudi, 1983, p. 14). Secondo credenze mitiche indonesiane il primo uomo sarebbe nato dalle radici di una pianta, il lurex, le cui foglie hanno la superficie inferiore di color rosso. Un giorno si levò un
forte vento: le radici che fuoriuscivano dal terreno sfregarono l’una contro l’altra fino a emettere un fluido che si trasformò in un essere umano, che tuttavia
forse era donna, giacché il nome della pianta Lurex è femminile: E. Sedyamati,
«Il sole nella cultura indonesiana», in M. Singh, op. cit., p. 192.
49.
Ibidem, pp. 58, 167, 180, 209. Jung vedeva la svastica come un simbolo fallico
e di unione, mentre Guénon interpreta il simbolismo androgino della doppia spirale
e della svastica (R. Guénon, La grande triade, Milano, Adelphi, 1980, pp. 46-54).
50.
G. De Nerval, «El Desdichado», in Chimere, trad. D.G. Fiori, Torino, Einaudi,
1972, p. 31; P. Verlaine, «Soleils couchants», in Poesie, trad. L. Frezza, Milano,
Rizzoli, 1986, p. 104.
51.
G. Durand, op. cit., p. 70, e, più sopra, M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 149.
52.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 154.
53.
N.E. Miller, «Il sole nel mondo dei Maya», in M. Singh, op. cit., p. 350.
332
INTRODUZIONE
Apocalisse, VI, 12-13, e Matteo, XXIV, 29 (Il Vangelo secondo san Marco, XIII,
24-25): «Or subito dopo la tribolazione di que’ giorni, il sole si oscurerà la luna non darà più la sua luce, e le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli si commuoveranno», in La Sacra Bibbia, cit., pp. 1419, 1450, 1768.
55.
M.E. Miller, op. cit., p. 353. Anche il dio della morte Tezcatlipoca (un vero
«Marte» azteco, patrono dei sacrifici umani) era raffigurato con i colori giallonero, mentre gli dèi uranici erano azzurro-verde. Il giaguaro che rappresentava invece le forze ctonie era rosso cupo. Il concetto che il «variegato» avesse a
che fare con una «diversità» sospetta e pericolosa (in quanto instabile e ambiguo) è presente anche nel nostro Medioevo. Si pensi infatti alla «lonza maculata» che attende Dante alle porte dell’Inferno (cfr. n. 46, cap. I).
56.
M. Homet, op. cit., pp. 126-127. Homet naturalmente dà una risposta «esoterica», in linea con la sua teoria dell’esistenza di un’antichissima civiltà
(Atlantide?) sparita a causa di un’immane catastrofe (tecnologica, atomica, climatica?) ma la cui avanzatissima scienza sarebbe rimasta inscritta nella memoria inconscia dei popoli sotto forma di miti.
57.
P. Bianucci, op. cit., pp. 248 e 100.
58.
J. Cousteau, op. cit., p. 191.
59.
F. Nietzsche, «Il fuoco del faro», in Ditirambi di Dioniso e poesie postume, cit.,
p. 45.
60.
A Creta si credeva che Zeus fosse stato partorito da Rea in una caverna piena di api, e che queste avessero fatto da nutrici al sommo dio. Da questa sacra
caverna, da allora interdetta sia ai numi che ai mortali, ogni anno, a una certa
data, si sprigionava un gran bagliore di fiamme che si riteneva fosse dovuto al
«traboccare» del sangue divino rimasto dopo il parto: sangue (o liquido amniotico?) che era quindi il miele fermentante, ribadendo così questo legame archetipico tra luce e miele, che fu poi «scoperto» da Dioniso e divenne quasi un suo
attributo. Si diceva infatti che il terreno su cui danzavano le Menadi fosse inondato di latte, di vino e del «nettare delle api», e che questo colava dai tirsi che esse tenevano in mano (K. Kerényi, Dioniso, Milano, Adelphi, 1992, pp. 47-51).
61.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, Como, RED, 1988, p. 141; M. Homet, op.
cit., p. 133.
62.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 141.
63.
F. Nietzsche, «Il sole declina», in Ditirambi di Dioniso e poesie postume, cit., p. 51.
64.
J. Milton, op. cit., libro VII, vv. 619-620, p. 341; Apocalisse, IV, 2, cit.
65.
Lü-tzu, Il mistero del fiore d’oro, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971, p. 109.
66.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p.148 e ss.
67.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., II, p. 90. Per la dinamica del codice simbolico bianco-rosso-nero, si veda la nota 53 del cap. I del presente volume.
Quanto al rosso quale «indicatore» umano, si veda la nota 48 di questo capitolo, mentre per la coniugazione a diadi contrapposte bianco-nero, la nota 34.
68.
M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, Genova, ECIG, 1993, pp. 96-101; G. Durand, op. cit., pp. 127 e 172-173.
69.
Per tutta la ricca simbologia del «sole nero«, legato alla malinconia e all’accidia, si veda R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Torino, Einaudi, 1983, soprattutto riguardo all’incisione del Dürer, e alle sue valenze alchemiche, e anche M. Calvesi, La melanconia di Albrecht Dürer, Torino,
Einaudi, 1993. Per i colori nelle fasi alchemiche cfr. anche A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit., cap. II.
54.
333
INTRODUZIONE
A. Pes, «Francesco Borromini», in Genealogia del fuoco, Palermo, Novecento,
1988, p. 62.
71.
Ibn al-Mottaz, in J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 158.
72.
O. Wilde, Salomè, Milano, Rizzoli, 1950, p. 22.
73.
Erodoto, Le Storie, vol. I, 98, Milano, Mondadori, 1982, p. 911. Per l’uso dei
colori sciamanici nei rituali dell’iniziazione mithriaca, si veda M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 118.
74.
Wang Wei, «Canto nella notte autunnale», in Le trecento poesie T’Ang, trad.
M. Benedikter, Milano, Mondadori, 1972, p. 58.
75.
Bachofen riporta altre interpretazioni (come quella di Clearco) che vedono piuttosto il bianco d’uovo come seme e il tuorlo come secrezione dello sperma (il «giallo del seme»: luteus seminus). E, ancora: «per l’interprete dei sogni il tuorlo rappresenta l’oro, il liquido bianco è l’argento, il guscio è il recipiente di bronzo che
custodisce il tesoro» («Le tre uova misteriche», in op. cit., pp.134, 85 e ss.).
76.
«A Protogono», 5, V, 19, in Inni orfici, cit., p. 35; Testi religiosi egizi, cit., XXII,
p. 248. In L. Luzzatto, R. Pompas (op. cit, cap. XXII, p. 100) si legge: «Ecco che
io mi elevo nel Cielo dell’Universo misterioso/ simile all’uovo cosmico circondato da raggi […]».
77.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., II, p. 157; C. Lévi-Strauss, La via delle
maschere, Torino, Einaudi, 1985, p. 91.
78.
Testi religiosi egizi, cit., p. 277.
79.
J.J. Bachofen, op. cit., pp. 188-189.
80.
«A Selene» 8, IX, in Inni orfici, cit., p. 83. Per il rapporto fra «La Luna, la Donna
e il Serpente, si veda M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 169.
81.
«Infatti “raggio” è in greco femminile, come in tedesco, il Sole stesso. Gli occhi
attingono il senso e la sostanza del loro essere dalla luce solare» (K. Kerényi, Figlie
del Sole, cit., p. 23). Per quanto riguarda il «sesso» del Sole e della Luna: «[…] la divinizzazione delle due grandi luminarie non fa sempre della Luna la sposa del
Sole. Così, per gli indiani Gé del Brasile centrale e nord-orientale, questo astro è
una divinità maschile, che non presenta alcun legame di parentela con il Sole. In
tutto il semitico del Sud, ugualmente (arabo, subarabico, etiopico) la Luna è di
sesso maschile e il Sole di natura femminile, perché per questi popoli nomadi e carovanieri, è la notte che è dolce e riposante, propizia ai viaggi. Anche presso altri
popoli non nomadi, tuttavia, la Luna è talvolta di carattere maschile. Essa è la guida delle notti» (J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 157. Si veda altresì M.
Eliade, Mefistofele e l’androgino, cit.).
82.
P.B. Shelley, «La nuvola», in Poesie (1989), cit., p. 213.
83.
Tu Fu (Dinastia dei T’Ang), «Luna crescente», in Liriche cinesi, trad. G. Valensin, Torino, Einaudi, 1943, p. 136.
84.
M. Eliade, Mefistofele e l’androgino, cit., pp. 158-160. «La radice indo-ariana più antica relativa agli astri è quella che designa la luna: è la radice me che
dà in sanscrito mani, “misura”» (ibidem).
85.
A Selene, 8, IX, cit., p. 43.
86.
B. Noël, Diario dello sguardo, Milano, Guerini e Associati, 1992, p. 51. M.
Eliade (Trattato di storia delle religioni, cit., p. 198) dal canto suo, nota che in
sanscrito il tempo si chiama kala, termine che somiglia molto al nome della
Grande Dea Kali. Kala significa anche «nero», «oscurato», «macchiato».
70.
334
INTRODUZIONE
E.A. Poe, «Al Aaraf», in op. cit., pp. 59-81.
O. Wilde, op. cit., p. 13.
89.
Plutarco, «De facie in orbe lunare», 942, in M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., pp. 178-179.
90.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 148, IV, p. 155 e II, p. 28. Per quanto riguarda il simbolo della civetta (glaux), ciò che maggiormente colpisce in questo animale è l’occhio lucente; da qui l’attributo glaucopide che Omero associa ad
Athena, il cui simbolo ufficiale era appunto la civetta, e che era considerata «portatrice di lucidità d’ingegno a filosofi e scienziati» (F. Otto, Gli dèi della Grecia,
Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 74-75). «Occhilucenti» dunque, Athena, e non «Occhiazzurri» come molti hanno voluto credere traducendo erroneamente il termine omerico (A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.).
91.
«Sol di pazzia non v’è poca né assai:/ Ché sta qua giù, né se ne parte mai»
(L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, vv. 82-83, Firenze, Salani, 1964, p. 275).
92.
E. Neumann, La psicologia del femminile, Roma, Astrolabio, 1975, p. 67.
93.
Novalis, Enrico di Ofterdingen, Parma, Guanda, 1978, p. 90; A. Béguin, L’anima romantica e il sogno, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 265.
94.
F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume, cit., pp. 16-17.
95.
«Niente è più terribile per il contadino contemporaneo della famosa “luna
rossa” o “luna d’Aprile” più bruciante del sole divorante dei tropici» (G. Durand,
op. cit., p. 95).
96.
Kawabata Bosha, in Cento Haiku, trad. I. Iaraci, Milano, Longanesi, 1982, p. 144.
97.
Si tratta di un frammento della storia di Oghuz, in J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 151. Per la descrizione dell’Arcano 18 dei Tarocchi, si veda ibidem, III, pp. 161-162.
98.
A. Pes, «Attis», in op. cit., p. 241.
99.
M. Moore, «Il Pangolino», in Le poesie, cit., p. 241.
100.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, pp.154-162; III, pp. 13, 141 e ss., 154
e ss.
101.
Novalis, Inni alla notte, trad. F. Masini, Milano, Garzanti, 1986. Si veda altresì A. Béguin, op. cit., p. 294.
102.
B. Noël, op. cit., p. 9.
103.
A. Béguin, op. cit., p. 265.
104.
Shen ch’uan-ch’i, «Non poter più vedere…», in Le trecento poesie T’Ang, cit.,
p. 40.
87.
88.
Capitolo IV
«A Elio», XXXI, in Inni Omerici, trad. F. Cassola, Milano, Fond. Valla-Mondadori, 1975, p. 443.
2.
«Infatti era mattino: il fuoco ascendente d’Apollo/ fece d’ogni nube orientale
un’argentea pira/ di splendore così puro, che ivi/ un’anima melanconica avrebbe attinto/ l’oblio […]» (J. Keats, Endimione, cit., vv. 95-99, p. 71).
3.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit, p. 43.
4.
F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Milano, Adelphi, 1979, p. 214.
1.
335
INTRODUZIONE
G. Durand, op. cit., p. 132. Di qui anche tutta la simbologia «armata» degli
Angeli. A tal proposito si veda la seconda parte del presente volume.
6.
J. Keats, Endimione, cit., vv. 352-353, p. 89.
7.
G. ad-Dîn Rûmî, «Il Sole», in op. cit., p. 117.
8.
C. Brentano, «Die Romanzen von Rosenkranz», VI, in A. Béguin, op. cit., p. 393.
9.
La Chanson de Roland, trad. R. Lo Cascio, Milano, Rizzoli, 1985, CXXXVI, vv.
1806-1811 e CCXXXVII, vv. 3305-3309, pp. 289 e 431.
10.
G. Cohen, La grande clarté du Moyen-Age, Paris, Gallimard, 1945. Si veda a
tal proposito anche G. Durand, op. cit., pp. 144-145.
11.
La Chanson de Roland, cit., XL, vv. 525-526, p. 149; CXIII, vv. 1470-1475, p.
271; CXX, vv. 1595-1596, p. 263.
12.
Ibidem, CXLIII, vv. 1934-1935, p. 301 e LXVI, vv. 814-822, p. 189.
13.
J.P. Vernant, La morte negli occhi, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 47.
14.
La Chanson de Roland, cit., CXIV, vv. 1490-1496, pp. 271-273.
15.
J.P. Vernant, op. cit., p. 47. Si veda anche G. Durand, op. cit., p. 168.
16.
La Chanson de Roland, cit., III, vv. 117-118, p. 83.
17.
Apocalisse, I, 14, cit., p. 1764. La sinonimia tra dorato e bianchezza si manifesta pienamente dell’Apocalisse, «dove l’immaginazione dell’apostolo visionario li unisce in una notevole costellazione simbolica nella quale convergono
il luminoso, il solare, il puro, il bianco, il regale, il verticale: qualità tutte della divinità uranica» (G. Durand, op. cit., p. 144 e 169. Si vedano a tal proposito anche le note 15-16 del cap. III del presente volume).
18.
La Chanson de Roland, cit., CCXXVII, vv. 3160-3164, p. 414, e, sopra, CLXXXII,
vv. 2499/2500; CCXXXVII, vv. 3316-3319, pp. 352 e 431.
19.
Lü-tzu, op. cit., pp. 70 e 58. Ricordiamo come anche nella tradizione egiziana il loto bianco è la visualizzazione sincretica della luce e della divinità: il «fiore aureo», fiore primordiale su cui si è manifestato il sole: «Io sono questo fiore di loto uscito dallo splendore, connesso con il naso di Râ», in Testi funerari,
cit., p. 307 e anche n. 3, p. 107.
20.
E.A. Poe, Al Aaraaf, cit., p. 61.
21.
Omero, Iliade, in K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 121.
22.
A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, I, Tecniques et langage, Paris, Albin
Michel, 1964, p. 263, e J. Chevalier, A. Gheeerbrant, op. cit., III, p. 150.
23.
E.A. Poe, op. cit., p. 33.
24.
Lü-tzu, op. cit., p. 40.
25.
R. Guénon, La grande triade, cit., pp. 68-70; L. Charbonneau Lassay, Il bestiario di Cristo, Roma, Arkeios, 1994; I. Schwarz-Winklhofer, H. Biedermann,
Il libro dei segni dei simboli, Catania, Brancato, 1993, pp. 70 e 184; R. Gilles,
Il simbolismo dell’arte religiosa, Roma, Arkeios, 1993, p. 32.
26.
J.W. Goethe, Il secondo Faust, I, in C.G. Jung, La libido, simboli e trasformazioni, Roma, Newton Compton, 1975, p. 149, dove si mette anche in evidenza attraverso un’accurata analisi linguistica la connessione libidica tra parola e fuoco e luce e suono.
27.
F. Hölderlin, «Al dio sole», in Poesie, trad. di G. Vigolo, Torino, Einaudi, 1965,
p. 28.
28.
A. Pes, «Animus», in op. cit., p. 38.
29.
W.B. Yeats, «Il vento tra le canne», in Poesie, cit., p. 17.
5.
336
INTRODUZIONE
D.H. Lawrence, Il serpente piumato, cit., p. 163.
G. Durand, op. cit., pp. 67-68 e K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 30.
32.
D.H. Lawrence, op. cit., p. 495. Ritorna qui ancora l’immagine della luce come un liquido etereo e serico, un olio che ammanta e unge sacralmente sia la
divinità sia il suo prediletto, appunto «Unto del Signore» (Si veda a tal proposito il cap. III del presente volume).
33.
G. Durand, op. cit., pp. 255 e 251; C.G. Jung, La libido, simboli e trasformzioni, cit., p. 192.
34.
Mimnermo, in K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 34.
35.
Omero, Odissea, trad. E. Romagnoli, Firenze, Le Monnier, 1956, XIII, vv. 7879 e 92-94.
36.
G. Nay, P.D. Valavanis, «Il sole nell’arte e nella cultura greca», in M. Singh, op.
cit., p. 283.
37.
K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 31.
38.
M. Homet, op. cit., p. 185. Per quanto riguarda il drago, si veda D. Beresniak,
M. Random, Il drago, Roma, Edizioni Mediterranee, 1988. Sulla complessa
simbologia di questa figura mitica «travasata» poi nella letteratura mistico-religiosa torneremo in seguito.
39.
Apollonio Rodio, Le Argonautiche, Milano, Rizzoli, 1986, III, vv. 829-835, pp.
473-474.
40.
Così ce la presenta Euripide. Si veda K. Kerényi, Figlie del Sole, cit., p. 84.
41.
Apollonio Rodio, op. cit., III, vv. 756-759, p. 465 e, più sopra, III, vv. 862-863,
p. 477.
42.
G. Durand (op. cit., p. 255). nota come tutte le religioni impieghino utensili
culinari per i riti sacrificali, e come streghe e alchimisti usino egualmente calderotti. Quanto a Medea, ella usa il caldaio sia come strumento di rigenerazione (e tuttavia per ingannare), sia come strumento di un incantesimo malvagio e mortale.
43.
Apollonio Rodio, op. cit., III, vv. 747-750. Quanto al «nucleo lunare» di Medea,
esso le deriverebbe proprio dall’affinità con Brimo-Hecate, e dal suo professare incantesimi di maga (K. Kerényi, Le Figlie del Sole, cit., pp. 81- 82).
44.
P. Valéry, «Ebauche d’un serpent», in Poésies, Paris, Gallimard, 1958, p. 80.
45.
P.B. Shelley, Prometeo liberato, cit., atto II, sc. I, vv. 1-27, p. 67.
46.
Secondo la bella espressione di A. Pes, op. cit., p. 59.
47.
O. Messiaen, in M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 59.
48.
P. Ovidio Nasone, Metamorfosi, trad. F. Bernini, Bologna, Zanichelli, 1987,
XV, vv. 393-402, vol. II, p. 307. G. Bachelard, Poetica del fuoco: frammenti di
un lavoro incompiuto, Como, RED, 1990.
49.
Erodoto, op. cit., II, 73, p. 199; L. Borges, nel suo Manuale di zoologia fantastica (Torino, Einaudi, 1979), riporta anche le opinioni di Tacito, Plinio, Claudiano ecc. a proposito della fenice, rilevando come la concezione degli antichi
circa un ciclo astronomico che si sarebbe compiuto e che avrebbe poi dato vita a un nuovo, ma identico, avvicendarsi della storia, trovava nella fenice, che
muore e rinasce eternamente, un equivalente simbolico: «La Fenice così, veniva a essere uno specchio o un’immagine dell’universo».
50.
Il mazdeismo invece assimila il Sole a un gallo, che annuncia il levar del giorno (e il gallo diventerà perciò uno dei simboli del Cristo, a significare l’Annuncio di Nuova Vita), laddove i campanili cristiani spesso portano ancora questo
30.
31.
337
INTRODUZIONE
stesso uccello a simboleggiare la vigilanza dell’anima che attende la venuta dello Spirito, la nascita della Grande Aurora (G. Durand, op. cit., p. 1461). Per la
simbologia degli animali nella mistica, si veda L. Charbonneau-Lassay, op. cit.
51.
V.F.G. Quevedo, «Parnaso spagnolo», in J.L. Borges, op. cit., p. 131.
52.
A. Pes, op. cit., p. 63; Plinio il Vecchio, Storia naturale, X, II, 2, Torino,
Einaudi, 1982-1986; M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., pp. 106-108; G.
Durand, op. cit., 147.
53.
D. Alighieri, Inferno, XXIV, vv. 109-111, cit.
54.
Bestiario Moralizzato di Gubbio, a cura di G. Celli, Genova, Costa e Nolan,
1983, p. 213.
55.
M. Moore, «Sole», in Le poesie, cit., p. 443.
56.
L. Charbonneau-Lassay, op. cit., vol. I, pp. 575-597.
57.
F. Zambon (a cura di), Il fisiologo, Milano, Adelphi, 1975, p. 46; M.M. Davy,
Simbologia degli uccelli, cit., p. 48.
58.
F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume, cit., p. 27; M.M. Davy,
Simbologia degli uccelli, cit., p. 48: «Non si tratta però di una mancanza, di una
privazione. Nietzsche lo aveva capito perfettamente. Ogni profumo evoca un
passato o un avvenire. La dimensione dell’aria consente di accedere all’istante e solo l’istante è libertà».
59.
P. Verlaine, «La bonne chanson», V, in Poesie, cit., p. 146.
60.
S. Seien, in M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 144.
61.
G. D’Annunzio, La città morta, Milano, Mondadori, atto I, sc. IV, 1929. Il suo
«canto deletoso» si appaga della sua stessa dolcezza e risuona nella poesia:
«Veggio la lodola de la terra salire/ faciendo dolce canto deletoso/ e veggiola,
cantando, rengioire/ quanto più sente l’aire glorioso;/ e quando vole a terra revenire, fa uno canto più suavitoso» («De la lodola», LV, in Bestiario moralizzato di Gubbio, cit., p. 145), e Dante: «Quale allodoletta che ‘n aere si spazia/ prima cantando, e poi tace contenta» (Paradiso, XX, vv. 73-75, cit.).
62.
J. Renard, Storie naturali, Torino, Einaudi, 1977, e G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 83 e ss.
63.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., pp. 121 e 122.
64.
È certo uno di questi uccelli «dal più vetrato e cristallino canto» che Mario Luzi
evoca in quel suo «Cantico della luce», che è il Viaggio terrestre e celeste di Simone
Martini (p. 96) e che M. Blanchard così surrealmente caratterizza: «Allodole stridule si schiantarono su uno specchio, e da allora sono diventate punti neri persi nell’avorio delle vertebre. Il grido del vetraio le restituì al loro piumaggio di cristallo» («Cahiers de poésie. Le surrealisme ancore et toujours», agosto, 1943, in
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 98, n. 35). Bachelard considera il canto dell’allodola non un grido di liberazione, ma di libertà: «in ogni nota del suo
canto risuona un accenno di trascendenza» (ibidem, p. 82).
65.
Ibidem, p. 71 e sopra A. Magno, De animalibus, XXIII, tr. I, 26, in Bestiario
Moralizzato di Gubbio, cit., p. 146; G. D’Annunzio, La contemplazione della morte, Verona, Mondadori, 1928, pp. 128-129: «Tutto il cielo della sera fu pieno
d’un coro miracoloso di allodole […]. Era un cantico d’ali, un inno di piume e
di penne […]. Era la sinfonia vesperale di tutta la primavera alata […] saliva,
saliva senza pausa».
66.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 71.
67.
Ibidem, p. 63. M. Maeterlinck, L’uccellino azzurro, Torino, Paravia, 1965.
338
INTRODUZIONE
Li Shang-Yin, «Senza titolo», in Le trecento poesie T’Ang, cit., p. 228.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., pp. 87 e 185 (La citazione è di F.
Jammes, Le poète rustique, Paris, 1920, ibidem).
70.
J. Keats, Endimione, cit., I, vv. 568-569, p. 103.
71.
J. Milton, op. cit., libro VII, vv. 435-436, p. 331.
72.
P. Verlaine, Poesie, VIII, p. 149 e «Le rossignol», ibidem, pp. 110-113.
73.
W. Shakespeare, «Romeo e Giulietta», atto III, sc. V, in Tutte le opere, Firenze,
Sansoni, 1964, p. 313.
74.
P. Valéry, «L’oiseau cruel», in Poésies, cit., p. 158. Aggiunge J. Keats: «[...]
Adesso, più che mai/ mi par bello morire, avere fine/ senza dolore, a notte fonda, mentre/ tu esali in una tale estasi intorno/ l’anima tua […]» («Ode a un usignolo», in Poesie, trad. De Michelis, Roma, Newton Compton, 1991, pp. 33-37).
75.
J.K.H. Eichendorff, in A. Béguin, op. cit., p. 246; J. Keats, Ode a un usignolo, cit.
76.
C. Baudelaire, «Albatros», in I fiori del male, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 14.
77.
J. Milton, op. cit., libro VII, vv. 442-446, p. 331.
78.
«I tuoi gioielli di mobilità/ rivelano/ e velano/ una coda di pavone» (M. Moore,
«Arthur Miller», in Le poesie, cit., p. 417).
79.
A. Pes, Francesco Borromini, cit., p. 65.
80.
Ibidem, p. 56 e, più sopra, J.C. Lambert, Dépaisage, Paris, Falaize, s.d., p. 23.
Si veda anche G. Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1972, p. 214.
81.
Bestiario Moralizzato di Gubbio, cit., p. 214.
82.
«Mentre persiste a lato/ lo splendore azzurrato/ del piumaggio del triste/ orgoglio d’un pavone,/ un tempo vincitore nei giardini del cuore» (P. Verlaine,
«Monna Rosa», in Poesie, cit., p. 359).
83.
W.B. Yeats, «Case avite», in Poesie, cit., p. 55.
68.
69.
Capitolo V
D. Alighieri, La Divina Commedia, «Purgatorio», II, vv. 37-39, cit.
V. Hugo, «Le groupe des idylles», XV, «Shakespeare», in La légende des siècles,
Paris, Flammarion, 1967, vol. II, p. 129, e «Dieu, la lumière», vv. 3554-3559,
in A. Béguin, op. cit., p. 239.
3.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 150; anche J.P. Roux riporta come
il celebre lupo azzurro della mitologia turco-mongola rappresenti un personaggio molto particolare, prossimo a un genio buono, e, come la già ricordata fanciulla scaturita dalla luce blu (si veda la prima parte, cap. III del presente volume), sembra strettamente legato alla luce: «Allo spuntar del giorno, una luce
simile al sole entrò nella tenda di Oghuz Kan. Da questa luce balzò fuori un
grande lupo dal pelame azzurro» («Gli esseri intermediari presso i popoli altaici», in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Roma, Edizioni Mediterranee, 1994, p. 199).
4.
J. Keats, Poesie, cit., p. 149.
5.
P.B. Shelley, «Ode a Napoli», in Poesie (1983), cit., p. 83. Per i molteplici significati simbolici dell’azzurro, si veda AA.VV., Azur, cit., AA.VV., Il sentimento del
colore, cit.; M Brusatin, Storia dei colori, cit.; A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
1.
2.
339
INTRODUZIONE
M. Proust, «Cahier 58», in F. Rella, op. cit., p. 166.
V. Hugo, «Hors de la terre», III, in La Fin de Satan, Paris, Gallimard, 1984, p.
193.
8.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 50. Si veda altresì J.J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi, cit., p. 193.
9.
«Sura della Luce», in Il Corano, 24, 35, in Sanâ’ î, Viaggio nel regno del ritorno, Parma, Pratiche, 1993, p. 52.
10.
H. Corbin, «Nécessité de l’angélologie», in AA.VV., L’Ange et l’Homme, Paris,
Albin Michel, 1978, p. 59 e Sanâ’î, op. cit., p. 59.
11.
Salmo 76, 3, 5, in op. cit., p. 175.
12.
«Il libro dell’Esodo», XXIV, 10-18, in La Sacra Bibbia, cit., p. 59.
13.
Dal Sefer ha-hahir (Libro Fulgido) che riprende il Talmud babilonese, in Mistica ebraica, cit., Introduzione, p. XII; G. Scholem, I colori e la loro simbologia
nella tradizione della mistica ebraica, cit. Per il significato sacrale del blu, si veda anche A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
14.
Mistica ebraica, cit., Introduzione, pp. LII-LX; G. Scholem, La Kabbalah e il
suo simbolismo, Torino, Einaudi, 1980, pp. 46-47. Inizialmente il termine sefirah apparteneva al calendario liturgico giudaico e indicava il conto delle sette settimane che intercorrono tra la Pasqua e la Pentecoste ebraica, successivamente la struttura simbolica delle sefiroth acquisì una sempre maggiore importanza per la letteratura cabalistica.
15.
G. Durand, op. cit., p. 128 e G. Bachelard, psicoanalisi dell’aria, cit., p. 9 e ss.
16.
J. Keats, Poesie, XXV, cit., p. 119.
17.
Salmo 48, in op. cit., p. 150.
18.
G. Durand, op. cit., pp. 142 e 131.
19.
D. Alighieri, Purgatorio, IX, vv. 46-48, cit.
20.
V. Hugo, «La plume de Satan», in Hors de la terre, cit., pp. 89-91 e «L’Ange Liberté», ibidem, p. 219.
21.
«La leggenda di S. Brandano», in G. Tardiola, Atlante fantastico del Medioevo,
Anzio, De Rubeis Ed., 1990, p. 10.
22.
V. Hugo, «Chanson des oiseaux», in La fin de Satan, cit., p. 190. Che gli uccelli siano immagini dell’anima è concezione molto diffusa anche in altre mitologie. Nell’Epopea di Gilgames, per esempio, l’Inferno babilonese è popolato
di anime che indossano mantelli di piume come gli uccelli (G. Minois, Piccola
storia dell’Inferno, Bologna, Il Mulino, 1995; si veda altresì anche C.G. Jung,
La libido, simboli e trasformazioni, cit., p. 196, n. 12). J.P. Roux (op. cit., p. 189)
rileva che l’essenza ornitomorfa delle anime è riscontrabile anche presso i popoli altaici, come del resto avviene presso quasi tutte le popolazioni e sembra
coesistere alla visione dell’anima come soffio, brezza o fiamma.
23.
J.L. Veillard-Baron, «L’Âme et l’Ange», in AA.VV., L’Ange et l’Homme, cit, p. 211.
In un epigramma sulla tomba di Platone si legge: «Aquila, perché sei su questa
tomba […]?». «Io sono, risponde l’uccello, l’immagine dell’anima di Platone, che
si è involata all’Olimpo. La terra attica possiede il suo corpo, nato dalla terra» (F.
Cumont, «Lux Perpetua», Paris 1949, in AA.VV., L’Homme et l’Ange, cit., p. 294).
Del resto proprio Platone ci presenta l’anima come un essere alato (Fedro), e
Eros stesso, anghelos, mediatore tra Cielo e Terra, alato, «dona ali» agli esseri
umani! Quanto alla farfalla, in greco il termine psyché indica sia l’anima sia la
farfalla (in particolare la falena), e seppure sulla linea del Neoplatonismo, già in
6.
7.
340
INTRODUZIONE
Filone D’Alessandria troviamo postulata l’identità tra anime e angeli, tuttavia,
sempre secondo Filone, le anime, almeno quelle destinate a incarnarsi, volano
più in basso, proprio come accade alle farfalle, ed è perciò che gli angeli hanno
ali di uccello e le anime ali di farfalla (M. Bussagli, Storia degli angeli, Milano,
Rusconi, 1991, pp. 77-79. La citazione riportata nel testo è tratta da G. De Nerval, «Le Papillon», in Poésies, Paris, Gallimard, 1964, p. 43).
24.
H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit., p. 55. Per un’accurata rassegna
sulla «storia e pensiero» sugli angeli, si veda R. Lavatori, Gli Angeli, Genova,
Marietti, 1991. Un «racconto di immagini e di idee» sugli angeli, più centrato
sull’iconografia, si trova invece nel bel libro di M. Bussagli, Storia degli Angeli, cit.
25.
P.B. Shelley, Prometeo liberato, cit., VII, atto II, sc. V, p. 81. Abbiamo già trovato l’immagine delle «navicelle volanti» trainate da uccelli, quali veicoli solari, nella prima parte del volume, cap IV.
26.
P. Valéry, «Le Cygne», in Œuvres, Paris, La Pléiade, Gallimard, 1957, vol. I,
p. 1589.
27.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 21 e J.L. Veillard-Baron, op. cit.,
p. 212.
28.
J.M. Malpoix, Compendio di teologia ad uso degli angeli, Genova, il Melangolo, 1990, p. 51.
29.
S. Solmi, Meditazioni sullo scorpione, Milano, Adelphi, 1972. A tal proposito
«Jules Duhem, nella sua tesi sulla storia del volo, segnala che nel Tibet “dei
santi buddisti si muovono nell’aria indossando scarpe chiamate piedi leggeri”
e cita la fiaba della scarpa volante, notissima nella letteratura popolare sia
dell’Europa sia dell’Asia, Gli stivali delle sette leghe (in inglese Stivali dalle mille leghe) hanno la medesima origine» (G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit.,
p. 21).
30.
P.B. Shelley, Prometeo liberato, atto IV, cit.
31.
W. Blake, «Manoscritto Rossetti. Gli Uccelli», in Visioni, cit., p. 71; G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 35.
32.
J. Milton, op. cit., libro VI, vv. 749-753, p. 297.
33.
S. Virgillito, «Deserto di pietra», in L’Albero di Luce, Bergamo, El Bagatt, 1994,
p. 23. In La libido, simboli e trasformazioni (cit., p. 92, n. 78). Jung scrive:
«Senza voler anticipare un’interpretazione dello zodiaco, accenno al fatto che,
secondo le concezioni antiche (probabilmente caldee), il corso del sole era rappresentato come un serpente portante sul dorso i segni zodiacali (analogamente al Deus leontocephalus dei misteri mitriaci)».
34.
Etimologicamente il termine assiro karibu significa l’orante (da karâbu, «pregare»), e infatti il genio intercessore karibu si trova all’ingresso del santuario. Si
tratta di statue che hanno la stessa funzione apotropaica dei tori alati posti davanti ai templi e ai palazzi assiri. Si veda M. Lurker, Grande Dizionario Illustrato.
Dei, angeli, demoni. Casale Monferrato, Piemme, 1994, p. 131; AA.VV., Geni, angeli e demoni, cit., p. 85.
35.
«Il libro di Ezechiele», I, 4-25, in La Sacra Bibbia, cit., p. 1140.
36.
B. Teyssèdre, Angeli, astri e cieli, Figure del Destino e della Salvezza, Genova,
ECIG, 1993; M. Bussagli, op. cit., pp. 16-18.
37.
D. Alighieri, Convivio, cit., II, IV, 2. Bussagli (op. cit., pp. 208-209) nota come, in apparenza paradossalmente, si rintracci lo stesso pensiero teologico sotteso anche in opere assai diverse tra loro, dalla Cosmografia di Pietro di Duccio
341
INTRODUZIONE
(affrescata verso il 1390 nel Camposanto di Pisa, e che rappresenta la Terra
circondata da una serie di cerchi concentrici formati dai quattro elementi, dalle sette orbite dei pianeti racchiusi nella fascia zodiacale, oltre la quale stanno i cori circolari dei nove ordini angelici), ai mosaici della Cappella Chigi (Luigi
de’ Pace, 1516) che, su disegno di Raffaello, mostrano gli Angeli che guidano
il corso degli astri.
38.
P. Valéry, «La Messe Angélique (Fragments)», in Poésies, cit., p. 1595.
39.
M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 165; R. Lavatori, op. cit., p. 53. Il
rapporto tra pianeti e angeli è comune a molte dottrine della tarda antichità, dai
neo-pitagorici, a Clemente d’Alessandria, a Origene, ecc. Secondo l’Islam i sette cieli sono popolati da angeli di varie forme (T. Fahd, «Angeli, demoni e ginn in
Islam», in AA.VV., Geni, angeli e demoni, cit., pp. 136 e 170, n. 29 e 31). Anche
secondo la tradizione magico-astrologica cui si riferisce la Lettera di Iside di
Ermete Trimegisto, gli angeli sono posti in un contesto astrologico; si veda M.
Mertens, «Sur la trace des anges rebelles dans la tradition ésotérique du début
de notre ère jusq’au XVIIe siècle», in AA.VV., Anges et Démons, Louvain-La Neuve,
1989, pp. 389-392. Tradotti dal Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, si
possono segnalare La pupilla del mondo (C. Poltronieri, a cura di) e Poimandres
(P. Scarpi, a cura di), Venezia, Marsilio, 1994 e 1993. Per il Libro di Enoch, si veda Testi Gnostici, a cura di L. Moraldi, Torino, UTET, 1982.
40.
«Testi funerari egizi», XVII, in Testi religiosi egizi, cit., p. 273.
41.
M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 36 e J. Chevalier, A. Gheerbrant,
op. cit., III, p. 29.
42.
J. Milton, op. cit., libro III, vv. 625-628, p. 141.
43.
«Il libro di Daniele», X, 5-6, in La Sacra Bibbia, cit., p. 1218. Le interpretazioni del senso della figura angelica nell’Antico Testamento si diversificano tra
una cosiddetta teoria della rappresentanza, che considera l’angelo appunto
quale rappresentante di Yahweh, suo inviato e suo esecutore, e quella dell’identità, che rivendica invece una perfetta identità dell’angelo con Yahweh, costituendo una sua epifania. Una terza teoria è poi quella dell’interpolazione e
dell’interpretazione, secondo la quale l’angelo di Yahweh non avrebbe valore
reale, ma sarebbe il risultato di una speculazione mirante a salvaguardare la
trascendenza di Dio, la quale non consente rapporti immediati e diretti con
l’uomo (R. Lavatori, op. cit., p. 23).
44.
H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit., p. 65 e ss. Così il ma’lakh Yahweh è
identico a Yahweh, e tuttavia non è Yahweh nella sua piena totalità. Egli è
Yahweh in una determinata funzione, è come una sua «manifestazione». «Egli è
l’ipostasi del lato di Yahweh volto all’uomo, in un certo modo la sua funzione di
relazione». R. Schärf, «La figura di Satana nel Vecchio Testamento», in C.G. Jung,
La simbolica dello spirito, Torino, Einaudi, 1959, p. 137 (il corsivo è mio).
45.
R. Guardini, Studi su Dante, Brescia, Morcelliana, 1986, p. 47; M. Cacciari,
L’Angelo necessario, Milano, Adelphi, 1986, p. 15 e ss.
46.
La descrizione è tratta dal Diario spirituale del mistico persiano Rûzbehán de
Shîrâz, in H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit., p. 58, che riporta anche un
testo copto della fine del VI sec., il Libro dell’incoronazione dell’Arcangelo Michele (pp. 49-50): «Dopo il “combattimento nel cielo” […] il Padre convocò la
moltitudine degli Angeli intorno al Trono […]. Il diadema della luce della gioia
fu posto sulla testa di Michele. Gli fu affidato lo scettro della giustizia. Gli furono posti ai piedi i sandali della pace. Fu innalzato sul trono del mondo della Luce e del mondo terrestre».
342
INTRODUZIONE
«In botanica, si chiama tropismo il movimento di curvatura di organi vegetali, la cui direzione è determinata dallo stimolo che lo provoca. Si parla così di
fototropismo se lo stimolo è la luce, di geotropismo se lo stimolo è la forza di
gravità. Nel nostro contesto, metaforico, lo stimolo è il cielo (dal greco ouranós).
[…] L’aureola allora appare come una conquista fisica, dolce e progressiva. È
la conquista di uno spirito che a poco a poco prende coscienza della propria
chiarezza» (G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 61, n. 65).
48.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 59.
49.
A. Overath, Fragments d’azur, cit., p. 55. Per i significati «spirituali» e «astraenti» dell’azzurro, si veda A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
50.
D. Alighieri, Paradiso, XXXI, vv. 70-72, cit. Romano Guardini (Studi su Dante,
cit., p. 108) ricorda che i raggi intorno al capo dei beati non sono un semplice ornamento aggiunto dall’arte o derivato dalla leggenda, bensì «il simbolo di un’esperienza e dottrina sul significato del corpo in genere e del corpo cristiano e glorificato in particolare». Inutile ricordare ancora, poiché ne abbiamo già parlato nella prima parte del volume, come l’aureola raggiata o la corona siano universalmente simboli dell’irraggiamento della luce e quindi di regalità solare e uranica.
51.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 166.
52.
V. Hugo, «Le bleu», I, vv. 89-94, in La légende des siècles, II, cit., p. 9. La pluralità della facce e degli occhi sta a indicare l’onniveggenza, così il Bes panteo,
i cui molti occhi sono presumibilmente i raggi del sole, era adibito a disperdere,
con le tenebre, i mostri che vi sono annidati, e quindi, per estensione e con funzione generalmente apotropaica, ogni genere di mali (M. Bussagli, op. cit., p. 23).
53.
F. Rella, op. cit., p. 7; G. Durand, op. cit., p. 155.
54.
M. Luzi, La Luce (del Paradiso di Dante), cit., p. 11.
55.
F. al-Din Attar, Il poema celeste. Prologo, 127, trad. di M. Granata, Milano,
Rizzoli, 1980, p. 44.
56.
«In quanto tipo del Cristo il Tetramorfo è un aspetto del Sole. Come tali i
Cherubini non sono però Dio, bensì venti dello spirito su cui Dio cavalca (Salmo
18, 10); si distinguono per il loro “eccesso di conoscenza” di Dio; essi vedono
quello che vede Lui (nello “specchio eterno”) e sotto questo aspetto, nello steso
modo in cui vede Lui» (A.C. Coomaraswamy, Le corps parsemé d’yeux, cit., pp.
317-321).
57.
Ezechiele X, 12, cit., p. 1148.
58.
J. Milton, op. cit., libro VI, vv. 755-759, p. 297.
59.
«Il Libro di Isaia», VI, 2-3, in La Sacra Bibbia, cit., p. 980.
60.
D. Alighieri, Paradiso, X, v. 77; XXI, v. 88, cit.
61.
B. Gorceix, «L’Ange et l’Allemagne au dix-septième siècle», in AA.VV., L’Ange
et l’Homme, cit., p. 142.
62.
M. Bussagli, op. cit., p. 197. Secondo la scansione adottata da Dionigi e ripresa da S. Tommaso, nella Summa Theologiae, Serafini, Cherubini e Troni formano la I Gerarchia angelica; Dominazioni, Virtù (Potenze), Potestà formano la
II; Principati, Arcangeli, Angeli, la III. L’idea che la stella dei Magi fosse un
Angelo fu accolta non soltanto dalla teologia, anche dalla poesia, e Bussagli
(ibidem, p. 198) ripropone un testo di un innografo bizantino dell’età di Giustiniano, Romano il Melodo (il Cantore): «è una stella per l’apparenza,/ è una
potenza per l’intelligenza,/ venne insieme coi Magi come prestandomi servigio,/ e ancora sta ferma adempiendo il suo ufficio/ e coi raggi mostrando il
luogo dove fu generato/ fanciullo or ora nato, il Dio prima dei secoli».
47.
343
INTRODUZIONE
Ibidem, p. 204.
D. Alighieri, Purgatorio, VIII, vv. 22-36, cit.
65.
A proposito delle armi che rappresentano il «raggio solare», Guénon nota come in greco la forma stessa del nome Apollon è assai vicina a quella di
Apollyon, «il distruttore» (Apocalisse, IX, 1, cit.). R. Guènon, Simboli della scienza sacra, cit., p. 170. Per la simbologia raggio-freccia, si veda anche G. Durand, op. cit., p. 131.
66.
J. Milton, op. cit., libro IV, vv. 551-554, p. 181.
67.
Apocalisse, XII, 7, cit., p. 1772.
68.
M.L. Castellano, «Il “volo dell’angelo”: rappresentazioni sacre in Campania»,
in AA.VV., Angeli, Firenze, Centro Di, 1994, pp. 117- 127. A tal proposito Eliade
nota l’enorme diffusione, universalmente attestata, di miti, leggende e riti in
rapporto con l’ascensione al cielo e con il «volo magico» (ali, piume di uccelli da
preda: aquila, falco) e solidali con le esperienze oniriche ed estatiche specifiche
dello sciamanesimo (M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol.
I, Firenze, Sansoni, 1979, p. 38).
69.
Apocalisse, I, 20, cit., p. 1764.
70.
V. Hugo, «La Comète», XLVI, vv. 246-250, in La légende des siècles, II, cit.,
p. 224.
71.
J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., p. 50.
72.
«L’alta la cupa fiamma ricade su di te […]». L’immagine è estraspolata da
«Quaderno gotico» di M. Luzi, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1988, p. 135;
J. Milton, op. cit., libro II, vv. 706-711, p. 87.
73.
R. Guardini, Studi su Dante, cit., p. 34 (il corsivo è mio). Si veda anche R.
Lavatori, op. cit., p. 53 e M. Bussagli, op. cit., p. 236 ss.
74.
J. Milton, op. cit., libro V, vv. 276-284, p. 223.
75.
L’iconografia dona le ali agli angeli, perché «[…] in tutti loro ne significassero il rapido guizzo, proprio come nelle favole dei poeti i venti son detti posseder le penne per via della velocità, s’intende! Giacché la Sacra Scrittura dice:
“Colui che cammina sulle ali dei venti” (Salmo 104 [1031], 3)» (Isidoro di
Siviglia, in M. Bussagli, op. cit., p. 91).
76.
Salmo 104, in op. cit., p. 239.
77.
C. Volpe, «Pietro Lorenzetti ad Assisi», Milano, 1965, in M. Bussagli, op. cit.,
pp. 97-105.
78.
J. Jimènez, El àngel caido, Barcelona, Ed. Anagramma, 1982, p. 26.
79.
D. Alighieri, Purgatorio, XII, vv. 88-90, cit.
80.
Anche in altre culture, come per esempio in India, dove i termini prana e atman che significano rispettivamente «respiro» e «fiato» sono impiegati a indicare
il principio vitale, quello che noi appunto chiameremmo «anima» (M. Bussagli, op.
cit., p. 117). Bussagli fa inoltre notare come l’anima (femminile), fecondata dal
pneuma divino (maschile), sia un tópos immaginario e religioso universale. Jung,
riporta la leggenda egiziana degli avvoltoi, secondo la quale questi uccelli-anima
sarebbero soltanto femmine e verrebbero fecondate dal vento, rivelando quindi
una fantasia incestuosa (La libido, simboli e trasformazioni, cit., p. 205).
81.
P.B. Shelley, «La sensitiva», in Poesie (1983), cit., p. 89.
82.
J. Keats, «Sonetti», XXV, in Poesie, cit., p. 119.
83.
Dionigi Areopagita, De celesti Hierarchia, in M. Bussagli, op. cit., p. 126; si
veda altresì Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Milano, Rusconi, 1981.
63.
64.
344
INTRODUZIONE
Salmo citato da M. Bussagli, op. cit., p. 126.
Così «traduce» il brano dantesco R. Guardini, Studi su Dante, cit., p. 31.
86.
P.B. Shelley, Prometeo liberato, cit., atto IV, p. 61.
87.
R. Guardini, Studi su Dante, cit., pp. 289-290.
88.
S. Boulgakov, L’échelle de Jacob, l’Age d’Homme, Lausanne, 1987, p. 30.
89.
A. Caquot, «Angeli e demoni in Israele», in AA.VV., Geni, angeli e demoni, cit.,
p. 113.
90.
W.B. Yeats, «A uno con cui parlare accanto al fuoco», in Poesie, cit., p. 13.
91.
A. Caquot, op. cit.; T. Fahd, Angeli, demoni e ginn in Islam, cit., pp. 113 e 135;
riguardo allo Ps.Balki, Fahd indica uno studioso: Maqdisi.
92.
S.Y. Sohravardî, L’Archange empourpré (présenté et annoté par H. Corbin),
Paris, Fayard, 1976, pp. 215 e 203.
93.
C. Castaneda, A scuola dallo stregone, Roma, Astrolabio, 1970, p. 77.
94.
H. Corbin, L’immagine del Tempio, cit., pp. 98-99 e 122.
95.
Come nota giustamente Romano Guardini (Studi su Dante, cit., p. 50): «La
malinconia è ambigua. Essa non è dell’aldilà dove tutto è chiaro: in lei sopravvive la terra, quel resto di non-eternità di cui si è parlato».
96.
S.Y. Sohravardî, op. cit., pp. 236-37, pp. 146, 151 n. 27.
97.
E. Zolla, L’Androgino, Milano, RED, 1989, p. 82. Zolla nota che nella maggior
parte dei sistemi religiosi l’androgino è il simbolo dell’identità superiore, rappresentando il livello dell’essere non-manifesto, la sorgente di ogni manifestazione. Immagine di completezza (ricordiamoci il mito platonico) l’androgino attraversa estatico il mondo dei mutamenti, equilibrando azione e non-azione
(ibidem, p. 11). Sull’androginia degli angeli, si veda M. Bussagli, op. cit., R.
Lavatori, op. cit., AA.VV., L’Ange et l’Homme, cit.
98.
D.H. Lawrence, op. cit., p. 249.
99.
«Il Libro di Giobbe», I, 7; 2, 2, in La Sacra Bibbia, cit. Così lo vede A. Caquot
(op. cit., pp. 113 e 103). I passi citati dal Libro di Giobbe farebbero ritenere
Satana in veste di «esploratore» per conto di Dio («[…] e il Signore disse a
Satana: “donde vieni?”. E questi rispose: “Ho fatto il giro della terra e l’ho scorsa”» II, 2-3). Quanto alla sua «malignità» non a caso è chiamato «Il Maligno»!
100.
Salmo 78, in op. cit., p. 183.
101.
«Talmud ‘Abôdah zarah», 20 b, cit. in A. Caquot, op. cit., p. 112. Per il Corano l’Angelo della Morte è Azrael (Izrael) che arresta il movimento della vita e
separa l’anima dal corpo, ed è fedele esecutore della giustizia divina (Sura 32,
11): R. Lavatori, op. cit., p. 137. Per l’iconografia angelica G. Ronchetti, Dizionario illustrato dei simboli, Milano, Cisalpina Goliardica, 1979, vol. I, pp. 64-65.
102.
J. Keats, Endimione, cit., p. 105.
103.
«Talmud di Gerusalemme», Oiddushin 61 d, in A. Caquot, op. cit., p. 115.
104.
C.G. Jung, La libido, simboli e trasformazioni, cit., p. 108. L’indiano Rudra,
padre dei venti, dio creatore «ha occhi da tutti i lati, da tutti i lati certamente
ha facce. […] Con braccia, con ali egli li adorna creando il cielo e la terra» (Upanishad). Anche il dio solare Mitra è dotato di innumerevoli occhi.
105.
D. Neeks, «Geni, angeli e demoni in Egitto», in AA.VV., Geni, angeli e demoni,
cit., p. 43.
106.
S. Freud, «Il motivo della scelta degli scrigni», in Opere, VII, Torino, Boringhieri, 1975; J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., p. 11.
84.
85.
345
INTRODUZIONE
J. Milton, op. cit., libro I, vv. 225- 227, p. 17.
P.B. Shelley, «Il viandante del mondo», in Poesie (1989), cit., p. 227. I «sommoli» sono le estremità delle ali: prosegue dunque la metafora che assimila la
stella a un volatile.
109.
V. Hugo, «La vision de Dante», I, vv. 37-43, in La légende des siècles, cit., p.
318.
110.
J. Keats, «Ode sulla malinconia», in Poesie, cit., p. 59, e G. De Nerval,
«Odelettes. Les papillons», in Poésies, cit., p. 39.
111.
V. Hugo, Hors de la terre, III, cit., p. 39.
112.
Ibidem, I, p. 37.
113.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., pp. 92-93.
114.
J. Milton, op. cit, libro, I, vv. 300-302, p. 21.
115.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., pp. 93-94.
116.
D. Alighieri, Paradiso, XXXII, vv. 109-111, cit.
117.
J. Milton, op. cit., libro III, vv. 69-76, p. 113. R. Guardini (Studi su Dante,
cit., p. 284) nota come già Dante, nella Divina Commedia, assimili il male alla
pesantezza. Diventare cattivo significa pesare: perciò il peccato più grave, quello del tradimento, sprofonda nel fondo più basso del mondo. Il bene è invece libertà, relazione verso l’alto e l’aperto.
118.
J. Milton, op. cit., libro IV, vv. 505-511, pp. 177-179; F. Kermode, «Adamo
senza Paradiso», in J. Milton, op. cit., p. XXV.
119.
R. Gilles, op. cit., p. 224.
120.
J. Milton, op. cit., libro I, v. 597, pp. 37 e libro II, vv. 67 e 69, p. 55.
121.
W. Blake, «Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno», in Visioni, cit. p. 125.
122.
G. De Nerval, Chimere, cit., p. 44. Per le immagini dell’Inferno, non-luogo cui
si accede per una scala senza fine, secondo un modello rovesciato del Paradiso,
si veda G. Tardiola, op. cit., p. 103.
123.
Intorno a Dio gli Angeli si dispongono a ruota come segni zodiacali. Sullo
sfondo del firmamento fisso dominato dal Trono si muovono le hajjoth guardando diritto davanti a sé. Genesis della loro spirituale natura sono le corpora dello zodiaco: in loro il loro spirito continuamente ritorna e continuamente
di nuovo si ricrea. Tutte le successive «localizzazioni» zodiacali degli stessi simboli degli Evangelisti e delle figure degli Apostoli obbediscono a questo originario astro-logos. I segni dello zodiaco sono perciò Angeli custodi dell’argine,
così come gli astri ne sono i signori, lo governano e vi hanno dimora (M.
Cacciari, op. cit., pp. 96-97). Sullo zodiaco infernale, si veda «Pistis Sophia», in
Testi Gnostici, cit., p. 700. Cacciari (op. cit., p. 96) nota come questo sia lo straordinario zodiaco infernale che attraverso i più tortuosi percorsi tra Oriente e
Occidente, si ritroverà, rappresentato con intatta violenza, nella imaginatio tardo-gotica, fino a Bosch, dove fa da controcanto a quello celeste.
124.
A. Pes, «Secretum», in op. cit., p. 83. Per la teriomorfia demoniaca, si veda
G. Durand, op. cit., p. 96.
125.
G. Trakl, «Amen», in Poesie, trad. L. Traverso, Firenze, Passigli, 1992, p. 37.
126.
V. Hugo, Hors de la terre, III, IX, cit., pp. 208-209.
127.
Ibidem, III, pp. 191, I, p. 37.
128.
J. Milton, op. cit., libro I, vv. 228-230, p. 17.
129.
Il termine greco mélas infatti, indica il rosso nerastro del sangue versato, sia
107.
108.
346
INTRODUZIONE
in senso fisico, percettivo, che in senso morale, come «scuro di morte» (A.
Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit., cap. II).
130.
«Dalla parola santa emana la luce primordiale che, a sua volta, crea la luce visibile, l’acqua e il fuoco» (R. Gilles, op. cit., p. 124).
131.
Genesi, I, 1-4, cit., p. 37.
132.
F. Nietzsche, «Tra uccelli di rapina», in Ditirambi di Dioniso e poesie postume, cit. p. 39.
133.
V. Hugo, «Dieu, L’esprit humain», in A. Béguin, op. cit., p. 502.
Capitolo VI
J. Keats, Endimione, I, vv. 601-607, cit., p. 105.
Sanâ’ î, op. cit., p. 161. «Come gli angeli di Avicenna e di Dionigi Aereopagita,
egli dunque si caratterizza per la sua tipica “potenza speculante”; è specchio
che si rivela nello schermo dell’anima, a sua volta resa “specchio” dal lungo
processo di autopurificazione-separazione. È dunque specchio che “guarda” in
uno specchio, imprimendovi – per “illuminazione” direbbe Avicenna – l’immagine luminosa dell’Arcano, la quale rifrange, in virtù del gioco di riflessi, in una
fuga di immagini all’infinito […]» (Ibidem, F. Saccone, Introduzione, p. 59).
3.
R.M. Rilke, «Dai Sonetti a Orfeo», II, 3, in Poesie, trad. G. Pintor, Torino, Einaudi, 1995, p. 55.
4.
Dionigi Areopagita, «Una strada a Dio», D N 724 B4, in V. De Martini, «Per
amore di ferente luce», in AA.VV., Angeli, cit., p. 27.
5.
G. ad-Dîn Rûmî, «L’amore», in op. cit., p. 87.
6.
R.M. Rilke, «Seconda Elegia», in Elegie Duinesi, trad. E. e I. De Portu, Torino, Einaudi, 1978, p. 11. Sull’angelo-specchio, si veda anche M. Cacciari, op. cit., pp.
14, 68, 134 ss.
7.
M. Cacciari ricorda l’idea eckartiana dell’anima come ad-verbum del Verbo divino (op. cit., p. 13), e H. Corbin (Nécessité dell’angélologie, cit., p. 21) fa notare come il Nome divino supremo non possa essere pronunciato, ma attraverso il nome degli angeli, l’Absconditum cessi di essere innominabile. Il livello teofanico degli angeli sta infatti nel rivelare il Nome divino, nel manifestare l’UnoUnico nella pluralità angelica.
8.
Genesi, XXVIII, 12, cit., p. 64.
9.
M. Cacciari, op. cit., p. 15 (la citazione è da Aimone D’Auxerre, ibidem, p. 20).
L’immagine dell’angelo-ape che «sugge» il nettare della rosa di luce divina e si adopera per diffonderla, si ritrova nel Paradiso dantesco: «ma l’altra, che volando vede e canta,/ la gloria di colui che la innamora/ e la bontà che la fece cotanta,/ sì
come schiera d’ape, che s’infiora/ una fiata e una si ritorna/ là dove suo laboro
s’insapora, nel gran fior discendeva che s’adorna/ di tante foglie, e quindi risaliva/ là dove ‘l suo amor sempre soggiorna» (Paradiso, XXXI, vv. 4-12, cit.).
10.
P.S. Boulgakov, op. cit., p. 39.
11.
D. Alighieri, Paradiso, XXI, vv. 28-33, cit.
12.
R.M. Rilke, Verzieri e le quartine vallesane, Milano, Cederna, 1948.
13.
M. Cacciari, op. cit., p. 14 e R. Schärf, op. cit., p. 183. La tradizione, pressoché universale, dell’albero rovesciato sarebbe relativa al movimento ascendente
e discendente che caratterizza il processo della conoscenza (Platone, per esem1.
2.
347
INTRODUZIONE
pio, sosteneva che l’uomo è una pianta rovesciata, le cui radici si estendono
verso il cielo e i rami verso la terra): C. Hirsch, L’Albero, Roma, Edizioni Mediterranee, 1988, pp. 75-77.
14.
P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, cit., p. 31 e, sopra, Mistica
ebraica, cit., p. LXIII.
15.
R. Gilles, op. cit., p. 125.
16.
J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, cit., pp. 15 e 65.
17.
R. Gilles, op. cit., p. 137. Quanto alla «sinantropia» degli angeli con gli uomini, P.S. Boulgakov (op. cit., p. 40), scrive: «formano lo stesso mondo, ma sotto un altro aspetto: il cielo e la terra. Gli angeli sono volti verso l’uomo, e pertanto, essi esistono con e per lui. A sua volta, l’uomo è legato al mondo angelico […], è sin-angelico».
18.
W.C. Williams, «Il ciclamico cremisi», in C. Campo, La tigre assenza, Milano,
Adelphi, 1991, p. 141.
19.
H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit., p. 35.
20.
J. Paul, L’arte di prender sonno, Genova, il Melangolo, 1991, p. 70.
21.
I nomi degli Arcangeli variano: oltre ai più noti e importanti, Michele, Raffaele, Gabriele, Uriele (l’angelo che suona una tromba della resurrezione), gli
altri arcangeli elencati dalla letteratura intertestamentaria sono: Raguele, Fanuele e Reniele (R. Lavatori, op. cit., p. 35). Tuttavia la tetrade che circonda il
Trono, secondo la Merkaba che riflette il Libro di Enoch, sarebbe formata dall’Arcangelo Michele, Serafiele, Azraele e Gabriele (H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit., pp. 32-33; M. Lurker, Grande Dizionario Illustrato. Dèi, angeli, demoni, cit.). Per il colore attribuito agli Arcangeli, Corbin, nel suo saggio, già citato in precedenza, Realismo e simbolismo dei colori nella cosmologia sciita inverte la posizione tra Serafiele (a cui si riferirebbe il mondo dell’intelligenza cherubinica e la cui luce è bianca) e Michele, qui invece rappresentante del mondo dello Spirito, la cui luce è gialla.
22.
J. Milton, op. cit., libro III, vv. 541-643, p. 141.
23.
M. Drayton, «Endimion and Phebe», 1595, in J. Keats, Endimione, cit., p. 105.
24.
H.G. Wells, La visita meravigliosa, Latina, l’Argonauta, 1985, pp. 12, 15, 2425, 78 e 22.
25.
N.S. Leskov, «L’Angelo suggellato», in Il viaggiatore incantato, Milano, Garzanti, 1973, p. 6.
26.
P.S. Boulgakov, op. cit., p. 118.
27.
E. Dickinson, Le stanze d’alabastro, trad. N. Campana, Milano, Feltrinelli,
1983, p. 29. L’abbigliamento angelico nella sua evoluzione iconografica è ampiamente analizzato in A. Bussagli, op. cit.
28.
M. Luzi, La Luce (del Paradiso di Dante), cit., p. 14.
29.
D. Alighieri, Paradiso, II, vv. 33-36, cit.
30.
T. Fahd, Angeli, demoni e ginn in Islam, cit., p. 143. Anche nelle visioni della mistica Hildegard von Bingen appaiono angeli tempestati d’occhi e molte ali,
che cantano armoniosamente (M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit, p. 164).
31.
F. al-Din Attar, op. cit., p. 61.
32.
J. Keats, Endimione, cit., p. 107.
33.
L. Charbonneau-Lassay, op. cit., p. 205 e ss.
34.
Esodo XXXVI, 35-36, cit., p. 132.
348
INTRODUZIONE
G. Scholem, I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica ebraica,
cit., p. 63. Per meglio comprendere il ricchissimo e complesso mondo simbolico della mistica ebraica, rimando ad altre due opere di G. Scholem già citate: Le grandi correnti della mistica ebraica e La Kabbalah e il suo simbolismo.
36.
A. Pes, op. cit., p. 128.
37.
S.Y. Sohravardî, op. cit., p. 215. Si veda altresì supra cap. V.
38.
M. Cacciari, op. cit., p. 21.
39.
G. Scholem, I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica ebraica,
cit., pp. 72-73. Questo porpora dell’ala di Gabriele ricorda la tinta di cui parla Plinio e che raggiunge il «più alto pregio» quando «ha il colore del sangue rappreso, tendente al nero quando la si guarda di fronte, ma con riflessi brillanti
visti di sbieco» (Plinio il Vecchio, Storia Naturale, IX, 62, vol. 2, cit., p. 373).
40.
G. Mistral, «Due Angeli», in Le Opere, trad. P. Raimondo, Torino, UTET, 1968,
p. 146.
41.
G. Mistral, «Due Inni. Sole del Tropico», e, sopra «Mar dei Caraibi», in Le
Opere, cit., pp. 173 e 190.
42.
G. De Nerval, «Aurélia», in Les Filles du feu, Paris, Livre de Poche, 1961, p. 223.
43.
F. Rella, pp. cit., pp. 20-22.
44.
W.B. Yeats, A uno con cui parlavo accanto al fuoco, cit., p. 13.
45.
F. Rella, op. cit., pp. 22- 23 e p. 37: «La veste di Beatrice-Sophia è rossa e
splendente come il sole nascente, come l’Oriente e come il mattino. Beatrice
stessa è “figura del sole nascente”» D. Alighieri, Purgatorio, XXX, v. 33, cit.
46.
P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Milano, Rusconi, 1974,
pp. 435-436, e 616.
47.
M. Proust, La Prigioniera, Milano, Mondadori, 1970, pp. 253, e 243.
48.
M. Proust, «Dalle note per “Il tempo ritrovato”», in F. Rella, op. cit., 198.
49.
G. Trakl, «Infanzia», in R.M. Rilke, Poesie, cit., p. 113.
50.
P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 439, 627 e 630.
51.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 167.
52.
P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 634, 614, 616617. Se la Teologia Contemplativa ha vesti azzurre e rosse, la Teologia Pratica
porta vesti verdi, la Teologia Mistica, bianche, la Teologia Polemica e il Diritto
Civile rosse, mentre il Diritto Canonico dorate e bianche. Si veda anche R.
Gilles, op. cit., p. 146.
53.
M. Bussagli, op. cit., pp. 249-250.
54.
«Il libro dei Numeri», XV, 38-40, in La Sacra Bibbia, cit., p. 192.
55.
R. Gilles, op. cit., p. 167; P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, cit.
p. 613, e G. Scholem, I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica
ebraica, cit., p. 56 ss. Per il simbolismo sacro dell’azzurro nella mistica ebraica cfr. supra, cap.V.
56.
F. Kafka, «Tagebücher 1910-1925», in Gesammelte Werke, a cura di M. Brod,
Frankfurt a. M., 1983, pp. 294-296, in M. Cacciari, op. cit., pp. 52-53.
57.
R. Alberti, «Giudizio», in V. Bodini, «Degli angeli», I poeti surrealisti spagnoli,
a cura di O. Macrì, Torino, Einaudi, 1988, vol. 1, p. 105.
58.
P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 629, 802 n. 9;
H. Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 99.
59.
D. Alighieri, La Divina Commedia, «Purgatorio», XXXII, vv. 58-59, cit. Alla de35.
349
INTRODUZIONE
stra del carro danzano tre donne, le Virtù Teologali: «l’una tanto rossa ch’a pena fòra dentro al foco nota» è la Carità, la seconda «come se le carni e l’ossa fossero state di smeraldo fatte», è la Speranza, la terza, bianca «come neve testè
mossa» è la Fede nel suo immacolato candore (R. Gavioli Fabbri, op. cit., p. 1002).
60.
M. Moore, «San Valentino», in Le poesie, cit., p. 441.
61.
P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 630-632.
62.
J.R. Jimènez, in V. Bodini, op. cit., I, p. XCI. Si veda anche J. Jimènez, El àngel caìdo, cit., p. 48.
63.
D. Alighieri, Purgatorio, VIII, vv. 25-30, cit.
64.
R.M. Rilke, «Quarta Elegia», in Elegie Duinesi, cit., p. 23.
65.
R. Guardini, op. cit., p. 51. Sebbene il verde sia il colore più diffuso in natura,
per l’uomo è un colore «alieno» in quanto è assente dal suo corpo (i cui colori
fondamentali sono il rosso del sangue, il bianco del latte e dello sperma, il nero degli escrementi). Rappresenta quindi una fondamentale ambivalenza tra
valori positivi e negativi attribuiti alla natura stessa. Verdi sono quindi le fate,
ma anche gli alieni più preoccupanti: marziali, rettili-invasori, ecc. (A. Cresti,
Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.).
66.
J. Gikatilla (1300 circa), in G. Scholem, I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica ebraica, cit., pp. 87, e 160-161. Si veda anche R. Gilles,
op. cit., pp. 126, 157, 161.
67.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 54.
68.
R. Gilles, op. cit., p. 161, G. Scholem, I colori e la loro simbologia nella tradizione della mistica ebraica, cit., p. 65. Secondo Steiner, il teorico della Teosofia, il colore verde dell’aura indicherebbe un’anima compassionevole e dedita a una vita
di beneficenza (P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 629).
69.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 80.
70.
H. Corbin, «Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita», in AA.VV.,
Il sentimento del colore, cit., p. 113.
71.
La teoria di P. Florenskij è in E. Zolla, Archetipi, cit., p. 123; H. Corbin, Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita, cit., p. 156.
72.
J. Milton, op. cit., libro II, vv. 67-69, p. 55.
73.
Genesi, IX, 13-15, cit., p. 45.
74.
G. Scholem, Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita, cit., pp.
53, 58-59, 84-85, 88. Per la valenza «affettiva» del colore e la sua funzione di
«accentazione» emozionale, si veda A. Cresti, Nell’immaginario cromatico. Simboli e colore, cit.
75.
V. Hugo, «La vision de Dante», 18-19, in Le Groupe des Idylles, cit., p. 127.
76.
G. Scholem, Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita, cit., n.
50, pp. 94, 89-90. «Una luce bianca sta sopra e sale diritta e sotto di essa c’è
la luce blu o nera che costituisce un trono per quella bianca» (ibidem).
77.
Artemidoro, Il libro dei sogni, Milano, Bompiani, 1985, p. 73; la citazione si
riferisce al sognare corone di violette blu-violacee. G. Scholem, Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita, cit., p. 64. A p. 97, n. 102, si fa riferimento a un passo del Talmud secondo cui il blu, in sogno, è presagio infausto,
simbolo di morte (Zohar, I, 51 b); R. Gilles, op. cit., p. 149.
78.
D.H. Lawrence in G. Conte, Il mito giardino, Siracusa, Tema Celeste, 1990,
p. 70.
79.
G. Scholem, Realismo e simbologia dei colori nella cosmologia sciita, cit., pp. 88-
350
INTRODUZIONE
91 e n. 106 p. 98; M. Lurker, Grande Dizionario Illustrato. Dèi, angeli, demoni, cit.,
pp. 338, 174, 293; P. Florenskij, op. cit., p. 619; R. Gilles, op. cit., p. 148.
80.
A.M. Di Nola, Il diavolo, Roma, Newton Compton, 1987, pp. 98 e 118.
81.
Si tratta del papiro conservato a Brooklyn, pubblicato da Kàkosy (L. Luzzatto, R. Pompas, op. cit., p. 151, n. 27).
82.
A.M. Di Nola, «Iside», in Enciclopedia delle religioni, Firenze,Vallecchi, 1970.
83.
R. Bussagli, op. cit., p. 95. Il mosaico è del XII sec. e rappresenta appunto I
peccatori dell’Inferno e si articola tutto sul gioco cromatico del bianco-oro e blunero (R. Gilles, op. cit., tav. XXIII).
84.
R. Pierantoni, Monologo sulle stelle, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 101.
Questa «luce nera assoluta» non significa dunque l’assenza, ma la «potenzialità» di ogni luce e di ogni colore. Ancora una volta una «percezione» mentale e
simbolica di una verità fisica? «La luce e il colore esistono soltanto nella fase
psicologica. Sono entità esclusivamente, assolutamente soggettive» (V. Ronchi,
op. cit., p. 306).
85.
G. Meyrink, L’Angelo della finestra d’occidente, Roma, Basaia, 1993, pp. 355
e 237.
86.
R. Gilles, op. cit., p. 164. Quanto alle streghe, queste erano spesso rappresentate con occhi verdi, e anche personaggi cattivi hanno sovente occhi di questo colore (la gelosia, dice Iago a Otello, è un «mostro dagli occhi verdi che dileggia la vittima di cui si pasce»!). Per il verde «cattivo e alieno», si veda la nota 65 di questo capitolo.
87.
E.A. Poe, Al Aaraaf, cit., p. 69.
88.
W.C. Williams, Asfodelo, il verdognolo fiore, in C. Campo, op. cit., p. 163.
89.
Sanâ’î, «Apostrofe al vento», in op. cit., p. 82.
90.
D. Alighieri, Inferno, IX, vv. 38-42, cit.
91.
R. Gilles, op. cit., p. 161.
92.
W. Blake, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno, cit. p. 161.
93.
B. Zannini Quirini, «L’aldilà nelle religioni del mondo classico», in P. Xella (a cura di), Archeologia dell’Inferno, Verona, Essedue, 1987, p. 269. Anche il mostro
antropomorfico Eurynomos aveva il corpo tra il nero e il bluastro, colto nell’atto
di digrignare i denti e divorare carogne (ibidem, p. 275). Si vedano anche M.
Lurker, Grande Dizionario Illustrato. Dèi, angeli, demoni, cit., e R. Gilles, op. cit.
94.
D. Alighieri, Inferno, XXI, vv. 30-32, cit.
95.
Apocalisse, III, 3-9, cit., p. 1772.
96.
D. Alighieri, Inferno, XIII, vv. 2-6, cit.
97.
Apocalisse, XVII, 3-6, cit., p. 1777.
98.
R. Gilles, op. cit., pp. 168, 174-175.
99.
Apocalisse, IX, 16-17, cit., p. 1770.
100.
Il libro della Scala di Maometto, 5, 8, Milano, SE, 1991, p. 22.
101.
Apocalisse, III, 5, cit., p. 1765.
102.
E. Dickinson, Poesie, Milano, Rizzoli, 1979, p. 105. Curiosa, a tal proposito, è la visione di E. Swedenborg, il quale sostiene che le vesti degli angeli corrispondono alla loro intelligenza: i più intelligenti hanno vesti scintillanti come
fiamma, altri ancora splendenti come la luce, i meno intelligenti hanno vesti
candide di un bianco opaco, quelli ancor meno intelligenti hanno vesti di vario colore, ma gli angeli del cielo, quelli si vestono della pura innocenza e so-
351
INTRODUZIONE
no quindi nudi…! («Il cielo e l’inferno», in La zona grigia di Minerva, Firenze,
Ponte alle Grazie, p. 139).
Capitolo VII
J. Mandelville, «Viaggio, ovvero trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo», XXXIII, pp. 205-206, in G. Tardiola, op. cit., p. 30.
2.
J. Rykwert, La casa di Adamo in Paradiso, Milano, Adelphi, 1972, p. 16.
3.
M. Eliade, «La nostalgia del Paradiso nelle tradizioni primitive», in Miti sogni
e misteri, Milano, Rusconi, 1976, p. 71 e ss. Per questo i riti di ascesa, di volo
e di trance degli sciamani tendevano a un ritorno al Paradiso, abolendo il tempo e la storia (caduta), così come del resto si proponeva l’estasi mistica dei santi (ibidem, p. 83), si veda anche: M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, cit.
4.
W.A. Mc Clung, Dimore celesti. L’architettura del Paradiso, Bologna, Il Mulino,
1987, pp. 19, 26.
5.
J. Delumeau, Storia del Paradiso. Il giardino delle delizie, Bologna, Il Mulino,
1992, p. 12. È però necessario ricordare che l’Eden biblico era piuttosto un
gan, cioè un luogo aperto, mentre dopo il peccato di Adamo ed Eva si parla di
un parádeisos, cioè un giardino recintato e guardato da un angelo.
6.
Genesi, II, 9-10 e, sopra, 2, 8, cit., p. 38.
7.
G. Tardiola, op. cit., p. 29; A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo,
Milano, Mondadori, 1984, p. 49 e ss.
8.
«Leggenda del viaggio di tre santi monaci al Paradiso terrestre», in Miscellanea
di Opere inedite o rare dei secc. XIV e XV. Prose, I, Torino, 1861, pp. 161-179,
cap. I, in G. Tardiola, op. cit., p. 27.
9.
J. Milton, op. cit., libro IV, 145-159, cit., p. 159.
10.
J. Delumeau, Storia del Paradiso. Il giardino delle delizie, cit., p. 58; W.A. Mc
Clung, op. cit., pp. 36, 64.
11.
J. Keats, in G. Bachelard, op. cit., p. 57.
12.
M. Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Milano, Rusconi, 1973, p. 200;
A. Graf, op. cit., p. 45.
13.
D. Alighieri, Purgatorio, XXVIII, v. 7, cit.
14.
G. ad-Dîn Rûmî, «Ebbrezza mistica», in op. cit., p. 80. Rûmî è stato per eccellenza cantore delle corrispondenze mistiche tra le gioie sensuali del giardino e l’ebbrezza della visione di Dio.
15.
M.J. Rubiera y Mata, «Il giardino islamico come metafora del paradiso», in A.
Petruccioli (a cura di), Il giardino islamico, Milano, Electa, 1994, p. 15.
16.
J. Delumeau, Storia del Paradiso. Il giardino delle delizie, cit., p. 63.
17.
J. Goody, La cultura dei fiori, Torino, Einaudi, 1993, pp. 51-56.
18.
Nel «Cantico dei Cantici», II, 1, in La Sacra Bibbia, cit., p. 860, si legge: «Io sono un fior del campo/ un giglio delle valli», mentre nella traduzione di G.
Ceronetti si ha: «Io sono l’asfodelo della pianura/ il giglio degli acquitrini».
Ceronetti, che esplicita il contenuto di sensuale carnalità del testo sacro, traduce il passo sopracitato (VI, 1) inserendo al posto dei gigli le rose, anche se entrambi sono significanti della più celata femminilità: «Il mio Amato al suo pa1.
352
INTRODUZIONE
radiso/ Alle aiuole di balsamo è disceso/ Bruca nell’oasi e coglie rose» (Il Cantico
dei Cantici, a cura di G. Ceronetti, Milano, Bompiani, 1975, pp. 15 e 35).
19.
A. Cattabiani, Erbario, Milano, Rusconi, 1985, p. 91. Per la ricchissima simbologia della rosa, si veda G.H. Mohr, V. Sommer, La rosa. Storia di un simbolo, Milano, Rusconi, 1989.
20.
D. Alighieri, Paradiso, XXXI, vv. 7-11, XXIII, v. 88, cit. E ancora: «In forma
dunque di candida rosa/ mi si mostrava la milizia santa/ che nel suo sangue
Cristo fece sposa» (XXXI, vv. 1-3).
21.
S. Mallarmé, «I fiori», in Versi e prose, trad. F.T. Marinetti, Torino, Einaudi,
1987, p. 13.
22.
P.B. Shelley, «La sensitiva», in Poesie (1983), cit., p. 55.
23.
A. De Gubernatis, «Mitologia delle piante», J. K. Huysmans, «La Cathèdrale»,
in J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 136.
24.
A. Merini, «Sogno», in La presenza di Orfeo, cit., p. 99; C. Baudelaire, I fiori
del male, cit., p. 18.
25.
S. Mallarmé, I fiori, cit., p. 13. Anche Shelley evidenzia l’identità fallico-lunare del giglio: «l’asta del giglio sollevò la coppa/ lunare come Menade, finché/
l’astro di fiamma dell’occhio fisso/ traversò la rugiada il molle cielo» (La sensitiva, cit., pp. 85-87).
26.
R. Gilles, op. cit., p. 134.
27.
P.B. Shelley, «Prometeo liberato», in Poesie (1989), cit., p. 83.
28.
Ephrem, «Hymnes sur le paradis», Sources chrétiennes, Paris, Cerf, vol.
CXXXVII, 19, inno X, n.139, in J. Delumeau, Storia del Paradiso. Il giardino
delle delizie, cit., p. 21.
29.
P.B. Shelley, La sensitiva, cit., pp. 85-87.
30.
L’immagine è miltoniana: «come le gocce di rugiada con le quali il sole imperla ogni foglia e ogni fiore» (J. Milton, op. cit., libro V, vv. 146-147). Ritrovo
in R. Pierantoni (Monologo sulle stelle, cit., p. 46) l’idea di una liquidità della luce che irrora la terra in «gocce di luce», appunto, come se la luce stessa uscisse in «quanti».
31.
S. Mallarmé, I fiori, cit., p.13.
32.
P.B. Shelley, La sensitiva, cit., p. 87.
33.
J. Milton, op. cit., libro III, vv. 352-360, p. 127.
34.
Il Corano, LIII, 14; XXXIX, 19; LXXVI, 13; II, 23; IV, 122; LV, 64; LVI, 11-13,
a cura di M.M. Moreno, Torino, Einaudi, 1986; si vedano altresì M.J. Rubiera
y Mata, op. cit., p. 15, e P.A. Bernheim, G. Stavridés, Paradiso Paradisi, Torino,
Einaudi, 1994, pp. 173-176.
35.
«In questo mondo egli è nudo e glabro, gli occhi segnati di khöl, lassù porta
baffi verdi» (Al-Qadi), in P.A. Berheim, G. Stavridés, op. cit., p. 183.
36.
«Il Corano», LVI, 11-13, in M.J. Rubiera y Mata, op. cit., p. 15. La huri, premio per i beati, «ha circa trent’anni e la sua pelle profuma deliziosamente, la
descrivono come tutta colorata: il volto bianco, verde, giallo, rosso: il corpo ha
tinte differenti, zafferano dalle dita dei piedi alle ginocchia, muschio dalle ginocchia al seno, ambra dal seno al collo e poi canfora fino alla sommità del capo. I suoi capelli sono di seta grezza […]. Ella si avvolge di veli, settanta per la
precisione […]» (P.A. Bernheim, G. Stavridés, op. cit., pp. 182-184).
37.
Il Corano, LVI, 11-13. Le frasi citate sono in M.J. Rubiera y Mata, op. cit., p. 15.
353
INTRODUZIONE
W.C. Williams, «Il ciclamino cremisi», in C. Campo, op. cit., p. 144.
Ibidem, p. 140.
40.
J. Milton, op. cit., libro II, vv. 543-544, p. 99.
41.
«De rebus in Oriente mirabilibus», in G. Tardiola, op. cit., p. 59.
42.
D. Alighieri, Purgatorio, XXIX, vv. 113-114, cit.
43.
L. Charbonneau-Lassay, op. cit., vol. I, pp. 534-537.
44.
G. Manganelli, Le reliquie della fenice, «FMR», n. 24, giugno 1981, pp. 110116.
45.
W. Blake, «Memorabile apparizione», in Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno,
cit., p. 107.
46.
F. Petrarca, Rime, CCCXXIII («Standomi un giorno solo alla fenestra»); Torino, UTET, 1953; T. Tasso, «La Fenice», in Il Mondo creato, in Opere, IV, Milano,
Rizzoli, 1964.
47.
«Il cielo azzurro come un’alta tenda/ s’incresperà sontuoso in lunghi brividi», P. Verlaine, «Fêtes galantes», XIX, in Poesie, cit., p. 150. L’immagine del cielo come una tenda ritorna in Emily Dickinson: «Ho visto un Paradiso come una
tenda/ avvolgere i teli lucenti», in Poesie, Roma, Newton Compton, 1992, p. 99.
48.
M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 109.
49.
G. Manganelli, op. cit.
50.
G. Tardiola, «Navigatio Sancti Brandani», in op. cit., p. 41; J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica, cit., p. 139. La citazione di G. Flaubert è tratta dall’opera La tentazione di S. Antonio; M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., pp.
110-111.
51.
«È questo l’animale inesistente./ Senza saperlo amarono comunque/ il passo suo, il portamento, il collo,/ sino la luce tenue dello sguardo, Eppur non esisteva [...]» (R.M. Rilke, Sonetti a Orfeo, II, IV, trad. G. Groff e E. Potthoff, Milano,
Marcos Y Marcos, 1989, p. 89).
52.
M. Moore traccia una sintesi davvero «imaginifica» della leggenda dell’unicorco in «Unicorni di mare e Unicorni di terra» in Le poesie, cit., pp. 165-169.
53.
Questi versi del Solarljod rappresentano l’immagine del sole nascente, di quel
sole invernale così ardentemente atteso dai popoli nordici. Presso gli Ittiti la «festa delle corna» in onore del dio-cervo era la festa di primavera. La perdita e la
rinascita delle corna di questo animale diventavano il simbolo del declino e della resurrezione, quindi tale evento annuale si trasformava in evento cosmico.
Dato poi che per l’uomo la resurrezione coincide con l’esperienza della morte –
in quanto soltanto nell’aldilà potrà risorgere –, il cervo pertanto diventa anche
il simbolo del Paradiso, cfr. M. Riemschneider, op. cit., pp. 197-208. La ricchissima simbologia, sia mitica che mistica, di questo animale, collegato al culto
della Luce, è riportata da L. Charbonneau-Lassay, op. cit., pp. 358-379.
54.
C. Hirsch, op, cit., p. 48 e ss. Si vedano anche G. Tardiola, op. cit., p. 37 e J.
Delumeau, Storia del Paradiso. Il giardino delle delizie, cit., p. 13.
55.
A. Graf, op. cit., p. 63 e ss. Per la simbologia dell’albero si veda C. Hirsch, op.
cit., e C.G. Jung, L’albero filosofico, Torino, Boringhieri, 1983.
56.
J. Milton, op. cit., libro IV, vv. 218-222, p. 163.
57.
P.B. Shelley, «Adonais», XVIII, in Poesie (1983), cit., p. 129.
58.
P. Valéry, Ebauche d’un serpent, cit., pp. 86-91.
59.
J. Milton, op. cit., libro IV, v. 249, p. 165.
38.
39.
354
INTRODUZIONE
60.
Leggenda del viaggio di tre santi monaci al Paradiso terrestre, cit. in G.
Tardiola, op. cit., p. 37.
61.
L. Ceronetti (a cura di), Il Cantico dei Cantici, cit.
62.
J. Milton, op. cit., libro IX, v. 792, p. 421.
63.
W.C. Williams, «Canzone d’amore», in C. Campo, op. cit., p. 123.
64.
M. Bacchiega, Eva e il frutto proibito, «Abstracta», n. 45, febbraio 1990; M.
Bacchiega, Il pasto sacro, Foggia, Bastogi, 1982.
65.
W. Blake, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno, cit., p. 285.
66.
R. Gilles, op. cit., pp. 157 e 137.
67.
M. Lagrange, op. cit., pp. 105 e 101.
68.
W. Blake, «Per i Sessi. Le Porte del Paradiso», in Visioni, cit., p. 285.
69.
Secondo la cronologia scientifica, che rovescia quella della Genesi che indica la generazione dei pesci e degli uccelli prima di quella dei rettili, in realtà gli
uccelli avrebbero avuto come antenati i dinosauri, e quindi una relazione ancestrale con i rettili. Allora davvero prima di essere condannati a strisciare anche i serpenti avevano le ali! (M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., pp. 16,
23 e 29. Sulla simbologia del drago si veda D. Beresniak, M. Random, Il drago, Roma, Edizioni Mediterranee, 1987).
70.
G. Manganelli, op. cit.
71.
H. Egli, op. cit, pp. 159-65, 33. Per i motivi esoterici e iniziatici legati al serpente, si veda A. Seppilli, Poesia e magia, Torino, Einaudi, 1962, pp. 240-249.
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1978.
72.
«Per i Serafini (Isaia, VI, 2, 6, verosimilmente dall’accadico sarapu, «accendere, bruciare») si fa valere […] anche l’origine egizia». In tardo egiziano srrf vuol
dire «drago, grifone, serpente» (R. Schärf, op. cit., p. 130).
73.
Così Ladone custodisce le mele d’oro delle Esperidi. Un serpente custodisce
il vello d’oro e il dragone Fafnir fa la guardia, nella landa di Gnita, al tesoro dei
Nibelungi (H. Egli, op. cit., p. 127). Quanto al «tesoro» dell’arcobaleno, è altrettanto diffusa l’immagine del serpente fonte di un tesoro, per esempio, in India.
«Sottoterra, accanto al mier-ringa, il serpente-avo, c’è un tesoro. Quando il serpente spalanca la bocca, l’oro, dal suo muso, sale al cielo sotto forma di arcobaleno». Si racconta anche che «Nella fonte c’è una pentola d’oro. Da questa
sorge l’arcobaleno» (Ibidem, p. 160; si veda altresì G.L. Beccaria, I nomi del
mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Torino, Einaudi, 1995).
74.
Ne Il libro della Scala di Maometto (una sorta di Divina Commedia araba) si
narra il viaggio iniziatico di Maometto tra cielo e terra sotto la guida dell’Arcangelo Gabriele (e in ciò, questo testo è ritenuto antesignano del percorso dantesco). I due santi pellegrini salgono per otto sfere o «cieli» successivi, ciascuno
caratterizzato da un metallo o da una pietra preziosa, secondo l’ordine ascendente: ferro, rame, argento, oro, perla, smeraldo, rubino, topazio. Meta del viaggio è la Verità, ovvero il Paradiso (cit., p. 42).
75.
S. Virgillito, L’Albero di Luce, cit., p. 22.
76.
Ezechiele, XXVIII, 14, cit. Si tratta della profezia contro il principe di Tiro,
punito a causa del suo orgoglio.
77.
Leggenda del viaggio di tre santi monaci al Paradiso terrestre, cit., cap II, p. 38.
78.
«Liber monstruorum de diversis generibus», III, XI, IX-X sec., in G. Tardiola,
op. cit., p. 61.
79.
A. Graf, op. cit., p. 60.
355
INTRODUZIONE
M.M. Davy, Simbologia degli uccelli, cit., p. 26; A. Seppilli, op. cit., p. 246; J.
Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., VI, p. 71. Si veda altresì M. Eliade, Mefistofele
e l’androgino, cit., pp. 20-21.
81.
P.B. Shelley, Prometeo liberato, atto IV, cit., p. 57.
82.
J. Mandelville, Viaggio, ovvero trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo, XI, cit., p. 57.
83.
J.W. Goethe, «Divano Occidentale. Orientale. Libro del Cantore», in Opere, V,
Firenze, Sansoni, 1962, p. 377.
84.
M. Eliade ricorda come anticamente le pietre preziose erano considerate «embrioni», minerali eppure viventi, generate nel ventre della Grande Madre Terra
e di diverso grado di crescita, per cui, se il diamante è perfettamente «maturo»;
il cristallo di rocca è un «embrione» ancora immaturo: Arti del metallo e alchimia, Boringhieri, Torino, 1987; cfr. anche J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit.,
III, p. 17 e R. Gilles, op. cit., pp. 127-132.
85.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, Palermo, Sellerio, 1991, p. 27.
86.
Esodo, XXVIII, 15-21, cit.
87.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., pp. 34 e 28.
88.
Ibidem, p. 29. Sulla simbologia del diamante si veda J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., II, p. 16.
89.
P. Neruda, Canto Generale, trad. D. Puccini, I, 5, Firenze, Sansoni, 1967, p. 14.
90.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., III, p. 113, e IV, p. 147. Si veda altresì
R. Gilles, op. cit., p. 29.
91.
D. Alighieri, Paradiso, XXIII, vv. 101-102, cit. e sopra Purgatorio, I, v. 13, cit.
92.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., pp. 34-35.
93.
M. Moore, «Voracità e verità a volte sono indipendenti», in Le poesie, cit. p. 297.
94.
L’immagine dell’arcobaleno «simile nell’aspetto a smeraldo» che circonda il
trono divino, si trova in Apocalisse, IV, 3.
95.
Sanâ’î, op. cit., p. 105.
96.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., II, pp. 259-261,
97.
Sanâ’î, op. cit., p. 107.
98.
J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit., IV., p. 131.
99.
S. Virgillito, «Nel bosco d’amore», in L’Albero di Luce, cit., p. 37.
100.
D. Alighieri, Paradiso, XXX, vv. 64-65, XV, v. 85, XXX, vv. 76-78, cit.
101.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., p. 39.
102.
P. Neruda, Canto Generale, I, 6, cit., p. 17.
103.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., p. 41. Sulla simbologia dell’ametista si veda R. Gilles, op. cit., p. 208 e J. Chevalier, A. Gheerbrant, op, cit.,
I, p. 55.
104.
A. Pes, Attis, cit., p. 113.
105.
R. Gilles, op. cit., p. 241. In realtà sul reale colore della pietra di giacinto vi sono molte discordanze, e mentre per Gilles «il colore giacinto è simile a quello della pietra preziosa di cui spesso si parla nei testi antichi» (ibidem, p. 168), per
Claudel questa pietra, così chiamata per la somiglianza con il fiore dello stesso
nome (di colore azzurro-violaceo), era per gli antichi una pietra di un azzurro
opaco con un pulviscolo d’oro, mentre per noi moderni sembra piuttosto «qualcosa di torbido delle sfumature cangianti e scure, un misto di giallo e di bruno»
80.
356
INTRODUZIONE
(La mistica delle pietre preziose, cit., p. 40). Nella raccolta Il potere delle pietre magiche G. de La Taille afferma che «il vero e proprio giacinto deve essere di color
rosso». Alla voce «giacinto», nel Dizionario illustrato dei simboli, cit., si legge:
«Nome di una pietra trasparente e di un bel colore rosso». Mentre il G. Devoto,
G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana (Firenze, Le Monnier, 1990) recita: «giacintino: del colore del giacinto, azzurro carico», e, alla voce «giacinto»: «varietà di
zircone rosso-arancio o giallo-arancione». Dello stesso colore lo indica A. Duro,
Vocabolario della lingua italiana, cit., che però poi lo assimila anche al colore del
granato il cui rosso è notoriamente cupo e profondo, talvolta un po’ violaceo.
106.
P. Neruda, Canto Generale, XXXVI, cit., p. 133.
107.
Le citazioni sono tratte da P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., p.
42; G. De Nerval, «Un mystère d’amour dans le metal repose», «Vers dorés», «Les
Chimères», in Poésies, cit., p. 16; A. Pes, Secretum, cit., p. 75.
108.
«Carmen Paschale» V, 328; Origene, «In Matthaeum», XVII, 30, in M. Bussagli, op. cit., p. 236. Gli angeli sono esseri di luce, ignei, sfavillanti e anche per
S. Agostino gli angela corpora sono di una sostanza lucidissima atque etherea.
Secondo Gregorio Magno e altri commentatori della Vulgata, Ezechiele, con i
nove nomi di pietre preziose, rappresenta i nove ordini angelici (ibidem, p. 244
e 257).
109.
Il libro della Scala di Maometto, I, 3, cit., p. 19.
110.
M. Bussagli, op. cit., p. 236 e ss.
111.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., p. 32.
112.
R. Gilles, op. cit., p. 242. Per la corrispondenza tra pietre e gerarchie angeliche (topazio-Cherubini; sardonica-Serafini; diaspro-Troni; crisolito-Dominazioni, ecc.) si veda M. Bussagli, op. cit., p. 244 e ss.
113.
E. Kirschbaum, L’angelo rosso e l’angelo turchino, «Rivista di Archeologia
Cristiana», n. 17, 1940, pp. 234-237; M. Bussagli, op. cit., p. 241 ss.
114.
Apocalisse, XXI, 21, cit.
115.
G. Manganelli, op. cit.
116.
H. Hesse, «Metamorfosi di Piktor», in Fiabe, Milano, Mondadori, 1981, p. 217.
117.
Navigatio Sancti Brendani, XXX, in G. Tardiola, op. cit., p. 41.
118.
J. Le Goff, L’immaginario medievale, Bari, Laterza, 1988, p. 38.
119.
P. Claudel, La mistica delle pietre preziose, cit., pp. 51- 57. La perla era vista da Plinio come una goccia di rugiada celeste caduta sull’onda, vivificata dai
raggi del sole e impietrita (Plino il Vecchio, op. cit., IX, 54-59). Per altri invece
la perla era la lacrima degli angeli ribelli, raccolta dalla pietà della notte, come
la cantava il riminese Giovanni Aurelio Augurello, poeta alchimista del Cinquecento: «Un angelo dolente un giorno pianse/ […] nel vasto mare si sarìa
perduta/ la lacrima dell’angelo, se il mare,/ che la nobile origin ne conobbe,/
non l’avesse raccolta e alla conchiglia/ affidata […]» (G. Cairo, Dizionario ragionato dei simboli, Bologna, Forni, 1979). Per la sua ricca simbologia, che varia da attribuzioni astrali ad attribuzioni acquatiche e trapassa da significazioni di vita a quelle di morte, si veda J. Chevalier, A. Gheerbrant, op. cit.
120.
Un’accurata analisi dell’uso simbolico dei gioielli nella pittura di Piero della Francesca e, più in generale, dell’iconografia angelica si trova in M. Bussagli,
op. cit., pp. 244-258.
121.
A. Cresti, Giardini di Afrodite, dal mito alla poesia, Messina, Il Gabbiano, 1992.
122.
M. Mc Clung, op. cit., p. 39; A. Cresti, Giardini di Afrodite, dal mito alla poesia, cit.
357
INTRODUZIONE
H. Sedlmayr, La luce nelle sue manifestazioni artistiche, Palermo, Aestetica,
1989, p. 57.
124.
S. Mallarmé, «Sancta», in Versi e prose, cit., p. 30.
125.
G. Durandus, «Rationale», in E. Castelnuovo, Vetrate medievali, Torino, Einaudi, 1994, p. 166.
126.
T. Burckhardt, «La Jérusalem Céleste et le Paradis de Vaikuntha», in Symboles, Milano, Archè, 1979.
127.
E. Castelnuovo, op. cit., p. 168.
128.
M. Lagrange, op. cit., p. 102.
129.
M. Proust, La strada di Swann, Milano, Mondadori, 1970, pp. 60-61.
130.
Sono immagini che ritroviamo anche nelle opere di Jean Cocteau, che ha
spinto all’estremo l’analogia fotografica e cinematografica con l’epifania angelica (D. Chaperon, J. Cocteau. La chute des anges, Press. Univ. de Lille, 1990,
pp. 39 e 25).
131.
G. Bachelard, Psicoanalisi dell’aria, cit., p. 111.
132.
M. Lagrange, «La Trouée de Lumière», in op. cit., p. 107.
123.
Capitolo VIII
E. Brontë, Poesie, trad. G. Bompiani, Torino, Einaudi, 1978, p. 105.
S. Mallarmé, «Apparition», in Poesie, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 10.
3.
J. Cocteau, «Opéra», in Opéra suivi de Plain-Chant, Paris, Stock/ LP, 1979, p.
72. Per la visione angelica di Cocteau si veda D. Chaperon, op. cit.
4.
J. Ries, «Anges et Démons. Etudes récentes et perspectives de nôtre recherce», in AA.VV., Anges et Démons, cit., p. 14.
5.
P. Magnard, «Imago Dei, Imago mundi», in AA.VV., Figures. Miroirs et reflets,
Dijon, Univ. de Bourgogne, Dijon, 1989, p. 47; M. Bussagli, op. cit., p. 11.
6.
«La psicanalisi dichiara: ecco il letterato chiaramente nevrotico; un filosofo
ossessivo; un matematico quasi psicotico, un musicista artistico. […] Ma la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco!» (E. Fachinelli, La
mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 24-25).
7.
R.M. Rilke, Seconda Elegia, cit., p. 11.
8.
G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 12.
9.
G. Corrivetti, «L’Angelo dei cambiamenti», in AA.VV., Angeli, cit., pp. 138-141.
Si vedano anche S. Piro, Antropologia trasformazionale, Milano, Cortina, 1993;
G. Lai, Disidentità, Milano, Feltrinelli, 1989 e M. Cacciari, op. cit., tutti citati
anche da Corrivetti.
10.
J. Cocteu, Le Potomak, cit., p. 162; D. Chaperon, op. cit., p. 49.
11.
J. Cocteau, Le Journal d’un inconnu, Paris, Grasset (Les Cahiers verts), 1953,
p. 168; «Le Cap de Bonne-Espérance», in Poésies, Paris, Gallimard, 1987, p.
51; D. Chaperon, op. cit., p. 71.
12.
W.B. Yeats, «Il travaglio della passione», in Poesie, cit., p. 13.
13.
V. Hugo, Hors de la terre, III, cit. p. 189.
14.
M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 126.
15.
M. Cacciari, op. cit., p. 25.
1.
2.
358
INTRODUZIONE
E. Fachinelli, op. cit., p. 77.
Il Corano, citato in E.A. Poe, op. cit., p. 91. Poe riprende più volte questa immagine dell’angelo musicista, in Israfel: «e le corde del tuo cuore sono un liuto» (ibidem, p. 91); mentre nella poesia dedicata ad «A»: «hanno tratto dagli
oscuri abissi del cuore/ pensieri non-pensati, anime di pensiero,/ più ricche
visioni, più selvagge e più estatiche/ di quelle che l’angelo arpista, Israfel,/ cui
“fra tutti diede Iddio voce blanda e soave”, non potrebbe dire mai […]» (p. 147).
18.
H. de Balzac, Séraphîta, Trento, Reverdito, 1986, p. 185; M. Cacciari, op. cit.,
p. 15.
19.
P.B. Shelley, «A un’allodola», in Poesie (1983), cit., p. 105.
20.
M. Bussagli, op. cit., pp. 272-285.
21.
Apocalisse, X, 1, cit., p. 1763.
22.
J. Cocteau, Le Requiem, Paris, Gallimard, 1983, p. 84; D. Chaperon, op. cit.,
pp. 59 e 62.
23.
J. Cocteau, Le Requiem, cit., p. 66. «Da dove viene l’idea visibile dell’angelo?
La configurazione umana che presero questi non-umani? Senza dubbio dal desiderio dell’uomo di rendere certe forze comprensibili, di vincere una presenza arbitraria, di incarnarla per riconoscervisi un po’ e averne meno paura» (Le
Journal d’un inconnu, cit., p. 47; si veda anche D. Chaperon, op. cit., p. 67).
24.
R.M. Rilke, «L’angelo», in Nuove Poesie. Requiem, Torino, Einaudi, 1992, p. 79.
25.
Zohar III, 2028, citato in G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit.,
p. 81.
26.
G. Tavarone, «L’Angelo degli annunci», in AA.VV., Angeli, cit. p. 53.
27.
Così lo vede M. Serres, nel suo La légende des anges, Paris, Flammarion,
1993, p. 109.
28.
G. Scholem, «Gruss von Angelus», in W. Benjamin, Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1982, p. 80.
29.
G. Scholem, Benjamin e il suo angelo, Milano, Adelphi, 1978.
30.
«E come è possibile, insieme, che si dia nel nome, arbitrariamente posto e perennemente cangiante, una rappresentazione di alcunché?». Eppure: «L’Angelo
segue l’uomo; egli desidera essere nominato dal desiderio dell’uomo per il nome» (M. Cacciari, op. cit., pp. 75 e 83).
31.
Penso al pannello dell’Altare di Isenheim, appunto di Matthias Grünewald,
ora al Museo d’Unterlinden di Colonia.
32.
R.M. Rilke, «Annunciazione (Le Parole dell’Angelo)», in «Libro delle Immagini»,
in Poesie, cit., pp. 15-17.
33.
M.G. Sessa, «L’Angelo terapeuta», in AA.VV., Angeli, cit. e nello stesso testo anche C. Tavarone, op. cit., pp. 51 e 54; H. Corbin, Nécessité de l’angélologie, cit.,
p. 63.
34.
C. Baudelaire, «Le Morts des amants», in I fiori del male, cit., p. 121.
35.
Salmo 91, 10-14, in op. cit., pp. 213-214.
36.
G.M. Mistral, «L’Angelo Custode», in Le Opere, cit., p. 295.
37.
P. Jovanovic ha raccolto una serie di testimonianze in tal senso nell’opera
Enquête sur l’existence des Anges Gardiens, Paris, Filippacchi, 1993.
38.
Il delirio di persecuzione sessuale del Presidente Schreber (che riteneva che
Dio lo volesse mutare in donna per possederlo, e che ciò si attuasse, appunto,
attraverso i raggi divini che penetravano nel suo corpo trasformandolo) diventò
16.
17.
359
INTRODUZIONE
megalomania religiosa, commenta S. Freud, che trova nella storia del paziente una conferma alla propria teoria sulla genesi omosessuale della paranoia: «I
“raggi divini” di Schreber, che risultano composti dalla condensazione di raggi solari, di fibre nervose e di spermatozoi, non sono in fondo che la raffigurazione concreta e proiettata al di fuori di investimenti libidici» (naturalmente rivolti al padre, secondo un Edipo invertito); S. Freud, «Osservazioni psicoanalitiche di un caso di paranoia descritto dall’autore. Il caso clinico del Presidente
Schreber», in Opere, vol. 6, Torino Boringhieri, 1975, p. 97. Per l’ambivalenza
nei confronti del padre-dio, si veda la prima parte, cap. I, del presente volume.
39.
R. Carifi, La carità del pensiero, Pontecchio Marconi (Bo), I Quaderni del
Battello Ebbro, 1990, p. 20.
40.
R. Alberti, «Il corpo disabitato degli angeli», in Degli angeli, cit., p. 97.
41.
R. Schärf, op. cit., p. 177. A tal proposito nota Cacciari come ai fini della comprensione della demonologia biblica sia appunto importante il lavoro di Schärf:
«In esso si dimostra la peculiarità di Satana nei confronti del dèmone pagano,
l’eminente spiritualità della sua funzione di seduzione e accusa: “egli è un angelo”» (M. Cacciari, op. cit., p. 44, p. 157).
42.
R. Schärf, op. cit., p. 122. Anche il nome del serpente non è forse esente dall’influsso della precocissima assimilazione di Satana con il serpente del Paradiso Terrestre (ibidem, p. 123).
43.
Ibidem, p. 186 e ss.
44.
M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, cit., 1980, vol. II, p. 271.
45.
F. Fornari, La riscoperta dell’anima, Bari, Laterza, 1984.
46.
R.M. Rilke, «Prima Elegia», in Elegie Duinesi, cit., p. 3.
47.
Apocalisse, XIX, 14, cit., p. 1779. Se lampo e fiamma sono simboli di contenuti
spirituali, la spada fiammeggiante simbolizzerebbe l’illuminazione discriminatrice, infatti è posta a sentinella nel Paradiso Terrestre per rendere impossibile
il ritorno (R. Schärf, op. cit., n. 221, p. 324). René Gilles nota come, miticamente,
Febo portasse l’arco e la spada (simbolo conservato per San Michele, Arcangelo
solare) quando era la Luce, la più rapida delle vibrazioni la cui violenza è temibile (il Logos discriminante, appunto, e razionalizzante), mentre prendeva la lira
quando, con il canto e l’armonia dei suoni, era luce spirituale e benefattrice.
L’analogia della spada con la parola divina è ribadita da San Paolo, che la compara appunto al «gladio misterioso» (ibidem, pp. 221 e 236). Ancora nel Libro di
Geremia (XXIII, 29): «E non son forse le mie parole come il fuoco, dice il Signore,
e come il maglio che spacca la pietra?».
48.
Genesi, XXII, 24-26, cit., p. 70.
49.
Anche il rapporto analista-analizzando è talvolta una lotta-a-due che, attraverso la mediazione della «parola» analitica, tende a una nuova riorganizzazione e riarmonizzazione del mondo interno, coinvolgendoli entrambi.
50.
H. de Balzac, Séraphîta, cit.; sull’androgino ermetico e l’androgino celeste, si
veda E. Zolla, L’Androgino, cit.; M. Eliade Mefistofele e l’androgino, cit. Per la
lotta con l’angelo si veda anche J.F. Marquet, «La lutte avec l’ange», in AA.VV.,
L’Ange et l’Homme, cit., pp. 223-236.
51.
R. Alberti, «L’angelo rabbioso», in Degli angeli, cit. p, 123.
52.
G.L. Beccaria, op. cit., pp. 121-130.
53.
Genesi, XXII, 27-28, cit. p. 70.
54.
J. Böhme, «Mysterium magnum», LX, 37, in J. F. Marquet, op. cit., p. 235. F.
Fachinelli (op. cit., p. 52) afferma: «Anche nel linguaggio Dante è costretto e ci
360
INTRODUZIONE
costringe all’evidenza di un’esperienza che è insieme concreta e inimmaginabile, concreta e fuori del tempo». Certo come ogni esperienza spirituale che voglia
tradursi in narrazione mantenendo «una raggiunta condizione immaginale».
55.
D. Alighieri, Paradiso, IX, vv. 80-81, cit.
56.
Genesi, XXIII, 30-31, cit.
57.
P. Claudel, «Première note sur les anges», in Présence et Prophétie, Fribourg,
1942.
58.
N. Tarantino, A. Cuono, «Il fiore dell’Angelo. Progetto per il Giglio del Calzolaio,
Festa dei Gigli», Nola, 1994, in A. Cuono, «Angeli in architettura», in AA.VV., Angeli, cit., p. 129.
59.
R. Carifi, op. cit., p. 13.
60.
M. Cacciari, op. cit., p. 93,
61.
P. Valéry, «La Messe Angelique (Fragments)», in Œuvres, cit., p. 1593 e, sopra, «La Filesuse», in Poésies, cit., p. 4.
62.
M. Cacciari, op. cit., p. 40. «La corda che incatena l’universo avvinghia dunque l’angelo nella sua stessa luce, sebbene sia tuttavia il daimon a essere costretto nelle catene della Necessità, trasformato in marionetta da suo destino?»
(ibidem, p. 63). Per il simbolismo cosmologico della corda d’oro, immagine del
legame spirituale «necessario» tra Terra e Cielo, si veda la prima parte, cap. III
del presente volume.
63.
M. Cacciari, op. cit., p. 41.
64.
Genesi, VI, 2, cit., p. 42.
65.
M. Cacciari, op. cit., pp. 43-44; M. Mertens, «Sur la trace des anges rebelles
dans les traditions ésotériques du début de nôtre ère jusqu’au XVIIième siècle»,
in AA.VV., Anges et Démons, cit. pp. 383-398. Il Libro di Enoch si trova in Apocrifi dell’Antico Testamento, cit., p. 472 e ss.
66.
G. Lorca, «Mischia», in «Romancero Gitano», in Tutte le poesie, trad. C. Bo, Milano, Garzanti, 1965, p. 467. Per gli «umanissimi» e drammatici angeli lorchiani, si
rinvia a V. Bodini, op. cit., p. XCII, e J. Jimènez, El àngel caido, cit., p. 84.
67.
C.G. Jung, La libido, simboli e trasformazioni, cit., pp. 96-103.
68.
A proposito di questa concezione «fotografica» dell’angelo si veda D. Chaperon, op. cit., p. 51.
69.
G. Baratta, F. Bartoli, Z. Birilli (a cura di), Osvaldo Licini. Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere, Milano, 1974, p. 83 e 87. F. Pirani, L’Angelo del Novecento, «Art e dossier», n. 38, settembre 1989, Firenze, Giunti, pp.
16-19.
70.
Mi riferisco all’Angelo di Riccardo Dalisi, una scultura in lamiera (h: cm 280)
presentata alla mostra «Angeli» che si tenne a Padula, nella Certosa di San
Lorenzo, nei mesi di agosto-ottobre 1994, e riprodotta nel catalogo Angeli pubblicato dal Centro Di (cit., pp. 32-33). Abbiamo già visto la freccia come simbolo della luce: luce che porta i doni di Dio, ma che altresì ferisce, sia essa la freccia di Eros, o quella di Apollo, o quella dell’Angelo che «trafigge» il cuore mistico.
71.
Il collegamento tra lo Zarathustra di Nietzsche, l’angelo rilkiano, le immagini di Klee e quelle di Licini, è giustamente messo in evidenza da F. Pirani, op.
cit., p. 19.
72.
«La vierge lance les bras au ciel/ l’ange acrobate entre d’un saut périlleux
dans la/ chambre par la fenêtre» (J. Cocteau, Embarcadères, Fata Morjana,
1986, p. 74) D. Chaperon (op. cit., p. 16) scrive: «Due mondi comunicano at-
361
INTRODUZIONE
traverso questa finestra miracolosa; interamente in attesa di una effrazione,
essa nega l’eterogeneità degli spazi. Essa anticipa l’apertura dell’angelo».
73.
A. Tabucchi, I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 11-12,
18. Come non ricordare gli angeli «surrealisti» di Juan Larrea: «noi saremo i
tuoi pennuti da cortile tutti i giorni alle sette/ poiché gli angeli sono morti morti morti/ come soffitte senza ragni né gridi»? («Un debole per la luce», in M.
Bodini, I poeti surrealisti spagnoli, cit., p. 27).
74.
Ce lo ricorda ancora Carifi (op. cit., p. 113): «L’infanzia è a un passo, in un
lume di sogni, di corse spalancate verso un cielo vuoto. L’Angelo vive davvero,
tra le bambole e i soldatini di stagno, e decide di uno strappo che farà sanguinare per sempre». Per Cacciari (op. cit., p. 56) l’Angelo Nuovo è esso stesso
«infante», sottratto alla responsabilità dell’armonia delle sfere, non per questo
tuttavia «il suo canto è meno chiaro, la sua mania meno intensa, l’Angelo
Nuovo abita il giardino dell’infanzia».
75.
C. Baudelaire, «L’Irrémédiable», in I fiori del male, cit., p. 146.
76.
V. De Martini, Per amore ferente di luce, cit., p. 32.
77.
A. Cuono, Angeli in architettura, cit., p. 132.
78.
M. Cacciari, op. cit., p. 43.
79.
R. Carifi, op. cit., p. 22.
80.
A. Cuono, op. cit., p. 131. La citazione di Wim Wenders è tratta da Stanotte
vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Milano, 1989, p. 150.
81.
R. Alberti, «Gli angeli morti», in Degli angeli, cit., p. 221.
82.
R. Carifi, op. cit., p. 86.
83.
I.D. Lautreamont, I Canti di Maldoror, trad. I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1955,
vol. I, pp. 259-267.
84.
C. Baudelaire, «Réversibilité», in Les fleurs du mal, cit., p. 78.
85.
R. Alberti, «Gli angeli morti», in Degli Angeli, cit., p. 221.
86.
P. Valéry, «L’Ange», in Œuvres, cit., pp. 205-206. Cacciari nota, a proposito
dell’Angelo-Narciso «chiamato a interrogare l’istante», che egli «non possiede
non afferra, non dispone» è conoscenza che non comprehende! (op. cit., p. 70).
87.
M. Cacciari, op. cit., pp. 69-70.
88.
S. D’Arzo, «Fine di Mirco», e «Una storia così», in L’aria della sera e altri racconti, Milano, Bompiani, 1995, pp. 37 e 16-30.
89.
R. Barthes, Mythologies, Paris, Le Seuil, 1957, pp. 38-39; G. Durand, op. cit.,
pp. 176-177.
90.
R. Alberti, «L’angelo buono», in Degli angeli, cit., p. 125.
91.
M. Serres, op. cit., p. 71.
92.
M. Cacciari, op. cit., p. 68.
93.
M. Maeterlinck, La Vie de l’espace (Bibl. Charpentier), Fasquelle, 1928, pp.
56 e 58.
94.
Traduzione dei versi di G. Diego: «Angeles taciturnos,/ plegada el ala que ya
nunca vuela» (Angeles de Compostela, Madrid, Narcea, A. del Villar, 1975, pp.
99-155; vedi anche J. Jimènez, El àngel caido, cit., p. 94).
95.
È questo «L’Angelo necessario», «l’Angelo della realtà intravisto un istante
sulla soglia» della poesia di Stevens che dà il titolo al saggio di Cacciari qui molte volte richiamato.
96.
G. Busi, Introduzione a Mistica ebraica, cit., p. XIII.
362
INTRODUZIONE
R. Alberti, in sequenza «Gli angeli morti», «Gli angeli guerrieri», «L’angelo di
carbone», «Morte e Giudizio», «L’angelo disilluso», «Paradiso perduto», in Degli
angeli, cit., pp. 221, 107, 143, 189, 113, 83.
98.
In realtà mi sono presa la libertà (non del tutto incongrua, penso) di riferire
agli Angeli i seguenti versi di A. Rimbaud dedicati al Sole: «Le Monde a soif d’amour: tu viendras l’apaiser» («Soleil et Chair», III, Œuvres, Paris, Garnier, 1960,
p. 41).
97.
Appendice
M. Brusatin, Arte dell’oblio, Torino, Einaudi, 2000, p. 75.
W. Gibson, Luce virtuale, Milano, Mondadori, 1996, pp. 7, 13, 265.
3.
R.M. Rilke, Lettera a Witold von Hulewicz, in G. Concato, L’angelo e la marionetta. Il mito del mondo artificiale da Baudelaire al cyberspazio, Bergamo,
Moretti & Vitali, 1996, pp. 15-17.
4.
Ibidem, p. 17.
5.
Così afferma il Cyberpunk in Angelo Vampiro Cyberpunk. Mistero profano per
un nuovo millennio, una mia operetta-saggio sull’immaginario di fine millennio,
Messina, Il Gabbiano, 1998, p. 53.
6.
Ibidem, p. 50.
7.
A. Garidis, Les anges du désir. Figures de l’Ange au XXième siècle, Paris, Albin
Michel, 1996, pp. 219-229.
8.
A. Clarke, 3001 Odissea finale, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 7-9 e 2001: Odissea
nello spazio, Milano, TEA, 1988, p. 213.
1.
2.
363
INTRODUZIONE
364
INTRODUZIONE
Bibliografia
AA.VV.,
Altri lati del mondo, a cura di M.A. Saracino, Roma, Sensibili alle foglie,
1994.
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