Le origini della Provincia L`istituzione della Provincia, nella sua

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Le origini della Provincia L`istituzione della Provincia, nella sua
Le origini della Provincia
L’istituzione della Provincia, nella sua concezione moderna, si può far risalire
alle riforme introdotte dalla Rivoluzione francese e da Napoleone, in
particolare alla creazione dei dipartimenti concepiti sia come circoscrizioni
dell’amministrazione statale sia come enti autarchici con scopi propri. La
reggenza è affidata al Prefetto, che riveste sia il ruolo di rappresentante del
Governo che quello di capo dell’Amministrazione provinciale.
La suddivisione del territorio in mandamenti, circondari, comuni e province
viene formalizzata con la legge Rattazzi del 28 ottobre 1859, che ridisegna
l’organizzazione territoriale del Regno di Sardegna. Le Province, rette da un
governatore, si delineano come un consorzio permanente di Comuni e si compongono
di un Consiglio provinciale, elettivo e deliberante, e di una Deputazione.
Sarà il governo La Marmora a unificare amministrativamente il neo-costituito
Regno d’Italia e a formulare il Testo Unico della legge comunale e provinciale.
La rappresentatività della Provincia è affidata al Consiglio, retto da un
presidente e da un vicepresidente, e alla Deputazione provinciale, guidata dal
Prefetto e composta da consiglieri, organo esecutivo dell’Ente, che esercita
funzioni di controllo su alcune deliberazioni comunali.
Tale legge, inoltre, introduce funzioni facoltative e potestà di spesa che, per
la prima volta, consentono alla Provincia di provvedere agli interessi degli
amministrati.
Il governo Crispi, con la legge 30 dicembre 1888, istituisce la Giunta
provinciale amministrativa, che subentra alla Deputazione anche nei controlli
delle deliberazioni comunali. Le funzioni che erano del Prefetto si
trasferiscono al presidente, scelto dal Consiglio fra i propri componenti.
In epoca giolittiana (1892-1911), a causa di un maggior rilievo dei Prefetti e
di un minore potere di spesa, le funzioni dell’Ente risultano impoverite e le
attività burocratizzate a favore del governo nazionale. Gli organi istituzionali
locali diventano sono sempre più circuiti clientelari dei notabili piuttosto che
rappresentative degli interessi delle comunità territoriali. Non risultano
innovative
Le successive riforme all’ordinamento della Provincia sancite dai testi unici
del 1889, 1898 1908, e 1915 non apporteranno modifiche sostanziali.
Il periodo fascista
Lo stato di “umiliazione delle autonomie locali” è ribadito dalla scelta
centralista del regime fascista, che ritiene pregiudizievole qualsiasi forma di
decentramento istituzionale. A seguito di uno dei periodici dibattiti – promossi
dall’opposizione parlamentare – sulla soppressione delle Province e a favore
dell’istituzione di un Ente regionale, il governo Mussolini elabora una riforma
articolata in varie leggi: il R.D. 30 dicembre 1923, n. 2839, che riscrive parte
della legge comunale e provinciale; il R.D. 18 novembre 1923, n. 2538, sulle
finanze locali; i RR.DD. 30 dicembre 1923, n. 2885 e 15 novembre 1923, n. 2506
che ampliano le funzioni in materia sanitaria e stradale.
La riforma si completa con le leggi 18 giugno 1925, n. 1094, per la costituzione
dei Consigli provinciali e della Giunta provinciale amministrativa (G.P.A.),
organo giurisdizionale di controllo; 23 ottobre 1925, n. 2113, che istituisce il
servizio ispettivo sui Comuni e sulle Province; 23 ottobre 1925, n. 2289, che
riguarda le responsabilità degli amministratori dei Comuni e delle Province e
l’approvazione dei conti di detti enti.
La tradizionale tripartizione degli organi provinciali, in atto dal 1859, in
Consiglio provinciale elettivo, Deputazione provinciale e presidente di
quest’ultima, permane fino all’abolizione delle rappresentanze elettive operata
dal regime fascista (sfociata nelle leggi 4 febbraio 1926, n. 237 e 13 settembre
1926, n. 1910, che introducono nei Comuni la riforma dei podestà; con la legge
27 dicembre 1928, n. 2962, oltre all’abolizione del Consiglio e della
Deputazione provinciale, si affida l’amministrazione della Provincia ad un
preside, avente i poteri della Deputazione, e del presidente della medesima ad
un rettore, di nomina regia, con i poteri del soppresso Consiglio provinciale.
Il nuovo ordinamento si completa con il nuovo testo unico della legge comunale e
provinciale, approvato con R.D. 3 marzo 1934, n. 383 che attribuisce al ministro
dell’interno anziché al Re la nomina dei rettori. Si stabiliscono, inoltre,
norme più restrittive e rigorose, in analogia a quelle definite per i Comuni,
per i controlli amministrativi, non più circoscritti al solo esame di
legittimità ma anche al merito. Le deliberazioni provinciali vengono così
esaminate dalla Prefettura, dalla Giunta provinciale amministrativa e dal
competente ministero.
Alla caduta del fascismo viene emanato il R.D. 4 aprile 1944, n. 111 che – in
attesa delle elezioni amministrative per la ricostituzione degli organi
consiliari – detta norme transitorie per l’amministrazione dei Comuni e delle
Province e abroga le disposizioni limitative stabilite dal Testo Unico del 1934.
Il governo della Provincia è affidato provvisoriamente ad un presidente e
l’amministrazione ad una Deputazione provinciale, entrambi nominati dal
prefetto.
Gli anni della Deputazione provinciale
Il 21 aprile 1945, cessate le azioni di guerra, per Bologna, liberata dai
nazifascisti, ricomincia un nuovo ed altrettanto difficile periodo della sua
storia, quello della ricostruzione. La libertà, riconquistata con un grande
tributo di sangue, ha lasciato ovunque un’enorme desolazione: strade dissestate,
ingenti danni alle infrastrutture, al patrimonio scolastico, ai servizi e
all’assetto economico di una delle province più attive del paese. In questo
quadro, tutt’altro che incoraggiante, va a collocarsi l’opera dei nuovi
amministratori provinciali.
Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e l’AMG (Allied Military Government),
applicando quanto prescritto dal R.D. (regio decreto) 4 aprile 1944, n.111,
nominano la Deputazione provinciale, che si insedia il 22 giugno 1945.
Presieduta dall’ingegner Giorgio Melloni, del Partito democratico cristiano, si
compone di 12 esponenti dell’antifascismo bolognese e garantisce la
rappresentanza paritetica di tutti i partiti politici. Tale rappresentanza,
tuttavia, viene messa in discussione dagli stessi deputati quando, dopo le
elezioni politiche della primavera del 1946, dando prova di grande sensibilità,
essi presentano le dimissioni, ritenendo di non essere più rappresentativi della
volontà popolare espressa dalle urne. Le dimissioni vengono comunque rifiutate
dal Prefetto, che motiva la decisione con l’impossibilità dell’Assemblea di
rappresentare, in ogni caso, la reale volontà popolare, essendo espressione di
nomina e non di un pronunciamento elettorale.
La ricostruzione è la maggiore preoccupazione dei nuovi amministratori, che
proseguono nel loro impegno, nonostante l’inadeguatezza dei mezzi finanziari
dell’Ente e la sua precaria organizzazione, particolarmente gravata dalla
mancanza di personale.
I pubblici amministratori lavorano in un clima difficile anche a causa
dell’acceso dibattito costituzionale che propende, in taluni momenti per
l’abolizione dell’ente Provincia, a vantaggio di una maggiore autonomia dei
Comuni ed in vista dell’istituzione dell’ente Regione.
I lavori della Deputazione si sviluppano comunque con un certo successo e
conseguono importanti risultati: gli sforzi compiuti portano a varare iniziative
di rilievo, spesso al di là delle strette competenze istituzionali
(caratteristica questa che accompagnerà, negli anni, l’attività della Provincia
di Bologna).
1951: le prime elezioni provinciali
Con il testo unico emanato con il decreto 5 aprile 1951, n. 203, il legislatore
approva le norme per la composizione ed elezione dei Consigli provinciali,
ripristinando con denominazioni differenti gli organi – Consiglio provinciale,
Giunta provinciale e presidente della giunta – presenti prima de 1928. Il 27
maggio si svolgono le prime elezioni provinciali mediante un sistema elettorale
misto, proporzionale e maggioritario. Inoltre con le leggi 18 maggio 1951, n.
328 e 16 ottobre 1951, n. 1168, si emanano norme sulle attribuzioni e il
funzionamento degli organi dell’Amministrazione provinciale (ripristinandosi le
norme del Testo Unico del 1915, n. 148, modificato con R.D. del 1923, n. 2839).
Con la L. 10 settembre 1960, n. 962, il legislatore opta per un sistema
elettorale di tipo proporzionale puro.
I campi di intervento
All’insediamento della Deputazione, l’Ente si impegna anche nel risanamento del
proprio patrimonio immobiliare e realizza, nell’arco di sei anni, una serie di
lavori pubblici destinati al recupero e al ripristino dei principali servizi
necessari alla “normale” ripresa della vita dopo la guerra. Vengono ricostruiti
gli istituti delle scuole medie superiori, le ferrovie locali e le tramvie date
in concessione alla Provincia e sono resi più regolari gli auto-servizi
provinciali. Negli anni dal 1945 al 1951 in particolare si realizzano:
l’istituzione di un consorzio per l’allacciamento ferroviario Bologna-La Spezia;
il progetto stradale Verona-Bologna-Firenze-Roma (parzialmente), nel quale
vengono coinvolte anche le Deputazioni delle altre Province; la costruzione del
Cavo Napoleonico, necessario per limitare al massimo le conseguenze delle piene
del Reno. È ripristinato il traffico su tutte le strade provinciali, con corposi
interventi su 280 Km, effettuati tutti con mezzi propri; si provvede anche al
ripristino e al potenziamento dei servizi per la viabilità, come lo sgombero
neve. Si istituisce il servizio di Polizia Stradale.
In tema di sicurezza, si ricorda che dal 1945 al 1951 sono rimesse in funzione
le caserme di Carabinieri del territorio provinciale, distrutte o saccheggiate
durante la guerra. Sempre in quegli anni, è restaurata la residenza provinciale
di palazzo Malvezzi.
Nelle attività produttive è notevole l’impegno per la rivitalizzazione e il
potenziamento dell’agricoltura: la Deputazione avvia nel 1947 lo sviluppo di
nuovi impianti arborei, favorendo il ripristino della fertilità del suolo con
l’utilizzo delle falde idriche sotterranee per l’irrigazione e finanziando le
prime ristrutturazioni delle case rurali.
Il grande sforzo che viene compiuto anche nell’area dell’assistenza sociale
mette in evidenza aspetti peculiari dell’identità di questa Amministrazione: la
psichiatria ad esempio, uno dei compiti storici della Provincia, riceve notevole
e nuova attenzione. Gli ospedali psichiatrici “Roncati” di Bologna e “Lolli” di
Imola sono rimessi pienamente in funzione: ampliati ed arredati i padiglioni,
rifornite le scorte e migliorato il vitto dei degenti; inoltre, per specifico
interessamento del vicepresidente della Deputazione, Roberto Vighi, viene dato
un importante sostegno anche all’Istituto medico psico-pedagogico di Imola.
Un forte impegno viene espresso anche a favore dell’infanzia, soprattutto grazie
all’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità (Ipim). Data l’importanza
dei servizi che questa struttura fornisce alle gestanti nubili e ai bambini
abbandonati, la Provincia la dota di una sede più adeguata in via d’Azeglio, in
cu vengono istituiti anche i primi consultori ostetrico-ginecologici e
pediatrici.
Per ultimo, la sanità e l’igiene, attraverso soprattutto l’attività del
Laboratorio di igiene e profilassi: sono ripristinati arredi e strumentazione e
rimessi in funzione i Dispensari antitubercolari. Viene istituito il Consorzio
provinciale antitubercolare che, dotato di un centro schermografico, gestisce
anche una colonia alpina a Dobbiaco, per assicurare efficaci soggiorni ai
bambini con problemi tubercolari e respiratori.
Sul piano politico, per impulso della Deputazione di Bologna, si giunge alla
costituzione dell’Unione regionale delle Province emiliane, organismo che
intende promuovere attività efficaci per l’intera regione.
Prove di decentramento
Già prima degli anni ’60 i temi del decentramento e della programmazione,
unitamente alle iniziative tendenti a favorire la nascita della Regione,
impegnano la Provincia di Bologna. Si ricorda, quale iniziativa di decentramento
della fine degli anni ’50, l’appoggio della Provincia per la costituzione dei
Consigli di Valle, iniziativa non realizzatasi per la mancata approvazione delle
deliberazioni adottate dai Comuni interessati.
Ma è soprattutto a partire dal 1960, dopo le elezioni di novembre, che si
sviluppa una consistente attività della Provincia nella pianificazione
territoriale intercomunale, che determinerà la nascita del Comprensorio del PIC
(Piano intercomunale di Bologna) e di Imola, nonché i Comprensori di pianura e
di montagna.
Create
nell’interesse
dello
Stato
centrale,
molte
Province
tentano
progressivamente di emanciparsi attraverso un esercizio “espansivo” delle
funzioni facoltative. I primi decenni della Repubblica sono contraddistinti
dalla mancata attuazione dei principi autonomistici e policentrici riconosciuti
dagli artt. 5, 114 e 128 della Costituzione e dalla sovraordinazione gerarchica
dello Stato rispetto alle autonomie territoriali, esercitata attraverso poteri
di indirizzo e di controllo ed il ricorso alla finanza derivata. Le politiche
nazionali di settore si proiettano sul territorio riducendo lo spazio
decisionale delle amministrazioni locali, che cercano di ovviare a ciò
attraverso l’esercizio delle funzioni facoltative.
Le ragioni dell’avversione verso l’istituzione provinciale si fondano, da parte
degli “statalisti”, sul presupposto di non creare contraltari all’autorità del
prefetto, che rappresenta il Governo nel territorio, e da parte dei “localisti”
sulla presunta incompatibilità con la Regione, ritenuta maggiormente in grado di
guidare i processi territoriali.
Le voci favorevoli all’abolizione della Provincia si accentuano negli anni ’70,
sostenendosi sempre sull’affermazione del suo carattere artificiale e sulla inutilità della sua conservazione con l’istituzione della Regione.
1970 nasce la Regione, la Provincia si ridefinisce
Il 1970 vede l’insediamento a palazzo Malvezzi della prima Amministrazione
regionale dell’Emilia-Romagna.
In tutta la prima fase di avvio del sistema regionale, dal 1970 al 1975, avviene
un graduale trasferimento di funzioni e risorse dallo Stato alle Regioni,
attuato, oltre che con gli undici decreti delegati del 1972, con la successiva e
ben più importante legge delega del 1975(16). Ma gli Enti locali non sono
toccati da questo processo e la Provincia, in particolare, ottiene ben poco,
rispetto al Comune, da quel trasferimento certo non consistente di funzioni
pervenute dallo Stato, in via diretta o attraverso la Regione. Il riordino della
legislazione degli Enti locali dovrebbe razionalmente compiersi contestualmente
a questo processo di regionalizzazione: invece la legislazione fondamentale
degli Enti locali rimane quella del T.U. della legge comunale e provinciale del
1934, salvo qualche modificazione(17).
Tale mancato tempestivo riordino degli Enti locali non consente l’attuazione di
un effettivo processo di trasferimento di funzioni e poteri a tutti i livelli di
governo (Stato, Regioni, Province e Comuni), inficiando per anni il rapporto tra
Enti locali e Regione, anche sotto l’aspetto del ruolo programmatorio e/o
gestionale (e, se anche gestionale, quale) della Regione, nonché sotto l’aspetto
della determinazione delle modalità, dei tempi, della consistenza e dei
caratteri delle deleghe di funzioni.
Di ciò risente anche, e forse in modo particolare, la Provincia di Bologna che,
pressoché per tutti gli anni Settanta, riceve deleghe piuttosto frammentate e
non inserite in un contesto organico di funzioni e attribuzioni. In più, per le
funzioni sovracomunali, intermedie tra livello comunale e regionale, la Regione
tende a identificare altre strutture di collegamento per la programmazione
socioeconomica ed urbanistica quali le associazioni dei Comuni, i consorzi e i
Comprensori.
Con il D.P.R. 616/77, assorbe funzioni che la configurano come “ente di governo”
di tutta l’amministrazione locale, mentre i Comuni e le Province sono chiamati
ad operare secondo gli indirizzi e le direttive dell’ente maggiore.
Sembrano preannunciare il ridimensionamento della Provincia l’istituzione delle
Comunità Montane, con la legge del 1971, n. 1102 che rinvia alla successiva
legislazione regionale per la minuta disciplina, e la creazione dei comprensori
(generalmente configurati come organi della Regione, ma qualche volta come Enti
locali di tipo consortile).
Il fallimento, in particolare, sul piano della programmazione di tali esiti
inducono le stesse Regioni a ripensare, in misura sempre crescente, alle
Province quale destinatarie di deleghe, in particolare nei settori di cosiddetta
area vasta.
L’autonomia come processo
La divaricazione progressiva fra sviluppo economico e staticità istituzionale,
fra complessità sociale e monolitismo delle amministrazioni, attestate su
modelli strutturali e funzionali d’anteguerra, rivela l’inadeguatezza della
concezione centralista vigente del cosiddetto big government, rispetto a modelli
di governo più snelli e dinamici.
Il sistema locale, per la sua contiguità e capacità di interazione diretta con i
cittadini, appare il più idoneo. Come preannunciato dalla Convenzione europea
relativa alla Carta delle autonomie locali, sottoscritta a Strasburgo il 15
ottobre 1985 (e ratificata dall’Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439),
con la legge 8 giugno 1990, n. 142, riparte il processo di rilancio delle
autonomie.
Tale legge assegna alla Provincia funzioni proprie ma settorializzate e
frammentate (in materia di assistenza e beneficenza; istruzione e assistenza
scolastica; viabilità e lavori pubblici; inquinamenti ambientali e difesa del
suolo) e di programmazione (concorso ai programmi regionali, predisposizione del
piano territoriale di coordinamento, coordinamento e approvazione degli
strumenti di pianificazione territoriale dei Comuni). Particolarmente innovativa
risulta la previsione sulla “Città Metropolitana”, intesa come livello di
governo integrato e razionalizzato (fra i vari comuni) cui demandare funzioni di
pianificazione, di coordinamento, di gestione di servizi e opere. La L. n.
142/1990 riconosce inoltre forme di partecipazione, rinforzate poi anche dalla
L. n. 241/1990.
Seppure conservi sistemi elettorali e finanziari tradizionali, la legge
interviene radicalmente sulla ripartizione delle competenze tra la Giunta, che
amplia i propri ambiti operativi, e il Consiglio, organo di mero indirizzo e
controllo politico-amministrativo con competenze tassativamente elencate e non
più generali. Altre trasformazioni riguardano la nomina del presidente della
Giunta da parte del Consiglio sulla base del documento programmatico; il vincolo
della stabilità della Giunta al meccanismo della sfiducia costruttiva; la
preminenza del presidente, al quale spetta la revoca del singolo assessore e il
coordinamento dell’attività di Giunta; la distinzione tra attività politicoamministrativa e attività gestionali (il cui ruolo viene rimarcato dal d.lgs. n.
29/1993, la c.d. disciplina di privatizzazione del pubblico impiego), in base
alla quale queste ultime vengono trasferite in capo ai dirigenti.
L’assestamento e l’interiorizzazione della L. n. 142/1990 non sono né rapidi né
lineari, data la narcosi istituzionale indotta negli enti locali per decenni.
Un’altra accelerazione l’imprimono l’emergere di diffusi fenomeni di malcostume
politico che inducono il legislatore a migliorare l’efficienza politicoistituzionale della componente istituzionale dell’ente.
La Provincia presidenziale e l’ampliamento delle competenze
Il rimedio si ravvisa nella L. 25 marzo 1993 n. 81, che introduce una forma di
governo dell’ente tendenzialmente presidenziale. Con l’elezione diretta del
presidente della Provincia il Consiglio perde ogni potere nella costituzione
degli organi esecutivi. Diventano incompatibili le cariche di consigliere ed
assessore,
è
possibile
istituire
commissioni
d’indagine
e
il
mandato
amministrativo viene ridotto a quattro anni.
L’autonomia degli enti locali enunciata dall’art. 5 della Costituzione come
esigenza cui adeguare i principi e i metodi della legislazione, articolata nel
Titolo V della Costituzione, cadenzata nel suo percorso attuativo dalle
disposizioni transitorie e finali VIII e IX, si trasforma da astratto valore
costituzionale in processo di organizzazione e razionalizzazione istituzionale
con la L. n. 59/97 e con il D.lgs. n. 112/98 e i decreti delegati susseguenti.
A Costituzione invariata, con la L. 15 maggio 1997, n. 59 si conferiscono alle
Regioni e agli Enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi
alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive
comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi in atto nei
rispettivi territori, esercitati da qualunque organo o amministrazione dello
Stato, centrale o periferico. Le funzioni che debbono rimanere allo Stato
vengono tassativamente elencate, le altre sono individuate direttamente con
decreti legislativi ovvero dalle Regioni (se riconducibili alle materie
dell’art. 117 della Costituzione), con la previsione di poteri sostitutivi dello
Stato e delle Regioni in caso di inadempienza o ritardo. Le stesse Regioni
devono conferire agli Enti locali tutte le funzioni proprie che non richiedono
l’unitario esercizio a livello regionale.
Con la L. n. 59/1997 si inverte radicalmente il ruolo tra Stato e autonomie:
allo Stato resta la competenza in affari esteri, difesa, tutela dei beni
culturali, ordine pubblico, giustizia, sistema previdenziale e ricerca
scientifica mentre gli Enti territoriali assumono una competenza amministrativa
generale.
La redistribuzione dei poteri è attuata secondo i principi direttivi di
sussidiarietà,
efficienza
ed
economicità,
responsabilità
ed
unicità
dell’amministrazione operante, adeguatezza (idoneità dell’amministrazione a
garantire l’esercizio delle funzioni), differenziazione nell’allocazione in
relazione alle diverse caratteristiche.
Per la Provincia significa il superamento del cosiddetto sistema binario
incentrato sulla coesistenza/compresenza di competenze e strutture periferiche
dello Stato su materie di intervento proprio. Tale ripartizione degli ambiti
funzionali viene dettagliata con il d.lgs. n. 112/1998 e, in Emilia-Romagna, con
la L.R. n. 3/1999. Il D.lgs. n. 112/98, che pur redistribuisce per
accumulazione, descrive compiti che vanno da quelli autorizzatori a quelli di
prevenzione, da quelli di assistenza a quelli di controllo e vigilanza; da
quelli di progettazione, di costruzione e manutenzione di opere a quelli di
tenuta di albi. Si rafforza così il carattere bicefalo della Provincia, intesa
come amministrazione tecnico-amministrativa e come ente di programmazione
subrergionale e sovracomunale, rendendo effettivo l’autogoverno (condizionato
però dal trasferimento di beni, del personale e delle risorse finanziarie).
Al di là del riassetto delle competenze e della disciplina dei rapporti tra i
diversi livelli di governo, i principi sanciti dalla L. n. 59/1997 sono
destinati a indirizzare l’ordinamento sia che questo adotti la forma federale,
sia che scelga quella decentrata, integrando e garantendo comunque tutti i
livelli istituzionali attraverso i principi della solidarietà e della
cooperazione.
Avanza il processo riformatore
Preceduto dalla L. 30 aprile 1999 n. 120, che porta il mandato a cinque anni, il
processo riformatore avanza ulteriormente con la L. 3 agosto 1999, n. 265:
vengono sottolineati il rapporto di equa ordinazione fra i soggetti
istituzionali che compongono l’ordinamento generale, la sussidiarietà verticale
nei confronti dei cittadini e delle loro forme di organizzazione, l’attribuzione
di autonomia statutaria, normativa, organizzativa, impositiva e finanziaria.
Mediante l’art. 31 della L. n. 265/99 il legislatore incaricava il Governo di
elaborare una legge generale che riunisse coerentemente tutte le disposizioni in
materia.
Il recente d.lgs. n. 267/2000 rappresenta il risultato di questa ricognizione,
analisi, riformulazione e coordinamento delle varie fonti legislative.
I testi legislativi selezionati non sono meramente compilati, ma innovati nei
termini necessari a facilitare l’applicazione delle leggi preesistenti,
eliminando duplicazioni, sovrapposizioni, contraddizioni. Inoltre, tiene conto
delle
sentenze
della
Corte
costituzionale
e
degli
orientamenti
della
giurisprudenza
ordinaria
e
amministrativa
su
aspetti
particolarmente
problematici. E’ un intervento normativo che per complessità e ampiezza è
assimilabile a quello svolto per i testi unici del 1915 e del 1934; una legge
generale
della
Repubblica
posta
a
garanzia,
più
che
a
limitazione,
dell’autonomia locale.
Si compone di duecentosettantasette articoli e di quattro parti: la prima, in
cui si recepiscono molte norme della L. n. 142/90 coordinate con la L. n. 59/97
e il d.lgs. n. 112/98, delinea un federalismo amministrativo tendente alla
valorizzazione delle varie forme di autonomia riconosciute agli Enti locali; la
seconda, sull’ordinamento finanziario e contabile, eredita parte delle
disposizioni del d.lgs. 77/95; la terza disciplina le forme associative; la
quarta contiene le norme e l’elenco delle leggi espunte in tutto o in parte
dall’ordinamento.
Relativamente agli statuti – che stabiliscono i principi ispiratori e descrivono
il “carattere” dell’autonomia dei singoli Enti – questi potranno estendersi alle
forme di partecipazione amministrativa e alla vita pubblica locale anche dei
cittadini della U.E. e degli stranieri regolarmente soggiornanti; ai criteri
generali in materia di organizzazione; alla più chiara separazione dei compiti
tra organi politici e organi gestionali; alle modalità reticolari dei rapporti
con gli altri enti territoriali.
Indicativi, sul tema, gli artt. 4 e 33 del T.U., incentrati rispettivamente sul
sistema regionale delle autonomie locali (e sui principi, gli strumenti e le
procedure di coordinamento, collaborazione e cooperazione) e sull’esercizio
associato di funzioni e servizi da parte dei Comuni di minore dimensione
demografica.
A tale processo di riorganizzazione concorre la Città Metropolitana (artt. 2226), non più configurabile come “variante” della Provincia ma come ente
associativo di Comuni (tali indirizzi, come avvenuto per la semplificazione
amministrativa, costituiscono una vera e propria politica istituzionale per la
Provincia di Bologna).
In questa transizione, gli Enti locali si attivano e si attrezzano oltre che
nelle sedi di rappresentanza istituzionale (Conferenza unificata Stato-Regioni,
Stato-Città e Autonomie locali) anche sul piano aziendale, per un governo più
evoluto, rafforzando la propria capacità propositiva e la propria influenza
sulle dinamiche dell’ambiente istituzionale e non.