Capitolo III - Le famiglie - CISADU

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Capitolo III - Le famiglie - CISADU
Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica
Francesca Quaratino
L'identità sospesa. Contributi antropologici per una didattica interculturale nella scuola primaria
Tesi di laurea
Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere
a.a. 2000/2001
Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 14 luglio 2004 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html
CAPITOLO III
----------------------- LE FAMIGLIE
III.1. Valori familiari.
Julio e Felipe, così come quasi tutti i loro compagni stranieri, avranno buone
probabilità di essere considerati per tutto il corso della loro vita in Italia
“immigrati di seconda generazione”, espressione che ne sottolineerà
filiazione e luogo di crescita quali aspetti centrali nella definizione
dell’identità. Saranno degli uomini o delle donne arrivati in Italia o nati qui
da genitori immigrati, rispetto ai quali manterranno il primato nella
conoscenza della lingua del paese ospitante grazie alle acquisizioni
scolastiche. Il senso della “seconda generazione”, infatti, assume
generalmente significati legati ai processi di integrazione e al loro grado di
realizzazione.
Non è un caso, così, che uno degli aspetti più evidenti delle politiche
dell’accoglienza scolastica sia quello di essere rivolto al recupero linguistico
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solo nei casi di bambini provenienti da paesi stranieri mentre per tutti gli
altri, i Julio “capoverdiano nato a Roma” e i vari Felipe “peruviano di
Firenze”, non si preveda alcuna forma di sostegno dando per scontate le
acquisizioni di bambini nati e cresciuti nel nostro Paese.
L’attenzione delle politiche scolastiche è quasi esclusivamente orientata su
un terreno di concreta realizzazione di progetti solo per i casi nei quali la
provenienza abbia effettivamente coinciso con un viaggio, considerato tanto
più significativo sul piano delle necessità di intervento, quanto più sia stato
cronologicamente vicino all’ingresso nella scuola.
Seppure questa scelta abbia una priorità dettata dall’urgenza del problema,
bisogna riconoscere che le tensioni connesse al quadro complesso e
sfuggente della provenienza culturale vengono, così, lasciate su un piano
minore nel quale c’è molto spazio per le riflessioni teoriche su cosa sia
l’educazione interculturale ma ben poco per quanto riguarda l’effettiva
disponibilità a realizzare progetti di sostegno ai bambini e alle loro famiglie.
La migrazione è sovente ridotta a un atto fisico, a un processo di
ambientamento in altri luoghi nei quali si fa urgente l’acquisizione delle
capacità comunicative, mentre le conseguenze sul piano emotivo e delle
relazioni familiari passano in secondo piano nonostante si facciano udire con
forza anche nelle generazioni successive a quella che ha intrapreso il
viaggio.
Sono proprio gli “immigrati di seconda generazione”, infatti, a riportare alla
luce la complessità e la conseguente emergenza dei conflitti a seguito della
scelta migratoria delle proprie famiglie; prima o poi questi bambini dalla
discreta alfabetizzazione, nati negli ospedali italiani, potrebbero scrivere di
sé stessi io sono capoverdiano, peruviano, filippino ma vivo a Roma,
evidenziando come la percezione della propria presenza in Italia sia dello
stesso segno di quella paterna e materna: uomini e donne nati in altri luoghi,
ospiti del nostro paese.
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Partendo da alcune riflessioni elaborate in sede psicoterapica riportate da
Roberto Beneduce si potrebbe, così, insistere sul nesso che lega le difficoltà
dei bambini all’esperienza migratoria dei genitori: esperienza che si carica di
per sé di tensioni legate ai faticosi inserimenti
incertezze
causate
dalla
difficile
nelle realtà locali e di
acquisizione
di
uno
spazio
per l’individuo1.
La famiglia come luogo di costruzione dell’identità attraverso la continua
mediazione tra modelli non sempre coscientemente noti alle figure
genitoriali e modelli selezionati come validi ed efficaci per l’educazione dei
figli diviene centrale nei percorsi di vita di questi bambini anche alla luce
della forza con la quale i processi di trasmissione e valutazione dei valori si
impongono a padri madri e fratelli2.
La necessità di crescere i bambini secondo modelli della cultura di
provenienza porta spesso a un lavoro di analisi e di riscoperta dei valori che
noi abbiamo considerato “inconsci”3 e a un loro progressivo scivolamento
1
Beneduce R. Frontiere dell’identità e della memoria, Franco Angeli, Milano 1998, pp.183. La psichiatria
e l’etnopsichiatria in particolare hanno intrapreso da tempo una proficua riflessione sulle peculiarità
dell’intervento terapeutico in presenza di pazienti immigrati; nel caso di bambini e adolescenti, poi,
l’attenzione che viene attribuita alle aspettative e alle dinamiche familiari svela temi e problemi che la
scuola non può rifiutarsi di prendere in considerazione. Scrive Beneduce: “Parlare di bambini figli di
immigrati e non di bambini immigrati (…) significa più in particolare mettere l’accento sul rapporto tra le
difficoltà che essi sperimentano e la migrazione cui è andata incontro la loro famiglia: il fatto decisivo per
questi bambini ed adolescenti sarebbe dunque meno l’essere nati in un altro paese quanto il far parte di una
famiglia che è emigrata, con tutto quanto questo solitamente comporta in riferimento a ruoli, legami,
aspettative, rapporti generazionali”.
2
Per una riflessione sull’accelerazione delle normali dinamiche familiari nel contesto migratorio si veda
Mara Tognetti Bordogna “Strutture e relazioni familiari tra immigrati” relazione tenuta in occasione del
convegno Le famiglie interrogano le politiche sociali, Bologna 1999.
3
Il pericolo di un fraintendimento circa il concetto di “inconscio” è sempre presente, soprattutto quando
venga usato nella sua funzione aggettivante che lo rende sinonimo di “sotterraneo”, “scarsamente
consapevole”. Sui rischi, talvolta affrontati in piena consapevolezza, del contatto tra antropologia e
psicoanalisi ci si interroga soprattutto in ambito etnopsichiatrico dove le due discipline sono chiamate a
condividere percorsi interpretativi, talvolta con risultati eccellenti sul piano della riuscita dell’intervento
terapeutico. La critica che Roberto Beneduce rivolge a quanti, da Ròheim a Devereux, abbiano dichiarato
l’evidente implicazione tra la capacità a “guardare dentro di sé” propria della pratica psicoanalitica e
“l’apprendere a guardare al proprio esterno” della ricerca antropologica aiuta ad avere ben chiari i propri
limiti formativi. “Se un buon antropologo finisce talvolta con l’essere condotto, nella sua larga esperienza
di lavoro, in prossimità dei risultati di un’analisi personale riuscita, questo non rappresenta la regola, non lo
trasforma in un analista e, tanto meno, vale il contrario” . Beneduce R. Frontiere dell’identità e della
memoria, cit. pag.45, nota 12.
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verso quelli frutto di selezione. Un caso per tutti, il più evidente, è la scelta
di parlare con i propri figli la lingua materna, percorso che tutti i genitori
attuano senza porsi domande particolari e, soprattutto, senza elaborare
alcuna riflessione di carattere emotivo e nostalgico. Nei migranti questa
lingua si fa legame con un luogo, una terra, una storia presenti nella
memoria o nella vita, poiché alcuni tornano periodicamente nei paesi di
provenienza e lì desiderano, comprensibilmente, che i figli comprendano i
nonni, i parenti e, in generale, la gente. Parlarla o meno in casa diviene,
dunque, scelta di continuare a essere, anche nella propria discendenza ciò
che si è nati.
La stessa affettività quotidiana di una madre verso i propri figli si presenta
in tutta la forza del percorso educativo culturalmente connotato e su questo
terreno il piano della consapevolezza rimane più sfumato, più soggetto
all’essere osservato e indagato nella proprie dinamiche sotterranee: abbracci,
carezze, le stesse scelte di svezzamento del neonato sono alcune delle risorse
che le donne, nel proprio ruolo di madri, hanno nel percorso di creazione o
mantenimento di un legame con il mondo di provenienza e talvolta
costituiscono la principale causa di disadattamento. D’altro canto, la nostra
stessa tradizione regionale ha prodotto quell’immagine della madre
meridionale votata al nutrimento dei propri figli maschi divenuta, poi,
simbolo della maternità di un intero paese; quindi perché, tra le variabili da
tener presenti nei processi di incontro e mediazione interculturale, non
recuperare anche quella dei processi di costruzione dell’identità a partire dai
messaggi sottili veicolati dalla relazione madre-figlio?
Sono aspetti come quelli evidenziati a porre con urgenza un ritorno alla
famiglia, alle sue dinamiche interne, evidenti o profonde che siano, quale
momento di sintesi della elaborazione di una modalità di presenza da
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proporre ai bambini che si preparano a divenire “immigrati di seconda
generazione”.
Basterebbe, d’altronde, spostare la classificazione linguistica di questi
bambini dalla necessità di sottolinearne l’appartenenza a un mondo
straniero, espressa dal termine “immigrati” - benché essi non abbiano mai
vissuto l’esperienza migratoria - a quella che ne considera la filiazione
culturale, non l’ordine di generazione o il grado di attenuazione dei tratti
della cultura di origine in base all’idea che in “seconda generazione” si sia
un po’ meno filippini che in prima e in terza ancora meno.
A confermare l’assurdità di ogni tentativo di indicare una sorta di curva
discendente nei passaggi culturali di generazione in generazione basterebbe
citare il caso degli afroamericani che duecento anni dopo il loro arrivo in
America del nord hanno rinnovato la necessità di sottolineare la propria
differenza
recuperando
le
acconciature
e
gli
abiti
tradizionali,
riconoscendosi nella cultura hip hop e, in molti casi, “tornando” all’Islam.
Il tratto caratteristico che accomuna le esperienze di chi vive in un paese,
pur avendo le proprie origini in un altro è, semmai, quello di volgersi al
recupero della cultura degli antenati integrandola attraverso un percorso
significativo, impegnativo, talvolta straniante e psicopatologico di
mediazione con quella acquisita.
Più corretto sarebbe, invece, tentare di capire cosa significhi sul piano
emotivo, psicologico e di costruzione dell’identità essere “lontano dagli
antenati”4 o crescere in famiglie sulle quali preme il senso di solitudine e di
distanza da un sistema di riferimenti affettivi e culturali.
Il fatto è che questi bambini sono a tutti gli effetti “figli di immigrati”: lo
sono nei tratti somatici, nella lingua che parlano oltre all’italiano, in ciò che
4
ivi, .pag. 203. Nel capitolo dedicato all’ “infanzia che attraversa culture” si lascia volutamente molto
spazio a considerazioni riguardanti il senso della memoria familiare e del legame con luoghi di origine
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mangiano, nell’emotività, nelle difficoltà economiche e nelle fatiche
scolastiche. Sono figli di immigrati e tali resteranno nei rapporti di lavoro, in
quelli d’amore e nel ruolo di padri e di madri. Viaggeranno, conosceranno
altre lingue, alle normali scelte educative dei figli sommeranno quella di
insegnare loro o meno ciò che essi hanno appreso dai propri genitori:
avranno, insomma, i propri, profondissimi, legami con un mondo
relativamente conosciuto eppure presente che li chiamerà costantemente ad
attuare una scelta, una selezione, un abbandono.
E’ come se le normali dinamiche di mutamento familiare si appesantissero
dell’ulteriore peso del confronto con l’Altrove, talora generatore di
incomprensioni talora luogo al quale tornare per trovare quei legami con le
culture d’origine che, ancora sulla scia di Beneduce, considereremo nella
forza con la quale impongono dinamiche di mutamento ai singoli5.
Sempre che, chiaramente, prima ancora che si inneschi questo fondamentale
processo di ricerca di immedesimazioni, i bambini non tornino nei paesi
d’origine delle proprie famiglie al termine del ciclo elementare o negli anni
dell’adolescenza. Si consideri, infatti, che nel futuro delle famiglie migranti
si prospetta spesso un ritorno legato talvolta alla delusione per ciò che esse
hanno trovato, talvolta alla fine del progetto migratorio, spesso coincidente
con la conclusione del rapporto di lavoro.
Nel primo caso si assiste anche al dramma della separazione dai genitori,
che non potendo permettersi di tornare anticipatamente nei loro paesi
decidono di allontanare i figli da un sistema educativo non condiviso,
spesso sconosciuti e al lavoro clinico di conciliazione con questo passato doppiamente segnato dalla
presenza nel racconto familiare e dall’assenza sul piano effettivo dell’esperienza del singolo.
5
ivi, pag.205. Beneduce scrive che operando nella zona di “ambiguo confine che attraversa desideri
individuali, critiche dei ruoli, sensi di colpa, solitudini, identità incerte […. ] è forse possibile concepire
nuovamente legami vitali con le proprie culture d’origine, che possono essere tali perché non pacificatori:
inscritti, cioè, per intero dentro la dimensione del conflitto e del cambiamento”.
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sovente non compreso rimandandoli in patria dai nonni. Nel secondo,
invece, sono i figli che si è deciso di far nascere nel paese della migrazione a
seguire la famiglia nel momento del ritorno, storia ben nota alle nostre terre,
e in particolare a quanti, figli di minatori e di operai italiani trasferitisi nel
Nord Europa, tornavano nelle regioni di origine dei propri padri, oramai
pensionati, vivendo la fatica e il dolore dell’accettazione della familiarità
con luoghi per loro stranieri6.
Molti bambini figli di immigrati sanno che prima o poi torneranno in patria
con le proprie famiglie, lasciando i compagni di classe, le maestre, la propria
casa e le abitudini quotidiane: sanno già, insomma, i genitori decideranno
per loro. Questa attesa, che può divenire l’argomento più forte della vita
famigliare, incide spesso su quel senso di sospensione e di incertezza che
tanto caratterizza questi bambini che, consapevoli o meno, non mettono
radici in nessun luogo, diffidano dei legami profondi e, spesso, si
sottraggono all’attività scolastica.
Come già si è detto la visibilità delle famiglie è legata essenzialmente alla
presenza delle madri che si occupano totalmente della vita dei figli sul
piano scolastico e sanitario. I padri compaiono raramente e se ci sono fratelli
e sorelle maggiori a loro è affidato il compito di riprendere i bambini a
scuola. D’altro canto queste figure fraterne sono spesso centrali nelle
dinamiche domestiche non solo sul piano del contributo all’organizzazione
della vita quotidiana, ma anche perché risultano essere il polo di riferimento
di numerose scelte, prima fra tutte quella del ritorno in terra di origine.
Trattandosi di ragazzi e ragazze oggi adolescenti è molto più facile che essi
si ribellino all’idea di dover abbandonare il paese in cui sono nati e cresciuti
6
Si veda, in proposito, “La famille entre deux rives”, il saggio di Mahfoud Boucebci contenuto in
appendice al volume di Beneduce e dedicato al ritorno in Algeria dei figli di immigrati. L’autore, uno
psichiatra algerino assassinato dai membri del FIS nel 1998 è stato tra i più attenti osservatori della realtà
del “rientro” dalla migrazione e delle ripercussioni sul piano dell’identità di bambini e adolescenti.
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spostando l’interesse dei genitori sui fratelli minori. Così, i bambini delle
generazioni che oggi frequentano la scuola elementare si trovano, se hanno
fratelli, a sostituirli sul piano delle attenzioni familiari e delle conseguenti
aspettative: più seguiti a scuola, più controllati sul piano sanitario, più
stimolati nel tempo libero, divengono in tutto e per tutto il polo di
riferimento e di investimento
dei genitori. Con questo non si vuole
affermare che i loro fratelli subiscano una sorta di abbandono, piuttosto li si
lascia liberi di percorrere strade alternative giustificando le loro decisioni nel
nome di un’infanzia difficile, che spesso ha coinciso con i primi tempi della
migrazione. E’ come se il primogenito vivesse di quella libertà che di solito
spetta al fratello minore e questi, invece, si trovasse di fronte a tutte le
responsabilità, le ansie di prestazione e le attenzioni familiari che
solitamente appartengono all’esperienza dei primi figli quasi che il padre e
la madre si dicessero “almeno i secondi crescano bene”.
Il caso di Julio risultò emblematico. La madre, residente a Roma dal 1974,
aveva una figlia, oggi ventiquattrenne, che in piena adolescenza aveva
dichiarato la ferma intenzione di non voler rientrare a Capo Verde; memori
di questo fatto, la madre e il padre di Julio si convinsero della necessità di
tornare nel proprio paese prima che il bambino finisse la scuola media, ma
per fare questo passo erano costretti a lavorare duramente entrambi per poter
finire la casa che avevano in costruzione nell’arcipelago, con notevoli
ripercussioni sul piano della disponibilità di tempo e di denaro nella loro vita
“italiana”. Julio stesso sapeva che prima o poi sarebbe partito, tanto che una
mattina, mentre tentavamo di fargli capire l’importanza di saper leggere
correttamente, lui ci rispose che prima doveva assolutamente conoscere
bene il creolo parlato in famiglia.
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Il legame tra i membri della famiglia immigrata assume significati assai
profondi per quanto riguarda le ricadute sul nucleo delle decisioni dei
singoli, tanto che l’emersione delle tensioni e dei conflitti si presenta con
caratteristiche piuttosto simili, soprattutto in presenza di figli adolescenti. Si
potrebbe quasi dire che in questo modello famigliare le relazioni siano a
trama fitta, tanto da non permettere un’ effettiva consapevolezza della loro
portata se non attraverso la conoscenza, anche parziale ma diretta,, di tutti i
membri, compito al quale la scuola non può dedicarsi agevolmente: è
proprio in questa difficoltà di comunicazione che la presenza di un
mediatore interculturale risulterebbe decisiva per sciogliere dubbi e
reciproche diffidenze. Si immagini, infatti, che al mediatore venga data la
possibilità di incontrare a turno o in gruppo i membri della famiglia,
ripercorrendone le storie e gli itinerari formativi - nei figli grandi, ad
esempio, può manifestarsi l’interesse per attività extrascolastiche non
condivise
dagli
adulti
-
limitandosi
a
“raccogliere”
il
racconto
autobiografico non tanto nelle sua oggettività quanto nel timbro che esso
assume come insieme di “verità selettive”. I passi successivi alla
ricognizione si baseranno sul rapporto con gli insegnanti alla luce delle
difficoltà di un bambino.
Ma cosa è lecito aspettarsi da un simile intervento?
Seppure nei limiti e nella scarsa definizione di ruoli la nostra esperienza ha
evidenziato con una certa forza una grande disponibilità della famiglia a
ripercorrere, evidenziandoli, quelli che considera gli aspetti centrali
dell’esperienza migratoria; successivamente è apparso chiaro, inoltre, che è
possibile muoversi verso la cognizione consapevole che alla base dei
problemi di apprendimento di un alunno non ci siano solo resistenze
caratteriali o ritardi mentali, ma anche realtà familiari che lo pongono
nell’evidente condizione di non avere interesse per ciò che fa in classe. Si
pensi, allora, al caso di Julio: perché non riconoscere che nella pluralità dei
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suoi problemi fosse centrale quello di non avere interesse ad apprendere una
lingua considerata inutile nella prospettiva del rientro a Capo Verde? Perché
non immaginare di far precedere la collaborazione con la famiglia alla
richiesta del sostegno?
Nel periodo della nostra permanenza ponemmo la questione con una certa
urgenza e trovammo anche una discreta attenzione sia dalla parte della
maestra sia da quella dell’insegnante di sostegno; purtroppo in quei giorni le
tensioni tra Julio e Marco divennero così forti che ci costrinsero a rimandare
il progetto di lavoro con la madre, lasciandolo tuttora irrealizzato.
III.2. Lo spazio domestico.
Chiameremo dimensione domestica del bambino quella che riguarda gli
spazi fisici del rapporto familiare. Ora, ci si potrebbe legittimamente
chiedere cosa conti in una ricerca rivolta al complesso delle relazioni e dei
percorsi di inserimento scolastico una riflessione sui luoghi dell’abitare.
Ebbene, nel corso del lavoro di classe notammo che in almeno quattro casi i
bambini stranieri facevano costantemente riferimento ai propri appartamenti
per parlare di sé nella dimensione del tempo libero.
Il tema dell’alloggio sembra essere centrale per molti di loro che, non a
caso, hanno vissuto molteplici esperienze di traslochi talvolta preceduti da
un’affannosa ricerca: nella sua semplicità, talvolta sfuggente anche agli
occhi dei maestri, la Casa diviene l’affermazione della propria presenza
extrascolastica, luogo nel quale si incontrano - nelle fotografie alle pareti,
nelle cartoline, negli oggetti quotidiani - passato familiare e presente
migratorio.
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A febbraio Julio cambiò casa: ne parlava con chiunque, era entusiasta della
novità che lo avrebbe tra l’altro avvicinato alla scuola; finalmente non
avrebbe più dovuto svegliarsi alle sei per attraversare un quartiere molto
trafficato. La nuova casa era al piano terra, circondata da un giardino
condominiale nel quale il suo gatto poteva muoversi libero.
Per poter avere l’appartamento il padre aveva dovuto superare alcuni giorni
di prova come custode del condominio piuttosto lussuoso, poi, finalmente,
era stato assunto e la famiglia si era potuta trasferire nelle due camere,
bagno e cucina che costituivano l’abitazione. L’accesso all’ abitazione era in
comune con quello con quello delle cantine nelle quali Julio andava a
giocare nei giorni d’inverno.
Ma un’altra casa apparteneva alla realtà di Julio: quella in costruzione
sull’isola di San Nicolau. Il progetto prevedeva due piani da costruire su un
terreno acquistato da poco e attiguo a quello dei nonni materni; gli spazi
sarebbero stati molto ampi e la facciata avrebbe recuperato lo stile
caratteristico dell’arcipelago.
L’estate del 2001 segnò l’inizio dei lavori che si sarebbero dovuti
concludere in tempi brevi, data l’intenzione della famiglia di rientrare nella
terra di origine entro pochi anni. Per portare a termine il progetto i genitori
avevano deciso di rinunciare a turno alle ferie estive col bambino anche se la
madre già immaginava che l’anno successivo non sarebbe riuscita a
separarsi da Julio per un mese intero.
Anche il padre di Felipe aveva un portierato in un bel condominio della
zona. L’appartamento vicino alla guardiola, tuttavia, era molto piccolo per le
cinque persone che componevano la sua famiglia, tanto che i genitori
avevano affittato una casa nella campagna di Fiano Romano per poter offrire
ai figli un luogo spazioso in cui giocare il fine settimana. Felipe e i suoi la
consideravano a tutti gli effetti la loro “vera” casa, tanto che una specie di
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consiglio familiare aveva deciso di trasferirvi il computer, acquisto recente
per il quale erano stati spesi soldi faticosamente risparmiati, attorno al quale
tra adulti impegnati in corsi di informatica e bambini che volevano giocare
si passavano i sabati e le domeniche.
Questa storia dell’appartamento per il week-end inizialmente ci sembrò una
fantasia del bambino; fu la mamma, poi, a confermarci che si trattava della
realtà, per quanto costasse qualche sacrificio economico. L’asma di Felipe,
tra l’altro, era notevolmente migliorata.
Brian raccontava un po’ di meno, soprattutto non descriveva l’ambiente
quanto, piuttosto, una casa rumorosa e affollata nella quale pendeva dal
soffitto della sala da pranzo la culla del fratellino di pochi mesi: questa
immagine del neonato tornava nei racconti sul gioco, sul pranzo e,
soprattutto, in quelli del sonno costantemente interrotto durante la notte.
Dalle informazioni che possedeva la maestra emergeva il ritratto di un
vecchio edificio sulla Via Flaminia, sicuramente senza acqua corrente, tanto
che i commercianti della zona conoscevano bene i fratelli filippini che
prendevano l’acqua alla fontanella comunale caricando le taniche sulla
bicicletta. Il volontario della parrocchia che vi si recò a fine anno confermò i
disagi ma in particolare rimase molto colpito dalla presenza di un gallo
destinato al brodo e momentaneamente allevato in casa e rincorso dai
bambini, esattamente come nei racconti contadini di qualche nonno.
La casa di Ikaru era sicuramente la più bella: era un appartamento grande ed
elegante. Molte delle sue compagne parlavano con ammirazione particolare
della sua cameretta che si diceva piena di “Hello Kitty”, personaggio dei
fumetti giapponesi che - almeno nei racconti delle bambine - ne infestava
sottoforma di decorazione adesiva pareti, armadio, letto e scrivania (oltre
che la cartella, l’astuccio, le matite e i collant). Ikaru stessa parlava della
propria cameretta come di un “posto bellissimo e rosa”.
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I racconti della casa erano tra le poche cose narrate spontaneamente dai
bambini, spesso con il chiaro intento di incuriosirci.
Per Julio l’appartamento romano era il luogo dei giochi, della televisione,
del riposo e dello spazio per correre col gatto cioè della normalità della vita
di ogni bambino. Quando parlava della casa di Capo Verde, invece, ne
esagerava le dimensioni (“il palazzo”, “la grande casa”), la popolava di
animali e quando arrivò l’estate ci disse che doveva partire per aiutare a
costruirla: la mamma, che aveva acquistato il terreno con i risparmi del
lavoro da domestica, parlava spesso al bambino di questa casa grandissima e
di come sarebbe divenuta bella. Anche a noi, quando realizzammo
l’intervista, mostrò foto e planimetrie che riproducevano la futura casa di
Julio nel suo stile coloniale, col tetto spiovente e i rivestimenti di legno.
Nei discorsi familiari questo futuro spazio e la sua realizzazione venivano
quasi a rappresentare un legame materiale con Capo Verde: i mattoni, il
progetto e il denaro investito erano il simbolo concreto del ritorno possibile
e per certi versi obbligatorio. Ed effettivamente lo spazio domestico
quotidiano era interpretato con un particolare senso di precarietà dal
bambino stesso che talvolta parlava della propria casa come del posto in cui
“stare qui adesso” (qui a Roma) contrapponendola nelle fantasie al
“palazzo” di Capo Verde.
Ben diversa era la situazione di Felipe e delle sue due case, quella cittadina e
quella di campagna, nelle quali si esprimeva, come confermò la madre, il
desiderio di restare definitivamente a Roma risolvendo il problema dei
ristretti spazi quotidiani con un’alternativa da sfruttare nei fine settimana.
La scelta della famiglia non fu dettata, come si potrebbe pensare, da un
desiderio di omologazione all’ambiente sociale frequentato quotidianamente
(la metà dei bambini della II C trascorreva fuori città il sabato e la
domenica) bensì da una reale esigenza di allontanamento dal caos urbano
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nel nome del benessere dei bambini: le motivazioni in tal senso erano
talmente forti che la seconda casa non era considerata “un lusso”.
L’esperienza migratoria dei genitori del bambino era stata significamene
segnata dai luoghi di residenza, prima nel Castello di Canossa, poi in una
villa fiorentina; spesso nel parlare della vita familiare la madre sfruttava la
descrizione di questi palazzi bellissimi e sontuosi quasi a voler collocare le
vicende su uno sfondo altrettanto valido nelle dinamiche di comprensione e
di narrazione. Era come se, nel caso di Felipe e dei suoi genitori,
l’esperienza migratoria potesse essere toccata nei luoghi e in essi acquisisse
una reale concretezza: si parlava di una casa, si cercava una casa, se ne
affittava un’altra, si ricordavano minuziosamente quelle precedenti, le
suppellettili, lo stile dell’arredamento per finire poi col dire che se Fiano
Romano non fosse stato così difficile da raggiungere a causa del traffico
quotidiano era lì che si sarebbe andati a vivere definitivamente perché loro
avevano “bisogno di molti spazi e di verde” e nel condominio “soffrivano”.
Tutto sommato, dunque, anche la realtà romana di Felipe era piuttosto
indefinita e impregnata della tensione verso un altro luogo che, però, al
contrario dell’Isola di San Nicolau, era a pochi chilometri dalla città.
La casa di Brian, piena di bambini e vicina alle abitazioni di zii e cugini,
raccontava una storia di povertà che dalla famiglia veniva sentita come un
passo avanti rispetto alle condizioni di vita nelle Filippine: per questo
consideravano “normale” accettare di pagare l’affitto ad un padrone di casa
che non forniva nemmeno l’acqua corrente. Nessuno, tra maestri e volontari,
si occupò di denunciare il caso ai servizi sociali per timore di un
allontanamento dei bambini dai genitori. La diffidenza di ampi settori della
società italiana nei confronti delle strutture preposte alla difesa della
famiglia si confermò anche in questa occasione permettendo al pregiudizio e
alle paure, alimentate da casi limite raccontati dai media, di ostacolare una
giusta denuncia nei confronti di chi affittava due stanze a undici persone.
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In questa casa, come era evidente, Brian non poteva fare i compiti senza
essere disturbato dai più piccoli che giocavano e dai più grandi che
guardavano la televisione, tant’è che appena tornava da scuola prendeva la
bicicletta e pedalava sino alla via Flaminia, sul Lungotevere, in mezzo al
traffico dell’ora del rientro, talvolta con la tanica per l’acqua sul
portapacchi.
Nella sua cameretta Ikaru passava buona parte del tempo non impiegato tra
scuole di nuoto e di giapponese. Hello Kitty, immagine prodotta nel suo
paese di origine a uso e consumo dell’infanzia femminile, vegliava dalle
pareti e dai mobili. Questa specie di gatto in vestiti da bambina proponeva
un modello di piccola donna-confetto, dagli abiti rosa, i fiocchi in testa e gli
occhi rotondi al quale Ikaru si conformava completamente indossando
sempre vestiti dai colori pastello e nastri tra i capelli che la rendevano una
Hello Kitty in carne e ossa, come lei stessa amava descriversi: “io sono
Hello Kitty!” urlava quando doveva interpretare un ruolo nei giochi con le
compagne.
La camera era un rifugio nel rifugio dello spazio domestico nel quale Ikaru
trascorreva pomeriggi e sere da sola con una baby sitter. In questi luoghi
Hello Kitty era compagna, amica, forse sorella, comunque onnipresente.
Chi avesse dato avvio al processo di “accerchiamento” di Ikaru da parte di
quest’immagine, se la madre nel tentativo di avvicinare la figlia al mondo di
origine o la bambina stessa in un ipotetico desiderio di mostrare il suo
aspetto orientale, non era cosa facile da stabilire: certo è che lo scivolamento
verso il personaggio parlava con una certa evidenza del legame col
Giappone, quotidianamente riaffermato nella cameretta. Un legame, lo si
intuirà, per nulla familiare, se non nella misura in cui per molti bambini lo
diviene ciò che un mercato attento ai piccoli compratori predispone per loro,
inducendone bisogni, stimolandone l’affettività verso personaggi talmente
inconsistenti da essere, come Hello Kitty, muti e senza storia.
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III.3. Raccontarsi.
L’incontro con le famiglie e la possibilità di creare uno spazio che
permettesse loro di raccontarsi furono gli aspetti del lavoro che risentirono
maggiormente della scarsa “riconoscibilità” della nostra figura e della
conseguente diffidenza; si deve dire, per chiarire i contorni della vicenda,
che sia la madre di Felipe sia quella di Julio erano state messe al corrente
del fatto che avremmo avuto bisogno del loro contributo. Tuttavia si
crearono numerose tensioni. In primo luogo, probabilmente, la scarsa
chiarezza con la quale eravamo stati presentati al consiglio dei genitori ci
metteva in una luce poco gradita a qualcuno di essi che non esitò a
lamentarsi del fatto che il proprio figlio diventasse oggetto di ricerche
universitarie; per ovviare a questa ostilità la maestra aveva, allora, spostato
la questione sull’aiuto che avremmo potuto dare agli stranieri, quietando
l’animo di alcuni ma infastidendone altri che legittimamente si
domandavano se non fossero già sufficienti due insegnanti più il sostegno.
Tra coloro che la pensavano così c’era proprio la mamma di Julio che non a
caso si dimostrò la più attenta al nostro lavoro: cosa volevamo da suo figlio
che lui non potesse già dare con le maestre?
Resici conto delle difficoltà tentammo di incontrare la donna con l’aiuto
dell’insegnante; si trattò di un breve colloquio nel quale ci premurammo di
chiarire le ragioni della nostra presenza evidenziando il fatto che il lavoro di
sostegno svolto in classe non avrebbe assolutamente emarginato Julio, cosa
che comprensibilmente la preoccupava molto.
Con la madre di Felipe, al contrario, fu necessario rendere esplicito che non
potevamo seguire il bambino come lei avrebbe voluto e ancora una volta
spiegammo chi e perché fossimo lì.
80
Come si vede l’ indeterminatezza dei ruoli mediazione e l’incertezza
generata dalla non ufficialità dei percorsi di osservazione che ne volessero
delineare le sfere di competenza si presentano sempre con molti problemi
legati alla possibilità o meno di dare fiducia a chi in quel momento se ne
occupi. I casi, nella loro polarità estrema, li avemmo sotto gli occhi con le
due mamme: una preoccupata che le nostre curiosità e i nostri concreti gesti
di aiuto facessero del figlio un “fenomeno da osservare”, l’altra così felice
che finalmente qualcuno si occupasse delle vicende del proprio bambino da
volerci costantemente incitare a “fare di più”.
Effettivamente quando conoscemmo le due donne ci rendemmo conto che
alla base delle diffidenze e della fiducia che caratterizzavano i nostri
rapporti c’erano due storie di inserimento scolastico dei figli molto differenti
tra loro.
La famiglia di Julio e il padre in particolare avevano vissuto con estrema
fatica il percorso che li aveva portati a chiedere il sostegno in seguito alla
diagnosi della neuropsichiatra: di fronte alla possibilità che un’altra persona
venisse a inserirsi nella vita scolastica del bambino, evidenziandone
nuovamente elementi di “differenza” rispetto alla classe, erano quanto meno
perplessi.
D’altro canto come dare loro torto? Non eravamo forse lì proprio per quella
differenza?
Alla mamma di Felipe, invece, quella presenza e le nostre curiosità
sembrarono una grande occasione per poter parlare di suo figlio “a qualcuno
esperto di bambini come lui”, intendendo sottolinearne la particolare catena
di problemi.
Quell’integrazione che si rivendicava da un lato sul piano dell’uguaglianza
dall’altro la si cercava su quello del riconoscimento della differenza e il
nostro stesso tentativo di incontro, diciamo pure di mediazione, seppure in
81
forma embrionale, dovette necessariamente partire da condizioni opposte
ricercandone un tratto comune.
Il punto verso il quale far convergere le madri fu proprio quello della storia
di vita.
Per quanto mossa da molte incertezze, infatti, la mamma di Julio cercò in
più
di
un’occasione
il
momento
per
lamentarsi
della
crescente
emarginazione della quale, secondo lei, il figlio era vittima e quando
comprese che eravamo disponibili all’ascolto delle sue ragioni si accertò
solo del fatto che non le riferissimo alla maestra. La madre di Felipe, invece,
non ebbe neanche bisogno delle nostre domande; per tre volte ci fermò in
corridoio o per strada e ci raccontò la storia del suo bambino. Era, diciamolo
pure, la figura ideale per la nostra ricerca: disponibile, consapevole della
propria vicenda migratoria, colta, ironica, con capacità di porsi sul piano
autobiografico in maniera critica; ogni volta che la incontrammo restammo
quasi in silenzio, limitandoci a raccogliere le sue riflessioni come delle
verità già scritte a uso della nostra ricerca.
Effettivamente nel rapporto con la donna si creò una tale confidenza che a
un certo punto avemmo la sensazione di essere guidati da lei nella stessa
osservazione di classe come se le suggestioni e le censure del suo racconto
ci disegnassero la strada da percorrere. La consapevolezza che la nostra
fosse a tutti gli effetti una ricerca sul campo ci permise di recuperare un
metodo di raccolta delle informazioni che avesse ben chiara la realtà
ambigua di ogni incontro e di ogni racconto autobiografico.
La mamma di Felipe, in assoluta buona fede, ci stava rappresentando il
bambino e la sua famiglia secondo i tratti a lei più congeniali e per quanto
questa personale visione fosse di grande interesse, come ogni percorso
autorappresentativo, era necessario attribuirle uno spazio preciso per non
correre il rischio di assumerla come nostra.
82
Uno dei rischi maggiori nell’incontro con le famiglie può essere, infatti,
quello di considerare verità in grado di orientare le nostre riflessioni quelle
che invece sono descrizioni dotate di una propria luce dosata sotto le
influenze
delle
emozioni,
delle
aspettative
e
delle
capacità
di
autorappresentazione del singolo. Se si eviterà di assumerli come valori di
riferimento oggettivi queste narrazioni avranno molto da dare al processo
interpretativo7.
La mamma di Julio, per esempio, considerava centrale nell’economia del
racconto la diagnosi di handicap del bambino, tanto che nel lamentarne
l’emarginazione messa in atto in classe faceva spesso riferimento alla
questione come possibile causa scatenante; le proprie convinzioni e anche
una certa malcelata ostilità nei confronti della maestra, che comunque aveva
fatto pressioni perché Julio ottenesse il sostegno, ne orientavano giudizi e
convinzioni delineando un quadro nel quale il figlio poteva apparire vittima
della situazione scolastica.
La madre di Felipe, invece, partiva dal presupposto che la diversità del
bambino non trovasse spazi nella classe numerosa e caotica per giustificarne
l’evidente disagio alla luce di una scarsa possibilità di ascolto; questo
racconto coincise solo in parte con quanto potemmo verificare noi, dal
momento che a metà anno Felipe mostrò problemi legati più alla pressione
familiare che non alla dimensione scolastica.
La raccolta della storia di vita del bambino e della famiglia dovrebbe essere
il momento principale dei percorsi di accoglienza e di mediazione; come
suggerisce Duccio Demetrio, più che una tecnica da adottare nella ricerca la
7
Si ricordi quanto scrive Geertz (in Oltre i fatti, cit., pag. 75) riguardo l’incontro etnografico: “Ogni
antropologo sul campo ha fatto l’esperienza (…) d’imbattersi nel corso della ricerca in individui che
sembrano lì, in qualche improbabile luogo, ad aspettare uno come voi (…) così da avere la possibilità di
rispondere alle vostre domande ma soprattutto di istruirvi su cosa chiedere […]. Più avanti vengono prese
in considerazione le delicate implicazioni della luce che accompagna i fatti e delle sue regolazioni quale
aspetto fondamentale del racconto o, meglio, del resoconto. Ricorda Geertz : “Forse l’accoglimento di
questa idea vi costringe ad assumervi personalmente la responsabilità di ciò che dite o scrivete (…) ossia
non vi consente di addossare tale responsabilità alla “realtà”, la “natura”, “il mondo” o a qualche altra e
capace riserva di verità incontaminate” (ivi, pag. 76).
83
storia personale dovrebbe diventare una modalità di approccio in cui il
messaggio sia “finché non avrai chiesto a chi ti sta di fronte qualche
frammento della sua biografia sospendi ogni giudizio”8.
Non insisteremo ancora sui pericoli intrinseci alla raccolta biografica che
sono legati, come si è detto, alla difficoltà di recuperarne i tratti narrativi
prescindendo dalle verità. Vorremmo riflettere, invece, sulla disponibilità
delle famiglie e sul senso che acquista per loro l’occasione di raccontarsi a
un estraneo.
Detta così, magari come la intende Demetrio, la storia di vita sembra
appartenere a una naturale dinamica dell’incontro occultata dalla scarsa
disponibilità degli operatori, siano essi insegnanti o futuri mediatori
interculturali. Nella realtà della nostra ricerca, tuttavia, ci scontrammo con le
difficoltà più diverse tanto che riuscimmo a realizzare l’intervista con la
mamma di Julio solo a ottobre del 2001.
Generalmente le maggiori difficoltà si hanno per problemi di tempo e di
organizzazione della vita: si deve ricordare che si tratta di famiglie nelle
quali padri e madri lavorano spesso con orari lunghi e ritmi sostenuti, quindi
non sarà facile che a fine giornata abbiano voglia di incontrare figure dai
contorni poco chiari, quali noi ci presentavamo. Di solito, comunque, ad
accettare l’incontro sarà la donna che si farà portavoce o interprete della
situazione domestica.
Si tenga conto, poi, che non è scontato che questi uomini e donne in Italia da
parecchi anni abbiano piacere a raccontarsi a un perfetto sconosciuto che,
per giunta, spesso non è in grado di illustrare chiaramente cosa farà dei dati
da loro forniti. Bisognerà tenere presente questo aspetto per evitare che si
inneschi una specie di “caccia” all’intervista che invece ha senso solo se
concordata e accettata dai protagonisti; va detto, poi, che una mancata
disponibilità potrebbe essere momentanea e comunque utile alla
8
Demetrio D. Agenda interculturale, cit., pag.113
84
comprensione del rapporto che i soggetti hanno con i processi di
integrazione.
Recuperare il valore euristico celato nell’atto del negare la disponibilità a
raccontare è quanto mai necessario se si intende affrontare il percorso di
mediazione nella sua complessità: così come esistono quegli individui che
Geertz considera pronti a rispondere a qualsiasi domanda esistono anche
quelli che pensano proprio di non avere “nulla da dire”.
C’è poi un terzo aspetto legato al modo in cui viene percepita la scuola dalle
famiglie immigrate. Negli insegnanti e nelle opportunità che l’educazione
pubblica fornisce ai propri figli esse vedono la più grande risorsa della scelta
migratoria mantenendo sovente un atteggiamento di vera e propria
soggezione nei confronti di chiunque incarni figure “scolastiche” spesso
interpretate secondo bizzarre gerarchie in cima alle quali sono sempre i
potentissimi bidelli9. In questo quadro non è raro che anche chi si trova a
ricoprire ruoli incerti e senz’altro deboli rispetto alla possibilità di
intervenire sulle decisioni riguardanti un bambino venga visto come parte di
quel “potere” e come tale trattato con un rispetto che nulla concede alla
confidenza.
Ora, è evidente che ovviare a simili problemi non fu facile e si dovette
cominciare proprio da un intervento sull’immagine che davamo di noi stessi
avvicinando i genitori la mattina all’ingresso e tentando di far comprendere
loro il nostro intento di porci in una zona intermedia tra famiglia e scuola.
La fase successiva fu quella di basare la confidenza prima di tutto su un
nostro atteggiamento e non cercarla disperatamente: la nostra biografia,
precedette sempre la raccolta delle storie di vita alle quali eravamo
9
ivi, pag. 42
85
interessati riproponendo in tutta la sua forza di esperienza “radicale e
rischiosa”10 quella dell’incontro tra uomini.
Ci si permetta, proprio a partire da quest’ultima frase, di chiarire al di là
della genericità della lingua, che il nostro fu, invece un incontro tra donne.
Le storie che si possono raccogliere spesso sono visioni femminili delle
realtà familiari: ciò accade in primo luogo perché, come si è detto, le madri
sono maggiormente disponibili in termini di tempo e di atteggiamento
generale nei confronti dell’incontro con chiunque si occupi dei propri figli: e
questo, che non è un tratto caratteristico delle donne immigrate tuttavia
assume in esse un maggiore valore sotto il profilo dell’ “apertura” al mondo
in cui si trovano a vivere.
In questa dimensione femminile possono emergere percorsi di confidenza
profonda all’interno dei quali una donna può raccontare non solo chi è e da
dove viene ma anche come essa si legga nella maternità, nel rapporto di
coppia e nella sua femminilità da vivere nel paese che la ospita.
Tale consapevolezza di genere si ripropone con molta forza nel rapporto di
mediazione con le famiglie immigrate tanto che in alcune occasioni può
venirsi a delineare quasi come una strada eversiva rispetto agli equilibri
famigliari. Come riconosce lo stesso Beneduce che in sede psicoterapica ha
incontrato numerosi casi, a seguito dell’esperienza per certi versi
“liberatoria” del contatto con i modelli occidentali, le donne immigrate
possono maturare una vera e propria ostilità nei confronti dei propri
compagni11.
10
Lombardi Satriani Luigi M. “Intervista: ascolto e cecità” in La stanza degli specchi, cit., pag. 51. Nel
saggio dedicato all’intervista e alle sue implicazioni sul piano della relazione tra coloro che vi partecipano
continuamente ora come intervistanti ora come intervistati Lombardi Satriani ricorda, tra l’altro, che tra le
priorità dell’incontro antropologico vi sia proprio quella di distaccarsi dal modello dell’ascolto come
mestiere nelle mani di un professionista: questa riflessione andrebbe recuperata nel momento dell’
intervista alle famiglie rispetto alle quali noi non siamo chiamati a formulare domande per giudicare o per
guidare un percorso, ma semmai per mettere in gioco la nostra stessa capacità di elaborare un discorso
autobiografico.
11
Beneduce R. Frontiere dell’identità e della memoria, cit., pag. 158-172.
86
Nella mediazione stessa, soprattutto se di segno femminile, non è raro che
emergano tratti di insofferenza verso i mariti accusati di essere incapaci ad
adattarsi alla nuova realtà, alle esigenze dei figli “che vivono qui e non lì”.
Aspetti che sovente spingono a cercare nel consenso di una donna
occidentale - riconosciuto tanto più forte quanto più questa sia una sorta di
“esperta” di problematiche immigratorie – quello che può prospettarsi come
un possibile percorso di fuga da una realtà di fatica e lavoro quotidiani riletti
alla luce dell’inadeguatezza maschile e dell’insoddisfazione di coppia.
Non racconteremo i particolari della nostra esperienza in tal senso, non
sarebbe corretto, ma non è escluso che questa ricerca di solidarietà possa
essere un tratto caratteristico dell’incontro sessualmente definito tanto da
costituire una variabile fondamentale del percorso di mediazione che dia
voce alla confidenza oltre che alla memoria. Acquisire un distacco da chi
racconta le proprie vicende non vuol dire inaugurare un dialogo tiepido ma
allontanarsi progressivamente dall’idea che il nostro intervento di
mediazione possa sostituire un lavoro psicoterapeutico: si ricorderà, infatti,
che il contatto con le famiglie arriva direttamente dalla necessità di favorire
l’integrazione e l’apprendimento dei bambini e non avrebbe alcuna utilità se
venisse concepito secondo modalità esclusivamente confidenziali per certi
versi dilanianti per la famiglia stessa.
Ci potrà essere un momento in cui si immaginerà l’intervista secondo
modalità giornalistiche: noi seduti col registratore in mano, gli altri
comodamente in poltrona. Niente di più illusorio.
La realtà dell’incontro è che tanto più esso è intenso quanto più è casuale,
soprattutto se costruito secondo modalità così poco convenzionali. Corridoi
della scuola, bar, strada e marciapiedi furono i luoghi nei quali conoscemmo
le storie familiari, spesso rendendoci conto solo alla fine che avevamo
realizzato una vera intervista senza averne registrato neanche una parola. Ci
preme chiarire, tuttavia, che questa immagine del mediatore che raccoglie
87
storie di vita per strada e nei locali pubblici può funzionare in una ricerca
che si dichiari in tutta la propria tensione sperimentale: interviste così
concepite sarebbero impossibili, per non dire sconfortanti per ambo le parti,
nella prospettiva di una mediazione culturale istituzionalmente riconosciuta.
Così, in un futuro, sarebbe auspicabile che fosse la scuola a favorire un
contatto mettendo a disposizione dei locali, aiutando a sostenere la
mediazione con i simboli stessi dell’ufficialità, della legittimità o del
riconoscimento di valori.
Il disordine che fu alla base della nostra esperienza di raccolta della storia di
vita viene qui riprodotto nella sua interezza e disomogeneità, lungi dal
volere essere un modello, come primo passo verso la strutturazione di un
percorso di mediazione. Si è scelto di “tratteggiare” la narrazione
per
rendere con una certa fluidità le storie che furono raccolte secondo modalità
diverse.
Incontrammo la mamma di Felipe per tre volte nel corso della ricerca,
sempre nei corridoi della scuola: arrivava a metà mattina, annunciata dalla
maestra alla quale comunicava all’ingresso il desiderio di incontrarci. Le
motivazioni che la spingevano da noi erano legate alla necessità di sapere
“qualcosa sul bambino”. Ovviamente, poiché su Felipe non c’era nulla da
dire che lei già non sapesse, si finiva col parlare della vita quotidiana e della
storia della famiglia.
La donna parlava italiano molto velocemente e con una forte influenza
castigliana, tanto che non era facile seguirla. Alle domande rispondeva
parlando solo di sé, mai del marito; così raccogliemmo solo la sua storia.
Originari del nord del Perù il padre e la madre di Felipe erano partiti per
l’Italia nel 1985 lasciando le rispettive famiglie certi che avrebbero trovato
lavoro come “avevano detto” i loro parenti precedentemente immigrati.
88
Nel paese di origine la donna aveva portato a termine gli studi secondari e si
era iscritta alla facoltà di Economia senza laurearsi.
In Italia aveva iniziato a lavorare col marito riuscendo ad avere un incarico
di custode presso il castello di Canossa. Qui era nata la loro prima figlia che
di Matilde di Canossa portava il nome.
Trasferitisi a Firenze avevano trovato un
impiego come domestici e
domicilio in un “palazzo di signori”: qui era nato Felipe. La famiglia
frequentava la comunità peruviana del capoluogo toscano con una certa
assiduità.
Trasferitisi a Roma per cercare di “uscire” dal palazzo dei fiorentini erano
riusciti a trovare lavori separati: il marito come custode di uno stabile
signorile del quartiere Fleming, la donna come autista del pulmino per il day
hospital dei dializzati di una clinica convenzionata. Nel 1998 era nato il
terzo figlio.
Da circa un anno, come si è detto, avevano affittato una casa fuori Roma per
passare i week end in uno spazio più grande e col giardino.
Erano intenzionati a restare in Italia e la donna trovava curiose le nostre
domande circa la possibilità di un ritorno in Perù. Da dieci anni non
tornavano nemmeno a trovare i parenti con i quali si sentivano regolarmente
al telefono.
Nei suoi racconti venivano spesso ripercorse le “tappe” del soggiorno
italiano, con un particolare accento su Firenze, città nella quale avevano
vissuto le esperienze “più
felici e più tristi”. Con questa espressione
sottolineava un certo rimpianto per la vita nella comunità peruviana e
l’evento della nascita di Felipe, il momento più drammatico dei suoi
racconti.
Felipe era nato all’ottavo mese di gestazione ed aveva passato alcuni giorni
in incubatrice durante i quali la madre si “tirava il latte dal seno” per
89
poterglielo dare; uscito dall’ospedale si era regolarmente attaccato ma ben
presto la donna aveva “perso il latte” e si era dovuti passare a quello
artificiale.
A tre anni Felipe aveva avuto il primo episodio di asma che si era aggravata
dopo l’arrivo a Roma. Qui era iniziato un pellegrinaggio tra pediatri e
specialisti al termine del quale il bambino era risultato allergico alle proteine
del latte. Il latte tra l’altro era stato ritenuto responsabile anche delle forti
coliti del bambino che spesso non riusciva a trattenere le feci.
I genitori avevano scelto un pediatra che conoscesse l’omeopatia e ne erano
molto soddisfatti; la moglie del medico era psicologa e aveva avuto colloqui
con la mamma di Felipe in occasione dei più gravi episodi di colite del
bambino subentrati, tra l’altro, all’enuresi notturna che si era risolta al
termine della prima elementare.
Del proprio figlio la donna diceva spesso sorridendo “è piccolo, è nato
piccolo”, tanto che a fine anno andò a parlare con la maestra per consultarsi
sull’eventualità di bocciarlo pur di farlo stare con “quelli più piccoli”. L’idea
cadde in poco tempo ma durante un fugace incontro con noi ne emersero i
contorni di una scusa per allontanare il bambino dall’insegnante e dai suoi
metodi didattici dei quali padre, madre e pediatri non erano affatto convinti.
Per supplire al poco tempo dedicato al gioco nella scuola la famiglia aveva
scelto di far fare a Felipe qualsiasi attività avesse voluto: il bambino aveva
voluto iscriversi a un corso di musica e di calcetto, ma non reggendo i ritmi
di due attività settimanali, optò per lo sport con una certa delusione della
mamma che lo avrebbe preferito al corso di musica.
La testimonianza della madre di Julio fu raccolta nel corso di un’intervista
realizzata a casa sua ad ottobre del 2001: ancora una volta, come si vedrà, ci
trovammo di fronte più alla storia di una donna che non a quella di tutti i
membri della famiglia.
90
La donna era arrivata in Italia nel 1974 con un contratto di lavoro
procuratole da una sorella presso una famiglia che le offriva vitto e alloggio.
Di fronte al nostro stupore per i molti anni trascorsi dal suo arrivo –legato al
fatto cha la credevamo più giovane di quanto in realtà non fosse- disse che
avrebbe anche voluto chiedere la cittadinanza italiana.
A Capo Verde aveva studiato sino alla quarta elementare.
Rimasta incinta della prima figlia aveva “deciso di tenerla” anche grazie alla
disponibilità dei datori di lavoro che le permisero di continuare a vivere da
loro per qualche anno anche se “qualche volta” aveva dovuto metterla in
collegio. Aveva lasciato quella famiglia quando si era resa conto di non
poter far crescere sua figlia in “casa d’altri”.
I viaggi estivi a Capo Verde erano stati piuttosto regolari in tutti questi anni.
Nel 1993 era nato Julio avuto dall’attuale marito del quale, con imbarazzo,
ci disse che era stato “già sposato con un’altra donna a Capo Verde” dalla
quale ha avuto due figli che lo avevano reso nonno di recente.
Attualmente la donna lavorava a servizio presso una famiglia con la quale
collaborava anche il marito, custode part-time dello stabile in abitavano.
Due anni fa, come si è detto, la coppia aveva deciso di acquistare un terreno
edificabile a Capo Verde dove poter costruire la casa nella quale andare a
vivere. Lei non sapeva dire quando ma era certa che ciò sarebbe accaduto
prima che Julio fosse diventato grande “sennò fa come sua sorella che ora è
fidanzata e non vuole più partire”.
In tutta l’intervista si parlò del bambino, della sua presunta debolezza e della
reale aggressività, ma soprattutto emerse il forte contrasto con la maestra
(espresso più nella mimica che accompagnava il discorso che non nelle
parole) generato dalla segnalazione alla psichiatra infantile.
Dell’insegnante la madre lamentava la durezza e soprattutto la richiesta
pressante di lasciare più autonomia al bambino; convinta essa stessa di
essere molto protettiva, tuttavia attribuiva la responsabilità alla realtà
91
cittadina sostenendo che a Capo Verde lei “lo lasciava libero”. Aggiunse,
poi, di volere per il figlio ciò che non aveva potuto offrire alla più grande
benché fosse convinta che troppe attività non facessero bene a Julio.
La donna sosteneva che Julio a Capo Verde fosse completamente diverso:
giocava correva, aveva energia, al contrario di qui dove era “tutto molle”.
Nonostante esprimesse forti perplessità voleva continuare con le indagini
richieste dalla neuropsichiatra benché si dimenticasse da circa un mese di
telefonare all’ospedale per ritirarle.
Durante tutta l’intervista pronunciò il nome di Julio esattamente come lo si
scrive e non “all’inglese” come noi facevamo da un anno adeguandoci alla
pratica comune di maestre e compagni di classe. Le domandammo
spiegazioni e venimmo a sapere che l’equivoco era nato all’asilo quando le
maestre chiesero al bambino come si chiamasse e lui disse il proprio nome
con un’altra pronuncia minacciando di offendersi se avessero continuato a
chiamarlo come, poi, di fatto avveniva in famiglia.
Come si vede entrambe le donne, benché provenissero da paesi diversi e da
differenti percorsi formativi avevano in comune alcuni aspetti legati
all’esperienza migratoria e alle sue conseguenze.
Entrambe erano arrivate molto tempo fa e si sentivano ben integrate, tanto
da far dire alla mamma di Julio che avrebbe voluto chiedere la cittadinanza
italiana.
Entrambe lavoravano stabilmente e duramente dopo aver attraversato
l’esperienza della residenza presso il datore di lavoro senza conservarne un
buon ricordo, tanto da farle optare per l’affitto di un appartamento e l’
“uscita” dalle case che le ospitavano.
Cattoliche entrambe, molto curate nell’aspetto, quasi coetanee, piuttosto
libere nel rapporto di coppia, madri di più figli, in possesso di patente, di
92
una buona competenza linguistica, tutto sembrava accomunarle tranne un
tratto caratteristico dei loro racconti: il futuro.
Le due madri quando si parlava delle prospettive prendevano strade molto
diverse: quella di Felipe pensava di cambiare casa, quella di Julio voleva
tornare a casa. Si badi, tra l’altro, che il progetto della permanenza
definitiva o temporanea aveva preso forma quasi subito dopo l’arrivo di
entrambe e quindi non aveva, almeno nei loro racconti, nulla a che vedere
con eventuali difficoltà sorte durante l’esperienza italiana della quale erano
entrambe molto soddisfatte.
Ogni progetto migratorio porta con sé aspettative dichiarate e altre più
profonde ed è esattamente sul terreno delle attese familiari che si può
iniziare a raccontare il percorso di inserimento dei bambini. Innanzi tutto
sarà necessario avere chiaro che un’esperienza di immigrazione può avere
un termine nelle intenzioni del soggetto ma non necessariamente nella
realtà: il fatto, cioè, che si desideri tornare nei paesi di origine non vuole dire
che poi si lo si farà. Potrebbe accadere, come abbiamo raccontato, che un
figlio adolescente non voglia seguire i genitori e che questi non se la sentano
di partire senza di lui; nel paese di origine, poi, potrebbero essere accaduti
avvenimenti che attenuano i legami, per esempio la famiglia intesa come
gruppo di fratelli e sorelle potrebbe essersi dispersa; da ultimo non è
scontato che si sia riusciti a “fare fortuna” quanto basta per rientrare nei
canoni di quella che la comunità di provenienza considera la condizione
dell’emigrato.
Il caso della famiglia di Julio ci costrinse a prendere in considerazione tutti e
tre gli aspetti.
La sorella maggiore non sarebbe mai tornata a Capo Verde con la madre.
Julio, poi, aveva sette anni e si avvicinava il tempo di una scelta riguardo al
suo futuro. Ma cosa avrebbe significato tornare a vivere nelle isole? La casa
in costruzione portava via molto denaro che veniva sottratto al benessere
93
quotidiano facendo sentire tutti più poveri e, oltretutto, era anche necessario
affrettarne i tempi di realizzazione se non si voleva perdere la possibilità di
farvi rientro col bambino.
A Capo Verde, tuttavia, le famiglie di origine si erano ridotte proprio a
seguito dell’emigrazione di molti membri: i genitori e i fratelli della madre
di Julio, ad esempio, vivevano stabilmente a Lisbona e non tutte le estati
avevano il denaro per tornare in patria.
La nuova casa, così, avrebbe potuto anche trasformarsi in una residenza
stagionale se non avessero trovato un’armonizzazione le varie questioni in
ballo; tra tutte, come è chiaro, era quella economica a scandire i tempi della
vita e a generare frustrazioni.
Ora, benché fosse impossibile stabilire se un domani la famiglia sarebbe
tornata a Capo Verde, è certo che il progetto incideva moltissimo sulla vita e
sulle scelte dei suoi membri. Probabilmente questa attesa si riversava sullo
stesso Julio che non a caso dichiarava di voler imparare il creolo prima
dell’italiano, così come non è escluso che generasse una sorta di inibizione
nel bambino di fronte alle strutture scolastiche, aspetto che scompariva del
tutto al momento del gioco e dell’organizzazione del tempo libero. Il fatto
che in famiglia, come ammetteva la madre, si criticassero la maestra e la
scuola italiana in genere per la durezza con la quale venivano affrontate le
materie si rifletteva nell’atteggiamento di assenza e di negazione della loro
importanza ben espressi nell’atteggiamento di Julio.
In più sembrava quasi che i genitori, un tempo certi che l’esperienza
educativa italiana sarebbe stata fondamentale nella vita del figlio, iniziassero
ad avere molti dubbi sui benefici effettivi: il bambino non studiava, non
partecipava alla vita scolastica, era considerato handicappato e aveva grandi
problemi nelle relazioni di gruppo. Da queste critiche nasceva anche quel
sentimento di urgenza di un ritorno già previsto che permettesse al bambino
di attuare una sorta di rimozione degli anni passati in Italia, sentimento
94
supportato anche da un insieme più complesso e meno analizzabile di fattori
che si venivano a presentare nella dimensione capoverdiana nella quale,
come si è detto, l’immagine di Julio che si offriva alla famiglia era
completamente ribaltata rispetto a quella romana.
Dunque, soprattutto per la madre, il “vero” Julio era quello capoverdiano
mentre quello che quotidianamente le ridava la scuola era un’immagine
deforme prodotta da una realtà non accettata se non parzialmente e della
quale sempre meno si era disposti ad accettare le asprezze.
Anche la madre di Felipe faceva spesso un confronto tra il comportamento
del bambino durante la settimana e quello che lei vedeva correre e scatenarsi
nella campagna romana. Consapevole che la salute precaria e gli
imbarazzanti episodi di colite mettessero il figlio in una posizione
marginale, aveva fatto di tutto per porvi rimedio pur ritenendo necessaria
una collaborazione con le insegnanti affinché aiutassero il bambino a non
vergognarsi di chiedere di andare in bagno, magari ricordandoglielo.
Tuttavia era rimasta molto delusa perché si era resa conto che nessuno aveva
capito la gravità del problema e accusava una delle due maestre di essere
“distratta con i bambini”. Fu anche a seguito di questi episodi che aveva
deciso di far fermare il figlio per un anno scolastico certa che in una classe
di bambini più piccoli qualcuno si sarebbe accorto di Felipe e dei suoi
sintomi.
Tra insegnanti che si “dimenticavano” la ricreazione, bidelle che si
occupavano di controllare che il bambino non mangiasse alimenti ai quali
era allergico e compagni di classe che si lamentavano della “puzza” Felipe
sembrava ancora più piccolo e senza voce, così piccolo che la madre
arrivava ad attribuirsi la colpa di averlo partorito in anticipo e allattato poco.
La condizione di quasi tutti gli altri bambini stranieri presenti in classe era di
segno opposto. Le famiglie erano generalmente molto soddisfatte del
95
sistema educativo e se pure si manifestavano tensioni, queste si inserivano
nelle lamentele comuni a molti genitori della classe.
Come già si è accennato, poi, per molte famiglie immigrate la soggezione
nei confronti di strutture e operatori è tale che se la scuola non provvederà
negli anni a venire a creare un “ponte” che ammorbidisca l’incontro si
rischierà di far vivere nell’ombra genitori e bambini. Si pensi alla madre di
Jhon-Jhon, uscita allo scoperto dopo che il volontario della parrocchia era
andato a trovarla per convincerla (e non ce ne fu bisogno, non aspettava
altro) a lasciare che il figlio si fermasse a scuola due pomeriggi alla
settimana per recuperare.
La soluzione adottata dalla scuola F. A. per affrontare le difficoltà dei
bambini immigrati meriterebbe qualche attenzione in più.
Il contatto con le famiglie e con i bambini non è semplice e spesso chiama in
causa competenze e capacità di orientamento che dubitiamo possano
appartenere al volontariato nella forma “minima” nella quale ci si presentò,
vale a dire quella di un bravo ragazzo spinto dal desiderio di aiutare “chi sta
peggio di noi”. Si dirà “magari ce ne fosse uno in ogni scuola!” e alle nostre
critiche fu risposto sempre così. Si consideri, tuttavia, che quella di affidarsi
al volontariato è la scelta meno impegnativa per dirigente scolastico e
docenti poiché non costa niente alla scuola e non è tale da entrare nelle
dinamiche della didattica e delle relazioni con le famiglie.
A noi sembra, cioè, la meno coraggiosa o, se vogliamo, la meno onesta,
primo perché aggira le direttive contenute nelle circolari ministeriali nelle
quali è esplicito il riferimento alla collaborazione col privato sociale e non
con singoli volontari di parrocchie cittadine, secondo perché allontana il
problema considerandolo “affare da volontariato” e non per ciò che è, una
questione sempre più urgente da risolvere sul terreno dei progetti scolastici
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di mediazione interculturale chiamando in causa competenze diverse e
aprendo la scuola a un rinnovato incontro coi servizi sociali.
Sappiamo che è molto difficile portare avanti queste idee che
inevitabilmente si scontrano con l’immagine di chi quotidianamente vive
l’esperienza dell’impegno come volontario per raggiungere quelle sfere
della società dove lo Stato non riesce ad arrivare; vorremmo ricordare,
tuttavia, che molte di queste persone affrontano percorsi formativi senza i
quali non sarebbero in grado di fare i volontari nel servizio civile o nelle
comunità di recupero. Chi, al contrario, è convinto che basti essere sostenuti
da spirito di carità per operare nel quotidiano dell’emarginazione dovrebbe
trovare spazi meno delicati e complessi di quelli che riguardano i figli degli
immigrati; la scuola stessa, poi, dovrebbe opporsi all’ingresso di queste
persone nelle sue strutture. Purtroppo, invece, negli ultimi anni la realtà di
molti istituti romani è quella dei “ragazzi della parrocchia” pronti a fare ciò
che gli insegnanti non riescono più a gestire e a costi zero per la scuola.
Ma questi volontari hanno pensato mai alle difficoltà che il loro legame con
la parrocchia potrebbe avere per le famiglie musulmane o cinesi? E i
dirigenti si sono chiesti quale immagine dell’educazione pubblica potrebbe
maturare in questi genitori? Che la scuola di Stato offra il doposcuola gestito
dai parrocchiani a bambini di origine tunisina o cinese o serba è cosa
davvero difficile da far digerire a famiglie che già vivono con fatica che i
propri figli entrino in contatto con valori non condivisi, figuriamoci poi se
religiosi.
I casi, così sono due. O la scuola si affida a un volontariato che non dichiara
e non ha legami con i parroci e che presenta credenziali di competenza e di
formazione sul tema oppure sceglie tra quanti presentano progetti alle sue
strutture di finanziare quelli rivolti all’integrazione culturale e all’emersione
delle famiglie immigrate.
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In questo caso si potrà scegliere, magari, di rinunciare per qualche tempo a
prestigiosi corsi di teatro dalla dubbia valenza o alle convenzioni con le
piscine cittadine - frequentate nei pomeriggi da quasi tutti i bambini -,
recuperando il senso del servizio pubblico che non è quello di omologarsi
faticosamente all’offerta privata quanto quello di offrire a tutti le stesse
opportunità. E oggi più che mai è la scuola statale e laica che può proporre
percorsi di integrazione e di acquisizione di un diritto alla cittadinanza
altrimenti negato e offeso dall’omologazione coatta e dai tentativi di portare
le differenze su un piano esterno alla realtà delle classi e dei maestri,
affidando i bambini immigrati al volontariato improvvisato pur di
allontanare il problema.
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