Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia

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Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei
diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, Rita Pucci e Rita Carnevali, funzionari
linguistici
Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice
for the sole purpose of its inclusion in the Court’s database HUDOC
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
GRANDE CAMERA
CAUSA Hirsi Jamaa e ALTRI c. Italia
(Ricorso n. 27765/09)
SENTENZA
STRASBURGO
23 febbraio 2012
Questa sentenza è definitiva. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da:
Nicolas Bratza, presidente,
Jean-Paul Costa,
Françoise Tulkens,
Josep Casadevall,
Nina Vajić,
Dean Spielmann,
Peer Lorenzen,
Ljiljana Mijović,
Dragoljub Popović,
Giorgio Malinverni,
Mirjana Lazarova Trajkovska,
Nona Tsotsoria,
Işıl Karakaş,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi,
Vincent A. de Gaetano,
Paulo Pinto de Albuquerque, giudici,
e da Michael O’Boyle, cancelliere aggiunto,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 22 giugno 2011 e il 19 gennaio 2012,
Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 27765/09) presentato contro la Repubblica
italiana e con cui undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei («i ricorrenti»), i cui
nomi e date di nascita sono riportati nella lista allegata alla presente sentenza,
hanno adito la Corte il 26 maggio 2009 in applicazione dell’articolo 34 della
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la
Convenzione»).
I ricorrenti sono rappresentati dagli avv. A.G. Lana e A. Saccucci, del foro di Roma. Il
Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal
suo co-agente, S. Coppari.
I ricorrenti sostenevano in particolate che il loro trasferimento verso la Libia da parte
delle autorità italiane aveva violato gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo
n. 4, e denunciavano l’assenza di un ricorso conforme all’articolo 13 della
Convenzione, che avrebbe permesso loro di fare esaminare i motivi di ricorso sopra
citati.
Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (articolo 52 § 1 del
regolamento della Corte). Il 17 novembre 2009 una camera di tale sezione ha deciso
di comunicare il ricorso al Governo. Il 15 febbraio 2011 la camera, composta dai
seguenti giudici: Françoise Tulkens,presidente, Ireneu Cabral Barreto, Dragoljub
Popović, Nona Tsotsoria, Isil Karakas, Kristina Pardalos, Guido Raimondi,e da Stanley
Naismith, cancelliere di sezione, ha rimesso la causa alla Grande Camera, in quanto
nessuna delle parti si è opposta (articoli 30 della Convenzione e 72 del regolamento).
La composizione della Grande Camera è stata decisa conformemente agli articoli 27
§§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.
Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso che la Grande
Camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito del
ricorso.
Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito
della causa. All’udienza, ciascuna delle parti ha risposto alle osservazioni dell’altra
(articolo 44 § 5 del regolamento). Sono pervenute delle osservazioni scritte anche da
parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR), di Human
Rights Watch, della Columbia Law School Human Rights Clinic, del Centro di
Consulenza sui Diritti Individuali in Europa (Centre AIRE), di Amnesty International
nonché della Fédération internationale des ligues des droits de l’homme (FIDH), che
agiscono collettivamente. Il presidente della camera li aveva autorizzati ad
intervenire in applicazione dell’articolo 36 § 2 della Convenzione. Sono pervenute
delle osservazioni anche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ai
diritti dell’uomo (HCDH), che il presidente della Corte aveva autorizzato a
intervenire. L’HCR è stato inoltre autorizzato a partecipare alla procedura orale.
Una pubblica udienza si è svolta al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 22
giugno 2011 (articolo 59 § 3 del regolamento). Sono comparsi:
– per il Governo
S. Coppari, co-agente,
G. Albenzio, avvocato dello Stato;
– per i ricorrenti
A.G. Lana, A Saccucci, avvocati,
A. Sironi, assistente;
– per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati,
terzi intervenienti
M. Garlick, capo dell’unità per la politica generale e il sostegno giuridico, Ufficio per
l’Europa, avvocato;
C. Wouters, consulente principale in diritto dei rifugiati, Dvisione della protezione nazionale,
S.Boutruche, consulente giuridico dell’unità di sostegno politica e giuridica, Ufficio per
l’Europa, consiglieri.
La Corte ha sentito le dichiarazioni dei sigg. Coppari, Albenzio, Lana, Saccucci e Garlick,
nonché le risposte degli stessi alle domande poste dai giudici.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
A. L’intercettazione e il rinvio dei ricorrenti in Libia.
9. I ricorrenti, undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, fanno parte di un gruppo
di circa duecento persone che ha lasciato la Libia a bordo di tre imbarcazioni allo
scopo di raggiungere le coste italiane.
10. Il 6 maggio 2009, quando le imbarcazioni si trovavano a trentacinque miglia
marine a sud di Lampedusa (Agrigento), ossia all’interno della zona marittima di
ricerca e salvataggio («zona di responsabilità SAR») che rientra nella giurisdizione di
Malta, furono avvicinate da tre navi della Guardia di finanza e della Guardia costiera
italiane.
11. Gli occupanti delle imbarcazioni intercettate furono trasferiti sulle navi militari
italiane e ricondotti a Tripoli. I ricorrenti affermano che, durante il viaggio, le autorità
italiane non li hanno informati della loro vera destinazione e non hanno compiuto
alcuna procedura di identificazione.
Tutti i loro effetti personali, ivi compresi alcuni documenti attestanti la loro identità,
furono confiscati dai militari.
12. Una volta arrivati al porto di Tripoli, dopo dieci ore di navigazione, i migranti
furono consegnati alle autorità libiche. Secondo la versione dei fatti presentata dai
ricorrenti, questi si opposero alla loro consegna alle autorità libiche, ma furono
obbligati con la forza a lasciare le navi italiane.
13. Durante una conferenza stampa tenuta il 7 maggio 2009, il ministro dell’Interno
italiano dichiarò che le operazioni di intercettazione delle imbarcazioni in alto mare e
di rinvio dei migranti in Libia facevano seguito all’entrata in vigore, il 4 febbraio 2009,
di accordi bilaterali conclusi con la Libia, e rappresentavano una svolta importante
nella lotta contro l’immigrazione clandestina. Il 25 maggio 2009, in occasione di un
intervento davanti al Senato, il ministro indicò che, tra il 6 e il 10 maggio 2009, più di
471 migranti clandestini erano stati intercettati in alto mare e trasferiti verso la Libia
conformemente agli accordi bilaterali suddetti. Dopo aver spiegato che le operazioni
erano state condotte in applicazione del principio di cooperazione tra Stati, il ministro
affermò che la politica di rinvio costituiva un metodo molto efficace di lotta contro
l’immigrazione clandestina. Tale politica scoraggiava le organizzazioni criminali legate
al traffico illecito e alla tratta delle persone, contribuiva a salvare delle vite in mare e
riduceva sensibilmente gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane, sbarchi che, nel
maggio 2009, erano stati cinque volte meno numerosi che nel maggio 2008, secondo
il ministro dell’Interno.
14. Durante l’anno 2009, l’Italia procedette a nove intercettazioni di clandestini in alto
mare conformemente agli accordi bilaterali con la Libia.
B. La sorte dei ricorrenti e i loro contatti con i loro rappresentanti
15. Secondo le informazioni trasmesse alla Corte dai rappresentanti dei ricorrenti due
di essi, Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman (rispettivamente n.
10 e n. 11 della lista allegata alla presente sentenza), sono deceduti dopo i fatti in
circostanze sconosciute.
16. Dopo la presentazione del ricorso, gli avvocati hanno potuto mantenere dei
contatti con gli altri ricorrenti. Questi erano raggiungibili telefonicamente e tramite
posta elettronica.
Tra giugno e ottobre 2009, a quattordici di essi (indicati sulla lista) è stato accordato lo
status di rifugiato dall’ufficio dell’HCR di Tripoli.
17. A seguito della rivolta scoppiata in Libia nel febbraio 2011 e che ha spinto molte
persone a fuggire dal Paese, la qualità dei contatti tra i ricorrenti e i loro
rappresentanti è peggiorata. Gli avvocati sono attualmente in contatto con sei dei
ricorrenti:

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

Ermias Berhane (n. 20 della lista) è riuscito a raggiungere clandestinamente le coste
italiane. Il 21 giugno 2011 la Commissione territoriale di Crotone gli ha accordato lo
status di rifugiato;
Habtom Tsegay (n. 19 della lista) si trova attualmente al campo di Choucha, in
Tunisia. Desidera raggiungere l’Italia;
Kiflom Tesfazion Kidan (n. 24 della lista) risiede a Malta;
Hayelom Mogos Kidane e Waldu Habtemchael (rispettivamente n. 23 e n. 13 della
lista) risiedono in Svizzera, dove attendono una risposta allo loro domanda di
protezione internazionale;
Roberl Abzighi Yohannes (n. 21 della lista) risiede nel Benin.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
A. Il codice della navigazione
18. L’articolo 4 del codice della navigazione del 30 marzo 1942, modificato nel 2002,
recita:
«Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto
alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano.».
B. Gli accordi bilaterali tra l’Italia e la Libia
19. Il 29 dicembre 2007 l’Italia e la Libia firmarono a Tripoli un accordo bilaterale di
cooperazione per la lotta contro l’immigrazione clandestina. Lo stesso giorno, i due
Paesi sottoscrissero anche un Protocollo addizionale che fissava le modalità operative
e tecniche dell’esecuzione di detto accordo. L’articolo 2 dell’accordo recita:
[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]
«L’Italia e la Grande Giamahiria [araba libica popolare socialista] si impegnano a
organizzare delle pattuglie marittime per mezzo di sei navi messe a disposizione,
temporaneamente, dall’Italia. A bordo delle navi verranno imbarcati degli equipaggi
misti, formati da personale libico e da agenti di polizia italiani, ai fini
dell’addestramento, della formazione e dell’assistenza tecnica per l’utilizzo e la
manutenzione delle navi. Le operazioni di controllo, ricerca e salvataggio saranno
condotte nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni destinate al trasporto
di immigrati clandestini, sia nelle acque territoriali libiche che nelle acque
internazionali, nel rispetto delle convenzioni internazionali vigenti e secondo le
modalità operative che saranno definite dalle autorità competenti dei due Paesi.»
L’Italia, inoltre, si impegnava a cedere alla Libia, per un periodo di tre anni, tre navi
senza bandiera (articolo 3 dell’accordo) e a promuovere presso gli organi dell’Unione
europea (UE) la conclusione di un accordo-quadro tra l’UE e la Libia (articolo 4
dell’accordo).
Infine, secondo l’articolo 7 dell’accordo bilaterale, la Libia si impegnava a «coordinare
i propri sforzi con quelli dei Paesi di origine per la riduzione dell’immigrazione
clandestina e il rimpatrio degli immigrati».
Il 4 febbraio 2009 l’Italia e la Libia sottoscrissero a Tripoli un Protocollo addizionale
volto a rafforzare la collaborazione bilaterale ai fini della lotta contro l’immigrazione
clandestina. Quest’ultimo Protocollo modificava in parte l’accordo del 29 dicembre
2007, in particolare con l’introduzione di un nuovo articolo che recita:
[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]
«I due Paesi si impegnano ad organizzare delle pattuglie marittime con equipaggi
comuni formati da personale italiano e personale libico, equivalenti per numero,
esperienza e competenze. Le pattuglie operano nelle acque libiche e internazionali
sotto la supervisione di personale libico e con la partecipazione di equipaggi italiani, e
nelle acque italiane e internazionali sotto la supervisione di personale italiano e con la
partecipazione di personale libico.
La proprietà delle navi offerte dall’Italia in applicazione dell’articolo 3 dell’accordo del
29 dicembre 2007 sarà ceduta definitivamente alla Libia.
I due Paesi si impegnano a rimpatriare gli immigrati clandestini e a concludere accordi
con i Paesi di origine per limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina».
20. Il 30 agosto 2008 l’Italia e la Libia firmarono a Bengasi il Trattato di amicizia,
partenariato e cooperazione che, nel suo articolo 19, prevede degli sforzi per
prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi
migratori. Ai sensi dell’articolo 6 di tale trattato, l’Italia e la Libia di impegnavano ad
agire conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo.
21. Secondo una dichiarazione del Ministro italiano della Difesa del 26 febbraio 2011,
l’applicazione degli accordi tra Italia e Libia è stata sospesa a seguito dei fatti del 2011.
III. ELEMENTI PERTINENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DI DIRITTO EUROPEO
A. La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (1951)
22. L’Italia è parte alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati
(«la Convenzione di Ginevra»), che definisce le modalità secondo le quali uno Stato
deve accordare lo status di rifugiato alle persone che ne fanno richiesta, nonché i
diritti e i doveri di tali persone. Gli articoli 1 e 33 § 1 di detta Convenzione recitano:
Articolo 1
«Ai fini della presente Convenzione, il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque (...)
nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua
cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni
politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale
timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque,
essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali
avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.»
Articolo 33 § 1
«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato
verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a
motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua
appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
23. Nella sua nota sulla protezione internazionale del 13 settembre 2001
(A/AC.96/951, § 16), l’HCR, che ha il compito di vigilare sul modo in cui gli Stati parte
applicano la Convenzione di Ginevra, ha indicato che il principio enunciato all’articolo
33, detto di «non-respingimento», era:
«un principio fondamentale di protezione al quale non sono ammesse riserve. Sotto
molti aspetti, questo principio è il complemento logico del diritto di chiedere asilo
riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tale diritto ha finito
per essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario vincolante
per tutti gli Stati. Inoltre, il diritto internazionale dei diritti dell’uomo ha stabilito che il
non-respingimento è una componente fondamentale del divieto assoluto di tortura e
di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’obbligo di non respingere è anche
riconosciuto come applicabile ai rifugiati indipendentemente dal loro riconoscimento
ufficiale, il che comprende evidentemente i richiedenti asilo il cui status non è stato
ancora determinato. Esso copre qualsiasi misura imputabile ad uno Stato che possa
produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un
territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate e in cui rischierebbe
una persecuzione. Ciò include il rigetto alle frontiere, l’intercettazione e il
respingimento indiretto, che si tratti di un individuo in cerca di asilo o di un afflusso
massiccio.»
B. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare («Convenzione di
Montego Bay») (1982)
24. Gli articoli pertinenti della Convenzione di Montego Bay recitano:
Articolo 92
Posizione giuridica delle navi
«1. Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali
specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione,
nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva (...).»
Articolo 94
Obblighi dello Stato di bandiera
«1. Ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su
questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua
bandiera.
(...)»
Articolo 98
Obbligo di prestare soccorso
«1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera,
nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave,
l’equipaggio o i passeggeri:
1. presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
2. proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se
viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può
ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
(...)»
C. La Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimi («la
Convenzione SAR») (1979, modificata nel 2004)
25. Il punto 3.1.9 della Convenzione SAR dispone:
«Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i
capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare
siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista,
senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la
salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e
salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità
di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti,
affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li
ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle
direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le
Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in
questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.»
D. Il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la
Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti
per via terrestre, aerea e marittima («Protocollo di Palermo») (2000)
26. L’articolo 19 § 1 del Protocollo di Palermo recita:
«Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e
responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale,
compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai
diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il
Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento
ivi enunciato.»
E. La Risoluzione 1821 (2011) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa
27. Il 21 giugno 2011, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato la
Risoluzione sull’intercettazione e il salvataggio in mare di richiedenti asilo, rifugiati e
migranti in situazione irregolare, che recita:
«1. La sorveglianza delle frontiere meridionali dell’Europa è divenuta una priorità
regionale. Il continente europeo si trova a dover affrontare l’arrivo relativamente
importante di flussi migratori via mare provenienti dall’Africa e che giungono in
Europa soprattutto attraverso l’Italia, Malta, la Spagna, la Grecia e Cipro.
2. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo e altre persone rischiano la vita per raggiungere
le frontiere dell’Europa meridionale, generalmente in imbarcazioni di fortuna. Questi
viaggi, sempre effettuati con mezzi irregolari e per lo più a bordo di navi senza
bandiera, a rischio di cadere nelle mani di reti di traffico illecito di migranti e tratta di
esseri umani, sono l’espressione della situazione difficile in cui si trovano le persone
imbarcate, che non hanno mezzi regolari e in ogni caso meno rischiosi per raggiungere
l’Europa.
3. Anche se il numero di arrivi via mare è drasticamente diminuito negli ultimi anni,
con un conseguente spostamento delle rotte migratorie (in particolare verso la
frontiera terrestre tra la Turchia e la Grecia), l’Assemblea parlamentare, richiamando
in particolare la sua Risoluzione 1637 (2008) «I boat people in Europa: arrivo via mare
di flussi migratori misti in Europa», esprime nuovamente le sue vive preoccupazioni
rispetto alle misure adottate per gestire l’arrivo via mare di questi flussi migratori
misti. Molte persone in pericolo in mare sono state salvate e molte persone che
hanno tentato di raggiungere l’Europa sono state rinviate, ma la lista degli incidenti
mortali – tanto tragici quanto prevedibili – è lunga ed aumenta attualmente quasi
ogni giorno.
4. Peraltro, i recenti arrivi in Italia e a Malta avvenuti in seguito alle agitazioni in Africa
del Nord confermano la necessità per l’Europa di essere pronta ad affrontare, in
qualsiasi momento, l’arrivo massiccio di migranti irregolari, di richiedenti asilo e di
rifugiati sulle sue coste meridionali.
5. L’Assemblea prende atto che la gestione di tali arrivi via mare solleva numerosi
problemi, tra cui cinque sono particolarmente inquietanti:
5.1. Mentre vari strumenti internazionali pertinenti si applicano in materia ed
espongono in maniera soddisfacente i diritti e gli obblighi degli Stati e degli individui,
sembrano esservi delle divergenze nell’interpretazione del loro contenuto. Alcuni
Stati non concordano sulla natura e la portata delle loro responsabilità in alcuni casi
ed alcuni Stati rimettono anche in discussione l’applicazione del principio di non
respingimento in alto mare;
5.2. Benché la priorità assoluta in caso di intercettazione in mare sia assicurare lo
sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro», la
nozione di «luogo sicuro» non sembra essere interpretata allo stesso modo da tutti
gli Stati membri. È evidente che la nozione di «luogo sicuro» non può essere limitata
alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto
dei loro diritti fondamentali;
5.3. Tali disaccordi mettono direttamente in pericolo la vita delle persone da
soccorrere, in particolare ritardando o impedendo le azioni di salvataggio, e possono
dissuadere i navigatori dal venire in soccorso delle persone in pericolo. Inoltre,
potrebbero dare luogo alla violazione del principio di non-respingimento nei
confronti di un numero importante di persone, comprese quelle che necessitano di
tutela internazionale;
5.4. Mentre l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle
frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex) svolge un ruolo
sempre più importante in materia di intercettazioni in mare, le garanzie del rispetto
dei diritti dell’uomo e degli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dal diritto
comunitario nel contesto delle operazioni congiunte che coordina sono insufficienti;
5.5. Infine, tali arrivi via mare fanno gravare un onere sproporzionato sugli Stati
situati alle frontiere meridionali dell’Unione europea. Lo scopo di una ripartizione più
equa delle responsabilità e di una maggiore solidarietà in materia di migrazione tra
gli Stati europei è lungi dall’essere raggiunto.
6. La situazione è complicata dal fatto che i flussi migratori in questione sono di
natura mista ed esigono dunque risposte specifiche che tengano conto dei bisogni di
tutela e adattate allo status delle persone cui è stato prestato soccorso. Per fornire
agli arrivi via mare una risposta adeguata e conforme alle norme internazionali
pertinenti, gli Stati devono tenere conto di questo elemento nelle loro politiche e
nelle attività di gestione delle migrazioni.
7. L’Assemblea ricorda agli Stati membri i loro obblighi derivanti dal diritto
internazionale, in particolare ai sensi della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e della
Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati, in particolare il
principio di non-respingimento e il diritto di chiedere asilo. L’Assemblea ricorda
anche gli obblighi degli Stati parte alla Convenzione internazionale per la
salvaguardia della vita umana in mare del 1974 e alla Convenzione internazionale del
1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimi.
8. Infine, e soprattutto, l’Assemblea ricorda agli Stati membri che hanno l’obbligo sia
morale che giuridico di soccorrere le persone in pericolo in mare senza il minimo
indugio e riafferma senza ambiguità l’interpretazione fatta dall’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) secondo cui il principio di non-respingimento
si applica anche in alto mare. L’alto mare non è una zona in cui gli Stati sono esenti
dai loro obblighi giuridici, ivi compresi gli obblighi derivanti dal diritto internazionale
dei diritti dell’uomo e dal diritto internazionale dei rifugiati.
9. L’Assemblea chiama dunque gli Stati membri, nel compimento delle attività di
vigilanza delle frontiere marittime, che sia nel contesto della prevenzione del traffico
illecito e della tratta degli esseri umani o in quello della gestione delle frontiere, che
esercitino la loro giurisdizione di diritto o di fatto:
9.1. a rispondere senza eccezioni e senza ritardo al loro obbligo di soccorrere le
persone in pericolo in mare;
9.2. a vigilare affinché le loro politiche e attività relative alla gestione delle loro
frontiere, ivi comprese le misure di intercettazione, riconoscano la composizione
mista dei flussi di persone che tentano di varcare le frontiere marittime;
9.3. a garantire a tutte le persone intercettate un trattamento umano e il rispetto
sistematico dei loro diritti umani, ivi compreso il principio di non-respingimento,
indipendentemente dal fatto che le misure di intercettazione siano attuate nelle loro
acque territoriali, in quelle di un altro Stato sulla base di un accordo bilaterale ad
hoc, o in alto mare;
9.4. ad astenersi dal ricorrere a qualsiasi pratica che possa essere assimilata ad un
respingimento diretto o indiretto, ivi compreso in alto mare, nel rispetto
dell’interpretazione dell’applicazione extraterritoriale di questo principio fatta
dall’HCR e delle sentenze pertinenti della Corte europea dei diritti dell’uomo;
9.5. ad assicurare in via prioritaria lo sbarco rapido delle persone cui è stato
prestato soccorso in «luogo sicuro» e a considerare come «luogo sicuro» un luogo
che possa rispondere alle necessità immediate delle persone sbarcate, che non
metta in alcun modo a rischio i loro diritti fondamentali; tenendo presente che la
nozione di «sicurezza» va oltre la semplice protezione dal pericolo fisico e tenendo
conto altresì della prospettiva dei diritti fondamentali del luogo di sbarco proposto;
9.6. a garantire alle persone intercettate che hanno bisogno di una tutela
internazionale l’accesso a una procedura di asilo giusta ed efficace;
9.7. a garantire alle persone intercettate vittime della tratta di esseri umani o che
rischiano di diventarlo l’accesso a una tutela e ad un’assistenza, ivi comprese le
procedure di asilo;
9.8. a vigilare affinché il trattenimento di persone intercettate – escludendo
sistematicamente i minori e i gruppi vulnerabili – indipendentemente dal loro status,
sia autorizzato dalle autorità giudiziarie e abbia luogo solo in caso di necessità e per
motivi previsti dalla legge, in assenza di alternative appropriate e nel rispetto delle
norme minime e dei principi definiti nella Risoluzione 1707 (2010) dell’Assemblea sul
trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo e dei migranti in situazione
irregolare in Europa;
9.9. a sospendere gli accordi bilaterali che possono aver concluso con Stati terzi se
i diritti fondamentali di persone intercettate non sono garantiti adeguatamente in
tali strumenti, in particolare il diritto di accesso a una procedura di asilo, e se gli
stessi possono essere assimilati a una violazione del principio di non-respingimento,
e a concludere nuovi accordi bilaterali contenenti espressamente tali garanzie in
materia di diritti dell’uomo e misure finalizzate al loro controllo regolare ed effettivo;
9.10. a firmare e ratificare, se non l’hanno ancora fatto, gli strumenti internazionali
pertinenti sopra menzionati e a tenere conto delle Direttive dell’Organizzazione
marittima internazionale (OMI) sul trattamento delle persone cui è stato prestato
soccorso in mare;
9.11. a firmare e ratificare, se non l’hanno già fatto, la Convenzione del Consiglio
d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani (STCE n. 197) e i Protocolli
detti «di Palermo» alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità
transnazionale organizzata (2000);
9.12. a vigilare affinché le operazioni di sorveglianza alle frontiere marittime e le
misure di controllo alle frontiere non ostacolino la tutela specifica accordata a titolo
del diritto internazionale alle categorie vulnerabili come i rifugiati, gli apolidi, i
bambini non accompagnati e le donne, i migranti, le vittime della tratta o le persone
che rischiano di diventarlo, nonché le vittime di torture e di traumi.
10. L’Assemblea è preoccupata per la mancanza di chiarezza per quanto riguarda le
responsabilità rispettive degli Stati membri dell’Unione europea e di Frontex e per la
mancanza di garanzie adeguate di rispetto dei diritti fondamentali e delle norme
internazionali nell’ambito delle operazioni congiunte coordinate da tale agenzia. Pur
rallegrandosi per le proposte presentate dalla Commissione europea per modificare
il regolamento di tale agenzia al fine di rafforzare le garanzie del rispetto dei diritti
fondamentali, l’Assemblea le ritiene insufficienti ed auspicherebbe che il Parlamento
europeo venisse incaricato del controllo democratico delle attività di tale agenzia,
con particolare riguardo al rispetto dei diritti fondamentali.
11. L’Assemblea considera anche che è fondamentale che vengano fatti degli sforzi
per porre rimedio alle cause principali che spingono delle persone disperate a
imbarcarsi verso l’Europa mettendo a rischio la loro vita. L’Assemblea invita tutti gli
Stati membri a potenziare i loro sforzi per favorire la pace, lo Stato di diritto e la
prosperità nei Paesi di origine dei candidati all’immigrazione e dei richiedenti asilo.
12. Infine, tenuto conto dei rischi seri che rappresenta per gli Stati costieri l’arrivo
irregolare via mare di flussi misti di persone, l’Assemblea fa appello alla comunità
internazionale, in particolare all’OMI, all’HRC, all’Organizzazione internazionale per
le migrazioni (OIM), al Consiglio d’Europa e all’Unione europea (ivi compreso Frontex
e l’Ufficio europeo di sostegno in materia di asilo) affinché:
12.1. forniscano tutta l’assistenza richiesta a tali Stati in uno spirito di solidarietà e
di ripartizione delle responsabilità;
12.2. sotto l’egida dell’OMI, a spiegare degli sforzi concertati al fine di garantire un
approccio coerente ed armonizzato del diritto marittimo internazionale, in
particolare attraverso un consenso sulla definizione e il contenuto dei principali
termini e norme;
12.3. a predisporre un gruppo inter-agenzie incaricato di studiare e risolvere i
principali problemi in materia di intercettazione in mare, ivi compresi i cinque
problemi individuati nella presente risoluzione, di fissare delle priorità politiche
precise, di fornire consulenza agli Stati e ad altri attori interessati e di controllare e
valutare l’applicazione delle misure di intercettazione in mare. Il gruppo dovrebbe
essere composto di membri dell’OMI, dell’HCR, dell’OIM, del Consiglio d’Europa, di
Frontex e dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo.»
F. Il diritto dell’Unione europea
1. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)
28. L’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita:
Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione
«1. Le espulsioni collettive sono vietate.
2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste
un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o
trattamenti inumani o degradanti.»2. L’accordo di Schengen (1985)
29. L’articolo 17 dell’Accordo di Schengen recita:
«In materia di circolazione delle persone, le Parti si adopereranno per eliminare i
controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne. A tal fine,
si adopereranno in via preliminare per armonizzare, se necessario, le disposizioni
legislative e regolamentari relative ai divieti ed alle restrizioni sulle quali si basano i
controlli e per adottare misure complementari per la salvaguardia della sicurezza e
per impedire l’immigrazione clandestina di cittadini di Stati non membri delle
Comunità europee.»
3. Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 che istituisce
un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere
esterne degli Stati membri dell’Unione europea (FRONTEX)
30. Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 contiene le disposizioni seguenti:
1. La politica comunitaria nel settore delle frontiere esterne dell’Unione
europea mira a una gestione integrata atta a garantire un livello elevato e
uniforme del controllo e della sorveglianza, necessario corollario alla libera
circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione europea nonché
componente essenziale di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A tal fine
è prevista l’istituzione di norme comuni in materia di criteri e procedure
relativi al controllo delle frontiere esterne.
2. L’efficace attuazione delle norme comuni rende necessario un maggiore
coordinamento della cooperazione operativa tra gli Stati membri.
3. Tenendo conto delle esperienze maturate dall’organo comune di esperti in
materia di frontiere esterne, nell’ambito del Consiglio, dovrebbe essere
istituito un organismo specializzato incaricato di migliorare il coordinamento
della cooperazione operativa tra gli Stati membri nel settore della gestione
delle frontiere esterne in veste di Agenzia europea per la gestione della
cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione
europea, di seguito denominata «l’Agenzia».
4. Il controllo e la sorveglianza delle frontiere esterne ricadono sotto la
responsabilità degli Stati membri. L’Agenzia dovrebbe semplificare
l’applicazione delle misure comunitarie presenti e future in materia di
gestione delle frontiere esterne, garantendo il coordinamento delle azioni
intraprese dagli Stati membri nell’attuare tali misure.
5. L’efficacia del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne è una
questione della massima importanza per gli Stati membri, qualunque sia la
loro posizione geografica. Sussiste quindi l’esigenza di promuovere la
solidarietà tra gli Stati membri nel settore della gestione delle frontiere
esterne. L’istituzione dell’Agenzia, che assiste gli Stati membri nell’attuazione
degli aspetti operativi riguardanti la gestione delle frontiere esterne,
compreso il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi presenti illegalmente negli
Stati membri, rappresenta un significativo progresso in questa direzione.»
4. Il Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15
marzo 2006 che istituisce un codice comunitario relativo al regime di
attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen)
31. L’articolo 3 del Regolamento (CE) n. 562/2006 recita:
«Il presente regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o
esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio:
6. dei diritti dei beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione;
7. dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale, in
particolare per quanto concerne il non-respingimento
5. La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010 che integra il codice frontiere
Schengen per quanto riguarda la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel
contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la
gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri
dell’Unione europea (2010/252/UE)
32. La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010, nel suo allegato, precisa:
«Regole per le operazioni alle frontiere marittime coordinate dall’Agenzia
[FRONTEX]:
1. Principi generali
1.1. Le misure adottate ai fini delle operazioni di sorveglianza sono attuate nel
rispetto dei diritti fondamentali e in modo da salvaguardare l’incolumità delle
persone intercettate o soccorse e delle unità partecipanti.
1.2. Nessuno può essere sbarcato o altrimenti consegnato alle autorità di un Paese in
violazione del principio di non-respingimento o nel quale sussista un rischio di
espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio. Fatto
salvo il punto 1.1, alle persone intercettate o soccorse sono fornite informazioni
adeguate affinché possano esprimere qualunque motivo induca loro a ritenere che
lo sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non-respingimento.
1.3. Nel corso di tutta l’operazione si tiene conto delle particolari esigenze dei
minori, delle vittime della tratta di esseri umani, di quanti necessitano di assistenza
medica urgente o di protezione internazionale e di quanti si trovano in situazione di
grande vulnerabilità.
1.4. Gli Stati membri provvedono affinché le guardie di frontiera che partecipano alle
operazioni di sorveglianza ricevano una formazione sulle disposizioni pertinenti della
normativa in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati, e abbiano
dimestichezza con il regime internazionale di ricerca e soccorso.»
IV.DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LE INTERCETTAZIONI IN ALTO MARE
EFFETTUATE DALL’ITALIA E LA SITUAZIONE IN LIBIA
A. Il comunicato stampa dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati
33.Il 7 maggio 2009, l’HCR pubblicò un comunicato stampa così redatto:
«L’HCR ha espresso viva preoccupazione giovedì per la sorte di circa 230 persone
soccorse in mare mercoledì da motovedette italiane in servizio di pattugliamento
marittimo nella zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.
Tutte quelle persone sono state rinviate in Libia senza un’adeguata valutazione delle
loro eventuali esigenze di tutela. Il salvataggio è stato compiuto a circa 35 miglia
nautiche a sudest dell’isola di Lampedusa, tuttavia all’interno della zona di ricerca e
salvataggio di competenza delle autorità maltesi.
Il rinvio in Libia è avvenuto al termine di una giornata di discussioni accese tra le
autorità maltesi e quelle italiane sull’attribuzione della responsabilità del salvataggio
e dello sbarco delle persone in pericolo che si trovavano a bordo delle tre
imbarcazioni. Sebbene più vicine a Lampedusa, le navi incrociavano nella zona di
ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.
Anche se non abbiamo informazioni sulla nazionalità delle persone a bordo delle
motovedette, è probabile che tra loro ve ne fossero di bisognose di tutela
internazionale. Nel 2008, circa il 75% delle persone giunte in Italia via mare ha
presentato richiesta di asilo e il 50% di loro ha ottenuto lo status di rifugiato o una
tutela per altri motivi umanitari.
«Esorto le autorità italiane e maltesi a continuare a garantire alle persone soccorse in
mare e bisognose di tutela internazionale libero accesso al territorio e alle procedure
di asilo», ha dichiarato l’Alto Commissario António Guterres.
L’incidente segna un significativo cambio di rotta nelle politiche applicate fino ad
allora dal governo italiano ed è motivo di grandissima preoccupazione. L’HCR
condanna vivamente la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato l’episodio.
«Lavoriamo a stretto contatto con le autorità italiane a Lampedusa e altrove per
garantire che le persone che fuggono guerra e persecuzioni siano tutelate nel rispetto
della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, adottata a Ginevra», ha
aggiunto Laurens Jolles, delegato dell’HCR a Roma. «E’ di fondamentale importanza
che il principio del diritto internazionale sul non respingimento continui ad essere
pienamente rispettato».
Inoltre, la Libia non è firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951
relativa allo status dei rifugiati e non dispone di un sistema nazionale di asilo
operativo. L’HCR lancia un pressante appello alle autorità italiane affinché
riconsiderino la loro decisione e facciano in modo di non attuare quelle misure in
futuro.»
B. La lettera del sig. Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea,
datata 15 luglio 2009
34.Il 15 luglio 2009, il sig. Jacques Barrot ha indirizzato una lettera al presidente della
Commissione delle libertà civili, della giustizia e degli affari interni del Parlamento
europeo, in risposta ad una domanda di parere giuridico sul «riaccompagnamento in
Libia via mare di vari gruppi di migranti da parte delle autorità italiane ». In quella
lettera, il vicepresidente della Commissione europea si esprimeva così:
«Stando alle informazioni a disposizione della Commissione, i migranti in questione
sono stati intercettati in alto mare.
Due complessi di norme comunitarie devono essere presi in esame riguardo alla
situazione di cittadini di paesi terzi o apolidi che intendano entrare, illegalmente, nel
territorio degli Stati membri e di cui alcuni potrebbero avere bisogno di tutela
internazionale.
In primo luogo, l’acquis comunitario in materia di asilo mira a salvaguardare il diritto
di asilo, quale enunciato nell’articolo 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE,
in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e
agli altri trattati pertinenti. Tuttavia, tale acquis, compresa la direttiva sulle
procedure di asilo del 2005, si applica unicamente alle domande di asilo fatte nel
territorio degli Stati membri. Questo comprende le frontiere, le zone di transito
nonché, nell’ambito delle frontiere marittime, le acque territoriali degli Stati
membri. Pertanto, è chiaro giuridicamente che l’acquis comunitario in materia di
asilo non si applica nelle situazioni in alto mare.
In secondo luogo, il Codice delle Frontiere Schengen (CFS) esige che gli Stati membri
assicurino la sorveglianza delle frontiere per impedire tra l’altro l’attraversamento
non autorizzato delle stesse (articolo 12 delregolamento (СЕ) n. 562/2006 (CFS)).
Tuttavia, questo obbligo comunitario deve essere adempiuto in conformità al
principio di non respingimento e fatti salvi i diritti dei rifugiati e dei richiedenti tutela
internazionale.
Ad avviso della Commissione, le attività di sorveglianza delle frontiere svolte in
mare, siano esse nelle acque territoriali, nella zona contigua, nella zona economica
esclusiva o in alto mare, rientrano nel campo di applicazione del CFS. Al riguardo, la
nostra analisi giuridica preliminare consente di supporre che le azioni dei
guardacoste italiani corrispondano al concetto di «sorveglianza delle frontiere»,
come enunciato all’articolo 12 del CFS; esse hanno, infatti, impedito
l’attraversamento non autorizzato della frontiera esterna marittima da parte degli
interessati ed hanno portato al riaccompagnamento di questi nel paese terzo di
partenza. Stando alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, gli obblighi
comunitari debbono essere applicati nello stretto rispetto dei diritti fondamentali
che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario. La Corte ha inoltre
chiarito che il campo di applicazione di tali diritti nell’ordinamento giuridico
comunitario deve essere stabilito prendendo in considerazione la giurisprudenza
della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)
Il principio di non respingimento, come interpretato dalla CEDU, significa
essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal rinviare una persona (direttamente
o indirettamente) là dove essa potrebbe correre il rischio reale di essere sottoposta a
tortura o a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Inoltre, gli Stati non possono
rinviare i rifugiati alle frontiere dei territori in cui la vita o la libertà di quelle persone
sarebbe minacciata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
particolare gruppo sociale od opinione politica. Questo obbligo dovrebbe essere
rispettato in occasione dell’esecuzione del controllo alle frontiere conformemente al
CFS, comprese le attività di sorveglianza delle frontiere in alto mare. Secondo la
giurisprudenza della CEDU, le azioni eseguite in alto mare da una nave di Stato
costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono chiamare in causa la
responsabilità dello Stato interessato.
Tenuto conto di quanto precede riguardo al campo delle competenze comunitarie, la
Commissione ha invitato le autorità italiane a fornirle informazioni supplementari in
merito alle circostanze di fatto del riaccompagnamento degli interessati in Libia e
alle disposizioni in essere per garantire la conformità con il principio di non
respingimento nell’attuazione dell’accordo bilaterale tra i due paesi.»
C. Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa
35.Dal 27 al 31 luglio 2009, una delegazione del Comitato per la prevenzione della
tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT) del Consiglio
d’Europa ha effettuato una visita in Italia. In quell’occasione, la delegazione ha
esaminato diverse questioni riguardanti la nuova politica governativa di
intercettazione in mare e di rinvio in Libia di migranti irregolari in avvicinamento alle
coste meridionali dell’Italia. La delegazione si è concentrata in particolare
sull’esistente sistema di garanzie volto a evitare di rinviare una persona verso un
paese quando esistano seri motivi di ritenere che quella persona correrà in quel
paese il rischio reale di essere sottoposta a tortura e maltrattamenti.
36.Stando al rapporto del CPT, reso pubblico il 28 aprile 2010, la politica dell’Italia
consistente nell’intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o
in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non
respingimento. Secondo il CPT, l’Italia era vincolata dal principio di non
respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione,
incluso l’esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati
nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori
del suo territorio. Inoltre, tutte le persone rientranti nella giurisdizione dell’Italia
avrebbero dovuto avere la possibilità di chiedere tutela internazionale e di usufruire
a tal fine delle necessarie agevolazioni. Secondo le informazioni in possesso del CPT,
questa possibilità non era stata offerta ai migranti intercettati in mare dalle autorità
italiane nel periodo in esame. Al contrario, le persone rinviate in Libia nell’ambito
delle operazioni condotte da maggio a luglio 2009 si erano viste negare il diritto ad
una valutazione individuale del loro caso e all’accesso effettivo al sistema di tutela
dei rifugiati. Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono
particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter
esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo.
Stando al rapporto del CPT, la Libia non può essere considerata un paese sicuro in
materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone
arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il
rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia
rischiavano di essere vittime di maltrattamenti.
D.Il rapporto di Human Rights Watch
37.In un lungo rapporto pubblicato il 21 settembre 2009, intitolato «Respinti,
malmenati: l’Italia rinvia con la forza i migranti e i richiedenti asilo arrivati dal mare,
la Libia li maltratta», Human Rights Watch denuncia la pratica italiana consistente
nell’intercettare in alto mare imbarcazioni cariche di migranti e nel respingerli verso
la Libia senza procedere alle necessarie verifiche. Il rapporto si basa anche sui
risultati di ricerche pubblicate in un rapporto del 2006, intitolato «Libya, stemming
the Flow. Abuses against migrants, asylum seekers and refugees».
38.Secondo Human Rights Watch, le motovedette italiane rimorchiano le
imbarcazioni dei migranti nelle acque internazionali senza verificare se tra questi vi
siano rifugiati, malati o feriti, donne in stato di gravidanza, bambini non
accompagnati o vittime di tratta o di altre forme di violenza. Le autorità italiane
costringerebbero i migranti intercettati a salire a bordo di navi libiche o li
riaccompagnerebbero direttamente in Libia, dove essi sarebbero immediatamente
arrestati dalle autorità locali. Alcune di queste operazioni sarebbero coordinate
dall’agenzia Frontex.
Il rapporto si basa su colloqui avuti con novantuno migranti, richiedenti asilo e
rifugiati in Italia e a Malta, per lo più nel maggio 2009, e su un colloquio telefonico
con un migrante detenuto in Libia. Alcuni rappresentanti di Human Rights Watch si
sarebbero recati in Libia nell’aprile 2009 e avrebbero incontrato rappresentanti del
governo, ma le autorità libiche non avrebbero consentito all’organizzazione di avere
colloqui in privato con i migranti. Le autorità non avrebbero nemmeno concesso a
Human Rights Watch l’autorizzazione a visitare uno dei numerosi centri di
detenzione per i migranti in Libia, nonostante le ripetute richieste
dell’organizzazione umanitaria. L’HCR avrebbe adesso accesso alla prigione di
Misurata, dove generalmente sarebbero detenuti i migranti clandestini, e alcune
organizzazioni libiche vi fornirebbero servizi umanitari. Tuttavia, in assenza di un
accordo ufficiale, l’accesso non sarebbe garantito. Inoltre, la Libia non conoscerebbe
il diritto di asilo. Le autorità non farebbero alcuna distinzione tra i rifugiati, i
richiedenti asilo ed altri migranti clandestini.
39.Human Rights Watch esorta il governo libico a migliorare le condizioni detentive
in Libia, a quanto pare deplorevoli, e a prevedere procedure di asilo conformi alle
norme internazionali. Il rapporto si rivolge anche al governo italiano, all’Unione
europea e a Frontex, chiedendo il rispetto del diritto di asilo, anche nei confronti
delle persone intercettate in alto mare, e il non rinvio in Libia dei non cittadini libici,
fino a quando quel paese non abbia conformato alle norme internazionali le
modalità di trattamento dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
E. La visita di Amnesty International
40.Un’équipe di Amnesty International ha svolto una missione d’inchiesta in Libia dal
15 al 23 maggio 2009. Era la prima volta dal 2004 che le autorità libiche
autorizzavano una visita dell’organizzazione.
Durante la visita, Amnesty International si è recata in particolare a circa 200 km da
Tripoli, dove ha interrogato brevemente alcuni delle centinaia di migranti clandestini
provenienti da altri paesi dell’Africa che affollano il centro detentivo di Misurata.
Molti di quei migranti sarebbero stati intercettati mentre cercavano di recarsi in
Italia o in un altro paese del sud dell’Europa che ha chiesto alla Libia e ad altri paesi
del Nord Africa di trattenere i migranti illegali provenienti dall’Africa sub sahariana
per impedire loro di recarsi in Europa.
41.Secondo Amnesty International, tra le persone detenute a Misurata possono
esservi dei rifugiati che fuggono la persecuzione, inoltre la Libia non dispone di una
procedura di asilo e non è parte alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati né
al Protocollo di questa datato 1967; gli stranieri, compresi quelli bisognosi di tutela
internazionale, rischierebbero di non beneficiare della tutela legale. I detenuti non
avrebbero praticamente alcuna possibilità di denunciare eventuali violazioni dinanzi
ad un’autorità giudiziaria competente per atti di tortura od altre forme di
maltrattamenti.
Amnesty International avrebbe comunicato ai responsabili governativi incontrati in
Libia di essere preoccupata per la detenzione e i maltrattamenti inflitti alle centinaia,
se non migliaia, di stranieri che le autorità assimilerebbero a migranti irregolari e
avrebbe chiesto loro di prevedere una procedura che consenta di identificare e
tutelare adeguatamente i richiedenti asilo e i rifugiati. Avrebbe inoltre chiesto alle
autorità libiche di non rinviare più con la forza cittadini stranieri verso paesi dove essi
rischiano di subire gravi violazioni dei diritti dell’uomo e di trovare una soluzione
migliore della detenzione per gli stranieri che non possono essere rinviati nei paesi di
origine per tale motivo. Alcuni cittadini eritrei, che costituirebbero una parte
importante dei cittadini stranieri detenuti a Misurata, avrebbero comunicato alla
delegazione di Amnesty International di essere detenuti da due anni.
V.ALTRI DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN LIBIA
42.Oltre a quelli succitati, sono numerosi i rapporti pubblicati da organizzazioni
internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che
condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca
dei fatti.
Ecco un elenco dei principali rapporti:
o
o
o
o
o
Human Rights Watch, Stemming the Flow: abuses against migrants, asylum
seekers and refugees, settembre 2006;
Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali
Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007;
Amnesty Intemational, Libia – Rapporto 2008 di Amnesty International, 28
maggio 2008;
Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008;
Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in
Libia, 4 aprile 2010.
VI.DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN SOMALIA E IN
ERITREA
43.I principali documenti internazionali riguardanti la situazione in Somalia sono
presentati nella causa Sufi e Elmi c. Regno Unito (nn.8319/07 e 11449/07, §§ 80-195,
28 giugno 2011).
44.Per quanto riguarda l’Eritrea, diversi rapporti denunciano violazioni dei diritti
fondamentali perpetrate in quel paese. Essi danno conto di gravi violazioni dei diritti
dell’uomo da parte del governo eritreo, quali gli arresti arbitrari, la tortura, le
condizioni detentive disumane, il lavoro forzato e le gravi restrizioni alla libertà di
movimento, di espressione e di culto. Quei documenti prendono in esame anche la
difficile situazione degli Eritrei che riescono a fuggire verso altri paesi quali la Libia, il
Sudan, l’Egitto e l’Italia, e sono poi rimpatriati con la forza.
Ecco l’elenco dei principali rapporti:
o
o
o
o
o
HCR, Eligibility guidelines for assessing the international protection needs of
asylum-seekers from Eritrea, aprile 2009;
Amnesty international, report 2009, Eritrea, 28 maggio 2009;
;Human Rights Watch, Service for life, state repression and indefinite
conscription in Eritrea, aprile 2009;
Human Rights Watch, Libya, don’t send Eritreans back to risk of torture, 15
gennaio 2010;
Human Rights Watch, World Chapter Report, gennaio 2010.
IN DIRITTO
I. QUESTIONI PRELIMINARI SOLLEVATE DAL GOVERNO
A. Sulla validità delle procure e sulla prosecuzione dell’esame del ricorso
1.La questione sollevata dal Governo
45.Il Governo contesta sotto vari aspetti la validità delle procure fornite dai
rappresentanti dei ricorrenti. Innanzitutto, denuncia irregolarità nella redazione
della maggior parte delle procure, ossia:
o
o
o
o
l’assenza di indicazione di data e luogo e, in alcuni casi, la circostanza che
data e luogo sembrerebbero essere stati scritti dalla stessa persona;
l’assenza di riferimento al numero del ricorso;
il fatto che le generalità dei ricorrenti consisterebbero solo nel cognome,
nome, nazionalità, in una firma illeggibile e in un’impronta digitale spesso
parziale e indecifrabile;
l’assenza di indicazione delle date di nascita dei ricorrenti.
46.Il Governo osserva poi che il ricorso non precisa né le circostanze della redazione
delle procure, insinuando così dubbi sulla validità di queste, né i passi compiuti dai
rappresentanti dei ricorrenti al fine di accertare le generalità dei loro clienti. Inoltre,
il Governo mette in discussione la qualità dei contatti esistenti tra i ricorrenti e i loro
rappresentanti. In particolare, afferma che i messaggi elettronici inviati dai ricorrenti
dopo il loro trasferimento in Libia non sono accompagnati da firme confrontabili con
quelle apposte sulle procure. Secondo il Governo, le difficoltà incontrate dagli
avvocati nello stabilire e mantenere i contatti con i ricorrenti impedirebbero l’esame
in contraddittorio della causa.
47.Pertanto, stante l’impossibilità di verificare le generalità dei ricorrenti, e in
assenza di una «partecipazione personale» di questi alla causa, la Corte dovrebbe
rinunciare a proseguire l’esame del ricorso. Facendo riferimento alla causa Hussun
ed altri c. Italia ((cancellazione), nn.10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, 19
gennaio 2010), il Governo chiede alla Corte di cancellare il ricorso dal ruolo.
2.Le argomentazioni dei ricorrenti
48.I rappresentanti dei ricorrenti difendono la validità delle procure. Affermano
innanzitutto che le irregolarità nella redazione dedotte dal Governo non possono
comportare la nullità dei mandati conferiti loro dai clienti.
49.Quanto alle circostanze della redazione delle procure, essi precisano che i
mandati sono stati formalizzati dai ricorrenti sin dall’arrivo di questi in Libia, presso
membri di organizzazioni umanitarie operanti in diversi centri di trattenimento.
Queste persone si sarebbero poi incaricate di contattarli e di trasmettere loro le
procure perché potessero firmarle e accettare i mandati.
50.Quanto alle difficoltà legate all’identificazione degli interessati, esse sarebbero
una conseguenza diretta dell’oggetto del ricorso, cioè un’operazione di rinvio
collettivo e senza previa identificazione dei migranti clandestini. Comunque sia, gli
avvocati attirano l’attenzione della Corte sul fatto che una parte importante dei
ricorrenti è stata identificata dall’ufficio dell’HCR a Tripoli all’arrivo in Libia.
51.Infine, gli avvocati affermano di avere tenuto i contatti con una parte degli
interessati, raggiungibili per telefono e posta elettronica. Al riguardo, essi
rappresentano grandi difficoltà nel tenere i contatti con i ricorrenti, in particolare a
causa dei disordini che hanno scosso la Libia a partire dal febbraio 2011.
3.Valutazione della Corte
52.La Corte ricorda innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 45 § 3 del suo
regolamento, il rappresentante di un ricorrente deve produrre «una procura scritta».
Di conseguenza, una semplice procura scritta sarebbe valida ai fini del procedimento
dinanzi alla Corte, dal momento che nessuno potrebbe dimostrare che essa è stata
redatta senza il consenso dell’interessato o senza che questi comprenda di cosa si
tratta (Velikova c. Bulgaria, n. 41488/98, § 50, CEDU2000-VI).
53.Del resto, né la Convenzione né il regolamento della Corte pongono condizioni
particolari quanto alla redazione della procura, né richiedono alcuna forma di
certificazione da parte delle autorità nazionali. Importante, per la Corte, è che la
procura indichi chiaramente che il ricorrente ha affidato la sua rappresentanza
dinanzi alla Corte ad un legale e che questi ha accettato il mandato (Riabov c. Russia,
n. 3896/04, §§ 40 e 43, 31 gennaio 2008).
54.Nel caso di specie, la Corte osserva che tutte le procure acquisite agli atti sono
firmate ed accompagnate da impronte digitali. Inoltre, i rappresentanti dei ricorrenti
hanno fornito, durante tutto il procedimento, informazioni dettagliate in merito allo
svolgimento dei fatti e alla sorte dei ricorrenti, con cui hanno potuto mantenere i
contatti. Niente nel fascicolo induce a dubitare del racconto degli avvocati, né a
mettere in discussione lo scambio d’informazioni con la Corte (si veda, a contrario,
Hussun, sopra citata, §§ 43-50).
55.Pertanto, la Corte non ha motivi di dubitare della validità delle procure. Essa
rigetta quindi l’eccezione del Governo.
56.D’altra parte, la Corte osserva che, stando alle informazioni fornite dagli avvocati,
due dei ricorrenti, il sig. Mohamed Abukar Mohamed e il sig. Hasan Shariff
Abbirahman (rispettivamente il n. 10 e il n. 11 dell’elenco), sono deceduti pochissimo
tempo dopo la presentazione del ricorso (paragrafo 15 supra).
57. Essa rammenta che, secondo la prassi della Corte, sono cancellati dal ruolo i
ricorsi di ricorrenti deceduti durante il procedimento quando nessun erede o
parente prossimo intenda continuare il ricorso (si vedano, tra le altre, Scherer
c.Svizzera, 25 marzo 1994, §§ 31-32, serie A n. 287; Öhlinger c. Austria, n.21444/93,
rapporto della Commissione del 14 gennaio 1997, § 15, non pubblicato; Thévenon c.
Francia (dec.), n. 2476/02, CEDU 2006-III; e Léger c.Francia (cancellazione) [GC], n.
19324/02, § 44, 30 marzo 2009).
58. Alla luce delle circostanze del caso, la Corte ritiene ormai ingiustificata la
prosecuzione dell’esame del ricorso per quanto riguarda le persone decedute
(articolo 37 § 1 c) della Convenzione). Del resto, essa osserva che i motivi di ricorso
inizialmente sollevati dai sigg. Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff
Abbirahman sono gli stessi di quelli enunciati dagli altri ricorrenti, in merito ai quali
esprimerà il suo parere di seguito. Pertanto, a suo giudizio, nessuna ragione
dipendente dal rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi
Protocolli esigerebbe, conformemente all’articolo 37 § 1 in fine, la prosecuzione
dell’esame del ricorso dei ricorrenti deceduti.
59. In conclusione, la Corte decide di cancellare il ricorso dal ruolo nella parte
relativa ai ricorrenti Mohamed Abukar Mohamed e HasanShariff Abbirahman, e di
proseguire l’esame del ricorso per il resto.
B. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne
60. Nell’udienza dinanzi alla Grande Camera, il Governo ha invocato l’irricevibilità del
ricorso per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Ha sostenuto che i
ricorrenti avevano omesso di adire i giudici italiani al fine di ottenere il
riconoscimento e la riparazione delle dedotte violazioni della Convenzione.
61. Secondo il Governo, i ricorrenti, attualmente liberi di spostarsi e in grado, come
hanno dimostrato, di raggiungere i loro avvocati nell’ambito del procedimento
dinanzi alla Corte, avrebbero dovuto presentare ricorsi dinanzi ai giudici penali
italiani al fine di lamentare eventuali violazioni del diritto interno e del diritto
internazionale da parte dei militari coinvolti nel loro allontanamento. Procedimenti
penali sarebbero attualmente in corso in cause simili, e questo tipo di ricorso
avrebbe carattere «effettivo».
62. La Corte rileva che i ricorrenti lamentano anche di non avere avuto a disposizione
un ricorso rispondente alle esigenze dell’articolo 13 della Convenzione. A suo avviso,
esiste un legame stretto tra la tesi del Governo sul punto e la fondatezza dei motivi
di ricorso formulati dai ricorrenti sotto il profilo di tale disposizione. A giudizio della
Corte, questa eccezione va quindi riunita al merito dei motivi di ricorso relativi
all’articolo 13 della Convenzione ed esaminata in quel contesto (paragrafo 207 infra).
II. SULLA QUESTIONE DELLA GIURISDIZIONE AI SENSI DELL’ARTICOLO 1 DELLA
CONVENZIONE
63.Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione:
«Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro
giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della (...) Convenzione.»
1.Tesi delle parti
22. Il Governo
64.Il governo convenuto riconosce che i fatti controversi si sono svolti a
bordo di navi militari italiane. Tuttavia, nega che le autorità italiane abbiano
esercitato un «controllo assoluto ed esclusivo» sui ricorrenti.
65.Sostiene che l’intercettazione delle imbarcazioni a bordo delle quali si
trovavano i ricorrenti si iscriveva nel contesto del salvataggio in alto mare di
persone in pericolo – rientrante negli obblighi imposti dal diritto
internazionale, vale a dire dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto
del mare («Convenzione di Montego Bay») – e non può in nessun caso essere
definita un’operazione di polizia marittima.
Le navi italiane si sarebbero limitate ad intervenire per prestare soccorso a
tre imbarcazioni in difficoltà e mettere in sicurezza le persone a bordo.
Avrebbero poi riaccompagnato in Libia i migranti intercettati,
conformemente agli accordi bilaterali del 2007 e del 2009. Secondo il
Governo, l’obbligo di salvare la vita umana in alto mare come prescritto dalla
Convenzione di Montego Bay non comporta di per sé la creazione di un
legame tra lo Stato e le persone interessate suscettibile di stabilire la
giurisdizione di questo.
66.Nell’ambito del «salvataggio» dei ricorrenti, durato in totale solo dieci ore,
le autorità avrebbero prestato agli interessati la necessaria assistenza
umanitaria e medica e non avrebbero fatto in alcun modo ricorso alla
violenza; esse non avrebbero effettuato abbordaggi né utilizzato armi. Il
Governo ne conclude che il presente ricorso differisce dalla causa Medvedyev
ed altri c. Francia ([GC], n. 3394/03, 29marzo 2010), in cui la Corte ha
affermato che i ricorrenti rientravano nella giurisdizione della Francia tenuto
conto del carattere assoluto ed esclusivo del controllo esercitato da questa su
una nave in alto mare e sul suo equipaggio.
23. I ricorrenti
67.Ad avviso dei ricorrenti, la giurisdizione dell’Italia non può essere messa in
discussione nel caso di specie. Sin dalla loro salita a bordo delle navi italiane,
essi si sarebbero trovati sotto il controllo esclusivo dell’Italia, la quale sarebbe
stata quindi tenuta a rispettare tutti quanti gli obblighi derivanti dalla
Convenzione e dai suoi Protocolli.
Fanno notare che, stando all’articolo 4 del codice italiano della navigazione,
le navi battenti bandiera nazionale rientrano nella giurisdizione dell’Italia
anche quando navighino fuori delle acque territoriali.
24. I terzi intervenienti
68.Per i terzi intervenienti, conformemente ai principi di diritto
internazionale consuetudinario e alla giurisprudenza della Corte, gli obblighi
per gli Stati di non respingere i richiedenti asilo, anche «potenziali», e di
assicurare loro l’accesso a procedimenti equi, hanno portata extraterritoriale.
69.Secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio
decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non
sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio
dello Stato, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di
esso.
I terzi intervenienti fanno riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa
all’articolo 1 della Convenzione e alla portata extraterritoriale del concetto di
«giurisdizione», nonché alle conclusioni di altri organi internazionali. Essi
sottolineano la necessità di evitare doppi criteri nel campo della tutela dei
diritti dell’uomo e di fare in modo che uno Stato non sia autorizzato a
commettere, al di fuori del proprio territorio, atti che mai sarebbero accettati
all’interno di questo.
2.Valutazione della Corte
25. Principi generali relativi alla giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della
Convenzione
70.Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, l’impegno degli Stati contraenti
consiste nel «riconoscere» (in inglese «to secure») alle persone rientranti
nella loro «giurisdizione» i diritti e le libertà enunciati nella Convenzione
(Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, § 86, serie A n. 161, e Banković ed altri
c. Belgio ed altri 16 Stati contraenti (dec.) [GC], n. 52207/99, § 66, CEDU
2001-XII). L’esercizio della «giurisdizione» è il presupposto perché uno Stato
contraente possa essere ritenuto responsabile delle azioni od omissioni ad
esso addebitabili e all’origine di una denuncia di violazione dei diritti e delle
libertà enunciati nella Convenzione (Ilaşcu ed altri c. Moldova e Russia [GC],
n. 48787/99, §311, CEDU 2004-VII).
71.La giurisdizione di uno Stato, ai sensi dell’articolo 1, è principalmente
territoriale (Banković, decisione sopra citata, §§ 61 e 67, e Ilaşcu, sopra citata,
§312). Si presume che essa sia esercitata normalmente sull’intero territorio di
quello Stato (Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 312; e Assanidzé c. Georgia [GC],
n.71503/01, § 139, CEDU 2004-II).
72.In conformità al carattere essenzialmente territoriale del concetto di
giurisdizione, la Corte ha ammesso solo in circostanze eccezionali che le
azioni degli Stati contraenti compiute o produttive di effetti fuori del
territorio di questi possano costituire esercizio da parte degli stessi della loro
giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione (Drozd e Janousek c.
Francia e Spagna,26 giugno 1992, § 91, serie A n. 240; Banković, decisione
sopra citata, § 67; e Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 314).
73.Così, nella prima sentenza Loizidou (eccezioni preliminari), la Corte ha
giudicato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della Convenzione, la
responsabilità di una Parte contraente potesse essere chiamata in causa
quando, in conseguenza di un’azione militare - legittima o meno -, quella
Parte esercitava in pratica il suo controllo su una zona situata fuori del
territorio nazionale (Loizidou c.Turchia (eccezioni preliminari) [GC], 23 marzo
1995, § 62, serie A n.310), il che è tuttavia escluso nel caso di una singola
azione extraterritoriale istantanea, come nella causa Banković; il testo
dell’articolo 1 non si presta infatti ad una concezione causale della nozione di
«giurisdizione» (decisione sopra citata, § 75). In ciascun caso, l’esistenza di
circostanze che richiedono e giustificano che la Corte concluda per l’esercizio
extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato deve essere valutata
con riferimento ai fatti particolari della causa, ad esempio in caso di controllo
assoluto ed esclusivo su una prigione o su una nave (Al-Skeini ed altri c.Regno
Unito [GC], n. 55721/07, § 132 e 136, 7 luglio 2011; Medvedyev ed altri, sopra
citata, § 67).
74.Sin dal momento in cui uno Stato esercita, tramite i propri agenti operanti
fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi
giurisdizione, esso è tenuto, in virtù dell’articolo 1, a riconoscere a
quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione
pertinenti al caso di quell’individuo. In questo senso, quindi, la Corte
ammette ora che i diritti derivanti dalla Convenzione possano essere
«frazionati e adattati» (Al-Skeini, sopra citata, §§ 136 e 137; a titolo di
confronto, si veda Banković, sopra citata, § 75).
75.La giurisprudenza della Corte rivela casi di esercizio extraterritoriale della
competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute
all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili
immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto
Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale
consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto
l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato
(Banković, decisione sopra citata, § 73, e Medvedyev ed altri,sopra citata, §
65).
26. Applicazione nel caso di specie
76.Non è oggetto di contestazione dinanzi alla Corte la circostanza che gli
avvenimenti controversi si siano svolti in alto mare, a bordo di navi militari
battenti bandiera italiana. Il governo convenuto riconosce del resto che le
motovedette della guardia di finanza e della guardia costiera sulle quali sono
stati imbarcati i ricorrenti rientravano completamente nella giurisdizione
dell’Italia.
77.La Corte osserva che, in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del
mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva
dello Stato di cui batte bandiera. Questo principio di diritto internazionale ha
portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a
bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili
registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato
(paragrafo 75 supra). Dal momento che vi è controllo su altri, si tratta in
questi casi di un controllo de jure esercitato dallo Stato in questione sugli
individui interessati.
78.La Corte osserva d’altra parte che questo principio è trascritto nel diritto
nazionale, all’articolo 4 del codice italiano della navigazione, e non è
contestato dal governo convenuto (paragrafo 18 supra). Ne conclude che il
caso di specie costituisce proprio un caso di esercizio extraterritoriale della
giurisdizione dell’Italia, suscettibile di chiamare in causa la responsabilità di
quello Stato ai sensi della Convenzione.
79.D’altra parte l’Italia non può sottrarsi alla sua «giurisdizione» ai sensi della
Convenzione definendo i fatti controversi un’operazione di salvataggio in alto
mare. In particolare, la Corte non può condividere l’argomentazione del
Governo secondo la quale l’Italia non sarebbe responsabile della sorte dei
ricorrenti in considerazione del preteso ridotto livello del controllo che le sue
autorità esercitavano sugli interessati al momento dei fatti.
80.Al riguardo, è sufficiente osservare che nella causa Medvedyev ed altri,
sopra citata, i fatti controversi si erano verificati a bordo del Winner,
un’imbarcazione battente bandiera di uno Stato terzo, ma il cui equipaggio
era stato posto sotto il controllo di militari francesi. Nelle particolari
circostanze di quella causa, la Corte ha preso in esame la natura e la portata
delle azioni compiute dagli agenti francesi al fine di verificare se la Francia
avesse esercitato sul Winner e sul suo equipaggio un controllo, almeno de
facto, continuo ed ininterrotto (ibidem, §§ 66 e 67).
81.Ora, la Corte nota che nella presente causa i fatti si sono svolti
interamente a bordo di navi delle forze armate italiane, il cui equipaggio era
composto esclusivamente da militari nazionali. Ad avviso della Corte, sin dalla
salita a bordo delle navi delle forze armate italiane e fino alla consegna alle
autorità libiche, i ricorrenti si sono trovati sotto il controllo continuo ed
esclusivo, tanto de jure quanto de facto, delle autorità italiane. Nessuna
speculazione sulla natura e sullo scopo dell’intervento delle navi italiane in
alto mare può indurre la Corte a concludere diversamente.
82.Pertanto, i fatti all’origine delle violazioni dedotte rientrano nella
«giurisdizione» dell’Italia ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione.
III. SULLE DEDOTTE VIOLAZIONI DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
83.I ricorrenti lamentano di essere stati esposti, a causa del loro respingimento, al
rischio di subire torture o trattamenti inumani e degradanti in Libia, nonché nei
rispettivi paesi di origine, vale a dire l’Eritrea e la Somalia. Invocano l’articolo 3 della
Convenzione, così redatto:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o
degradanti.»
84.Ad avviso della Corte, l’articolo 3 della Convenzione è chiamato in causa sotto due
diversi aspetti, da esaminarsi separatamente. In primo luogo, quanto al rischio corso
dai ricorrenti di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia, e, in secondo luogo,
quanto al rischio per gli stessi di essere rimpatriati nei rispettivi paesi di origine.
A. Sulla dedotta violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa
dell’esposizione dei ricorrenti al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti
in Libia
1.Tesi delle parti
27. I ricorrenti
85.I ricorrenti sostengono di essere stati vittime di un respingimento
arbitrario ed incompatibile con la Convenzione. Affermano di non avere
avuto la possibilità di opporsi al loro rinvio in Libia e di chiedere tutela
internazionale alle autorità italiane.
86.Ignari della loro effettiva destinazione, i ricorrenti sarebbero stati
persuasi, durante tutto il viaggio a bordo delle navi italiane, di essere portati
in Italia. Sarebbero quindi stati vittime di un vero e proprio «inganno» ad
opera delle autorità italiane.
87.A bordo delle navi non sarebbe stato possibile procedere in alcun modo
all’identificazione dei migranti intercettati e alla raccolta di informazioni sulla
loro situazione personale. Non sarebbe stato quindi possibile prendere in
considerazione nessuna domanda formale di asilo. Tuttavia, una volta in
prossimità delle coste libiche, i ricorrenti nonché un gran numero di altri
migranti avrebbero pregato i militari italiani di non sbarcarli al porto di
Tripoli, da cui erano appena scappati, e di portarli in Italia.
I ricorrenti affermano di avere espresso esplicitamente la volontà di non
essere consegnati alle autorità libiche. Contestano l’argomentazione del
Governo secondo la quale una tale domanda non può essere assimilata ad
una domanda volta ad ottenere tutela internazionale.
88.I ricorrenti sostengono poi di essere stati respinti verso un paese dove vi
erano motivi sufficienti di ritenere che sarebbero stati sottoposti a
trattamenti contrari alla Convenzione. Infatti, diverse fonti internazionali
avrebbero evocato le condizioni inumane e degradanti in cui i migranti
irregolari, in particolare di origine somala ed eritrea, erano detenuti in Libia e
le precarie condizioni di vita riservate ai clandestini in quel paese.
Al riguardo, i ricorrenti fanno riferimento al rapporto del CPT dell’aprile 2010
nonché ai testi e ai documenti prodotti dalle parti terze sulla situazione in
Libia.
89.La situazione, che avrebbe continuato a peggiorare in seguito, non poteva,
a loro avviso, essere ignorata dall’Italia al momento della conclusione degli
accordi bilaterali con la Libia e della messa in esecuzione del respingimento
controverso.
90.Del resto, i timori e le preoccupazioni dei ricorrenti si sarebbero rivelati
fondati. Tutti quanti avrebbero parlato di condizioni detentive inumane e,
dopo la liberazione, di condizioni di vita precarie legate al loro status di
immigrati irregolari.
91.Ad avviso dei ricorrenti, la decisione di rinviare in Libia i clandestini
intercettati in alto mare costituisce una vera e propria scelta politica
dell’Italia, volta a privilegiare una gestione poliziesca dell’immigrazione
clandestina in spregio della tutela dei diritti fondamentali degli interessati.
28. Il Governo
92.Il Governo sostiene innanzitutto che i ricorrenti non hanno provato in
maniera adeguata la realtà dei trattamenti a loro dire contrari alla
Convenzione che avrebbero subito. Non potrebbero quindi essere considerati
«vittime» ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.
93.Il Governo afferma poi che il trasferimento dei ricorrenti in Libia è stato
effettuato in virtù degli accordi bilaterali firmati nel 2007 e nel 2009 dall’Italia
e dalla Libia. Detti accordi bilaterali si iscrivevano in un contesto di crescenti
movimenti migratori tra l’Africa e l’Europa e sarebbero stati conclusi in uno
spirito di cooperazione tre due paesi impegnati nella lotta contro
l’immigrazione clandestina.
94.La cooperazione tra i paesi mediterranei in materia di controllo delle
migrazioni e di lotta contro i crimini legati all’immigrazione clandestina
sarebbe stata incoraggiata a più riprese dagli organi dell’Unione europea. Il
Governo fa riferimento in particolare alla Risoluzione del Parlamento
europeo n. 2006/2250 nonché al Patto europeo sull’immigrazione e sull’asilo,
elaborato dal Consiglio europeo il 24 settembre 2008, i quali affermano la
necessità per i paesi dell’UE di cooperare e di stabilire partenariati con i paesi
d’origine e di transito al fine di rafforzare il controllo delle frontiere esterne
dell’UE e di contrastare l’immigrazione clandestina.
95.Quanto agli avvenimenti del 6 maggio 2009, all’origine del presente
ricorso, secondo il Governo si trattava di un’operazione di salvataggio in alto
mare conforme al diritto internazionale. A dire del Governo, le navi militari
italiane sono intervenute in maniera conforme alla Convenzione di Montego
Bay e alla Convenzione internazionale sulla ricerca e sul salvataggio marittimi
(«Convenzione SAR»), per far fronte alla situazione di pericolo immediato in
cui versavano le imbarcazioni e salvare la vita dei ricorrenti e degli altri
migranti.
Secondo il Governo, il regime giuridico dell’alto mare è caratterizzato dal
principio della libertà di navigazione. In questo contesto, non si sarebbe
dovuto procedere all’identificazione degli interessati. Le autorità italiane si
sarebbero limitate a prestare agli interessati la necessaria assistenza
umanitaria. Il controllo dei ricorrenti sarebbe stato ridotto al minimo non
essendo stata prevista alcuna operazione di polizia marittima a bordo delle
navi.
96.Durante il trasferimento in Libia, i ricorrenti non avrebbero manifestato in
alcun momento l’intenzione di chiedere asilo politico o un’altra forma di
tutela internazionale. Secondo il Governo, un’eventuale domanda espressa
dai ricorrenti al fine di non essere consegnati alle autorità libiche non può
essere interpretata come una richiesta di asilo.
Al riguardo, esso afferma che, in caso di domanda di asilo, gli interessati
sarebbero stati portati in territorio nazionale, come avvenuto in occasione di
altre operazioni in alto mare effettuate nel 2009
97.Inoltre, stando al Governo, la Libia è un luogo di accoglienza sicuro. Lo
dimostrerebbe il fatto che quello Stato ha ratificato il Patto internazionale
delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, la Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o
degradanti e la Convenzione dell’Unione africana sui rifugiati in Africa,
nonché la sua appartenenza all’Organizzazione internazionale per le
migrazioni (OIM).
Sebbene non sia parte alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo
status dei rifugiati, la Libia avrebbe autorizzato l’HCR e l’OIM ad aprire uffici a
Tripoli, cosa che avrebbe permesso di concedere lo status di rifugiati a
numerosi richiedenti e di garantire loro tutela internazionale.
98.Il Governo richiama l’attenzione della Corte sulla circostanza che, in
occasione della ratifica del Trattato di amicizia del 2008, la Libia si era
espressamente impegnata a rispettare i principi della Carta delle Nazioni
Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. L’Italia non
avrebbe avuto alcun motivo di pensare che la Libia si sarebbe sottratta ai suoi
impegni.
Questa circostanza e la presenza ed attività di uffici dell’HCR e dell’OIM a
Tripoli giustificherebbero pienamente la convinzione dell’Italia che la Libia
fosse un luogo di accoglienza sicuro per i migranti intercettati in alto mare.
Del resto, per il Governo, il riconoscimento dello status di rifugiati concesso
dall’HCR a molti richiedenti, compresi alcuni dei ricorrenti, prova
inequivocabilmente che la situazione in Libia all’epoca dei fatti era conforme
alle norme internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo.
99.Il Governo ammette che la situazione in Libia è peggiorata a partire
dall’aprile 2010, epoca in cui le autorità hanno chiuso l’ufficio dell’HCR a
Tripoli, e poi si è deteriorata definitivamente in seguito agli eventi dell’inizio
del 2011, ma sostiene che l’Italia ha cessato subito i rinvii di clandestini in
Libia ed ha cambiato le modalità di soccorso ai migranti in alto mare,
autorizzando a partire da quell’epoca l’ingresso nel territorio nazionale.
100.Il Governo contesta l’esistenza di una «prassi governativa» che
consisterebbe, come affermato dai ricorrenti, nell’effettuare rinvii arbitrari in
Libia. Al riguardo, esso definisce il ricorso un «manifesto politico ed
ideologico» contro l’azione del governo italiano. Questo auspica che la Corte
si limiti a prendere in esame unicamente gli accadimenti del 6 maggio 2009 e
non metta in discussione le prerogative dell’Italia in materia di controllo
dell’immigrazione, campo a suo avviso estremamente sensibile e complesso.
29. I terzi intervenienti
101.Basandosi sulle dichiarazioni di numerosi testimoni diretti, Human Rights
Watch e l’HCR denunciano il respingimento forzato di clandestini verso la
Libia da parte dell’Italia. Nel corso del 2009, l’Italia avrebbe effettuato nove
operazioni in alto mare, rinviando in Libia 834 persone di nazionalità somala,
eritrea e nigeriana.
102.Human Rights Watch ha denunciato la situazione in Libia in più occasioni,
in particolare attraverso rapporti pubblicati nel 2006 e nel 2009. Stando
all’organizzazione, in assenza di un sistema nazionale di asilo in Libia, i
migranti irregolari sono sistematicamente arrestati e spesso sottoposti a
torture e violenze fisiche, compreso lo stupro. In spregio delle direttive delle
Nazioni Unite in materia di detenzione, i clandestini sarebbero detenuti senza
limitazione di tempo e senza alcun controllo giudiziario. Inoltre, le condizioni
detentive sarebbero inumane. I migranti sarebbero torturati e non
riceverebbero alcuna assistenza medica nei diversi campi del paese. In
qualsiasi momento potrebbero essere respinti verso il paese d’origine o
abbandonati nel deserto, dove andrebbero incontro a morte certa.
103.Il Centro AIRE, Amnesty International e la FIDH osservano che, da anni,
rapporti di fonti affidabili dimostrano in maniera costante che la situazione in
materia di diritti dell’uomo in Libia è disastrosa, in particolare per i rifugiati, i
richiedenti asilo e i migranti, e soprattutto per le persone provenienti da
alcune regioni dell’Africa, quali gli Eritrei e i Somali.
Ad avviso delle tre parti intervenienti, esiste un «obbligo di indagine» in caso
di informazioni attendibili provenienti da fonti affidabili secondo le quali le
condizioni detentive o di vita nello Stato di ricevimento non sono compatibili
con l’articolo 3.
Conformemente al principio pacta sunt servanda, uno Stato non può sottrarsi
ai propri obblighi imposti dalla Convenzione in virtù di impegni derivanti da
accordi bilaterali o multilaterali in materia di lotta all’immigrazione
clandestina.
104.Stando all’HCR, sebbene le autorità italiane non abbiano fornito
informazioni dettagliate riguardo alle operazioni di respingimento, diversi
testimoni sentiti dall’Alto Commissariato hanno fatto un racconto simile a
quello dei ricorrenti. In particolare, essi avrebbero riferito che, per indurre le
persone a salire a bordo delle navi italiane, i militari italiani avevano fatto
credere loro che le avrebbero portate in Italia. Diversi testimoni avrebbero
dichiarato di essere stati ammanettati e di avere subito violenze durante il
trasferimento verso il territorio libico e una volta arrivati al centro di
trattenimento. Inoltre, le autorità italiane avrebbero confiscato gli effetti
personali dei migranti, compresi i certificati dell’HCR attestanti lo status di
rifugiati. Diversi testimoni avrebbero inoltre confermato di ricercare tutela e
di averlo espressamente comunicato alle autorità italiane durante le
operazioni.
105.Secondo l’HCR, almeno cinque dei migranti respinti in Libia, riusciti poi a
tornare in Italia, tra i quali il sig. Ermias Berhane, si sono visti concedere lo
status di rifugiati in Italia. Per giunta, nel 2009, l’ufficio dell’HCR di Tripoli
avrebbe concesso lo status di rifugiati a settantatre persone respinte
dall’Italia, tra le quali quattordici dei ricorrenti. Sarebbe la prova che le
operazioni condotte dall’Italia in alto mare comportano il rischio reale di
respingimento arbitrario di persone bisognose di tutela internazionale.
106.Per l’HCR poi, nessuna delle argomentazioni avanzate dall’Italia per
giustificare i respingimenti è accettabile. Né il principio di cooperazione tra
Stati per la lotta al traffico illecito di migranti né le disposizioni relative al
diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana in
mare dispenserebbero gli Stati dall’obbligo di rispettare i principi di diritto
internazionale.
107.La Libia, paese di transito e di destinazione dei flussi migratori
provenienti dall’Asia e dall’Africa, non garantirebbe alcuna forma di tutela ai
richiedenti asilo. Sebbene firmataria di un certo numero di strumenti
internazionali in materia di diritti dell’uomo, essa non rispetterebbe molto i
suoi obblighi. In assenza di un sistema nazionale di diritto di asilo, le attività in
questo campo sarebbero state condotte esclusivamente dall’HCR e dai suoi
partner. Malgrado ciò, l’azione dell’Alto Commissariato non sarebbe mai
stata ufficialmente riconosciuta dal governo libico che, nell’aprile 2010,
avrebbe intimato all’HCR di chiudere l’ufficio di Tripoli e di cessare le attività.
Tenuto conto di questo contesto, il governo libico non concederebbe
nessuno status formale alle persone registrate come rifugiati dall’HCR, alle
quali non sarebbe garantita alcuna forma di tutela.
108.Fino agli avvenimenti del 2011, le persone considerate immigrati
clandestini sarebbero state detenute in «centri di trattenimento», la maggior
parte dei quali visitati dall’HCR. Le condizioni di vita in detti centri sarebbero
state molto mediocri e caratterizzate da sovraffollamento e servizi igienici
inadeguati. La situazione sarebbe stata aggravata dalle operazioni di
respingimento, che avrebbero accentuato il sovraffollamento e comportato
un ulteriore peggioramento delle condizioni sanitarie, all’origine di un
accresciuto bisogno di assistenza di base ai fini della sopravvivenza stessa
delle persone.
109.Secondo la Columbia Law School Human Rights Clinic, l’immigrazione
clandestina dal mare non è un fenomeno nuovo e la comunità internazionale
riconosce ormai sempre più la necessità di limitare le pratiche di controllo
dell’immigrazione, compresa l’intercettazione in mare, suscettibili di
ostacolare l’accesso dei migranti alla tutela e quindi di esporli al rischio di
tortura.
2.Valutazione della Corte
30. Sulla ricevibilità
110.Ad avviso del Governo, i ricorrenti non possono sostenere di essere
«vittime», ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, dei fatti da loro
denunciati. Esso contesta l’esistenza del rischio reale, per i ricorrenti, di
essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti in conseguenza del
respingimento. La valutazione di un tale rischio dovrebbe farsi sulla base di
fatti seri e accertati riguardanti la situazione di ciascun ricorrente. Ora, le
informazioni fornite dagli interessati sarebbero vaghe ed insufficienti.
111.Secondo la Corte, la questione sollevata da questa eccezione è
strettamente connessa a quella da affrontare durante l’esame della
fondatezza dei motivi di ricorso relativi all’articolo 3 della Convenzione. In
particolare, la disposizione impone alla Corte di verificare l’eventuale
esistenza di motivi seri ed accertati per ritenere che gli interessati corressero
il rischio reale di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o
degradanti in conseguenza del rinvio. E’ quindi opportuno riunire la
questione all’esame del merito.
112.A giudizio della Corte, questa parte del ricorso pone complesse questioni
di fatto e di diritto, la cui risoluzione richiede un esame nel merito; ne
consegue che essa non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 §
3 a) della Convenzione. Non essendo stato rilevato nessun altro motivo
d’irricevibilità, essa deve dichiararsi ricevibile.
31. Sul merito
i.Principi generali
α) Responsabilità degli Stati contraenti in caso di espulsione
113.Secondo la giurisprudenza della Corte, gli Stati contraenti hanno, in virtù
di un principio di diritto internazionale ben consolidato e fatti salvi gli
impegni derivanti per loro da trattati, ivi compreso dalla Convenzione, il
diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non
residenti (si vedano, tra molte altre, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c.Regno
Unito, 28 maggio 1985, § 67, serie A n. 94; e Boujlifa c. Francia, 21ottobre
1997, § 42, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VI). Inoltre, la Corte
osserva che né la Convenzione né i suoi Protocolli sanciscono il diritto all’asilo
politico (Vilvarajah ed altri c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, §102, serie A n.
215; e Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996, § 38, Raccolta 1996-VI).
114.Tuttavia, l’espulsione, l’estradizione ed ogni altra misura di
allontanamento di uno straniero da parte di uno Stato contraente possono
sollevare un problema sotto il profilo dell’articolo 3, quindi chiamare in causa
la responsabilità dello Stato in questione ai sensi della Convenzione, quando
esistano motivi seri ed accertati per ritenere che l’interessato, se espulso
verso il paese di destinazione, vi correrà il rischio reale di essere sottoposto
ad un trattamento contrario all’articolo 3. In questo caso, l’articolo 3 implica
l’obbligo di non espellere la persona in questione verso quel paese (Soering,
sopra citata, §§ 90-91; Vilvarajah ed altri, sopra citata, § 103; Ahmed,sopra
citata, § 39; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997, § 34, Raccolta 1997-III; Jabari c.
Turchia, n. 40035/98, §38, CEDU 2000-VIII; e Salah Sheekh c. Paesi Bassi, n.
1948/04, § 135, 11 gennaio 2007).
115.In questo tipo di cause, la Corte è quindi chiamata a valutare la
situazione nel paese di destinazione in base alle esigenze dell’articolo 3.
Quando si accerti o possa accertarsi una responsabilità sotto il profilo della
Convenzione, è quella dello Stato contraente, per un’azione il cui risultato
diretto è di esporre qualcuno al rischio di maltrattamenti proibiti (Saadi c.
Italia [GC], n. 37201/06, § 126, 28 febbraio 2008).
β) Elementi presi in considerazione per valutare il rischio di trattamenti
contrari all’articolo 3 della Convenzione
116.Per stabilire se esistano motivi seri ed accertati per credere ad un rischio
reale di trattamenti incompatibili con l’articolo 3, la Corte si basa sull’insieme
di elementi ad essa forniti o, all’occorrenza, procuratisi d’ufficio (H.L.R. c.
Francia, sopra citata, § 37; e Hilal c. Regno Unito, n.45276/99, § 60, CEDU
2001-II). In cause quali quella che ci occupa, la Corte è infatti tenuta ad
applicare criteri rigorosi al fine di valutare l’esistenza di un tale rischio
(Chahal c. Regno Unito, 15novembre 1996, § 96, Raccolta1996-V).
117.Per verificare l’esistenza del rischio di maltrattamenti, la Corte deve
prendere in esame le prevedibili conseguenze del rinvio di un ricorrente nel
paese di destinazione, tenuto conto della situazione generale esistente in tale
paese e delle circostanze proprie del caso dell’interessato (Vilvarajah ed altri,
sopra citata, §108 in fine).
118.A tal fine, quanto alla situazione generale esistente in un paese, spesso la
Corte ha attribuito importanza alle informazioni contenute nei recenti
rapporti di associazioni internazionali indipendenti di difesa dei diritti
dell’uomo quali Amnesty International, o di fonti governative (si veda, ad
esempio, Chahal,sopra citata, §§ 99-100; Müslim c. Turchia, n. 53566/99, §
67, 26 aprile 2005; Said c. Paesi Bassi, n.2345/02, § 54, CEDU 2005-VI; AlMoayad c. Germania (dec.), n.35865/03, §§ 65-66, 20 febbraio 2007; e Saadi,
sopra citata, § 131).
119.Nelle cause in cui un ricorrente sostiene di appartenere ad un gruppo
esposto sistematicamente alla pratica di maltrattamenti, la tutela
dell’articolo 3 entra in gioco, secondo la Corte, quando l’interessato dimostri,
eventualmente attraverso le fonti menzionate nel paragrafo precedente, che
vi sono motivi seri ed accertati di credere all’esistenza della pratica in
questione e alla sua appartenenza al gruppo preso di mira (si veda, mutatis
mutandis, Salah Sheekh,sopra citata, §§ 138-149).
120.Tenuto conto dell’assolutezza del diritto sancito, non è escluso che
l’articolo 3 trovi applicazione anche in caso di pericolo proveniente da
persone o gruppi di persone non collegate alla funzione pubblica. Inoltre,
occorre dimostrare che il rischio esiste realmente e che le autorità dello Stato
di destinazione non sono in grado di ovviarvi con una tutela adeguata (H.L.R.
c. Francia, sopra citata, § 40).
121.Quanto al momento da prendere in considerazione, è necessario fare
riferimento innanzitutto alle circostanze di cui lo Stato in questione era o
doveva essere a conoscenza al momento dell’allontanamento.
ii. Applicazione nel caso di specie
122.La Corte ha già avuto modo di riconoscere che gli Stati situati alle
frontiere esterne dell’Unione europea incontrano attualmente notevoli
difficoltà nel far fronte ad un crescente flusso di migranti e di richiedenti
asilo. Essa non può sottovalutare il peso e la pressione imposti sui paesi
interessati da questa situazione, tanto più pesanti in quanto inseriti in un
contesto di crisi economica (si veda M.S.S. c. Belgio e Grecia [GC], n.
30696/09, § 223, 21 gennaio 2011). In particolare, essa è consapevole delle
difficoltà legate al fenomeno delle migrazioni marittime, causa per gli Stati di
ulteriori complicazioni nel controllo delle frontiere meridionali dell’Europa.
Tuttavia, stante l’assolutezza dei diritti sanciti dall’articolo 3, ciò non può
esonerare uno Stato dagli obblighi derivanti da tale disposizione.
123.La Corte ricorda che la tutela dai trattamenti proibiti dall’articolo 3
impone ad uno Stato l’obbligo di non allontanare una persona quando questa
corra nello Stato di destinazione il rischio reale di essere sottoposta a quei
trattamenti.
Essa constata che i numerosi rapporti di organi internazionali e di
organizzazioni non governative descrivono una situazione preoccupante
quanto al trattamento riservato in Libia agli immigrati clandestini all’epoca
dei fatti. Le conclusioni di detti documenti sono del resto corroborate dal
rapporto del CPT del 28 aprile 2010 (paragrafo 35 supra).
124.La Corte osserva tra l’altro che la situazione in Libia si è successivamente
deteriorata, dopo la chiusura dell’ufficio dell’HCR di Tripoli, nell’aprile 2010, e
dopo la rivolta popolare scoppiata nel paese nel febbraio 2011. Tuttavia, ai
fini dell’esame della presente causa, essa farà riferimento alla situazione
prevalente in quel paese all’epoca dei fatti.
125.Stando ai diversi rapporti summenzionati, durante il periodo in questione
in Libia non veniva rispettata nessuna norma di tutela dei rifugiati; tutte le
persone entrate nel paese con mezzi irregolari erano considerate clandestine,
senza alcuna distinzione tra i migranti irregolari e i richiedenti asilo. Di
conseguenza, esse erano sistematicamente arrestate e detenute in condizioni
che i visitatori esterni, quali le delegazioni dell’HCR, di Human Rights Watch e
di Amnesty International, non esitano a definire inumane. Numerosi casi di
tortura, di cattive condizioni igieniche e di assenza di cure mediche
appropriate sono stati denunciati da tutti quanti gli osservatori. I clandestini
rischiavano in qualsiasi momento di essere respinti verso il paese di origine e,
quando riuscivano a ritrovare la libertà, erano esposti a condizioni di vita
particolarmente precarie a causa della loro situazione irregolare. Gli
immigrati irregolari, come i ricorrenti, erano destinati ad occupare nella
società libica una posizione marginale ed isolata, che li rendeva
estremamente vulnerabili agli atti xenofobi e razzisti (paragrafi 35-41 supra).
126.Ora, stando a quegli stessi rapporti, i migranti clandestini sbarcati in Libia
dopo l’intercettazione in alto mare da parte dell’Italia, quali i ricorrenti, non
sfuggivano a questi rischi.
127.Di fronte al preoccupante quadro dipinto dalle diverse organizzazioni
internazionali, il governo convenuto sostiene che la Libia era, all’epoca dei
fatti, un luogo di destinazione «sicuro» per i migranti intercettati in alto
mare.
Esso fonda la sua convinzione sulla presunzione che la Libia avrebbe
rispettato gli impegni internazionali in materia di asilo e di tutela dei rifugiati,
compreso il principio di non respingimento. Sostiene che il Trattato di
amicizia italo-libico del 2008, in virtù del quale sono stati effettuati i
respingimenti di clandestini, prevedeva espressamente il rispetto delle
disposizioni di diritto internazionale in materia di tutela dei diritti dell’uomo,
così come delle altre convenzioni internazionali alle quali la Libia era parte.
128.Al riguardo, la Corte osserva che il mancato rispetto da parte della Libia
degli obblighi internazionali era una delle realtà denunciate dai rapporti
internazionali riguardanti quel paese. Ad ogni modo, la Corte si sente in
dovere di rammentare che l’esistenza di testi interni e la ratifica di trattati
internazionali che sanciscono il rispetto dei diritti fondamentali non sono
sufficienti, da soli, a garantire un’adeguata tutela dal rischio di
maltrattamenti quando, come nella fattispecie, fonti affidabili rappresentino
prassi delle autorità – o da queste tollerate – manifestamente contrarie ai
principi della Convenzione (si vedano M.S.S., sopra citata, § 353 e, mutatis
mutandis, Saadi, sopra citata, § 147).
129.D’altra parte, la Corte osserva che l’Italia non può liberarsi della sua
responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la
Libia. Infatti, anche ammesso che tali accordi prevedessero espressamente il
respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare, gli Stati membri
rimangono responsabili anche quando, successivamente all’entrata in vigore
della Convenzione e dei suoi Protocolli nei loro confronti, essi abbiano
assunto impegni derivanti da trattati (PrincipeHans-Adam II di Liechtenstein c.
Germania [GC], n. 42527/98, §47, CEDU 2001-VIII; e Al-Saadoon e Mufdhi c.
Regno Unito, n.61498/08, § 128, 2 marzo 2010).
130.Quanto all’argomentazione del Governo relativa alla presenza di un
ufficio dell’HCR a Tripoli, è necessario constatare che l’attività dell’Alto
Commissariato, persino prima della sua cessazione definitiva nell’aprile 2010,
non ha mai beneficiato della benché minima forma di riconoscimento da
parte del governo libico. Dai documenti esaminati dalla Corte emerge che lo
status di rifugiato riconosciuto dall’HCR non garantiva alcuna forma di tutela
agli interessati in Libia.
131.La Corte osserva ancora una volta che quella realtà era nota e facile da
verificare a partire da molteplici fonti. Pertanto, a suo avviso, al momento di
allontanare i ricorrenti, le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che
questi, in quanto migranti irregolari, sarebbero stati esposti in Libia a
trattamenti contrari alla Convenzione e non avrebbero potuto accedere ad
alcuna forma di tutela in quel paese.
132.Secondo il Governo, i ricorrenti non hanno rappresentato in modo
sufficientemente esplicito i rischi corsi in Libia, non avendo chiesto asilo
presso le autorità italiane. Il semplice fatto che essi si siano opposti ad essere
sbarcati sulle coste libiche non può, a suo dire, essere considerato una
domanda di tutela suscettibile di comportare per l’Italia un obbligo in virtù
dell’articolo 3 della Convenzione.
133.La Corte osserva innanzitutto che questa circostanza è contestata dagli
interessati, i quali hanno affermato di avere comunicato ai militari italiani
l’intenzione di chiedere una tutela internazionale. Del resto, la versione dei
ricorrenti è corroborata dalle numerose testimonianze raccolte dall’HCR e da
Human Rights Watch. Comunque sia, secondo la Corte, spettava alle autorità
nazionali, di fronte ad una situazione di mancato rispetto sistematico dei
diritti dell’uomo quale quella sopra descritta, informarsi sul trattamento al
quale i ricorrenti sarebbero stati esposti dopo il respingimento (si vedano,
mutatis mutandis, Chahal c. Regno Unito, sopra citata, §§ 104 e 105;Jabari,
sopra citata, §§ 40 e 41; e M.S.S., sopra citata, §359). Il fatto che gli
interessati abbiano omesso di chiedere espressamente asilo, tenuto conto
delle circostanze del caso, non dispensava l’Italia dal rispettare gli obblighi
derivanti dall’articolo 3.
134.Al riguardo, la Corte osserva che nessuna delle disposizioni di diritto
internazionale citate dal Governo giustificava il rinvio dei ricorrenti verso la
Libia, nella misura in cui tanto le norme in materia di soccorso alle persone in
mare quanto quelle relative al contrasto alla tratta di esseri umani
impongono agli Stati il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto
internazionale in materia di rifugiati, tra i quali il «principio di non
respingimento» (paragrafo 23 supra).
135.Il principio di non respingimento è sancito anche dall’articolo 19 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Al riguardo, la Corte
attribuisce un peso particolare al contenuto della lettera scritta il 15 maggio
2009 dal sig. Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea,
nella quale questi ribadisce l’importanza del rispetto del principio di non
respingimento nell’ambito di operazioni condotte in alto mare dagli Stati
membri dell’Unione europea (paragrafo 34 supra).
136.Alla luce di quanto precede, ad avviso della Corte, nel caso di specie, fatti
seri ed accertati permettono di concludere per l’esistenza di un rischio reale
per gli interessati di subire in Libia trattamenti contrari all’articolo 3. La
circostanza secondo la quale numerosi immigrati irregolari in Libia si
trovavano nella stessa situazione dei ricorrenti non cambia in alcun modo la
natura individuale del rischio denunciato, risultando questo sufficientemente
concreto e probabile (si veda, mutatis mutandis, Saadi, sopra citata, § 132).
137.Basandosi su queste conclusioni e sui doveri derivanti per gli Stati
dall’articolo 3, la Corte ritiene che, trasferendo i ricorrenti verso la Libia, le
autorità italiane li abbiano esposti con piena cognizione di causa a
trattamenti contrari alla Convenzione.
138.Pertanto, è opportuno rigettare l’eccezione del Governo relativa al
difetto della qualità di vittima dei ricorrenti e concludere che vi è stata
violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
B. Sulla dedotta violazione dell’articolo 3 della Convenzione per il fatto che i
ricorrenti sono stati esposti al rischio di essere rimpatriati arbitrariamente in
Eritrea e in Somalia
1. Tesi delle parti
32. I ricorrenti
139. I ricorrenti sostengono che il loro trasferimento verso la Libia, dove i
rifugiati e i richiedenti asilo non beneficiano di alcuna forma di protezione, li
ha esposti al rischio di essere respinti verso i loro rispettivi Paesi di origine, la
Somalia e l’Eritrea. Fanno valere che vari rapporti provenienti da fonti
internazionali affermano l’esistenza di condizioni contrarie ai diritti umani in
questi due Paesi.
140. I ricorrenti, che sono fuggiti dai loro rispettivi Paesi, sostengono di
essere stati privati di ogni possibilità di ottenere una protezione
internazionale. Il fatto che la maggioranza di essi abbia ottenuto lo status di
rifugiato successivamente al loro arrivo in Libia confermerebbe che i loro
timori di maltrattamenti erano fondati. Essi ritengono che, benché lo status
di rifugiato accordato dall’ufficio dell’HCR di Tripoli non abbia alcun valore
per le autorità libiche, il fatto che tale status sia stato accordato dimostra che
il gruppo di migranti di cui facevano parte necessitava di una protezione
internazionale.
33. Il Governo
141. Il Governo fa osservare che la Libia era firmataria di vari strumenti
internazionali di tutela dei diritti umani e ricorda che, ratificando il Trattato di
amicizia del 2008, essa si era espressamente impegnata a rispettare i principi
iscritti nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’Uomo.
142. Esso riafferma che la presenza dell’HCR in Libia costituiva una garanzia
del fatto che nessuna persona avente diritto all’asilo o ad altra forma di
protezione internazionale venisse espulsa arbitrariamente. Sostiene che a un
numero importante di ricorrenti è stato accordato lo status di rifugiato in
Libia, il che permetterebbe di escluderne il rimpatrio.
34. I terzi intervenienti
143. L’HCR afferma che la Libia ha frequentemente proceduto al rinvio
collettivo di rifugiati e di richiedenti asilo verso il loro Paese di origine, dove
potevano essere sottoposti a tortura e ad altri maltrattamenti. Denuncia
l’assenza di un sistema di protezione internazionale in Libia, il che
condurrebbe a un rischio molto elevato di «respingimenti a catena» di
persone che necessitano di tutela.
L’Alto Commissariato, così come Human Rights Watch e Amnesty
International, sostengono che vi è il rischio, per gli individui rimpatriati con la
forza in Eritrea e in Somalia, di essere sottoposti a tortura e a trattamenti
inumani e di essere esposti a condizioni di vita estremamente precarie.
144. Il Centro AIRE, Amnesty International e la FIDH affermano che,
considerata la particolare vulnerabilità dei richiedenti asilo e delle persone
intercettate in mare, e data la mancanza di garanzie o procedure adeguate a
bordo delle navi che permettano di contestare i rinvii, è ancora più
imperativo per le Parti contraenti coinvolte in operazioni di rinvio verificare la
situazione reale negli Stati di destinazione, ivi compresa l’esistenza del rischio
di un successivo respingimento.
2. Valutazione della Corte
1. Sulla ricevibilità
145. La Corte ritiene che questo motivo di ricorso sollevi questioni di
fatto e di diritto complesse che possono essere risolte solo dopo un
esame sul merito. Di conseguenza, questa parte del ricorso non è
manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della
Convenzione. Poiché non è stato rilevato nessun altro motivo di
irricevibilità, essa deve essere dichiarata ricevibile.
2. Sul merito
146. La Corte ricorda il principio secondo il quale il respingimento
indiretto di uno straniero lascia inalterata la responsabilità dello Stato
contraente, il quale è tenuto, conformemente a una giurisprudenza
consolidata, a vigilare a che l’interessato non sia esposto a un rischio
reale di subire trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione in
caso di rimpatrio (si vedano, mutatis mutandis, T.I. c. Regno Unito
(dec.), n. 43844/98, CEDU 2000-III, e M.S.S., sopra citata, § 342).
147. È lo Stato che procede al respingimento a doversi assicurare che
il Paese intermedio offra garanzie sufficienti che permettano di
evitare che la persona interessata venga espulsa verso il suo Paese di
origine senza valutare il rischio cui va incontro. La Corte osserva che
tale obbligo è ancora più importante quando, come nel caso di specie,
il Paese intermedio non è uno Stato parte alla Convenzione.
148. Nella presente causa, il compito della Corte non consiste nel
pronunciarsi sulla violazione della Convenzione in caso di rimpatrio
dei ricorrenti, ma nel verificare se esistessero garanzie tali da
permettere di evitare che gli interessati fossero sottoposti a un
respingimento arbitrario verso il loro Paese di origine, dal momento
che gli stessi potevano far valere in maniera difendibile che un loro
eventuale rimpatrio avrebbe costituito una violazione dell’articolo 3
della Convenzione.
149. La Corte dispone di un certo numero di informazioni sulla
situazione generale in Eritrea e in Somalia, Paesi di origine dei
ricorrenti, prodotte dagli interessati e dai terzi intervenienti (paragrafi
43 e 44 supra).
150. Essa osserva che, secondo l’HCR e Human Rights Watch, le
persone rimpatriate con la forza in Eritrea corrono il rischio di essere
sottoposte a tortura e detenute in condizioni inumane per il solo fatto
di aver lasciato irregolarmente il Paese. Quanto alla Somalia, nella
recente causa Sufi e Elmi (sopra citata), la Corte ha constatato la
gravità del livello di violenza raggiunto a Mogadiscio e il rischio
elevato, per le persone rinviate in questo Paese, di essere portate a
transitare nelle zone interessate dal conflitto armato o a cercare
rifugio nei campi per i profughi o per i rifugiati, in cui le condizioni di
vita sono disastrose.
151. La Corte ritiene che tutte le informazioni in suo possesso
mostrano che, prima facie, la situazione in Somalia e in Eritrea ha
posto e continua a porre gravi problemi di insicurezza generalizzata.
Peraltro, questa constatazione non è stata contestata dinanzi alla
Corte.
152. Di conseguenza i ricorrenti potevano, in maniera difendibile,
sostenere che il loro rimpatrio avrebbe costituito una violazione
dell’articolo 3 della Convenzione. Si tratta ora di stabilire se le autorità
italiane potessero ragionevolmente aspettarsi che la Libia presentasse
delle garanzie sufficienti contro i rimpatri arbitrari.
153. La Corte osserva anzitutto che la Libia non ha ratificato la
Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato. Inoltre, gli
osservatori internazionali sostengono che in tale Paese non vi è alcuna
forma di procedura di asilo e di tutela dei rifugiati. A tale riguardo, la
Corte ha già avuto l’occasione di constatare che la presenza dell’HCR a
Tripoli non è affatto una garanzia di tutela dei richiedenti asilo, a
causa dell’atteggiamento negativo delle autorità libiche, che non
riconoscono alcun valore allo status di rifugiato (paragrafo 130 supra).
154. In queste condizioni, la Corte non può sottoscrivere
all’argomentazione del Governo secondo cui l’azione dell’HCR
rappresenterebbe una garanzia contro i rimpatri arbitrari. Per di più,
Human Rights Watch e l’HCR hanno denunciato vari precedenti di
ritorno forzato di migranti irregolari verso Paesi a rischio, migranti tra
i quali vi erano richiedenti asilo e rifugiati.
155. Pertanto, il fatto che alcuni dei ricorrenti abbiano ottenuto lo
status di rifugiato non può rassicurare la Corte sul rischio di
respingimenti arbitrari. Al contrario, la corte condivide l’opinione dei
ricorrenti secondo cui ciò costituisce una prova supplementare della
vulnerabilità degli interessati.
156. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che, al momento di
trasferire i ricorrenti verso la Libia, le autorità italiane sapevano o
dovevano sapere che non esistevano garanzie sufficienti a tutelare gli
interessati dal rischio di essere rinviati arbitrariamente nei loro Paesi
di origine, tenuto conto in particolare dell’assenza di una procedura di
asilo e dell’impossibilità di far riconoscere da parte delle autorità
libiche lo status di rifugiato accordato dall’HCR.
157. Peraltro, la Corte riafferma che l’Italia non è dispensata dal
dovere di rispettare i propri obblighi derivanti dall’articolo 3 della
Convenzione per il fatto che i ricorrenti avrebbero omesso di chiedere
asilo o di esporre i rischi cui andavano incontro a causa dell’assenza di
un sistema di asilo in Libia. Essa ricorda ancora una volta erano le
autorità italiane a doversi informare sul modo in cui le autorità libiche
adempievano ai loro obblighi internazionali in materia di protezione
dei rifugiati.
158. Di conseguenza il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia ha
comportato anche una violazione dell’articolo 3 della Convenzione in
quanto li ha esposti al rischio di rimpatrio arbitrario.
IV. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 4 DEL PROTOCOLLO N. 4
159. I ricorrenti affermano di essere stati oggetto di una espulsione collettiva
priva di qualsiasi base legale. Invocano l’articolo 4 del Protocollo n. 4, che
recita:
«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate.»
1. Tesi delle parti
3. Il Governo
160. Il Governo eccepisce l’inapplicabilità dell’articolo 4 del Protocollo
n. 4 nel caso di specie. Ritiene che la garanzia offerta da tale
disposizione entra in gioco solo in caso di espulsione di persone che si
trovano sul territorio di uno Stato o che hanno attraversato
illegalmente la frontiera nazionale. Nella presente causa, la misura in
questione corrisponderebbe ad un rifiuto di autorizzare l’entrata nel
territorio nazionale piuttosto che a una «espulsione».
4. I ricorrenti
161. Pur ammettendo che l’uso del termine «espulsione» potrebbe
apparentemente costituire un ostacolo all’applicabilità di tale
disposizione, i ricorrenti affermano che un approccio evolutivo
dovrebbe portare la Corte a riconoscere l’applicabilità dell’articolo 4
del Protocollo n. 4 nella presente causa.
162. In particolare, i ricorrenti propendono per una interpretazione
funzionale e teleologica di tale disposizione. Secondo loro, lo scopo
essenziale del divieto delle espulsioni collettive è quello di impedire
agli Stati di procedere al trasferimento forzato di un gruppo di
stranieri verso un altro Stato senza esaminare, fosse anche in maniera
sommaria, la loro situazione individuale. In questa ottica, un simile
divieto dovrebbe applicarsi anche alle misure di allontanamento dei
migranti in alto mare, eseguite senza alcun atto formale preliminare,
in quanto dette misure potrebbero costituire delle «espulsioni
mascherate». Una interpretazione teleologica ed «extraterritoriale» di
questa disposizione produrrebbe l’effetto di renderla concreta ed
effettiva e non teorica ed illusoria.
163. Secondo i ricorrenti, anche a voler supporre che la Corte decida
di conferire una portata strettamente territoriale al divieto stabilito
dall’articolo 4 del Protocollo n. 4, il loro respingimento verso la Libia
rientrerebbe in ogni caso nel campo di applicazione di tale articolo in
quanto è avvenuto da una nave battente bandiera italiana, assimilata
dall’articolo 4 del codice italiano della navigazione al «territorio
italiano».
Il loro respingimento verso la Libia, eseguito senza averli
precedentemente identificati e in assenza di un esame della
situazione personale di ciascuno di essi, avrebbe costituito, in
sostanza, una misura di allontanamento collettivo.
5. I terzi intervenienti
164. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani
(HCDH), così come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (HCR) (paragrafo 7 supra), sostiene che l’articolo 4 del
Protocollo n. 4 è applicabile al caso di specie. Ritiene che la questione
è cruciale, tenuto conto delle ripercussioni importanti che una
interpretazione estensiva di questa disposizione potrebbe avere nel
campo delle migrazioni internazionali.
Dopo aver ricordato che le espulsioni collettive di stranieri, ivi
compresi quelli in situazione irregolare, sono vietate in maniera
generale dal diritto internazionale e comunitario, l’HCDH afferma che
le persone intercettate in mare devono poter beneficiare di una
protezione contro questo tipo di espulsioni, anche quando non sono
riuscite a raggiungere la frontiera di uno Stato.
Le espulsioni collettive praticate in alto mare sono vietate rispetto al
principio della buona fede, alla luce del quale devono essere
interpretate le disposizioni delle convenzioni. Permettere agli Stati di
rinviare i migranti intercettati in alto mare senza rispettare la garanzia
sancita dall’articolo 4 del Protocollo n. 4 significherebbe accettare che
gli Stati si liberino dai loro obblighi derivanti da convenzioni con il
pretesto delle operazioni di controllo alle frontiere.
Inoltre, riconoscere l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione di
uno Stato contraente per fatti avvenuti in alto mare comporterebbe
secondo l’HCDH una presunzione di applicabilità di tutti i diritti sanciti
dalla Convenzione e dai suoi Protocolli.
165. La Columbia Law School Human Rights Clinic ricorda l’importanza
delle garanzie processuali nel campo della tutela dei diritti dei
rifugiati. Gli Stati avrebbero il dovere di esaminare la situazione di
ciascun individuo caso per caso, allo scopo di garantire una tutela
efficace dei diritti fondamentali delle persone interessate e di evitare
di procedere al loro allontanamento quando vi è il rischio di un
pregiudizio.
Essa ritiene che l’immigrazione clandestina via mare non sia un
fenomeno nuovo, ma che la comunità internazionale riconosca
sempre più la necessità di fissare dei limiti alle pratiche degli Stati in
materia di controllo dell’immigrazione, ivi compresa l’intercettazione
in mare. Il principio di non respingimento esigerebbe dagli Stati che
essi si astengano dall’allontanare delle persone senza aver valutato la
loro situazione caso per caso.
Così, vari organi delle Nazioni Unite, come il Comitato contro la
tortura, avrebbero chiaramente dichiarato che tali pratiche
rischiavano di violare le norme internazionali in materia di diritti
dell’uomo e avrebbero sottolineato l’importanza dell’identificazione e
della valutazione individuali per prevenire i rinvii a rischio. La
Commissione interamericana dei diritti dell’uomo avrebbe
riconosciuto l’importanza di queste garanzie processuali nella causa
The Haitian Center for Human Rights et al. v. United States (causa n.
10.675, rapporto n. 51/96, § 163), nella quale avrebbe espresso il
parere che gli Stati Uniti avevano rinviato in maniera inaccettabile dei
migranti haïtiani intercettati in alto mare senza aver proceduto ad
un’adeguata determinazione del loro status né averli sentiti allo scopo
di verificare se potessero rivendicare lo status di rifugiato. Tale
decisione sarebbe tanto più importante in quanto contraddirebbe la
posizione adottata precedentemente dalla Corte suprema degli Stati
Uniti nella causa Sale v. Haitian Centers Council (113 S.Ct, 2549, 1993).
2. Valutazione della Corte
6. Sulla ricevibilità
166. La Corte deve anzitutto esaminare la questione dell’applicabilità
dell’articolo 4 del Protocollo n. 4. Nella causa Henning Becker c.
Danimarca (n. 7011/75, decisione del 3 ottobre 1975), relativa al
rimpatrio di un gruppo di circa duecento bambini vietnamiti da parte
delle autorità danesi, la Commissione ha definito, per la prima volta,
l’«espulsione collettiva di stranieri» come «qualsiasi misura
dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto
gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga
adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo
della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che
compongono il gruppo».
167. In seguito, questa definizione è stata utilizzata dagli organi della
Convenzione nelle altre cause relative all’articolo 4 del Protocollo n. 4.
La Corte osserva che la maggior parte di esse riguardava persone che
si trovavano sul territorio dello Stato interessato (K.G. c. Repubblica
Federale di Germania, n. 7704/76, decisione della Commissione del 1º
marzo 1977; O. e altri c. Lussemburgo, n. 7757/77, decisione della
Commissione del 3 marzo 1978; A. e altri c. Paesi Bassi, n. 14209/88,
decisione della Commissione del 16 dicembre 1988; Andric c. Svezia
(dec.), n. 45917/99, 23 febbraio 1999; Čonka c. Belgio, n. 51564/99,
CEDU 2002-I; Davydov c. Estonia (dec.), n. 16387/03, 31 maggio 2005;
Berisha e Haljiti c. ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n.
18670/03, decisione del 16 giugno 2005; Sultani c. Francia, n.
45223/05, CEDU 2007-X; Ghulami c. Francia (dec.), n. 45302/05, 7
aprile 2009; e Dritsas c. Italia (dec.), n. 2344/02, 1º febbraio 2011).
168. La causa Xhavara e altri c. Italia e Albania ((dec.), n. 39473/98, 11
gennaio 2001), riguardava invece dei cittadini albanesi che avevano
tentato di entrare clandestinamente in Italia a bordo di una
imbarcazione albanese e che erano stati intercettati da una nave da
guerra italiana a circa 35 miglia marine dalle coste italiane. La nave
italiana aveva cercato di impedire agli interessati di sbarcare sulle
coste nazionali, provocando il decesso di cinquantotto persone, tra cui
i genitori dei ricorrenti, in seguito a una collisione. In quest’ultima
causa, i ricorrenti contestavano in particolare il decreto-legge n. 60
del 1997, che prevedeva l’espulsione immediata degli stranieri
irregolari, misura contro la quale poteva essere presentato solo un
ricorso non sospensivo. Essi vedevano in ciò una inosservanza della
garanzia offerta dall’articolo 4 del Protocollo n. 4. La Corte ha
rigettato questo motivo di ricorso per incompatibilità ratione
personae, in quanto la disposizione interna contestata non era stata
applicata alla loro causa, e non si è pronunciata sull’applicabilità
dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 al caso di specie.
169. Pertanto, nella presente causa, la Corte è chiamata per la prima
volta a esaminare la questione dell’applicabilità dell’articolo 4 del
Protocollo n. 4 a un caso di allontanamento di stranieri verso uno
Stato terzo effettuato fuori dal territorio nazionale. Si tratta di
stabilire se il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia abbia costituito
una «espulsione collettiva di stranieri» ai sensi della disposizione in
questione.
170. Per interpretare le disposizioni delle convenzioni, la Corte si
ispira agli articoli 31 - 33 della Convenzione di Vienna sui diritti dei
trattati (si veda, ad esempio, Golder c. Regno Unito, 21 febbraio 1975,
§ 29, serie A n. 18; Demir e Baykara c. Turchia [GC], n. 34503/97, § 65,
12 novembre 2008; e Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, § 62, 29
gennaio 2008).
171. In applicazione della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati, la Corte deve stabilire il senso comune da attribuire ai termini
nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e dello scopo della
disposizione da cui sono tratti. Deve tenere conto del fatto che la
disposizione in questione fa parte di un trattato per la protezione
effettiva dei diritti dell’uomo e che la Convenzione deve essere vista
come un insieme ed essere interpretata in modo da promuovere la
propria coerenza interna e l’armonia tra le sue varie disposizioni (Stec
e altri c. Regno Unito (dec.) [GC], nn. 65731/01 e 65900/01, § 48,
CEDU 2005-X). La Corte deve anche prendere in considerazione tutte
le norme e i principi di diritto internazionale applicabili ai rapporti tra
le Parti contraenti (Al-Adsani c. Regno Unito[GC], n. 35763/97, § 55,
CEDU 2001-XI; e Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim
Şirketi (Bosphorus Airways) c. Irlanda [GC], n. 45036/98, § 150, CEDU
2005-VI; si veda anche l’articolo 31 § 3 c) della Convenzione di
Vienna). La Corte può anche fare appello a dei mezzi complementari
di interpretazione, in particolare ai lavori preparatori della
Convenzione, per confermare un senso determinato conformemente
ai metodi sopra indicati o per chiarirne il significato quando esso
sarebbe altrimenti ambiguo, oscuro o manifestamente assurdo e
irragionevole (articolo 32 della Convenzione di Vienna).
172. Il Governo considera che un ostacolo logico si oppone
all’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla presente causa,
ossia il fatto che i ricorrenti non si trovavano sul territorio nazionale al
momento del loro trasferimento verso la Libia. Di conseguenza, tale
misura non può, secondo il Governo, essere considerata una
«espulsione» nel senso comune del termine.
173. La Corte non condivide l’opinione del Governo su questo punto.
Essa osserva anzitutto che, se le cause esaminate finora riguardavano
persone che si trovavano già, a vario titolo, nel territorio del Paese
interessato, il contenuto dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 non ne
ostacola l’applicazione extraterritoriale. È opportuno osservare, in
effetti, che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 non contiene alcun
riferimento alla nozione di «territorio» mentre, al contrario, il testo
dell’articolo 3 dello stesso Protocollo evoca espressamente la portata
territoriale del divieto di espulsione dei cittadini. Parimenti, l’articolo
1 del Protocollo n. 7 si riferisce esplicitamente alla nozione di
territorio in materia di garanzie processuali in caso di espulsione di
stranieri residenti regolarmente nel territorio dello Stato. Secondo la
Corte, questo elemento testuale non può essere ignorato.
174. Quanto ai lavori preparatori, essi non sono espliciti con riguardo
al campo di applicazione e alla portata dell’articolo 4 del Protocollo n.
4. In ogni caso, dal rapporto esplicativo relativo al Protocollo n. 4,
redatto nel 1963, risulta che per il Comitato di esperti l’articolo 4
doveva formalmente vietare «le espulsioni collettive del tipo di quelle
avvenute in un passato recente». Perciò era «inteso che l’adozione
del presente articolo [dell’articolo 4] e dell’articolo 3, paragrafo 1, non
potrebbe in alcun modo essere interpretata nel senso di legittimare le
misure di espulsione collettiva adottate in passato». Nel commento al
progetto si può leggere che, secondo il Comitato di esperti, gli
stranieri ai quali l’articolo si riferisce non sono solo quelli che
risiedono regolarmente sul territorio, ma «tutti quelli che non hanno
un diritto attuale di cittadinanza nello Stato, senza distinguere né se
sono semplicemente di passaggio o se sono residenti o domiciliati, né
se sono rifugiati o se sono entrati nel Paese spontaneamente, né se
sono apolidi o possiedono una cittadinanza» (Articolo 4 del progetto
definitivo del Comitato, p. 505, § 34). Infine, per i redattori del
Protocollo n. 4, la parola «espulsione» doveva essere interpretata nel
senso generico ad essa riconosciuto dal linguaggio corrente (mandare
via da un luogo)». Benché quest’ultima definizione sia contenuta nella
sezione relativa all’articolo 3 del Protocollo, la Corte considera che
essa si possa applicare anche all’articolo 4 dello stesso Protocollo. Di
conseguenza nemmeno i lavori preparatori si oppongono ad una
applicazione extraterritoriale dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.
175. Rimane da stabilire se una tale applicazione sia giustificata. Per
rispondere a questa domanda, conviene tenere conto dello scopo e
del senso della disposizione in questione, che devono essi stessi
essere analizzati alla luce del principio, solidamente radicato nella
giurisprudenza della Corte, secondo il quale la Convenzione è uno
strumento vivo che deve essere interpretato alla luce delle condizioni
attuali (si veda, ad esempio, Soering, sopra citata, § 102; Dudgeon c.
Regno Unito, 22 ottobre 1981, serie A n. 45; X, Y e Z c. Regno Unito, 22
aprile 1997, Recueil 1997-II; V. c. Regno Unito [GC], n. 24888/94, § 72,
CEDU 1999-IX; e Matthews c. Regno Unito [GC], n. 24833/94, § 39,
CEDU 1999-I). Inoltre, è fondamentale che la Convenzione sia
interpretata e applicata in modo tale da rendere le garanzie in essa
contenute concrete ed effettive e non teoriche ed illusorie (Marckx c.
Belgio, 13 giugno 1979, § 41, serie A n. 31; Airey c. Irlanda, 9 ottobre
1979, § 26, serie A n. 32; Mamatkoulov e Askarov c. Turchia [GC], nn.
46827/99 e 46951/99, § 121, CEDU 2005-I; e Leyla Şahin c. Turchia
[GC], n. 44774/98, § 136, CEDU 2005-XI).
176. È trascorso molto tempo dalla redazione del Protocollo n. 4. Da
allora, i flussi migratori in Europa si sono incessantemente
intensificati, utilizzando sempre più la via marittima, tanto che
l’intercettazione di migranti in alto mare e il loro rinvio verso i Paesi di
transito o di origine fanno ormai parte del fenomeno migratorio, nella
misura in cui costituiscono per gli Stati dei mezzi di lotta contro
l’immigrazione irregolare.
Il contesto di crisi economica e i recenti mutamenti sociali e politici
che hanno interessato in particolare alcune regioni dell’Africa e del
Medio Oriente pongono gli Stati contraenti di fronte a nuove sfide nel
campo della gestione dell’immigrazione.
177. La Corte ha già osservato che, secondo la giurisprudenza
consolidata della Commissione e della Corte, lo scopo dell’articolo 4
del Protocollo n. 4 è evitare che gli Stati possano allontanare un certo
numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di
conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni
per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente.
Se dunque l’articolo 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto
alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale
degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni
migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione,
sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori
dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in
alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile
rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò
deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso
mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le
frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro
situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli
che sono partiti via terra.
178. Pertanto è chiaro che, così come la nozione di «giurisdizione» è
principalmente territoriale e si esercita presumibilmente nel territorio
nazionale degli Stati (paragrafo 71 supra), la nozione di espulsione è,
anch’essa, principalmente territoriale, nel senso che le espulsioni
avvengono nella maggior parte dei casi a partire dal territorio
nazionale. Tuttavia, laddove, come nel caso di specie, ha riconosciuto
che uno Stato contraente aveva esercitato, a titolo eccezionale, la
propria giurisdizione fuori dal suo territorio nazionale, la Corte non
vede ostacoli nell’accettare che l’esercizio della giurisdizione
extraterritoriale di tale Stato ha preso la forma di una espulsione
collettiva. Concludere diversamente, e accordare a quest’ultima
nozione una portata strettamente territoriale, provocherebbe una
distorsione tra il campo di applicazione della Convenzione in quanto
tale e quello dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, il che sarebbe contrario
al principio secondo cui la Convenzione deve interpretarsi nella sua
globalità. Del resto, per quanto riguarda l’esercizio da parte di uno
Stato della propria giurisdizione in alto mare, la Corte ha già affermato
che la specificità del contesto marittimo non può portare a sancire
uno spazio di non diritto all’interno del quale gli individui non
sarebbero soggetti ad alcun regime giuridico che possa accordare loro
il godimento dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione e
che gli Stati si sono impegnati a riconoscere alle persone poste sotto
la loro giurisdizione (Medvedyev e altri, sopra citata, § 81).
179. Le considerazioni sopra esposte non rimettono in discussione il
diritto di cui dispongono gli Stati di stabilire sovranamente le loro
politiche di immigrazione. È tuttavia importante sottolineare che le
difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il
ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili
con i loro obblighi derivanti da convenzioni. La Corte riafferma a
questo proposito che l’interpretazione delle norme di convenzioni
deve essere fatta con riguardo al principio della buona fede e
all’oggetto e allo scopo del trattato, nonché della regola dell’effetto
utile (Mamatkulov e Askarov, sopra citata, § 123).
180. Tenuto conto di quanto precede, la Corte considera che gli
allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in
alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei
pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di
raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso
un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai
sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità
dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.
181. Nella fattispecie, la Corte ritiene che l’operazione che ha portato
al trasferimento dei ricorrenti verso la Libia è stata condotta dalle
autorità italiane allo scopo di impedire gli sbarchi di migranti irregolari
sulle coste nazionali. A questo riguardo, attribuisce un peso
particolare alle dichiarazioni rilasciate dopo i fatti dal ministro
dell’Interno alla stampa nazionale e al Senato della Repubblica, con le
quali ha spiegato l’importanza dei rinvii in alto mare per la lotta
contro l’immigrazione clandestina e ha sottolineato la riduzione
importante del numero degli sbarchi dovuta alle operazioni condotte
durante il mese di maggio 2009 (paragrafo 13 supra).
182. Pertanto, la Corte rigetta l’eccezione del Governo e considera
che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 sia applicabile nel caso di specie.
7. Sul merito
183. La Corte osserva che, a tutt’oggi, la causa Čonka (sentenza sopra
citata) è l’unica in cui ha constatato una violazione dell’articolo 4 del
Protocollo n. 4. Nell’esame di tale causa, al fine di valutare l’esistenza
di una espulsione collettiva, essa ha esaminato le circostanze del caso
di specie e verificato se le decisioni di allontanamento avessero preso
in considerazione la situazione particolare degli individui interessati.
La Corte ha allora dichiarato (§§ 61-63):
«La Corte osserva tuttavia che le misure di detenzione e di
allontanamento in questione sono state adottate in esecuzione di un
ordine di lasciare il territorio emesso il 29 settembre 1999, che era
fondato soltanto sull’articolo 7, comma 1, 2o, della legge sugli
stranieri, senza altri riferimenti alla situazione personale degli
interessati a parte il fatto che la durata del loro soggiorno in Belgio
era superiore a tre mesi. In particolare, il documento non faceva alcun
riferimento alla domanda di asilo dei ricorrenti né alle decisioni del 3
marzo e del 18 giugno 1999 intervenute in materia. Certamente, tali
decisioni erano, anch’esse, accompagnate da un ordine di lasciare il
territorio ma, di per sé, quest’ultimo non autorizzava l’arresto dei
ricorrenti. Tale arresto è stato dunque ordinato per la prima volta con
una decisione in data 29 settembre 1999, su una base legale diversa
dalla loro domanda di asilo, ma sufficiente comunque per
determinare l’esecuzione delle misure contestate. In queste
condizioni, e alla luce delle numerosissime persone della stessa
origine che hanno conosciuto la stessa sorte dei ricorrenti, la Corte
ritiene che l’iter seguito non sia di natura tale da escludere qualsiasi
dubbio sul carattere collettivo dell’espulsione contestata.
Tali dubbi sono rafforzati da un insieme di circostanze quali il fatto
che precedentemente all’operazione controversa le istituzioni
politiche responsabili avevano annunciato delle operazioni di questo
tipo e dato istruzioni all’amministrazione competente ai fini della loro
realizzazione (...); che tutti gli interessati sono stati convocati
simultaneamente al commissariato; che gli ordini di lasciare il
territorio e di arresto che sono stati loro consegnati presentavano un
contenuto identico; che era difficile per gli interessati contrattare un
avvocato; che, infine, la procedura di asilo non si era ancora conclusa.
In sintesi, in nessuno stadio del periodo che va dalla convocazione
degli interessati al commissariato fino alla loro espulsione, la
procedura seguita offriva garanzie sufficienti che attestassero che la
situazione individuale di ciascuna delle persone interessate era stata
presa in considerazione in modo reale e differenziato.»
184. Nella loro giurisprudenza, gli organi della Convenzione hanno
peraltro precisato che il fatto che vari stranieri siano oggetto di
decisioni simili non permette, di per sé, di concludere per l’esistenza
di una espulsione collettiva quando ciascun interessato ha potuto
esporre individualmente dinanzi alle autorità competenti gli
argomenti che si opponevano alla sua espulsione (K.G. c. Repubblica
Federale di Germania, decisione sopra citata; Andric, decisione sopra
citata; Sultani, sopra citata, § 81). Infine, la Corte ha stabilito che non
vi è violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 se l’assenza di una
decisione individuale di allontanamento è causata dal
comportamento colpevole delle persone interessate (Berisha e Haljiti,
decisione già citata, e Dritsas, decisione già citata).
185. Nella fattispecie, la Corte non può che constatare che il
trasferimento dei ricorrenti verso la Libia è stato eseguito in assenza
di qualsiasi forma di esame della situazione individuale di ciascun
ricorrente. È indubbio che i ricorrenti non sono stati oggetto di alcuna
procedura di identificazione da parte delle autorità italiane, che si
sono limitate a far salire tutti i migranti intercettati sulle navi militari e
a sbarcarli sulle coste libiche. Inoltre, la Corte osserva che il personale
a bordo delle navi militari non aveva la formazione necessaria per
condurre colloqui individuali e non era assistito da interpreti e
consulenti giuridici.
Questo basta alla Corte per escludere l’esistenza di garanzie sufficienti
che attestino che la situazione individuale di ciascuna delle persone
interessate è stata presa in considerazione in maniera reale e
differenziata.
186. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che
l’allontanamento dei ricorrenti ha avuto un carattere collettivo
contrario all’articolo 4 del Protocollo n. 4. Pertanto, vi è stata
violazione di tale disposizione.
VI. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 13 COMBINATO CON GLI
ARTICOLI 3 DELLA CONVENZIONE E 4 DEL PROTOCOLLO N. 4
187.I ricorrenti lamentano di non aver beneficiato nel diritto italiano di un
ricorso effettivo per formulare le loro doglianze in base agli articoli 3 della
Convenzione e 4 del Protocollo n. 4. Invocano l’articolo 13 della Convenzione,
così formulato:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente
Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a
un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da
persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
1.Tesi delle parti
8. I ricorrenti
188.I ricorrenti affermano che le intercettazioni di persone in alto
mare condotte dall’Italia non sono previste dalla legge e sono
sottratte ad ogni controllo di legalità da parte di un’autorità
nazionale. Per questa ragione sarebbero stati privati di qualsiasi
possibilità di presentare un ricorso contro il loro respingimento in
Libia e di dedurre la violazione degli articoli 3 della Convenzione e 4
del Protocollo no 4.
189.Gli interessati sostengono che le autorità italiane non hanno
rispettato nessuna delle esigenze di effettività dei ricorsi previsti dalla
giurisprudenza della Corte, non avrebbero neanche identificato i
migranti intercettati e avrebbero ignorato le loro richieste di
protezione. Peraltro, pur supponendo che i migranti abbiano avuto la
possibilità di rivolgersi ai militari per richiedere asilo, non avrebbero
potuto beneficiare delle garanzie procedurali previste dalla legge
italiana, quali l’accesso ad un giudice, per la semplice ragione che si
trovavano a bordo di navi.
190.I ricorrenti ritengono che l’esercizio della sovranità territoriale in
materia di politica dell’immigrazione non deve in alcun caso
comportare il mancato rispetto degli obblighi che la Convenzione
impone agli Stati, fra i quali figura quello di garantire ad ogni persona
sottoposta alla loro giurisdizione il diritto ad un ricorso effettivo
innanzi ad una istanza nazionale.
9. Il Governo
191.Il Governo dichiara che le circostanze del caso di specie, dal
momento che si sono svolte a bordo di navi, non permettevano di
garantire ai ricorrenti il diritto d’accesso ad una istanza nazionale.
192.Nel corso dell’udienza innanzi alla Grande Camera, il Governo ha
sostenuto che i ricorrenti si sarebbero dovuti rivolgere ai giudici
nazionali per ottenere il riconoscimento e, eventualmente, la
correzione delle lamentate violazioni della Convenzione. Secondo il
Governo il sistema giudiziario nazionale avrebbe permesso di
constatare l’eventuale responsabilità dei militari che hanno soccorso i
ricorrenti, sia rispetto al diritto nazionale che al diritto internazionale.
Il Governo conferma che i ricorrenti ai quali l’HCR ha riconosciuto lo
status di rifugiati hanno la possibilità di entrare in qualsiasi momento
in territorio italiano e di esercitare i loro diritti convenzionali, ivi
compreso quello di adire le autorità giudiziarie.
10. I terzi intervenienti
193.L’HCR afferma che il principio di non respingimento implica per gli
Stati alcuni obblighi procedurali. Peraltro, il diritto di accesso ad una
procedura di asilo effettiva e rapida da parte di una autorità
competente sarebbe ancor più cruciale in quanto si tratta di flussi
migratori "misti", nell’ambito dei quali i potenziali richiedenti asilo
devono essere individuati e distinti dagli altri migranti.
194.Le Centre de conseil sur les droits de l’individu en Europe (Centre
AIRE), Amnesty International e la Federazione internazionale dei diritti
umani ritengono che gli individui respinti dopo una intercettazione in
alto mare non abbiano accesso ad alcun ricorso nello Stato contraente
responsabile dell’operazione, e ancor meno ad una via di ricorso che
possa soddisfare le esigenze dell’articolo 13. Gli interessati non
disporrebbero di alcuna adeguata possibilità né dei sostegni necessari,
in particolare dell’assistenza di un interprete, che permetterebbero
loro di esporre le ragioni che militano contro il respingimento, senza
parlare di un esame il cui rigore soddisfi le esigenze della
Convenzione. Le parti intervenienti ritengono che, quando le Parti
contraenti alla Convenzione sono coinvolte in intercettazioni in mare
e si concludono con un respingimento, spetti a loro assicurarsi che
ciascuna persona interessata disponga di una effettiva possibilità per
contestare il suo rinvio alla luce dei diritti garantiti dalla Convenzione
e per ottenere un esame della sua richiesta prima che venga eseguito
il respingimento.
Le parti intervenienti ritengono che la mancanza di un ricorso che
permetta di identificare i ricorrenti e valutare individualmente le loro
richieste di protezione e i loro bisogni costituisca una grave omissione,
come pure la mancanza di qualsiasi controllo successivo per accertarsi
della sorte delle persone rinviate.
195.La Columbia Law School Human Rights Clinic sostiene che il diritto
internazionale dei diritti dell’uomo e dei rifugiati esige innanzitutto
che lo Stato informi i migranti del loro diritto alla protezione. Il dovere
d’informazione sarebbe indispensabile per rendere effettivo l’obbligo
dello Stato di identificare le persone che, fra gli individui intercettati,
hanno bisogno di una protezione internazionale. Questo dovere
sarebbe particolarmente importante in caso di intercettazione in
mare in quanto le persone interessate raramente conoscerebbero il
diritto nazionale e non avrebbero accesso ad un interprete o a un
legale. In seguito, ogni persona dovrebbe essere ascoltata dalle
autorità nazionali e ottenere una decisione individuale relativamente
alla sua richiesta.
2.Valutazione della Corte
1. Sulla ricevibilità
196.La Corte ricorda di aver unito all’esame sul merito dei
motivi di ricorso basati sull’articolo 13 l’eccezione di mancato
esaurimento delle vie di ricorso interne sollevata dal Governo
durante l’udienza innanzi alla Grande Camera (paragrafo 62
supra). Peraltro, la Corte ritiene che questa parte di ricorso
ponga complesse questioni di fatto e di diritto che possono
essere definite solo dopo un esame sul merito; ne consegue
che essa non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo
35 § 3 a) della Convenzione. Non essendo stato rilevato nessun
altro motivo di irricevibilità, deve essere dichiarata ricevibile.
2. Sul merito
i. I principi generali
197.L’articolo 13 della Convenzione garantisce l’esistenza in
diritto interno di un ricorso che permetta di far valere i diritti e
le libertà della Convenzione così come da essa sanciti. La
disposizione ha dunque come conseguenza quella di esigere
un ricorso interno che permetta di esaminare il contenuto di
un "motivo difendibile" basato sulla Convenzione e di offrire la
correzione adeguata. La portata dell’obbligo che l’articolo 13
impone agli Stati contraenti varia in funzione della natura della
doglianza del ricorrente. Tuttavia, il ricorso richiesto
dall’articolo 13 deve essere "effettivo" sia in pratica che in
diritto. La "effettività" di un "ricorso" ai sensi dell’articolo 13
non dipende dalla certezza di un esito favorevole per il
ricorrente. Allo stesso modo, la "istanza" di cui parla questa
disposizione non ha bisogno di essere una istituzione
giudiziaria, ma allora i suoi poteri e le garanzie che essa
presenta vanno tenute in conto per valutare l’effettività del
ricorso esercitato innanzi ad essa. Inoltre, la totalità dei ricorsi
offerti dal diritto interno può soddisfare le esigenze
dell’articolo 13, anche se nessuno di essi vi risponda
interamente da solo (vedere, fra molte altre, Kudła c. Polonia
[GC], no 30210/96, § 157, CEDU 2000-XI).
198.Risulta dalla giurisprudenza che il motivo di ricorso di una
persona secondo il quale il suo rinvio verso uno Stato terzo la
esporrebbe a trattamenti proibiti dall’articolo 3 della
Convenzione "deve imperativamente essere oggetto di un
controllo attento da parte di una istanza nazionale" (Chamaïev
e altri c.Georgia e Russia, no 36378/02, § 448, CEDU 2005-III;
vedere anche Jabari,prima citata, § 39). Questo principio ha
indotto la Corte a ritenere che la nozione di "ricorso effettivo"
ai sensi dell’articolo 13 combinato con l’articolo 3 richiede, da
una parte, "un esame indipendente e rigoroso" di tutti i motivi
sollevati da una persona che si trova in tale situazione, ai
termini del quale "esistono seri motivi di temere che sussista
un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3" e,
dall’altra, "la possibilità di soprassedere all’esecuzione della
misura controversa" (sentenze prima citate, rispettivamente §
460 et § 50).
199.Inoltre, nella sentenza Čonka (prima citata, §§ 79 e
seguenti) la Corte ha precisato, sul terreno dell’articolo 13
combinato con l’articolo 4 del Protocollo no4, che un ricorso
non risponde alle esigenze del primo se non ha effetto
sospensivo. In particolare ha sottolineato (§ 79):
«La Corte ritiene che l’effettività dei ricorsi richiesti
dall’articolo 13 presupponga che questi possano impedire
l’esecuzione delle misure contrarie alla Convenzione e le cui
conseguenze siano potenzialmente irreversibili (...). Di
conseguenza, l’articolo 13 si oppone al fatto che tali misure
siano eseguite anche prima che le autorità nazionali abbiano
terminato l’esame della loro compatibilità con la Convenzione.
Tuttavia, gli Stati contraenti godono di un certo margine di
valutazione sulle modalità con cui conformarsi agli obblighi
loro imposti dall’articolo 13 (...).»
200.Tenuto conto dell’importanza dell’articolo 3 della
Convenzione e della irreversibilità del danno che può essere
causato nel caso si realizzi il rischio di tortura o di
maltrattamenti, la Corte ha ritenuto che il criterio dell’effetto
sospensivo debba essere applicato anche nel caso in cui uno
Stato parte decidesse di rinviare uno straniero verso uno Stato
in cui vi sono seri motivi di temere che corra un rischio di tale
natura (Gebremedhin [Gaberamadhien] c. Francia, no
25389/05, § 66, CEDU2007-II; M.S.S., prima citata, § 293).
ii. Applicazione nel caso di specie
201.La Corte ha appena concluso che il rinvio dei ricorrenti
verso la Libia costituiva una violazione degli articoli 3 della
Convenzione e 4 del Protocollo no 4. I motivi di ricorso
sollevati dai ricorrenti su questi punti sono pertanto
"difendibili" ai fini dell’articolo 13.
202.La Corte ha constatato che i ricorrenti non hanno avuto
accesso ad alcuna procedura volta alla loro identificazione e
alla verifica delle loro situazioni personali prima
dell’esecuzione del loro allontanamento verso la Libia
(paragrafo 185 supra). Il Governo ammette che tali procedure
non erano previste a bordo delle navi militari sulle quali sono
stati fatti imbarcare i ricorrenti. Fra il personale di bordo non vi
erano né interpreti né legali.
203.La Corte osserva che i ricorrenti lamentano di non aver
ricevuto alcuna informazione da parte dei militari italiani, i
quali avrebbero fatto credere loro che erano diretti verso
l’Italia e non li avrebbero informati sulla procedura da seguire
per impedire il loro rinvio di Libia.
Dal momento che questa circostanza è contestata dal
Governo, la Corte attribuisce un peso particolare alla versione
dei ricorrenti, perché è corroborata dalle numerose
testimonianze raccolte dall’HCR, dal CPT e da Human Rights
Watch.
204.Ora, la Corte ha già affermato che la mancanza di
informazioni costituisce un ostacolo maggiore all’accesso alle
procedure d’asilo (M.S.S., prima citata, § 304). Ribadisce
quindi importanza di garantire alle persone interessate da una
misura di allontanamento, misura le cui conseguenze sono
potenzialmente irreversibili, il diritto di ottenere informazioni
sufficienti per permettere loro di avere un accesso effettivo
alle procedure e di sostenere i loro ricorsi.
205.Tenuto conto delle circostanze del presente caso di
specie, la Corte ritiene che i ricorrenti siano stati privati di ogni
via di ricorso che avrebbe consentito loro di sottoporre ad una
autorità competente le doglianze basate sugli articoli 3 della
Convenzione e 4 del Protocollo no 4 e di ottenere un controllo
attento e rigoroso delle loro richieste prima di dare esecuzione
alla misura di allontanamento
206.Quanto all’argomento del Governo secondo il quale i
ricorrenti avrebbero dovuto avvalersi della possibilità di adire
il giudice penale italiano una volta arrivati in Libia, la Corte non
può che constatare che, anche se tale via di ricorso è
accessibile in pratica, un ricorso penale a carico dei militari che
si trovavano a bordo delle navi dell’esercito manifestamente
non soddisfa le esigenze dell’articolo 13 della Convenzione, dal
momento che non soddisfa il criterio dell’effetto sospensivo
sancito dalla sentenza Čonka, prima citata. La Corte ricorda
che l’esigenza derivante dall’articolo 13 di soprassedere
all’esecuzione della misura controversa non può essere
prevista incidentalmente (M.S.S., prima citata, § 388).
207.La Corte conclude che vi è stata violazione dell’articolo 13
combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del
Protocollo n. 4. Ne consegue che non si può rimproverare ai
ricorrenti di non aver correttamente esaurito le vie di ricorso
interne e che l’eccezione preliminare del Governo (paragrafo
62 supra) è respinta.
VII. SUGLI ARTICOLI 46 E 41 DELLA CONVENZIONE
A. Sull’articolo 46 della Convenzione
208.Secondo questa disposizione:
«1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze
definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.
2.La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei
Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.»
209.In virtù dell’articolo 46 della Convenzione, le Alte Parti contraenti
s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive emesse dalla Corte
nelle controversie in cui sono parti, il Comitato dei Ministri è
incaricato di sorvegliare l’esecuzione di queste sentenze. In
particolare ne deriva che, quando la Corte constata una violazione, lo
Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli
interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione previste
dall’articolo 41, ma anche quello di adottare le misure generali e/o,
all’occorrenza, individuali necessarie. Avendo le sentenze della Corte
natura essenzialmente declaratoria, lo Stato convenuto rimanere
libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi
per adempiere al suo obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della
Convenzione, per quanto questi mezzi siano compatibili con le
conclusioni contenute nella sentenza della Corte. Tuttavia, in alcune
particolari situazioni, è accaduto che la Corte abbia ritenuto utile
indicare ad uno Stato convenuto il tipo di misure da adottare per
porre termine alla situazione - spesso strutturale - che aveva dato
luogo ad una constatazione di violazione (vedere, per esempio,
Öcalan c. Turchia [GC], no46221/99, § 210, CEDU 2005-IV; e Popov c.
Russia, no 26853/04, §263, 13 luglio 2006). Talvolta la natura stessa
della violazione constatata non lascia scelta sulle misure da prendere
(Assanidzé, prima citata, § 198; Alexanian c. Russia, no 46468/06, §
239, 22 dicembre 2008; e Vereingegen Tierfabriken Schweiz (VgT) c.
Svizzera (no 2) [GC], no32772/02, §§ 85 e 88, 30 giugno 2009).
210.Nel caso di specie, la Corte ritiene necessario indicare le misure
individuali che si impongono nell’ambito dell’esecuzione della
presente sentenza, senza pregiudicare le misure generali richieste per
prevenire altre violazioni simili in futuro (M.S.S., prima citata, § 400).
211.La Corte ha constatato, tra l’altro, che il trasferimento dei
ricorrenti li ha esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia e di
essere arbitrariamente rimpatriati verso la Somalia e l’Eritrea.
Rispetto alle circostanze della causa, la Corte ritiene che spetti al
governo italiano intraprendere tutte le attività possibili per ottenere
dalle autorità libiche l’assicurazione che i ricorrenti non saranno né
sottoposti a trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione né
rimpatriati arbitrariamente.
B. Sull’articolo 41 della Convenzione
212.Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei
suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non
permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di
tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione
alla parte lesa.»
213.I ricorrenti reclamano 15.000 euro ciascuno per il danno morale
che avrebbero subito.
214.Il Governo si oppone a questa richiesta, sottolineando che la vita
dei ricorrenti è stata salvata grazie all’intervento delle autorità
italiane.
215.La Corte ritiene che i ricorrenti hanno dovuto provare un tale
stato di disperazione che certo non può essere riparato soltanto dalla
constatazione di violazione. Avuto riguardo della natura delle
violazioni constatate nel caso di specie, ritiene equo accogliere la
richiesta dei ricorrenti e concedere a ciascuno di loro 15.000 euro a
titolo di riparazione del danno morale. I rappresentanti dei ricorrenti
deterranno come fiduciari le somme così concesse agli interessati.
C. Spese
216.I ricorrenti reclamano anche 1.575,74 euro per le spese
affrontate innanzi alla Corte.
217.Il Governo si oppone a questa richiesta.
218. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può
ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne
siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia
ragionevole. Nel caso di specie, tenuto conto dei documenti in suo
possesso e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la
somma richiesta per la procedura innanzi alla Corte e la accorda ai
ricorrenti.
D. Interessi moratori
219.La Corte giudica appropriato basare il tasso degli interessi
moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento
marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti
percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,
3. Decide, con tredici voti contro quattro, di cancellare dal ruolo il
ricorso che riguarda i signori Mohamed Abukar Mohamed e
Hasan Shariff Abbirahman;
4. Decide, all’unanimità, di non cancellare dal ruolo il ricorso che
riguarda gli altri ricorrenti;
5. Dichiara, all’unanimità, che i ricorrenti erano sottoposti alla
giurisdizione dell’Italia ai sensi dell’articolo uno della
Convenzione;
6. Unisce all’esame sul merito, all’unanimità, le eccezioni del
Governo basate sul mancato esaurimento delle vie di ricorso
interne e della mancata qualità di vittima dei ricorrenti;
7. Dichiara, all’unanimità, ricevibili i motivi basati sull’articolo 3
della Convenzione;
8. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 3
della Convenzione in quanto i ricorrenti sono stati esposti al
rischio di subire maltrattamenti in Libia e respinge l’eccezione
del Governo basata sulla mancata qualità di vittima dei
ricorrenti;
9. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 3
della Convenzione in quanto i ricorrenti sono stati esposti al
rischio di essere rimpatriati in Somalia e in Eritrea;
10. Dichiara, all’unanimità, ricevibile il motivo di ricorso basato
sull’articolo 4 del Protocollo no 4;
11. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 4
del Protocollo no 4;
12. Dichiara, all’unanimità, ricevibile il motivo di ricorso basato
sull’articolo 13 combinato con gli articoli 3 della Convenzione e
4 del Protocollo no 4;
13. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 13
combinato con l’articolo 3 della Convenzione e dell’articolo 13
combinato con l’articolo 4 del Protocollo no 4 e respinge
l’eccezione del Governo basata sul mancato esaurimento delle
vie di ricorso interne;
14. Dichiara, all’unanimità,
1. che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro
3 mesi, le seguenti somme:
1. 15.000 EURO (quindicimila euro) ciascuno, più
l’importo eventualmente dovuto a titolo di
imposta, per danno morale, le cui somme
saranno fiduciariamente detenute per i
ricorrenti dai loro rappresentanti;
2. la somma complessiva di 1.575,74 EURO
(millecinquecentosettantacinque euro e
settantaquattro centesimi), più l’importo
eventualmente dovuto titolo d’imposta dai
ricorrenti, per le spese legali
2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino
al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati
di un interesse semplice ad un tasso pari a quello delle
operazioni di rifinanziamento marginale della Banca
centrale europea applicabile durante questo periodo,
aumentato di tre punti percentuali;
Fatta in francese e in inglese, poi pronunciata in pubblica udienza, al
Palazzo dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo, il 23 febbraio 2012, in
applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Nicolas Bratza Presidente
Michael O’Boyle Cancelliere
Alla presente sentenza si trova allegata, conformemente agli articoli
45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione
dell’opinione separata del giudice Pinto de Albuquerque.
N.B.
M.O.B.
ELENCO DEI RICORRENTI
Nome
Luogo e data di
Situazione attuale dei ricorrenti
nascita
JAMAA Hirsi Sadik
Somalia, 30
maggio 1984
Status di rifugiato concesso il 25
giugno 2009 (N. 507-09C00279)
SHEIKH ALI
Mohamed
Somalia, 22
gennaio 1979
Status di rifugiato concesso il 13
agosto 2009 (N. 229-09C0002)
HASSAN Moh’b Ali
Somalia, 10
Status di rifugiato concesso il 25
settembre 1982 giugno 2009 (N. 229-09C00008)
SHEIKH Omar
Ahmed
Somalia, 1
gennaio 1993
Status di rifugiato concesso il 13
agosto 2009 (N. 229-09C00010)
ALI Elyas Awes
Somalia, 6
giugno 1983
Status di rifugiato concesso il 13
agosto 2009 (N. 229-09C00001)
KADIYE
Mohammed Abdi
Somalia, 28
marzo 1988
Status di rifugiato concesso il 25
giugno 2009 (N. 229-09C00011)
HASAN Qadar
Abfillzhi
Somalia, 8 luglio Status di rifugiato concesso il 26
1978
luglio 2009 (N. 229-09C00003)
SIYAD Abduqadir
Ismail
Somalia, 20
luglio 1976
Status di rifugiato concesso il 13
agosto 2009 (N. 229-09C00006)
ALI Abdigani
Abdillahi
Somalia, 1
gennaio 1986
Status di rifugiato concesso il 25
giugno 2009 (N. 229-09C00007)
MOHAMED
Somalia, 27
Mohamed Abukar febbraio 1984
Deceduto in data sconosciuta
ABBIRAHMAN
Hasan Shariff
Somalia, Data
sconosciuta
Deceduto nel novembre 2009
TESRAY Samsom
Mlash
Eritrea, Data
sconosciuta
Domicilio sconosciuto
HABTEMCHAEL
Waldu
Eritrea, 1
gennaio 1971
Status di rifugiato concesso il 25
giugno 2009 (N. 229-08C00311);
risiede in Svizzera
ZEWEIDI Biniam
Eritrea, 24
aprile 1973
Risiede in Libia
GEBRAY Aman
Tsyehansi
Eritrea, 25
giugno 1978
Risiede in Libia
NASRB Mifta
Eritrea, 3 luglio
Risiede in Libia
1989
SALIH Said
Eritrea, 1
gennaio 1977
Risiede in Libia
ADMASU Estifanos
Eritrea, Data
sconosciuta
Domicilio sconosciuto
TSEGAY Habtom
Eritrea, Data
sconosciuta
Detenuto nel centro di
permanenza di
BERHANE Ermias
Eritrea, 1
agosto 1984
Status di rifugiato concesso in
Italia il 25 maggio 2011; risiede
in Italia
YOHANNES Robel
Abzaghi
Eritrea, 12
giugno 1985
Status di rifugiato concesso l’8
ottobre 2009
(N. 507-09C001346); risiede nel
Benin
KERI Telahun
Meherte
Eritrea, Data
sconosciuta
Domicilio sconosciuto
KIDANE Hayelom
Eritrea, 24
Status di rifugiato concesso il 25
Mogos
febbraio 1974
KIDAN Kiflom
Tesfazion
Eritrea, 29
giugno 1978
giugno 2009 (N. 229-09C00015);
risiede in Svizzera
Status di rifugiato concesso il 25
giugno 2009 (N. 229-09C00012);
risiede a Malta
OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE
PINTO DE ALBUQUERQUE
(Traduzione)
La causa Hirsi verte da una parte sulla protezione internazionale dei
rifugiati e, per altra parte, sulla compatibilità delle politiche in materia
di immigrazione e di controllo delle frontiere con il diritto
internazionale. La questione fondamentale che si pone nel caso di
specie è sapere come l’Europa debba riconoscere ai rifugiati "il diritto
di avere diritti" per riprendere le parole di Hannah Arendt1. La
risposta a questi problemi politici estremamente sensibili si trova nel
punto di intersezione tra il diritto internazionale dei diritti umani e il
diritto internazionale dei rifugiati. Benché io sottoscriva la sentenza
della Grande Camera, desidero analizzare la causa nel contesto di un
approccio di principio completo che tenga conto del nesso intrinseco
esistente tra queste due branche del diritto internazionale.
Il divieto di respingere i rifugiati
Il divieto di respingere i rifugiati è previsto nel diritto internazionale
dei rifugiati (articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa
allo status dei rifugiati (1951) e articolo 2 § 3 della Convenzione della
Organizzazione dell’unità africana che disciplina determinati aspetti
del problema dei rifugiati in Africa (1969) ), nonché nel diritto
universale dei diritti dell’uomo (articolo 3 della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura (1984) e articolo 16 § 1 della
Convenzione internazionale delle Nazioni unite per la protezione di
tutte le persone contro le sparizioni forzate (2006)) e nel diritto
regionale dei diritti dell’uomo (articolo 22 § 8 della Convenzione
americana sui diritti dell’uomo (1969), articolo 12 § 3 della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981), articolo 13 § 4 della
Convenzione interamericana sulla prevenzione e repressione della
tortura (1985) e articolo 19 § 2 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (2000)). Se la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo non contiene un esplicito divieto di respingimento, questo
principio tuttavia è stato riconosciuto dalla Corte come un andare al di
là della garanzia analoga prevista dal diritto internazionale dei
rifugiati.
In virtù della Convenzione europea, un rifugiato non può essere
respinto né verso il suo paese di origine né verso qualsiasi altro
paese dove rischi di subire un danno grave provocato da una
persona o da una entità, pubblica o privata, identificata o meno.
L’atto di respingere può consistere in una espulsione, una
estradizione, una deportazione, un allontanamento, un
trasferimento ufficioso, una "restituzione", un rigetto, un rifiuto di
ammissione o in qualsiasi altra misura il cui risultato sia quello di
obbligare la persona interessata a restare nel suo paese di origine. Il
rischio di danno grave può derivare da una aggressione estera, da un
conflitto armato interno, da una esecuzione extragiudiziaria, da una
sparizione forzata, dalla pena capitale, dalla tortura, da un
trattamento inumano o degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta
degli esseri umani, dalla persecuzione, da un processo basato su una
legge penale retroattiva o su prove ottenute tramite tortura o
trattamenti inumani e degradanti, o da una "flagrante violazione"
della essenza di qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione nello
Stato di accoglienza (respingimento diretto) o dalla ulteriore
consegna dell’interessato da parte dello Stato di accoglienza a uno
Stato terzo all’interno del quale esiste tale rischio (respingimento
indiretto)2.
Di fatto, l’obbligo di non respingimento può essere innescato da una
violazione o da un rischio di violazione dell’essenza di qualsiasi diritto
garantito dalla Convenzione europea, come il diritto alla vita, il diritto
all’integrità fisica o al suo corollario, il divieto della tortura e dei
maltrattamenti3, o dalla "flagrante violazione" del diritto ad un
processo equo4, del diritto alla libertà5, del diritto alla vita privata6 o di
qualsiasi altro diritto garantito dalla Convenzione7.
Questo principio si applica anche al diritto universale dei diritti
dell’uomo, alla luce della Convenzione contro la tortura8, della
Convenzione sui diritti dell’infanzia9 e del Patto internazionale relativo
ai diritti civili e politici10. Nello stesso spirito, l’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite ha dichiarato che "nessuna persona sarà inviata o
estradata di forza verso un paese quando vi siano ragioni valide per
temere che in questo paese rimarrà vittima di un’esecuzione
extragiudiziaria, arbitraria o sommaria"11 e che "nessuno Stato
espelle, respinge, o estrada una persona verso un altro Stato se vi
sono fondati motivi per credere che in questo altro Stato rischierà di
rimanere vittima di una sparizione forzata"12.
Benché la nozione di rifugiato contenuta nell’articolo 33 della
Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati sia
meno ampia di quella ricavata dal diritto internazionale dei diritti
umani, il diritto internazionale dei rifugiati si è evoluto assimilando
la norma di tutela più ampia dei diritti umani, estendendo così la
nozione di rifugiati che deriva dalla Convenzione (impropriamente
chiamati rifugiati de jure) ad altri individui che hanno bisogno di una
protezione internazionale complementare (impropriamente
chiamati i rifugiati de facto). I migliori esempi di questa evoluzione
sono forniti dall’articolo I § 2 della Convenzione della Organizzazione
dell’unità africana, dall’articolo III § 3 della Dichiarazione di Cartagena
del 1984, dall’articolo 15 della Direttiva 2004/83/EC del Consiglio
dell’Unione europea del 29 aprile 2004 recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione
internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione
riconosciuta, e dalla Raccomandazione (2001) 18 del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa sulla protezione sussidiaria.
Comunque sia, né il diritto internazionale dei rifugiati né il diritto
internazionale dei diritti umani fanno distinzione tra il regime
applicabile ai rifugiati e il regime applicabile alle persone che
beneficiano di una protezione complementare. Il tenore della
protezione internazionale, soprattutto la garanzia del non
respingimento, è rigorosamente la stessa per le due categorie di
individui.13. Non vi è alcuna ragione legittima per offrire ai "rifugiati
de jure" una migliore protezione di quella offerta ai "rifugiati de
facto", perché tutti hanno in comune uno stesso bisogno di
protezione internazionale. Qualsiasi differenza di trattamento
comporterebbe la creazione di una seconda classe di rifugiati,
sottoposta a un regime discriminatorio. La stessa conclusione vale per
le situazioni di afflusso massiccio di rifugiati. I gruppi di rifugiati non
possono vedersi applicare uno status ridotto a causa di una eccezione
al "vero" status di rifugiato che sarebbe "inerente" a una situazione di
afflusso massiccio. Offrire una protezione sussidiaria minore (che
implica ad esempio dei diritti meno ampi in materia di accesso al
permesso di soggiorno, all’impiego, alla tutela sociale e alle cure
sanitarie) alle persone che arrivano nell’ambito di un afflusso
massiccio costituirebbe una discriminazione ingiustificata.
Un individuo non diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma è
riconosciuto tale perché è un rifugiato14. La concessione dello status
di rifugiato è puramente declaratoria, il principio di non
respingimento si applica a coloro che non hanno ancora visto
dichiarare il loro status (i richiedenti asilo), ed anche a coloro che
non hanno espresso il desiderio di essere protetti. Di conseguenza,
la mancanza di una esplicita richiesta di asilo o il fatto che una
richiesta di asilo non sia sostenuta da sufficienti elementi non
possono esonerare lo Stato interessato dall’obbligo di non
respingimento di fronte ad ogni straniero che ha bisogno di una
protezione internazionale15. La mancanza di una richiesta di asilo o di
elementi sufficienti a sostenere tale domanda non consente di trarre
automaticamente una conclusione negativa dal momento che lo Stato
ha l’obbligo di indagare d’ufficio su qualsiasi situazione che richieda
una protezione internazionale, in particolare quando, come ha
sottolineato la Corte, i fatti che costituiscono il rischio per il ricorrente
"erano noti [prima del trasferimento di quest’ultimo] e facilmente
verificabili da un gran numero di fonti".
Benché l’obbligo garantito dalla Convenzione delle Nazioni Unite
relativa allo status di rifugiati comporti eccezioni che vanno ad
incidere sulla sicurezza del paese e sulla sicurezza pubblica, non esiste
alcuna eccezione di questo tipo nel diritto europeo dei diritti
dell’uomo16 né nel diritto universale dei diritti dell’uomo17: Non vi
sono limiti personali, temporali o spaziali alla sua applicazione. Così
quest’obbligo si applica anche nelle circostanze eccezionali comprese
quelle in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza.
Poiché la determinazione dello status di rifugiato costituisce uno
strumento essenziale per la protezione dei diritti dell’uomo, la natura
del divieto di respingimento dipende dalla natura del diritto
fondamentale così protetto. Quando esiste un rischio di danno grave
che derivi da una aggressione estera, da un conflitto armato interno,
da una esecuzione extragiudiziaria, da una sparizione forzata, dalla
pena capitale, dalla tortura, da un trattamento inumano o
degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta degli esseri umani, dalla
persecuzione, da un processo basato su una legge penale retroattiva
o su prove ottenute tramite tortura o trattamenti inumani e
degradanti nello Stato di accoglienza, l’obbligo di non respingimento
costituisce un obbligo assoluto per tutti gli Stati. Di fronte al rischio
di violazione di un qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione
europea (diverso dal diritto alla vita e all’integrità fisica e dal principio
di legalità nel diritto penale) nel paese di accoglienza, lo Stato ha la
possibilità di derogare al suo dovere di offrire una protezione
internazionale, in funzione della valutazione della proporzionalità dei
valori concorrenti in gioco. Esiste tuttavia un’eccezione a questo test
di proporzionalità: quando il rischio di violazione di un qualsiasi
diritto garantito dalla Convenzione europea (diverso dal diritto alla
vita e all’integrità fisica e dal principio di legalità nel diritto penale)
nel paese di accoglienza è "flagrante" e l’essenza stessa di questo
diritto è messa in gioco, mentre lo Stato è inevitabilmente vincolato
dall’obbligo di non respingimento
Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di
respingimento costituisce un principio di diritto internazionale
consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non
sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status
dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. E’
inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è
imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva
(articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo
42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del
Protocollo del 1967).
Tale è oggi la posizione prevalente anche nel diritto internazionale dei
rifugiati18.
Così, le eccezioni previste dall’articolo 33 § 2 della Convenzione delle
Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati non possono essere
invocate nei confronti dei diritti dell’uomo essenziali non soggetti ad
alcuna deroga (il diritto alla vita e all’integrità fisica e il principio di
legalità in diritto penale). Inoltre, un individuo che rientri nella
competenza dell’articolo 33 § 2 della Convenzione sui rifugiati
beneficerà comunque della protezione offerta dalle disposizioni di
diritto internazionale dei diritti umani più generose, come la
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le eccezioni in questione
possono essere applicate unicamente ai diritti dell’uomo essenziali ai
quali si può derogare dagli Stati parti alla Convenzione sullo status di
rifugiati che non hanno ratificato trattati più generosi. Occorre
ancora, in questo caso, che le eccezioni siano interpretate
restrittivamente e siano applicate soltanto se le particolari circostanze
della causa e le caratteristiche proprie dell’interessato mostrano che
costui rappresenta un pericolo per la comunità o la sicurezza del
paese19.
Il divieto di respingimento non si limita al territorio di uno Stato, ma si
estende alle azioni extraterritoriali di quest’ultimo, soprattutto alle
operazioni condotte in alto mare. Ciò vale in virtù del diritto
internazionale dei rifugiati, come interpretato dalla Commissione
interamericana dei diritti dell’uomo20, dall’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati21, dall’Assemblea generale delle Nazioni
Unite22 e dalla Camera dei Lord23, e in virtù del diritto universale dei
diritti dell’uomo, come applicato dal Comitato ONU contro la tortura24
e dal Comitato ONU per i diritti umani25.
Alcuni noti esperti di diritto internazionale hanno adottato questo
approccio26.
Il fatto che alcuni tribunali supremi, quali la Corte suprema degli Stati
Uniti27 e la Corte suprema di Australia28, siano giunti a conclusioni
diverse non è decisivo.
È vero che la dichiarazione del delegato svizzero nel corso della
conferenza dei plenipotenziari, secondo la quale il divieto di
respingimento non si applica ai rifugiati che arrivano alla frontiera, fu
approvata da altri delegati, in particolare dal delegato olandese, il
quale rilevò che la conferenza era d’accordo con questa
interpretazione29. È anche vero che l’articolo 33 § 2 della Confezione
delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati esclude dal divieto di
respingimento il rifugiato che costituisce un pericolo per la sicurezza
del paese "dove si trova", e che i rifugiati in alto mare non si trovano
in alcun paese. Si potrebbe essere tentati di interpretare l’articolo 33
§ 1 come se contenesse una analoga restrizione territoriale. Se il
divieto di respingimento fosse applicato in alto mare, ciò avrebbe
l’effetto di creare un regime speciale per gli stranieri pericolosi in alto
mare, i quali beneficerebbero del divieto contrariamente agli stranieri
pericolosi residenti nel paese.
Secondo me, con tutto il rispetto che devo alla Corte suprema degli
Stati Uniti, l’interpretazione di quest’ultima contraddice il senso
letterale e comune dei termini dell’articolo 33 della Convenzione delle
Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati e si scosta dalle regole
comuni che riguardano l’interpretazione di un trattato. Secondo
l’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati,
una disposizione di un trattato deve essere interpretata secondo il
senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e
alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Quando il senso di un
trattato emerge chiaramente dal suo testo letto alla luce della sua
lettera, del suo scopo e del suo oggetto, le fonti complementari quali i
lavori preparatori sono inutili30. La fonte complementare storica è
ancor meno necessaria quando essa stessa manca di chiarezza, come
in questo caso: il comitato speciale incaricato di redigere la
Convenzione ha difeso l’idea che l’obbligo di non respingimento si
estendesse ai rifugiati non ancora arrivati sul territorio31; il
rappresentante degli Stati Uniti ha dichiarato nel corso
dell’elaborazione dell’articolo 33 che poco importava se il rifugiato
avesse varcato o no il confine32; il rappresentante olandese ha
formulato la sua riserva unicamente in merito ai "grandi gruppi di
rifugiati che cercano di accedere ad un territorio", e il presidente della
conferenza dei plenipotenziari ha semplicemente "deciso che
conveniva prendere atto dell’interpretazione consegnata dal delegato
dei Paesi Bassi" secondo la quale l’ipotesi di migrazioni massicce
attraverso le frontiere sfuggiva all’articolo 3333.
Contrariamente all’applicabilità delle altre disposizioni della
Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati, quella
dell’articolo 33 § 1 non dipende dalla presenza di un rifugiato sul
territorio di uno Stato. L’unica restrizione geografica prevista
dall’articolo 33 § 1 attiene al paese verso il quale un rifugiato può
essere inviato, e non al luogo da dove è inviato. In più, il termine
francese "respingimento" ingloba l’allontanamento, il trasferimento, il
rigetto o la non ammissione di una persona34. L’uso intenzionale del
termine francese nella versione inglese non ha altro significato
possibile che quello di sottolineare l’equivalenza linguistica tra il verbo
return e il verbo respingere. Inoltre il preambolo della Convenzione
enuncia che quest’ultima è volta ad "assicurare [ai rifugiati] il più
ampio esercizio possibile dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali", obiettivo che si riflette nel testo stesso dell’articolo
33, attraverso la chiara espressione "in qualsiasi modo", che ingloba
ogni tipo di azione dello Stato volta ad espellere, estradare o
allontanare uno straniero che ha bisogno di una protezione
internazionale. Infine, non è possibile trarre dal riferimento
territoriale contenuto nell’articolo 33 § 2 ("paese in cui si trova")
alcun argomento che militi per il rigetto dell’applicazione
extraterritoriale dell’articolo 33 § 1, perché il paragrafo 2 dell’articolo
33 prevede semplicemente una eccezione alla regola formulata al
paragrafo 1. Questo "sconfinamento" dell’eccezione sfavorevole sulla
regola favorevole sarebbe inaccettabile.
L’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati
enuncia che una disposizione di un trattato deve essere interpretata
in buona fede. E’ riconosciuto che la buona fede non è di per sé fonte
di obblighi laddove non ne esistono altri35; fornisce tuttavia un mezzo
prezioso per definire la portata degli obblighi esistenti, in particolare
di fronte alle azioni ed alle omissioni di uno Stato che hanno l’effetto
di aggirare gli obblighi convenzionali36. Uno Stato manca di buona
fede nell’applicare un trattato non soltanto quando infrange, con
azioni o omissioni, gli obblighi derivanti dal trattato, ma anche quando
elude gli obblighi da lui accettati ostacolando il normale
funzionamento di una garanzia che deriva da un trattato. Ostacolare
con la forza il meccanismo che scatta con l’applicazione di un obbligo
convenzionale significa ostacolare il trattato stesso, fatto contrario al
principio di buona fede (criterio dell’ostruzionismo). Uno Stato manca
di buona fede anche quando adotta al di fuori del suo territorio una
condotta che all’interno sarebbe inaccettabile tenuto conto dei suoi
obblighi convenzionali (criterio del "doppio standard"). Una politica di
"doppio standard" basata sul luogo in cui essa è applicata viola
l’obbligo convenzionale al quale è tenuto lo Stato in questione.
L’applicazione di questi due criteri porta a concludere che le
operazioni di rinvio effettuate in alto mare senza alcuna valutazione
dei bisogni individuali di protezione internazionale sono
inaccettabili37.
Un ultimo ostacolo al divieto di respingimento attiene al territorio di
origine del richiedente asilo. La Convenzione delle Nazioni Unite sullo
status di rifugiati richiede che l’interessato si trovi al di fuori del suo
paese di origine, che sembra incompatibile con l’asilo diplomatico,
perlomeno se si interpreta questa nozione conformemente al
ragionamento prudente tenuto dalla Corte internazionale di giustizia
nella causa sul diritto d’asilo38. Il diritto di chiedere asilo esige
tuttavia l’esistenza del diritto complementare di lasciare il proprio
paese in vista della richiesta di asilo. Ecco perché gli Stati non
possono limitare il diritto di lasciare un paese e di cercare al di fuori
di esso una protezione effettiva39. Benché nessuno Stato abbia
l’obbligo di concedere l’asilo diplomatico, il bisogno di protezione
internazionale è addirittura più impellente nel caso di un richiedente
asilo che si trovi ancora nel paese in cui la sua vita, la sua integrità
fisica e la sua libertà sono minacciate. La prossimità delle fonti di
rischio rende ancor più necessaria la protezione delle persone che
sono in pericolo nel proprio paese. Altrimenti il diritto internazionale
dei rifugiati, almeno il diritto internazionale dei diritti umani impone
agli Stati un obbligo di protezione in queste circostanze, e la
mancata adozione di misure adeguate e positive di protezione
costituisce a tale proposito una violazione. Gli Stati non possono
fingere di ignorare gli evidenti bisogni di protezione. Se ad esempio
una persona che rischia di essere torturata nel suo paese richiede
l’asilo ad una ambasciata di uno Stato vincolato dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, le deve essere concesso un visto di
ingresso sul territorio di questo Stato, in modo da permetterle di
avviare una vera procedura d’asilo nello Stato di accoglienza. Non si
tratterà di una risposta puramente umanitaria che deriva dalla buona
volontà e dal potere discrezionale dello Stato. Un obbligo positivo di
protezione nascerà quindi dall’articolo 3. In altri termini, la politica di
un paese in materia di visti è subordinata agli obblighi a lui imposti in
virtù del diritto internazionale dei diritti dell’uomo. In tal senso sono
state fatte importanti dichiarazioni dall’Assemblea parlamentare del
Consiglio d’Europa40, dal Comitato europeo per la prevenzione della
tortura41 e dall’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati42.
Questa conclusione è corroborata anche dalla storia dell’Europa.
Infatti, durante la Seconda Guerra mondiale questo continente ha
conosciuto diversi importanti episodi collegati ai visti di protezione.
Gli sforzi dispiegati dal diplomatico svedese Wallenberg e da altre
persone a Budapest, oltre a quelli del diplomatico portoghese Sousa
Mendes a Bordeaux e a Bayonne, sono degli esempi noti.
Recentemente sono stati ricordati come un valido precedente per
l’istituzione di una procedura formale di ingresso protetta dalle
missioni diplomatiche degli Stati membri dell’Unione europea43.
Teniamo a mente quest’ultimo episodio: dopo l’invasione della
Francia da parte della Germania nazista e la resa del Belgio, migliaia di
persone fuggirono verso il sud della Francia, in particolare a Bordeaux
e a Bayonne. Colpito dalla disperazione di queste persone, il console
portoghese di Bordeaux, Aristides de Sousa Mendes, si trovò di fronte
a un doloroso dilemma: doveva conformarsi alle chiare istruzioni di
una circolare del governo portoghese del 1939 che ordinava di
rifiutare qualsiasi visto agli apolidi, ai "titolari di passaporti Nansen",
ai "Russi", agli "Ebrei espulsi dal paese della loro nazionalità o della
loro residenza" e a tutti coloro "che non erano in condizione di
ritornare liberamente nel loro paese di origine", oppure doveva
seguire quello che la sua coscienza e il diritto internazionale gli
dettavano disobbedendo così agli ordini del governo e concedendo i
visti? Decise di seguire la sua coscienza e il diritto internazionale, e
concesse il visto a più di 30.000 persone perseguitate in ragione della
loro nazionalità, delle loro credenze religiose o della loro
appartenenza politica. Per questo atto di disobbedienza, il console
pagò un caro prezzo: dopo essere stato escluso dalla carriera
diplomatica, morì da solo e in miseria, e tutta la sua famiglia fu
costretta a lasciare il Portogallo44.
Se questo episodio si fosse verificato ai giorni nostri, gli atti del
diplomatico portoghese sarebbero stati pienamente conformi alla
norma che deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Infatti, la condotta del diplomatico costituirebbe l’unica reazione
accettabile nei confronti di coloro che hanno bisogno di una
protezione internazionale.
Il divieto di espulsioni collettive
L’obbligo di non respingimento ha due conseguenze procedurali: il
dovere di informare lo straniero sul suo diritto di ottenere una
protezione internazionale ed il dovere di offrire una procedura
individuale, equa ed effettiva che consenta di determinare e
valutare la qualità di rifugiato. L’adempimento dell’obbligo di non
respingimento esige una valutazione del rischio personale di danno,
che può essere effettuata soltanto se ogni straniero ha accesso ad una
procedura equa ed effettiva con la quale la sua causa viene esaminata
individualmente. I due aspetti sono talmente interconnessi che
possono essere considerati come facce di una stessa medaglia.
L’espulsione collettiva di stranieri è quindi inaccettabile.
Il divieto di espulsione collettiva di stranieri è previsto dall’articolo 4
del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
dall’articolo 19 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, dall’articolo 12 § 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e
dei popoli, dall’articolo 22 § 9 della Convenzione americana relativa ai
diritti dell’uomo, dall’articolo 26 § 2 della Carta araba dei diritti
dell’uomo, dall’articolo 25 § 4 della Convenzione dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali della Comunità di Stati indipendenti, e
dall’articolo 22 § 1 della Convenzione internazionale sulla protezione
dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
Affinché la procedura per determinare lo status di rifugiato sia
individuale, equa ed effettiva, deve presentare necessariamente le
seguenti caratteristiche: 1) un termine ragionevole per sottoporre la
richiesta di asilo; 2) un colloquio individuale con il richiedente asilo
prima che venga presa qualsiasi decisione sulla sua richiesta; 3) la
possibilità di produrre elementi di prova a sostegno della richiesta e di
contestare gli elementi di prova contrari; 4) una decisione scritta
pienamente motivata proveniente da un organo indipendente di
prima istanza, basata sulla situazione personale del richiedente asilo e
non soltanto su una valutazione generale della situazione nel suo
paese di origine, in quanto il richiedente asilo ha il diritto di
contestare la presunzione di sicurezza di un paese rispetto alla sua
situazione personale; 5) un termine ragionevole per appellare la
decisione di prima istanza; 6) un controllo giurisdizionale integrale e
rapido dei motivi di fatto e di diritto della decisione di prima istanza; e
7) una assistenza e una rappresentanza in giudizio gratuite e, se
necessario una assistenza linguistica gratuita in prima e seconda
istanza, nonché un accesso illimitato all’HCR o a qualsiasi altra
organizzazione che lavori per conto dell’HCR.45.
Queste garanzie procedurali si applicano a tutti i richiedenti asilo
qualsiasi sia la loro situazione giuridica e di fatto, come riconosce il
diritto internazionale dei rifugiati46, il diritto universale dei diritti
dell’uomo47 e il diritto regionale dei diritti dell’uomo48.
Questa conclusione non è inficiata dalla decisione della Corte secondo
la quale l’articolo 6 della Convenzione non è applicabile alle
procedure di espulsione o di asilo49, né dal fatto che alcune garanzie
procedurali nei confronti degli stranieri espulsi possano trovarsi
nell’articolo 1 del Protocollo no 7. L’articolo 4 del Protocollo no 4 e
l’articolo 1 del Protocollo no 7 hanno la stessa natura: sono entrambi
disposizioni che prevedono garanzie procedurali ma i loro rispettivi
campi di applicazione sono sostanzialmente diversi. Le garanzie
procedurali enunciate nell’articolo no 4 del Protocollo no 4 hanno un
campo di applicazione molto più ampio di quello dell’articolo 1 del
Protocollo no 7: il primo articolo si applica a tutti gli stranieri
qualunque sia la loro situazione giuridica o di fatto mentre il secondo
riguarda soltanto gli stranieri che risiedono in situazione regolare
nello Stato che ordina l’espulsione 50.
Una volta ammessa l’applicazione del principio di non respingimento
ad ogni azione di uno Stato condotta al di là delle frontiere di
quest’ultimo, si arriva logicamente alla conclusione secondo la quale
la garanzia procedurale della valutazione individuale delle domande
di asilo e il conseguente divieto di espulsione collettiva di stranieri
non si limitano al territorio terrestre ed alle acque territoriali di uno
Stato ma si applicano anche in alto mare51.
Infatti, né la lettera né lo spirito dell’articolo 4 del Protocollo n. 4
vietano di farne un’applicazione extraterritoriale. Nella formulazione
di questa disposizione non è previsto un limite territoriale. Inoltre, si
riferisce molto ampiamente agli stranieri, e non ai residenti, e
neanche ai migranti. Il suo scopo è garantire il diritto di presentare
una richiesta di asilo che sarà oggetto di una valutazione individuale,
qualsiasi sia la maniera con cui il richiedente asilo è arrivato nel paese
interessato, sia per terra, per mare o per aria, legalmente o meno.
Così, lo spirito di questa disposizione esige una interpretazione
ugualmente ampia della nozione di espulsione collettiva, che
comprenda tutte le operazioni collettive di estradizione, di rinvio, di
trasferimento informale, di "restituzione", di rigetto, di rifiuto, di
ammissione e di ogni altra misura collettiva che avrebbero l’effetto di
costringere un richiedente asilo a rimanere nel suo paese d’origine,
qualsiasi sia il luogo in cui questa operazione ha luogo. Lo scopo della
disposizione sarebbe aggirato molto facilmente se uno Stato potesse
inviare una nave da guerra in alto mare o al limite delle sue acque
territoriali e mettersi a rifiutare in maniera collettiva e globale ogni
richiesta di rifugiato, o anche omettere qualsiasi valutazione dello
status di rifugiato. L’interpretazione di questa disposizione deve
dunque essere coerente con lo scopo di protezione degli stranieri da
un’espulsione collettiva.
Concludendo, la extraterritorialità della garanzia procedurale
dell’articolo 4 del Protocollo no 4 alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo è pienamente conforme all’estensione extraterritoriale
della stessa garanzia prevista dal diritto internazionale dei rifugiati e
dal diritto universale dei diritti dell’uomo.
La responsabilità dello Stato per le violazioni dei diritti dell’uomo
durante le operazioni di controllo dell’immigrazione e delle frontiere
Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere costituisce una
funzione essenziale dello Stato, e tutte le forme di questo controllo
derivano dall’esercizio della giurisdizione dello Stato. Pertanto, tutte
le forme di controllo dell’immigrazione e delle frontiere di uno Stato
parte alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono
sottoposte alle norme in materia di diritti umani da queste ultime
sancite e all’esame della Corte50, qualunque sia il personale
incaricato di queste operazioni e il luogo in cui esse si svolgano.
Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere è normalmente
effettuato dai funzionari dello Stato dislocati lungo la frontiera di un
paese, in particolare nei luoghi in cui transitano persone e beni, come
i porti e gli aeroporti. Ma questo controllo può anche essere eseguito
da altri professionisti in altri luoghi. In realtà la capacità formale di un
agente dello Stato che esercita un controllo alle frontiere o il fatto che
questa persona sia armata oppure no sono elementi privi di qualsiasi
pertinenza. Tutti i rappresentanti, funzionari, delegati, impiegati
pubblici, poliziotti, agenti delle forze dell’ordine, militari, agenti
contrattuali o membri di una impresa privata che agisce in virtù di una
autorità legale che assicurano la funzione di controllo delle frontiere
per conto di una Parte contraente sono vincolati dalle norme stabilite
dalla Convenzione53.
E’ inoltre irrilevante il fatto che il controllo dell’immigrazione o delle
frontiere sia esercitato sul territorio o nelle acque territoriali di uno
Stato, nell’ambito delle sue missioni diplomatiche, su una delle sue
navi da guerra, su una imbarcazione registrata nello Stato o sotto il
suo effettivo controllo, su una imbarcazione di un altro Stato o in un
luogo situato sul territorio di un altro Stato o su un territorio
assegnato ad un altro Stato, dal momento che il controllo è effettuato
per conto della Parte contraente54. Uno Stato non può sottrarsi ai suoi
obblighi convenzionali nei confronti dei rifugiati utilizzando lo
stratagemma che consiste nel cambiare il luogo di determinazione del
loro status. A fortiori, l’"escissione" di una parte del territorio di uno
Stato dalla zona di immigrazione al fine di evitare l’applicazione delle
garanzie giuridiche generali alle persone che arrivano in questa parte
"escissa" dal territorio, rappresenta un diniego fragrante degli
obblighi cui lo Stato è tenuto in virtù del diritto internazionale55.
Così, le norme della Convenzione che regolano tutta la gamma delle
politiche concepibili dell’immigrazione e delle frontiere, compreso il
divieto di entrare in acque territoriali, il diniego di visto, il rifiuto di
autorizzare lo sbarco in vista delle operazioni di pre-sdoganamento o
il fatto di mettere a disposizione fondi, attrezzature o personale per le
operazioni di controllo dell’immigrazione effettuate da altri Stati o da
organizzazioni internazionali per conto della Parte contraente. Tutte
queste misure costituiscono forme di esercizio della funzione statale
di controllo delle frontiere e una manifestazione della giurisdizione
dello Stato, qualunque sia il luogo in cui sono adottate e qualunque
sia la persona che le mette in atto56.
La giurisdizione dello Stato sul controllo dell’immigrazione e delle
frontiere implica naturalmente la responsabilità dello Stato per ogni
violazione dei diritti dell’uomo che si produca durante il compimento
di questo controllo. Le regole applicabili alla responsabilità
internazionale per le violazioni dei diritti dell’uomo sono quelle
enunciate negli Articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti
internazionalmente illeciti, allegati alla Risoluzione 56/83 del 2001
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite57. La Parte contraente
rimane vincolata dalle norme della Convenzione e la sua
responsabilità non è per nulla attenuata dal fatto che per lo stesso
atto sia coinvolta quella di uno Stato non contraente. Ad esempio, la
presenza di un agente di uno Stato non contraente a bordo di una
nave da guerra di uno Stato contraente o di una nave sotto il controllo
effettivo dello Stato contraente non dispensa quest’ultimo dai suoi
obblighi convenzionali (articolo 8 degli Articoli sulla responsabilità
degli Stati). Peraltro, la presenza di un agente di uno Stato contraente
a bordo di una nave da guerra di uno Stato non contraente o di una
nave sotto il controllo effettivo di uno Stato non contraente permette
di imputare allo Stato contraente che partecipa all’operazione
qualsiasi violazione delle norme della Convenzione (articolo 16 degli
Articoli sulla responsabilità degli Stati).
La violazione delle norme della Convenzione da parte dello Stato
italiano
Secondo i principi qui sopra richiamati, l’operazione di controllo delle
frontiere da parte dello Stato italiano che ha comportato il rinvio in
alto mare, combinato alla mancanza di una procedura individuale,
equa ed effettiva di filtro dei richiedenti asilo, costituisce una grave
violazione del divieto di espulsione collettiva di stranieri e, di
conseguenza del principio di non respingimento58.
Nel quadro della contestata azione di "rinvio", i ricorrenti sono stati
imbarcati a bordo di una nave militare appartenente alla marina
italiana. Tradizionalmente le navi in alto mare sono considerate come
un’estensione del territorio dello Stato di bandiera59. Si tratta di una
asserzione incontestabile di diritto internazionale, sancita dall’articolo
92 § 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
("CNUDM"). Questa asserzione è ancor più vera nel caso di una nave
da guerra, che è considerata, per citare Malcom Shaw, come "il
braccio armato della sovranità dello stato di bandiera"60. L’articolo 4
del codice della navigazione italiano sancisce questo stesso principio
quando enuncia che "Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili
italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato
sono considerati come territorio italiano". Insomma, quando i
ricorrenti sono saliti a bordo delle navi italiane in alto mare, sono
penetrati in "territorio" italiano, nel senso figurato di questo termine,
beneficiando così ipso facto di tutti gli obblighi cui è tenuta la Parte
contraente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla
Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati.
Il governo convenuto sostiene che le azioni di rinvio in alto mare
erano giustificate dal diritto del mare. Si potrebbero considerare
quattro motivi di giustificazione: il primo è l’articolo 100 § 1, comma
d), della CNUDM combinato con l’articolo 91 di quest’ultima, che
autorizza l’abbordaggio di navi che non battono alcuna bandiera,
generalmente come quelle che trasportano i migranti illegali
attraverso il Mediterraneo; il secondo è l’articolo 100 § 1, comma b)
della CNUDM, che autorizza le imbarcazioni ad abbordare le navi in
alto mare se vi sono ragionevoli motivi per sospettare che la nave in
questione sia impegnata nel traffico di schiavi, potendo estendere
questo motivo alle vittime della tratta degli esseri umani, tenuto
conto dell’analogia tra queste due forme di traffico61; il terzo è
l’articolo 8 §§ 2 e 7 del Protocollo contro il traffico illecito di migranti
via terra, via mare e via aria addizionale alla Convenzione delle
Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, che
autorizza gli Stati a intercettare e a prendere misure appropriate
contro le navi che possono essere ragionevolmente sospettate di
essere dedite al traffico illecito di migranti; e il quarto è l’obbligo
previsto dall’articolo 98 della CNUDM, di prestare assistenza alle
persone in pericolo o in emergenza in alto mare. In tutte queste
circostanze, gli Stati restano allo stesso tempo sottoposti al divieto di
respingimento. Nessuna di queste disposizioni può ragionevolmente
essere invocata per giustificare una eccezione all’obbligo di non
respingimento e, di conseguenza, al divieto di espulsione collettiva.
Ciò significherebbe dare una interpretazione tendenziosa di queste
norme che si prefiggono di garantire una protezione alle persone
particolarmente vulnerabili (le vittime di traffici, i migranti illegali, le
persone in pericolo o in emergenza in alto mare), come pure
servirsene per giustificare l’esposizione di queste persone a un
ulteriore rischio di maltrattamenti riconducendole nei paesi dai quali
sono fuggite. Come il rappresentante francese, sig. Juvigny, ha detto
al comitato speciale durante le discussioni sul progetto di
Convenzione sui rifugiati, "(...) non vi è peggior catastrofe, per un
individuo che è giunto dopo varie vicissitudini a lasciare un paese in
cui era sottoposto a persecuzioni, che vedersi rinviare in questo
paese, senza parlare delle rappresaglie che lo aspettano".62
Se vi è una causa nella quale la Corte dovrebbe fissare misure
concrete di esecuzione è proprio questa. La Corte ritiene che il
governo italiano debba adoperarsi per ottenere dal governo libico
l’assicurazione che i ricorrenti non siano sottoposti a un trattamento
incompatibile con la Convenzione, compreso un respingimento
indiretto. Non è abbastanza. Il governo italiano ha anche un obbligo
positivo di fornire ai ricorrenti un accesso pratico ed effettivo ad una
procedura di asilo in Italia.
Le parole del giudice Blackmun sono talmente ispirate che non
dovrebbero essere dimenticate. I rifugiati che tentano di scappare
dall’Africa non richiedono un diritto di ammissione in Europa. Essi
domandano soltanto all’Europa, culla dell’idealismo in materia di
diritti dell’uomo e luogo di nascita dello Stato di diritto, di cessare di
chiudere le sue porte a persone disperate che fuggono dall’arbitrio e
dalla brutalità. È una preghiera modesta, peraltro sostenuta dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. "Non restiamo sordi a
questa preghiera".
Note:
1
Hannah Arendt ha descritto come nessun altro il massiccio movimento di rifugiati
verificatosi nel XX secolo, costituito da uomini e donne comuni che sfuggivano alla
persecuzione basata su motivi religiosi. "Prima, un rifugiato era un individuo
costretto a cercare rifugio perché aveva commesso un certo atto o aveva certe
opinioni politiche. Certamente, abbiamo dovuto cercare rifugio; ma noi non
avevamo fatto niente e la maggior parte di noi non avrebbe nemmeno sognato di
avere delle opinioni radicali. Con noi, il senso della parola "rifugiato" è cambiato.
Oggi, i "rifugiati" sono coloro fra noi che hanno avuto la sfortuna di arrivare in un
nuovo paese senza disporre di mezzi e che hanno bisogno dell’aiuto dei comitati per
i rifugiati." (Hannah Arendt, We Refugees, in The Menorah Journal, 1943, ripreso in
Marc Robinson (ed.), Altogether Elsewhere, Writers on exile, Boston, Faber and
Faber, 1994).
2
L’allargamento del divieto di respingimento indiretto o "a catena" è stato
riconosciuto dal diritto europeo dei diritti dell’uomo (vedere T.I. c. Regno Unito
(dec.) no43844/98, CEDU 2000-III, Müslim c. Turchia, no 53566/99, §§ 72-76, 26
aprile 2005, e M.S.S. c.Belgio e Grecia [GC], no 30696/09, § 286, 21 gennaio 2011),
dal diritto universale dei diritti dell’uomo (vedere Comitato dei diritti dell’uomo
dell’ONU, Osservazione generale n. 31: La natura dell’obbligo giuridico generale
imposto agli Stati parti al Patto, 26 maggio 2004, CCPR/C/21/Rev.1/Add.13, § 12,
Comitato dell’ONU contro la tortura, Osservazione generale n. 1 sull’applicazione
dell’articolo 3 nel contesto dell’articolo 22 della Convenzione contro la tortura, 21
novembre 1997, A/53/44, allegato IX, § 2, e Korban c.Svezia, comunicazione no
88/1997, 16 novembre 1998, UN doc. CAT/C/21/D/88/1997), e dal diritto
internazionale dei rifugiati (UN doc. E/1618, E/AC.32/5: il comitato speciale ha
ritenuto che il progetto di articolo riguardasse non soltanto il paese di origine ma
anche gli altri paesi in cui la vita o la libertà del rifugiato sarebbe minacciata, e UN
doc. A/CONF.2/SR.16 (resoconto analitico della 16a seduta della Conferenza di
plenipotenziari, 11 luglio 1951): il respingimento riguarda anche l’ulteriore rinvio
forzato dal paese di accoglienza verso un altro paese in cui la vita o la libertà del
rifugiato sarebbe minacciata, secondo una proposta della Svezia che il delegato di
questo Stato ha in seguito ritirato "sottolineando tuttavia che, come ha anche
osservato il Presidente, il testo dell’articolo deve essere interpretato in modo da
coprire almeno alcune delle situazioni previste in questa parte dell’emendamento"),
e HCR, Nota sul non respingimento (EC/SCP/2), 1977, § 4.
3
Soering c. Regno Unito, § 88, serie A no 161, e Vilvarajah e altri c.Regno Unito,
§103, serie A no 215. I maltrattamenti possono anche riferirsi a condizioni di vita
spaventose nel paese di accoglienza (M.S.S. c. Belgio e Grecia, prima citata, §§ 366367).
4
Soering c. Regno Unito, prima citata, § 113, Einhorn c. Francia (dec.), no 71555/01,
§32, CEDU 2001-XI, e Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, no 61498/08, §149,
CEDU2010.
5Othman
(Abu Qatada) c. Regno Unito, no 8139/09, § 233, 17 gennaio 2012, non
definitiva.
6Bensaid
c. Regno Unito, no 44599/98, § 46, CEDU 2001-I, Boultif c.Svizzera,
no54273/00, § 39, CEDU 2001-IX, e Mawaka c. Paesi Bassi, no 29031/04, § 58, 1º
giugno2010.
7.Vedere
la corretta interpretazione della giurisprudenza della Corte fatta dalla
Camera dei Lords in Regina v. Special Adjudicator (Respondent) ex parte Ullah (FC)
(Appellant) Do (FC) (Appellant) v. Secretary of State for the Home Department
(Respondent), §§ 24 et 69. Per la dottrina, vedere Jane MacAdam, Complementary
protection in international refugee law, Oxford, 2007, pp. 171-172, e Goodwin-Gill e
McAdam, The refugee in international law, 3a edizione, Oxford, 2007, p. 315.
8
Secondo l’applicazione fatta dal Comitato dell’ONU contro la tortura in Balabou
Mutombo c. Svizzera, comunicazione no 13/1993, 27 aprile 1994, e in Tahir Hussain
Khan c.Canada, comunicazione no 15/1994, 18 novembre 1994; vedere anche le
Conclusioni e raccomandazioni: Canada, CAT/C/CR/34/CAN, 7 luglio 2005, § 4.a),
che criticano "il fatto che nella causa Suresh c. Ministro della cittadinanza e
dell’immigrazione, la Corte suprema del Canada non abbia riconosciuto nel diritto
interno il carattere assoluto della protezione conferita dall’articolo 3 della
Convenzione, che non è soggetto ad alcuna eccezione qualunque essa sia".
9
Secondo l’interpretazione fatta dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia nella sua
Osservazione generale no 6 (2005) sul trattamento dei minori non accompagnati e
dei minori separati dalla famiglia al di fuori del loro paese di origine, UN doc.
CRC/GC/2005/6, 1o settembre 2005, §27: «(...) gli Stati sono inoltre tenuti a non
rinviare un minore in un paese se vi sono seri motivi per pensare che questo minore
sarà esposto a un rischio reale di danno irreparabile, come quelli, in modo non
limitato, previsti negli articoli 6 e 37 della Convenzione, in tale paese o in qualsiasi
altro paese verso il quale il minore potrebbe essere successivamente trasferito (...)".
10
Secondo l’applicazione fatta dal Comitato ONU per i diritti umani in ARJ
c.Australia, comunicazione no 692/1996, 11 agosto 1997, § 6.9 ("Vi può essere
violazione del Patto quando uno Stato parte espelle una persona che si trova sul suo
territorio e che è sottoposta alla sua giurisdizione in circostanze che espongono
questa persona al rischio reale che i suoi diritti protetti dal Patto saranno violati in
un altro Stato"), posizione confermata in Judge c.Canada, comunicazione no
829/1998, 5 agosto 2003, §§ 10.4-10.6, riguardante il rischio di essere sottoposto
alla pena capitale nello Stato di accoglienza. In un’altra circostanza, lo stesso organo
ha concluso che "in alcune situazioni, uno straniero può beneficiare della protezione
del Patto stesso per quel che riguarda l’ingresso o il soggiorno: ad esempio quando
entrano in gioco considerazioni relative alla non-discriminazione, al divieto dei
trattamenti inumani e al rispetto della vita familiare" (Comitato ONU per i diritti
umani, Osservazione generale n. 15 (1986), § 5, posizione reiterata
nell’Osservazione generale n. 19 (1990), § 5, riguardante la vita familiare, e
nell’Osservazione generale n. 20 (1992), § 9, riguardante la tortura e le pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
11
Principi relativi alla prevenzione efficace delle esecuzioni extragiudiziarie,
arbitrarie, e sommarie, risoluzione 1989/65 del Consiglio economico e sociale, 24
maggio 1989, confermata dalla risoluzione 44/162 de l’AGNU, 15 dicembre 1989, §
5.
12
Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate,
risoluzione 47/133 dell’AGNU, 18 dicembre 1992, articolo 8 § 1.
13
Vedere, ad esempio, l’articolo VIII § 2 della Convenzione dell’OUA, conclusioni III
§§ 3 e 8 della Dichiarazione di Cartagena del 1984 sui rifugiati, OAS/Ser.L/V/II.66,
doc.0, rev.1, pp. 190-193, e § 5 della Raccomandazione (2001) 18 del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa. Il diverso approccio adottato dalla Direttiva
2004/83/EC è altamente problematico, per le ragioni esposte nel testo di cui sopra.
14
Raccomandazione (84) 1 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa relativa
alla protezione delle persone che soddisfano i criteri della Convenzione di Ginevra
che non sono formalmente riconosciuti come rifugiati, e HCR, Guida delle procedure
e dei criteri da applicare per determinare lo status di rifugiato, 1979, riedizione del
1992, § 28.
15
M.S.S. c. Belgio e Grecia, prima citata, §§ 366.
16
Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, §§ 79 e 80, Recueil des arrêts et
décisions 1996-V e, riguardante una procedura in vista dell’espulsione di un
rifugiato, Ahmed c.Austria, 17 dicembre 1996, §§ 40 e 41, Recueil 1996-VI.
17
Comitato ONU contro la tortura, Tapia Paez c. Svezia, comunicazione no 39/1996,
28aprile 1997, CAT/C/18/D/39/1996, § 14.5, e M.B.B. c. Svezia, comunicazione
no104/1998, 5 maggio 1999, CAT/C/22/D/104/1998 (1999), § 6.4; Comitato ONU
per i diritti umani, Osservazione generale 20: Sostituzione dell’osservazione
generale 7 riguardante il divieto della tortura e dei trattamenti crudeli (articolo 7),
10 marzo 1992, §§3 e 9, e Osservazione generale 29 riguardante le situazioni
d’urgenza (articolo 4); UN doc. CCPR/C/21/Rev.1/Add.11, 31 agosto 2001, § 11,
Esame dei rapporti: Osservazioni finali sul Canada, UN doc. CCPR/C/79/Add.105, 7
aprile 1999, § 13, e Osservazioni finali sul Canada, UN doc. CCPR/C/CAN/CO/5, 20
aprile 2006, §15.
18
Vedere la Dichiarazione degli Stati parti alla Convenzione del 1951 e/o al suo
Protocollo del 1967 relativi allo status di rifugiati, UN doc. HCR/MMSP/2001/9, 16
gennaio 2002, §4, che prendeva atto "della pertinenza e della capacità di
adattamento costanti di questo corpo internazionale di diritti e di principi,
compreso alla sua base il principio di non respingimento la cui applicabilità è sancita
nel diritto internazionale consuetudinario", e HCR, "The Principle of NonRefoulement as a Norm of Customary International Law", Response to the
Questions posed to UNHCR by the Federal Constitutional Court of the Federal
Republic of Germany in cases 2 BvR 1938/93, 2 BvR 1953/93, 2 BvR 1954/93, e,
ancora più categorica, la 5a conclusione della Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati
(1984), OAS/Ser.L/V/II.66, doc.10, rev.1, pp. 190-193, secondo la quale "questo
principio è imperativo nei confronti dei rifugiati e deve essere riconosciuto e
rispettato, nello stato attuale del diritto internazionale, in quanto principio di jus
cogens", posizione reiterata dalla Dichiarazione di Città del Messico del 2004 e il
piano d’azione volto a rafforzare la protezione internazionale dei rifugiati in america
latina. Per la dottrina vedere Lauterpacht e Bethlehem, «The scope and content of
the principle of non refoulement: Opinion», in Refugee Protection in International
Law, UNHCR’s Global consultation on International protection, Cambridge, 2003, pp.
87 e 149, Goodwin-Gill e McAdam, prima citato, p. 248, Caroline Lantero, Il diritto
dei rifugiati tra diritto dell’uomo e gestione della immigrazione, Bruxelles, 2010, p.
78, e Kälin/Caroni/Heim, Articolo 33, § 1, note a margine 26-34, in Andreas
Zimmermann (ed.), The 1951 Convention relating to the Status of Refugees and its
Protocol, A Commentary, Oxford, 2011, pp. 1343-1346.
19
Raccomandazione Rec (2005) 6 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
relativa all’esclusione dello status di rifugiato nel contesto dell’articolo 1 F della
Convenzione del 28 luglio 1951 relativa allo status di rifugiati. A titolo di esempio, le
presunzioni di pericolosità determinanti (o inconfutabili) derivanti dalla natura del
crimine commesso da una persona o dalla gravità della pena che le è stata inflitta
sono arbitrarie.
20
Haitian Centre for Human Rights e al. US, causa no10675, rapporto no51/96,
OEA/Ser.L./V/II.95, doc. 7 rev., 13 marzo 1997, § 157, dove viene detto che non vi è
"alcuna limitazione geografica" agli obblighi di non respingimento derivanti
dall’articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati; al
paragrafo 163, la Commissione interamericana ha anche concluso che le operazioni
di rinvio condotte dagli Stati Uniti avevano violato l’articolo XXVII della Dichiarazione
americana dei diritti e doveri dell’uomo.
21
Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non
respingimento in virtù della Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e
del suo Protocollo del 1967, 26 gennaio 2007, § 24, e "Background note on the
protection of asylum-seekers and refugees at sea", 18 marzo 2002, § 18, UN High
Commissioner for Refugees responds to US Supreme Court Decision in Sale v.
Haitian Centers Council, in International Legal Materials, 32, 1993, p. 1215, e "Brief
Amicus Curiae: The Haitian Interdiction case 1993", in International Journal of
Refugee Law, 6, 1994, pp. 85-102.
22
Dichiarazione delle Nazione Unite sull’asilo territoriale, adottata il 14 dicembre
1967, Risoluzione AGNU2312 (XXII), A/RES/2312(XXII), ai sensi della quale "Nessuna
persona di cui al paragrafo 1 del primo articolo sarà sottoposta a misure quali il
rifiuto di ammissione alla frontiera o, se già entrata nel territorio in cui cercava asilo,
l’espulsione o il respingimento verso qualsiasi Stato in cui rischia di essere vittima di
persecuzioni".
23
Regina v. Immigration Officer at Prague Airport and another (Respondents) ex
parte European Roma Rights Centre and others (Appellants), 9 dicembre 2004, § 26:
"Generalmente sembra sia ammesso il principio ai sensi del quale una persona che
lascia lo Stato della sua nazionalità e domanda asilo alle autorità di un altro Stato –
che sia alla frontiera o all’interno del secondo Stato - non deve essere respinta o
rinviata verso il primo Stato senza che vi sia stata una inchiesta adeguata sulle
persecuzioni di cui essa sostiene di avere un timore fondato ". Al paragrafo 21, Lord
Bingham of Cornhill ha chiaramente indicato la sua adesione alla decisione della
Commissione interamericana nella causa Haiti ("La situazione della parte attrice si
distingue ampiamente da quella degli Haitiani, le cui difficoltà sono state esaminate
nella causa Sale, prima citata, e il cui trattamento da parte dell’autorità degli Stati
Uniti è stato considerato a giusto titolo dalla Commissione interamericana dei diritti
dell’uomo (Rapporto no 51/96, 13 marzo 1997, §171) come se avesse comportato
violazione del loro diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della loro persona
nonché del diritto di asilo protetto dall’articolo XXVII della Dichiarazione americana
dei diritti e doveri dell’uomo, che la Commissione ha ritenuto essere stata violata
dagli Stati Uniti al paragrafo 163"– il sottolineato è stato aggiunto).
24
Conclusioni e raccomandazioni del CAT riguardanti il secondo rapporto periodico
degli Stati Uniti, CAT/C/USA/CO/2, 2006, §§ 15 e 20, che dichiarano che lo Stato
deve vigilare affinché l’obbligo di non respingimento "possa essere fruito da tutte le
persone poste sotto il [suo controllo effettivo], (..) ovunque esse si trovino nel
mondo"; J.H.A. c.Spagna, CAT/C/41/D/323/2007 (2008), causa nella quale è stata
ritenuta coinvolta la responsabilità della Spagna, rispetto agli obblighi di non
respingimento, quando questo paese intercettava i migranti arrivati via mare e
avviava procedure extraterritoriali di determinazione dello status di rifugiato.
25
Osservazione generale no 31: La natura dell’obbligo giuridico generale imposto
agli Stati parti al Patto, CCPR/C/21/Rev.1/Add.13, 2004, § 12, che sottolinea che gli
Stati devono garantire il non respingimento "a tutte le persone che si trovano sul
loro territorio e a tutte le persone sottoposte al loro controllo"), Osservazioni finali
del Comitato dei diritti dell’uomo: Stati Uniti, CCPR/79/Add.50, 1995, §284, e
Kindler c. Canada, comunicazione no470/1991, 30 luglio 1993, § 6.2, e ARJ c.
Australia, comunicazione no692/1996, 11 agosto 1997, § 6.8.
26
Vedere, in particolare, Guy Goodwin-Gill, «The right to seek asylum: interception
at sea and the principle of non-refoulement», conferenza inaugurale al Palais des
académies, Bruxelles, 16 febbraio 2011, p. 2, e The Refugee in International law,
Cambridge, 2007, p.248, Bank, Introduction to Article 11, note marginali 57-82, in
Andreas Zimmermann (ed.), The 1951 Convention relating to the Status of Refugees
and its Protocol, A Commentary, Oxford, 2011, pp. 832-841, e, nella stessa opera,
Kälin/Caroni/Heim sull’articolo 33, note marginali 86-91, pp. 1361-1363, Frelick,
“Abundantly clear”: Refoulement, in Georgetown Immigration Law Journal, 19,
2005, pp. 252 e 253, Hathaway, The rights of Refugees under International Law,
Cambridge, 2005, p. 339, Lauterpacht e Bethlehem, prima citata, p. 113, Pallis,
«Obligations of the states towards asylum seekers at sea: interactions and conflicts
between legal regimes», in International Journal of Refugee Law, 14, 2002, pp. 346347, Meron, «Extraterritoriality of Human Rights Treaties», in American Journal of
International Law, 89, 1995, p. 82, Koht, «The ‘Haiti Paradigm’ in United States
Human Rights Policy», in The Yale Law Journal, vol.103, 1994, p. 2415, e Helton,
«The United States Government Program of Interception and Forcibly Returning
Haitian Boat People to Haiti: Policy Implications and Prospects», in New York School
Journal of Human Rights, vol. 10, 1993, p. 339.
27
Sale v. Haitian Centers Council, 509/US 155, 1993, che include una solida opinione
dissenziente del giudice Blackmun.
28
Minister for Immigration and Multicultural Affairs v. Haji Ibrahim, [2000] HCA 55,
26Ottobre2000, S157/1999, § 136, e Minister for Immigration and Multicultural
Affairs v. Khawar, [2002] HCA 14, 11 aprile 2002, S128/2001, § 42.
29
Per lo stesso argomento, vedere Robinson, Convention relating to the Status of
Refugees: its history, contents and interpretation – A Commentary, New York, 1953,
p. 163, e Grahl-Madsen, Commentary on the Refugee Convention 1951 Articles 211, 13-37, Ginevra, p. 135.
30CPJI,
Interpretazione dell’articolo 3 § 2 del Trattato di Losanna (frontiera tra la
Turchia e l’Iraq), Parere consultivo no 12, 21 novembre 1925, p. 22, e Causa del
Lotus, 7settembre1927, p. 16, e CIJ, Competenza dell’Assemblea generale per
l’ammissione di uno Stato alle Nazioni Unite, Parere consultivo del 3 marzo 1950 –
Ruolo generale no 9, p. 8.
31
UN Doc. E/AC.32/SR.21, §§ 13-26.
32
UN Doc.E/AC.32/SR.20, §§ 54-56.
33
UN doc. A/CONF.2/SR.35.
34
Alland e Teitgen-Colly, Trattato sul diritto di asilo, Parigi, 2002, p. 229:
"L’espressione francese "respingimento" riguarda al tempo stesso l’allontanamento
dal territorio e la non ammissione all’ingresso".
35
CIJ, Causa relativa ad azioni armate frontaliere e transfrontaliere (Nicaragua
c.Honduras), sentenza del 22 dicembre 1988, § 94.
36
Vedere, per esempio, il ragionamento tenuto dal Comitato dei diritti dell’uomo in
Judge c. Canada, comunicazione no829/1998, 5 agosto 2003, § 10.4.
37Questa
conclusione è di fatto conforme alla politica americana antecedente al
decreto presidenziale del 1992, in quanto gli Stati Uniti allora ritenevano il divieto di
respingimento applicabile alle operazioni condotte in alto mare (Legomsky, «The
USA and the Caribbean Interdiction Programme», in International Journal of
Refugee Law, 18, 2006, p. 679). Questa conclusione corrisponde anche alla politica
americana attuale, in quanto gli Stati Uniti non soltanto hanno abbandonato la
politica di rinvio sommario verso Haiti dei migranti arrivati via mare senza
valutazione individuale dei richiedenti asilo, ma in più hanno essi stessi criticato
questa politica nel rapporto "Trafficking in Persons2010 Report" del dipartimento di
Stato, richiamando negativamente le prassi italiane di rinvio nel Mediterraneo
(estratto: "In più, il governo italiano ha dato attuazione ad un accordo concluso con
il governo libico per il periodo esaminato, accordo che permette alle autorità
italiane di intercettare, di rinviare di forza e di dirigere nuovamente verso la Libia i
migranti arrivati via nave. Secondo Amnesty International e Human Rights Watch, il
governo non ha neanche proceduto ad una sommaria selezione di questi migranti
per verificare che non vi fossero indizi di traffico" .
38
Causa del diritto d’asilo (Colombia c. Perù), sentenza del 20 novembre 1950 (ruolo
generale no7, 1949-1950): " Una simile deroga alla sovranità territoriale non può
essere ammessa, a meno che il fondamento giuridico non sia provato in ogni caso
particolare".
39
Vedere l’articolo 17 del Trattato del 1889 sul diritto penale internazionale
(Trattato di Montevideo), l’articolo 2 della Convenzione di La Havana del 1928 che
definisce le regole da rispettare nella concessione dell’asilo, e gli articoli 5 e 12 della
Convenzione di Caracas sull’asilo diplomatico, e, per uno studio globale, Question of
Diplomatic Asylum: Report of the Secretary-General, 22 settembre 1975, UN doc.
A/10139 (Part II), e Denza, Diplomatic Asylum, in Andreas Zimmermann (éd.), The
1951 Convention relating to the Status of Refugees and its Protocol, A Commentary,
Oxford, 2011, pp. 1425-1440.
40
Raccomandazione 1236 (1994) della Assemblea parlamentare relativa al diritto
d’asilo, che "insiste affinché le procedure di concessione dell’asilo e le politiche di
attribuzione dei visti, in particolare quelle che sono state recentemente modificate
dalle leggi nazionali o in virtù dei trattati della Unione europea, continuano ad
ispirarsi alla Convenzioni di Ginevra del 1951 ed alla Convenzione per la salvaguardia
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali - tenendo a mente che
quest’ultima contiene implicitamente degli obblighi nei confronti delle persone che
non sono necessariamente rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 e non permettono alcuna violazione, soprattutto del principio generalmente
ammesso che non respingimento e del divieto di respingimento dei richiedenti asilo
alla frontiera".
41
Rapporto al governo italiano sulla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo
per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti
(CPT) dal 27 al 31 luglio 2009, § 29: " Il divieto di respingimento si estende a tutte le
persone che possono trovarsi sul territorio di uno Stato o, per un’altra ragione,
essere sottoposte alla sua giurisdizione. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha
ammesso che un certo numero di situazioni specifiche possono dar luogo
all’applicazione extraterritoriale degli obblighi derivanti dalla CEDU e coinvolgere a
questo proposito la responsabilità di uno Stato. La giurisdizione extraterritoriale di
uno Stato può basarsi soprattutto su a) le attività condotte all’estero da agenti
diplomatici o consolari dello Stato (...)"
42
L’HCR ha ammesso l’applicabilità dell’obbligo di non respingimento sul territorio
di un altro Stato nel suo Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli
obblighi di non respingimento in virtù della Convenzione del 1951 relativa allo status
di rifugiati e del suo Protocollo del 1967, 26 gennaio 2007, § 24 ("L’HCR ritiene che
lo scopo, l’intenzione ed il senso dell’articolo 33(1) della Convenzione del 1951 sono
privi di ambiguità e stabiliscono l’obbligo di non rinviare un rifugiato o un
richiedente asilo verso un paese in cui rischierebbe una persecuzione o qualsiasi
altro pregiudizio serio, che si applica ovunque lo Stato eserciti la sua autorità,
compresa la frontiera, in alto mare o sul territorio di un altro Stato").
43
Vedere Study on the feasibility of processing asylum claims outside the EU against
the background of the common European asylum system and the goal of a common
asylum procedure, realizzato dal Centro danese per i diritti dell’uomo per conto
della Commissione europea, 2002, p. 24; comunicazione della Commissione al
Consiglio e al Parlamento europeo sulla gestione dell’ingresso gestito nell’Unione
europea di persone bisognose di una protezione internazionale e sul rafforzamento
delle capacità di protezione delle regioni di origine "migliorare l’accesso a soluzioni
durature" (2004) 410 finale; Comments of the European Council on Refugees and
Exiles on the Communication from the Commission to the Council and the European
Parliament on the managed entry in the EU of persons in need of international
protection and the enhancement of the protection capacity of the regions of origin
‘Improving Access to Durable Solutions’, CO2/09/2004/ext/PC, e UNHCR
Observations on the European Commission Communication "On the Managed Entry
in the EU of Persons in Need of International Protection and Enhancement of the
Protection Capacity of the Regions of Origin: Improving Access to Durable
Solutions", 30 août 2004.
44
Vedere, in particolare, l’articolo dedicato a Aristides de Sousa Mendes, in
Encyclopaedia of the Holocaust, Macmillan, New York, 1990, Wheeler, And who is
my neighbour? A world war II hero or conscience for Portugal, in Luzo-brasilian
Review, vol. 26, 1989, pp.119-139, Fralon, Aristides de Sousa Mendes – Le Juste de
Bordeaux, éd. Mollat, Bordeaux, 1998, e Afonso, Le "Wallenberg portugais":
Aristides de Sousa Mendes, in Revue d’histoire de la Shoah, Le monde juif, no 165,
1999, pp. 6-28.
45
Vedere, per le norme del diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti dell’uomo,
Andric c. Svezia, decisione del 23 febbraio 1999, n. 45917/99; Čonka c. Belgio, n.
51564/99, §§81-83, CEDU 2002-I; Gebremedhin [Gaberamadhien] c.Francia, n.
25389/05, §§ 66-67, CEDU2007-II; M.S.S. c. Belgo e Grecia, prima citata, §§ 301-302
e 388-389; e I.M. c.Francia, n. 9152/09, § 154, 2 febbraio 2012; Rapporto del
Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani
o degradanti (CPT) relativo alla sua visita effettuata in Italia dal 27 al 31 luglio 2009,
§ 27; Raccomandazione Rec(2003)5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle
misure di detenzione dei richiedenti asilo, Raccomandazione Rec(1998)13 del
Comitato dei Ministri agli Stati membri sul diritto di ricorso effettivo dei richiedenti
asilo respinti contro le decisioni di espulsione nel contesto dell’articolo 3 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo; Raccomandazione Rec(1981)16
sull’armonizzazione delle procedure nazionali in materia di asilo; Raccomandazione
1327 (1997) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa relativa alla
"protezione e al rafforzamento dei diritti dell’uomo dei rifugiati e dei richiedenti
asilo in Europa"; Linee guida sulla protezione dei diritti dell’uomo nel contesto delle
procedure d’asilo accelerate, adottate dal Comitato dei Ministri il 1º luglio 2009;
Migliorare le procedure d’asilo: analisi comparata e raccomandazioni in diritto e in
pratica, conclusioni e raccomandazioni chiave, progetto di ricerca dell’UNHCR
sull’applicazione in alcuni Stati membri selezionati delle disposizioni principali della
direttiva relativa alle procedure d’asilo, marzo 2010, e Commenti provvisori
dell’UNHCR sulla proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime per la
procedura di riconoscimento e di revoca dello status di rifugiato negli Stati membri
(Documento del Consiglio 14203/04, Asilo 64, 9novembre 2004), 10febbraio 2005;
Consiglio europeo sui rifugiati e gli esiliati, Nota informativa sulla Direttiva
2005/85/EC del Consiglio del 1º dicembre 2005 recante norme minime per la
procedura di riconoscimento e di revoca dello status di rifugiato negli Stati membri,
IN1/10/2006/EXT/JJ; Commissione del diritto internazionale, settantaduesima
sessione, 3 maggio – 4 giugno e 5 luglio – 6 agosto 2010, sesto rapporto
sull’espulsione degli stranieri presentato da Maurice Kamto, relatore speciale, nota
aggiuntiva A/CN.4/625/Add.1, e rapporto della Commissione di diritto
internazionale, settantaduesima sessione, 3 maggio – 4 giugno e 5 luglio – 6 agosto
2010, Assemblea generale, documenti ufficiali, sessantacinquesima sessione,
Supplemento n. 10 (A/65/10), §§. 135-183; e Camera dei lords, Commissione
dell’Unione europea, “Handling EU Asylum Claims: New Approaches examined”, HL
Paper 74, 11e rapporto di sessione 2003-2004, e “Minimum Standards in Asylum
Procedures”, HL Paper 59, 11e rapporto di sessione 2000-2001.
46
Comitato esecutivo dell’HCR Conclusione n. 82 (1997), § d(iii) e Conclusione n. 85
del Comitato esecutivo (1998), § q); UNHCR, Guida delle procedure e dei criteri da
applicare per determinare lo status di rifugiato, HCR/IP/4/Rev.1, 1992, §§ 189-223,
e Associazione del diritto internazionale, Risoluzione 6/2002 sulle procedure
riguardanti i rifugiati (Dichiarazione relativa a norme internazionali minime per le
procedure riguardanti i rifugiati), 2002, §§ 1, 5 e 8.
47
Sentenza della Corte internazionale di giustizia del 30 novembre nella causa
Ahmadou Sadio Diallo, A/CN.4/625, § 82, alla luce dell’articolo 13 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici e dell’articolo 12 § 4 della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; Comitato delle Nazioni Unite contro la
tortura, SH. C. Norvegia, Comunicazione n. 121/1998, 19 aprile 2000,
CAT/C/23/D/121/1998 (2000), § 7.4, e Falcon Rios c. Canada, comunicazione n.
133/1999, 17dicembre 2004, CAT/C/33/D/133/1999, § 7.3, Conclusioni e
Raccomandazioni; Francia, CAT/C/FRA/CO/3, 3 aprile 2006, § 6, Conclusioni e
Raccomandazioni: Canada, CAT/C/CR/34/CAN, 7 luglio 2005, § 4 c) e d), Esame dei
rapporti sottoposti dagli Stati parti in virtù dell’articolo 19 della Convenzione, Cina
CAT/C/CHN/CO/4, 21novembre 2008, § 18 (D); Comitato dei diritti dell’uomo
dell’ONU, Osservazione generale n. 15: Situazione degli stranierei rispetto al Patto,
1986, § 10; UN Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione
razziale, Raccomandazione generale n. 30 riguardante la discriminazione contro il
non cittadino, CERD/C/64/Misc.11/rev.3, 2004, §26; Relatore speciale delle Nazioni
Unite sulla prevenzione della discriminazione, rapporto finale di David Weissbrodt,
E/CN4/Sub2/, 2003, 23, § 11; e Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani
dei migranti, Jorge Bustamante, rapporto annuale, doc.A/HRC/7/12, 25 febbraio
2008, § 64.
48
Commissione interamericana, Haitian Centre for Human Rights e al. US, causa
no10675, § 163, alla luce dell’articolo XXVII della Dichiarazione americana dei diritti
dell’uomo e della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 28
luglio 2011 nella causa Brahim Samba Diouf (C-69-10), avuto riguardo dell’articolo
39 della direttiva 2005/85/CE.
49
Riguardo alle procedure di espulsione, vedere Maaouia c. Francia ([GC], n.
39652/98, CEDU 2000-X) e, riguardo alle procedure di asilo, Katani c. Germania
((dec), n. 67679/01, 31 maggio 2001). Come i giudici Loucaides e Traja, nutro anche
seri dubbi sulla proposta per la quale a causa di elementi discrezionali di ordine
pubblico delle decisione prese nell’ambito di queste procedure, non occorre
considerarle vertenti sui diritti civili della persona interessata. I miei dubbi si basano
su due ragioni più serie: primo, queste decisioni hanno per forza delle ripercussioni
importanti sulla vita privata, professionale e sociale dello straniero. Secondo, queste
decisioni non sono assolutamente discrezionali e devono conformarsi agli obblighi
internazionali, come quelli che derivano dal divieto di respingimento. Comunque sia,
le garanzie della procedura di asilo possono anche essere dedotte dall’articolo 4 del
Protocollo n. 4 ed anche dalla Convenzione stessa. Difatti, la Corte ha già basato la
sua valutazione dell’equità di una procedura di asilo sull’articolo 3 della
Convenzione (Jabari c.Turchia, n. 40035/98, §§39-40, CEDU 2000-VIII). Inoltre, ha
utilizzato l’articolo 13 della Convenzione per censurare la mancanza di un ricorso
effettivo contro il rigetto di una domanda di asilo (Chahal, prima citata, § 153, e
Gebremedhin [Gabermadhien], prima citata, §66). In altri termini, il contenuto delle
garanzie procedurali del divieto di respingimento deriva in definitiva dagli articoli
della Convenzione che proteggono i diritti dell’uomo per i quali non è autorizzata
alcuna deroga (come ad esempio l’articolo 3) combinati con l’articolo 13, nonché
dall’articolo 4 del Protocollo n. 4.
50
Čonka, prima citata, causa nella quale i ricorrenti, già al momento della loro
espulsione non erano più autorizzati a restare nel paese ed erano stati colpiti
dall’ordinanza di lasciare il territorio. Vedere anche, per l’applicabilità di altre
convenzioni regionali agli stranieri in situazione irregolare sul territorio, Corte
interamericana dei diritti dell’uomo, Misure provvisorie richieste dalla Commissione
interamericana dei diritti dell’uomo riguardo la Repubblica dominicana, causa degli
Haitiani e dei Dominicani di origine haitiana nella Repubblica dominicana, ordinanza
della Corte del 18 agosto 2000; e Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei
popoli, Incontro Africano per la Difesa dei Diritti dell’uomo c. Zambia,
comunicazione n. 71/92, ottobre 1996, §23, e Unione Inter-Africana dei Diritti
dell’Uomo e altri c. Angola, comunicazione n. 159/96, 11 novembre 1997, § 20.
51
In proposito, vedere anche la Risoluzione 1821 (2011) dell’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa sull’intercettazione e il salvataggio in mare di
richiedenti asilo, di rifugiati e di migranti irregolari, §§ 9.3-9.6.
52
Vedere la sentenza di principio Abdulaziz, Cabales et Balkandali c. Regno Unito,
28maggio 1985, §59, serie A n. 94.
53
Lauterpacht e Bethlehem, prima citata, § 61, e Goodwin e McAdam, prima citata,
p. 384.
54
Lauterpacht e Bethlehem, prima citata, § 67, e Goodwin-Gill, The right to seek
asylum: interception at sea and the principle of non-refoulement, Corso inaugurale
al Palais des Académies, Bruxelles, 16 febbraio 2011, p. 5, e Goodwin e McAdam,
prima citata, p. 246.
55
Vedere Bernard Ryan, Extraterritorial immigration control, what role for legal
guarantees?, in Bernard Ryan e Valsamis Mitsilegas (eds), Extraterritorial
immigration control, legal challenges, Leiden, 2010, pp. 28-30.
56
Al paragrafo 45 della causa Regina v Immigration Officer at Prague Airport and
another (Respondents) ex parte European Roma Rights Centre and others
(Appellants), la Camera dei Lords ha riconosciuto che le operazioni di presdoganamento "derivano dall’esercizio dell’autorità governativa" sulle persone
interessate. Tuttavia, i Lords non erano disposti a considerare il rifiuto di ammettere
qualcuno a bordo di un aereo in un aeroporto straniero come un atto di
respingimento ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei
rifugiati.
57
Oggi, queste regole costituiscono il diritto internazionale consuetudinario (CIJ,
applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di
genocidio, Bosnie-Herzégovine, sentenza del 26 febbraio 2007, § 420, e, fra molte
altre, McCorquodale e Simons, Responsibility Beyond Borders: State responsibility
for extraterritorial violations by corporations of international human rights law,
Modern Law Review, 70, 2007, p.601, Lauterpacht e Bethlehem, prima citata, p.108,
e Crawford e Olleson, The continuing debate on a UN Convention on State
Responsibility, International and Comparative Law Quarterly, 54, 2005, p. 959) e
sono applicabili alle violazioni dei diritti dell’uomo (Cawford, The International Law
Commission’s articles on state responsibility: Introduction, text and commentaries,
Cambridge, 2002, p.25 e Gammeltoft-Hansen, The externalisation of European
migration control and the reach of international refugee law, in European Journal of
Migration and Law, 2010, p. 18).
58
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene
inumani o degradanti (CPT) giunge alla stessa conclusione nel suo rapporto al
governo italiano relativo alla sua visita in Italia dal 27 al 31 luglio 2009, § 48.
59
Vedere la sentenza della CPJI nella causa del Lotus (Francia c. Turchia) del 27
settembre 1927, §65, dove la Corte dichiara esplicitamente: "Il principio della libertà
del mare ha come conseguenza il fatto che la nave in alto mare è assimilata al
territorio dello Stato di cui batte bandiera perché, come nel territorio, questo Stato
vi far valere la sua autorità, e nessun altro Stato può esercitarvi la propria. (...). Ne
consegue che ciò che succede a bordo di una nave in alto mare deve essere
considerato come se fosse accaduto sul territorio dello Stato di cui la nave batte
bandiera".
60
Shaw, International Law, 5e édition, Cambridge, p. 495.
61
Rapporto del gruppo di lavoro sulle forme contemporanee di schiavitù, UN
DocE/CN.4/Sub.2/1998/14, 6 luglio 1998, rec. 97, e rapporto del gruppo di lavoro
sulle forme contemporanee di schiavitù, UN Doc E/CN.4/Sub.2/2004/36, 20 luglio
2004, rec.19-31.
62
UN doc. E/AC.32/SR.40