gli operai di mirafiori - Mirafiori accordi e lotte
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gli operai di mirafiori - Mirafiori accordi e lotte
GLI OPERAI DI MIRAFIORI. Dalla ricostruzione al miracolo economico. Un'analisi quantitativa.* di Stefano Musso ------------------------* La principale fonte di questo saggio è il fondo Sepin conservato presso l'Archivio storico Fiat. Il fondo, di grande interesse, raccoglie una documentazione statistica molto ricca, concernente il personale delle varie sezioni in cui si articolava il gruppo Fiat, per un periodo che va dagli anni trenta agli anni sessanta. Per la rilevazione e l’elaborazione dei dati su Mirafiori qui utilizzati devo un ringraziamento a Maria Rosaria Mancino. ------------------------- Nel 1947, quando lo stabilimento di Mirafiori fu scorporato dalla Sezione Autocentro (comprendente Lingotto e Mirafiori) per essere costituito in ente Fiat separato, contava 14.000 operai. L'autonomia gestionale/contabile e i cambiamenti di denominazione ufficiale simboleggiavano il passaggio del testimone dal Lingotto a Mirafiori: quest'ultimo diventava lo "Stabilimento Automobili", mentre il primo era declassato a semplice "Sezione Officine Lingotto" e di lì a qualche anno, a "Officine Sussidiarie Auto"1. Le vicende belliche avevano ritardato il raggiungimento della primazia da parte di Mirafiori: erano trascorsi ben otto anni dall'inaugurazione, quando un manifesto di propaganda annunciava che il nuovo impianto era previsto per 22.000 operai su due turni 2, e tale numero di dipendenti fu toccato solo alla metà degli anni cinquanta, quando si può ritenere che abbiano finalmente trovato attuazione i principi della produzione in linea secondo i quali Mirafiori era stato concepito. All'inizio, furono traslocate dal Lingotto le officine per la costruzione dei gruppi meccanici di autovetture, autoveicoli industriali e aerei, e l'intera fabbricazione degli autocarri, ma la carrozzeria delle autovetture rimase al Lingotto3. Nel dopoguerra, con l'intensificazione dei lavori di ricostruzione, la sistemazione degli impianti non fu opera facile. Richiese successive modifiche e il trasferimento di officine da Lingotto a Mirafiori e viceversa, con imponenti traslochi di macchinari e uomini. Fino alla metà degli anni cinquanta, il numero dei lavoratori in forza allo Stabilimento Automobili subì oscillazioni, anche consistenti 1 Gli impianti di Mirafiori furono inizialmente accorpati per la gestione e contabilità al Lingotto, col quale costituirono la Sezione Autocentro fino al 31 dicembre 1946. Al 1° gennaio 1947 Mirafiori assunse la denominazione di Stabilimento Automobili, il Lingotto quella di Sezione Officine Lingotto, poi modificata, l'11 novembre 1954, in Officine Sussidiarie Auto. Il 31 gennaio 1958, infine, Mirafiori diventò la Sezione Automobili, il Lingotto la Sezione Officine Sussidiarie Auto. Queste informazioni sono contenute nelle schede sulle sezioni predisposte dalla Fiat Servizi per l'Industria - Sepin, in ASF. 2 Il manifesto, conservato in ASF, è stato riprodotto nell'apparato iconografico del volume di V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, Utet, 1971. 3 Queste informazioni sono contenute in una nota della Direzione Stabilimento Automobili (Mirafiori), Servizio Impianti e Sistemazioni, datata 31 dicembre 1955, in ASF. 1 (tabella 1), in relazione ai traslochi e al passaggio di alcune officine a nuove sezioni4. In seguito, con la crescita delle esigenze produttive, i ricorrenti adeguamenti e ampliamenti fecero di Mirafiori un cantiere permanente, che necessitava di continui afflussi di manodopera. I soli operai addetti alla Sezione Automobili salirono a 17.000 nel 1950 e a 23.000 nel 1960; balzarono poi a 36.000 nel 1965, dopo che il "raddoppio" di Mirafiori (con la costruzione dei fabbricati a sud del Corso Settembrini) ebbe segnato il definitivo slancio verso quel gigantismo industriale che avrebbe portato i lavoratori di Mirafiori a quota 47.500 alla fine del 1969 --e agli operai si aggiungevano circa 5.000 impiegati e dirigenti5. 4 Oltre agli stabilimenti centrali di produzione automobilistica in senso stretto (officine meccaniche e carrozzeria), Mirafiori comprendeva gli impianti di prima lavorazione (fonderia ghisa e alluminio, fucine, presse) e le officine sussidiarie per la produzione e manutenzione di attrezzature, stampi, utensili e macchine. Il 1° ottobre 1949 fu costituito l' ente autonomo Stabilimento Fonderie, il 1° novembre 1951 fu la volta dello Stabilimento Produzioni Ausiliarie. Il 31 dicembre 1958 i due enti assunsero rispettivamente le denominazioni di Sezione Fonderie e Fucine, e Sezione Produzioni Ausiliarie. 5 Il numero di operai in forza alla Sezione Automobili Mirafiori fu di 41.504 a fine 1966 e 46.416 alla fine del 1967; in quest'ultimo anno fu aperto lo stabilimento di Rivalta, che restò accorpato a Mirafiori fino al 1° luglio 1969, quando fu costituita la Sezione Officine di Rivalta; alla fine del 1968 gli operai, compresi quelli di Rivalta, salirono a 51.361; alla fine del 1969, con lo scorporo, gli operai di Mirafiori risultarono 47.593, quelli di Rivalta 11.792. Dalle informazioni contenute nel Fondo Sepin il numero degli impiegati risulta il seguente. Nel dicembre 1945, l'intera sezione Autocentro aveva 4.312 impiegati (2.859 uomini e 1.453 donne), più 317 impiegati negli spacci (149 uomini e 168 donne). Nel gennaio 1948 Mirafiori aveva 3.915 impiegati (2.503 uomini e 1.412 donne), Lingotto 574 impiegati (413 uomini e 161 donne). Nell'aprile 1952 la Sezione Automobili di Mirafiori 1.844 impiegati (1.347 uomini e 497 donne), Lingotto 791 impiegati (566 uomini e 225 donne). L'elevato numero di impiegati nel 1945-48 rimanda forse all'aumento del lavoro tecnico e contabile nella fase della ricostruzione; ma la successiva, netta diminuzione degli impiegati a Mirafiori tra il 1948 e il 1952 --in parte dovuta allo scorporo delle fonderie e delle officine sussidiarie (vedi nota 4) che nel 1952 contavano complessivamente 588 impiegati-- fa pensare che il fenomeno dell' “inflazione delle categorie superiori” (la facilità con cui si concedevano i passaggi alla seconda e prima categoria tra guerra e immediato dopoguerra), riscontrato per gli operai (ci permettiamo di rinviare a Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat. Saggi critici e note storiche, Fabbri Editori, Milano, 1992, in particolare la nota di S. Musso, L'"inflazione" delle categorie superiori, pp. 150-153), abbia operato anche per chi già si trovava ai livelli superiori con la concessione della qualifica impiegatizia a intermedi e operai di prima categoria. Non abbiamo elementi per valutare se nei primi anni cinquanta siano state attuate riorganizzazioni del lavoro impiegatizio, in concomitanza con l'ammodernamento degli impianti produttivi consentito dal Piano Marshall. Negli anni successivi, alla Sezione Automobili il numero di impiegati (compresi i dirigenti) aumentò costantemente, anche se in misura leggermente meno che proporzionale al numero di operai: impiegati e dirigenti (a fine anno) maggio settembre dicembre marzo marzo marzo ottobre giugno aprile agosto 1957 1959 1961 1962 1963 1964 1965 1966 1967 1968 2.496 2.717 3.018 3.226 3.597 3.709 3.976 4.169 4.822 5.396 in % del numero di operai e intermedi 13,7 13,1 12,6 10,4 10,9 10,4 10,9 10,0 10,4 10,5 2 Le assunzioni e il turn-over A pochi mesi dall'entrata in funzione di Mirafiori, la guerra determinò continui cambiamenti nell'utilizzo delle risorse umane, materiali e tecniche: si cercava di rispondere alle esigenze della produzione bellica e di porre rimedio alle difficoltà create dai bombardamenti, dalla disarticolazione dei trasporti, dalle carenze nel rifornimento di energia e materie prime. Tra il 1939 e il 1943, mentre i dipendenti del gruppo Fiat crescevano da 50.000 circa a quasi 70.000, il numero degli operai in forza all'intera Sezione Autocentro 6 restava stabile, intorno alle 15.000 unità: altre produzioni, più direttamente connesse agli armamenti, richiamavano i nuovi assunti. All'Autocentro, la stabilità del numero complessivo dei dipendenti si accompagnò a un forte turn-over, presumibilmente dovuto ai problemi organizzativi, al clima sociale surriscaldato, allo sfollamento. Ogni anno le assunzioni oscillavano tra un quarto e un terzo degli operai in forza, i licenziamenti tra il 6 e il 13 per cento, le dimissioni (pensionamenti e dimissioni volontarie) tra il 3 e il 10 per cento (tabella 3); i trasferimenti ad altri stabilimenti del gruppo coprivano la differenza tra entrati e usciti, mantenendo pressoché stabile il numero di operai. Benché una parte di coloro che se ne andavano fosse costituita da nuovi entrati 7, si può immaginare che la prima formazione di gruppi operai a Mirafiori sia avvenuta in circostanze eccezionali: dapprima fu resa difficile da un ricambio molto rapido, poi fu influenzata, ancora in condizioni di instabilità occupazionale, dall'effervescenza della situazione politica che si sovrappose, e in parte si sostituì, all'ancor scarsa sedimentazione di stratificazioni ascrivibili all'organizzazione del lavoro, al mercato del lavoro, alla politica delle assunzioni. Nell'immediato dopoguerra i giovani, le donne, i reduci, gli ex internati, i partigiani costituivano altrettanti gruppi operai che disponevano di proprie organizzazioni, nate su iniziativa politica; essi cercavano una tutela dei propri interessi nel sistema aziendale, anche attraverso la contrattazione sindacale interna, affiancandosi e intersecandosi ai tradizionali gruppi professionali definiti dalla categoria contrattuale, dal sistema di incentivazione, da specifiche mansioni. Le commissioni interne nel dopoguerra tentarono una difficile rappresentanza complessiva dei differenti gruppi, finendo spesso per operare una semplice sommatoria delle varie rivendicazioni 8. Dopo i primi anni cinquanta, quando il clima postbellico di mobilitazione politica venne meno, quando la 6 Non disponiamo di documentazione specifica sugli operai di Mirafiori prima del 1947; tuttavia, è lecito supporre che la quota degli operai di Mirafiori sul totale dell'Autocentro fosse ampiamente maggioritaria. Nel 1947, l'anno dello scorporo, Mirafiori aveva in forza 14.204 operai, il Lingotto 3.734. 7 Non ci è possibile quantificare il numero di operai che entravano e uscivano nell'arco dell'anno. L'unico dato a nostra disposizione riguarda i licenziamenti e le dimissioni nel periodo di prova, che sommati rappresentavano, in proporzione agli operai in forza, il 2,3 per cento nel 1940, l'1,1 nel 1941, il 2,0 nel 1942, l' 1,7 nel 1943. 8 Si veda Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat, cit., in particolare le note di G. Berta, Il mestiere del commissario interno, pp. 61-64 e B. Manghi, Rappresentare tutti, pp. 77-80. 3 componente socialcomunista perse consensi e il ruolo delle commissioni interne fu ridimensionato, le lenti ideologiche persero efficacia nel filtrare e ricomporre le segmentazioni. Queste si approfondirono, e le strategie collettive furono accantonate. Ma il quadro della composizione operaia, come vedremo, era a quel punto profondamente mutato. Mirafiori diventò una grande città del lavoro, in continua espansione, che reclutava manodopera in spazi sociali molto diversi e la ridifferenziava secondo le modalità dell'organizzazione di fabbrica. Dal punto di vista del ricambio del personale, il 1945 e il 1946 ebbero un andamento ancora molto simile a quello degli anni di guerra. Il 1945 registrò molte assunzioni e molte dimissioni; furono invece pochi i licenziamenti. Le assunzioni furono ancora molto numerose: ammontarono a quasi 5.500, più che nel 1940 e poco meno che nel 1943; ma certo non derivavano più da esigenze produttive: prima del 25 aprile l'assunzione serviva a evitare il reclutamento forzato da parte tedesca; poi fu la volta di reduci, partigiani, ex internati, disoccupati, donne (che proprio in quell'anno raggiunsero la quota più elevata di tutto il periodo); probabilmente vi furono riassunzioni di operai che avevano interrotto il rapporto di lavoro nel 19449. Più in generale le assunzioni si trasformarono in una forma particolare di quei servizi assistenziali che la Fiat aveva erogato durante la guerra a decine di migliaia di dipendenti e familiari, diventando uno dei pilastri della sopravvivenza a Torino10. L’assistenza, soprattutto la distribuzione di generi essenziali, non fu sospesa alla fine del conflitto, per il perdurare della scarsità degli approvvigionamenti; ancora nel 1946 la minestra Fiat veniva distribuita anche ai poveri, fuori degli stabilimenti. Nel nuovo clima postbellico, in presenza di un forte esubero di manodopera, le assunzioni, imposte anche per decreto prefettizio 11, servivano a guadagnare meriti politici. Pur in netto calo rispetto all'anno precedente, nel 1946 le assunzioni si mantennero su un livello elevato (3.250), sfiorando il 20 per cento degli operai in forza; poche furono le dimissioni, molti invece i licenziamenti (quasi 1900), per due terzi motivati da esubero di personale: evidentemente lo sblocco dei licenziamenti (gennaio 1946), per quanto contrastato dalle commissioni interne e generalmente ritenuto poco efficace nelle grandi aziende ad alta sindacalizzazione, consentì comunque di ridurre la pressione di una manodopera largamente 9 O che erano rimasti nei libri matricola ma non comparivano più nei libri paga, il che potrebbe spiegare la drastica riduzione degli operai in forza in quell'anno: il 1944 fu denso di situazioni eccezionali che complicavano il rapporto tra i dipendenti e l'azienda, tanto da far saltare il sistema interno di rilevazione statistica, come si può notare dal numero eccessivamente ridotto degli operai in forza in quell'anno. Le situazioni eccezionali si possono riassumere in sfollamento, decentramento di impianti, irregolarità della produzione, irregolarità della presenza in fabbrica, richieste di lunghi permessi, servizio militare, lavoro volontario in Germania, deportazione, partecipazione alla lotta partigiana ecc. 10 L'assistenza Fiat durante la guerra assunse un'importanza enorme e un nuovo significato, perché consentì agli operai e alle loro famiglie il mantenimento di condizioni vitali minime attraverso il rifornimento di generi essenziali, specie dopo il 1943, quando le istituzioni pubbliche allo sbando non erano più in grado di funzionare. L’attenzione con cui la Fiat seguiva la situazione economica e la capacità d’acquisto dei propri dipendenti è testimoniata dall’indagine campionaria condotta dall’ “Ufficio statistica Fiat” sui bilanci familiari di operai e impiegati tra il 1940 e il 1951. Cfr. R. Bozuffi, Nota sui bilanci familiari di dipendenti “Fiat” a Torino (1946-1951), in “Rivista italiana di economia, demografia e statistica”, n. 3-4, luglio-dicembre 1952, pp. 19-45. 11 Il decreto prefettizio che imponeva l’assunzione di reduci ed ex-partigiani fu emanato il 19 gennaio 1946. 4 eccedente. Negli ultimi anni quaranta e per tutto il decennio successivo le assunzioni ebbero un andamento altalenante, con anni di forte contenimento (1948, 1951-54, 1958, tra l'1 e il 4 per cento degli operai in forza) e anni di andamento sostenuto (1949-50, 1955, 1959, tra il 15 e il 20 per cento). Il turn-over fu invece estremamente contenuto, per la riduzione tanto dei licenziamenti che delle dimissioni. Nel 196163, in connessione al "raddoppio" di Mirafiori, si ebbe una nuova ondata di assunzioni (quasi 22.000 in tre anni), che comportò un certo aumento dei licenziamenti per mancata conferma nel periodo di prova (tabelle 7, 8); una crescita abbastanza consistente fu registrata anche dalle dimissioni (che toccarono il 4-6 per cento), tanto da far tornare a livelli consistenti il turn-over (tabella 3). Nel valutare l'ampiezza delle assunzioni va tenuto conto anche dei trasferimenti da e per altre sezioni del gruppo Fiat. A parte gli anni di scorporo di nuove sezioni (1949, 1951), il saldo tra gli entrati e gli usciti verso altri stabilimenti assunse raramente grandi dimensioni (tabella 4). In alcuni anni rappresentò tuttavia una voce consistente, tale da condizionare l'entità delle assunzioni e l'andamento complessivo della manodopera. Fu così, in particolare, nel 1960 --e poi ancora nel 1961 e 1962-- quando si ebbe un forte saldo negativo seguito --e poi accompagnato-- dalle grandi assunzioni del 1961-63. I passaggi attuati nei dodici mesi intercorsi tra il 4 aprile 1960 e il 2 aprile 1961 furono tanto rilevanti da essere seguiti con speciale attenzione dal servizio statistico interno: conosciamo così le sezioni di provenienza e destinazione dei lavoratori trasferiti (tabella 4 bis); la riorganizzazione interessò, ovviamente, la produzione di veicoli: la Sezione Automobili cedette ben 1.708 operai al Lingotto, 491 alla Spa, 104 alla Ricambi. I trasferimenti tra sezioni diedero un contributo ancor più rilevante al ricambio del personale. Il saldo dei trasferimenti, infatti, era ridotto in quanto somma algebrica tra entrati e usciti, ma il numero degli entrati e il numero degli usciti erano entrambi elevati, e dal punto di vista del ricambio del personale assumevano entrambi segno positivo: per tutti gli anni cinquanta i trasferimenti tra stabilimenti incisero sul turn over con quote superiori a quelle di licenziamenti e dimissioni. A completare il quadro degli entrati e degli usciti dagli operai in forza concorrevano infine i decessi e i passaggi alla retribuzione mensile (tabella 5), e i passaggi ai "reparti" indicati con le sigle O (ammalati) e M (militari). I malati di lungo periodo e i giovani che lasciavano le officine per il servizio militare non erano più considerati in forza allo stabilimento, ma mantenevano l'iscrizione a matricola. Il reparto O --una sorta di sistema interno di cassa integrazione creato allo scopo di raccogliere il personale in esubero individuato tra i più anziani e i meno abili al lavoro12-- rappresentò una voce importante della mobilità del personale fino 12 Sul reparto O non siamo riusciti a raccogliere informazioni adeguate. Accenni agli operai anziani e inabili sospesi, agli ammalati e ai dipendenti inviati ai convalescenziari sono contenuti nei verbali delle trattative con le commissioni interne, pubblicati in Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat nei verbali delle Commissioni interne, cit., vol. 1 1944-1950, in particolare pp. 201-202, 239, 262-263, 398-399. 5 alla metà degli anni cinquanta, con cifre decisamente rilevanti di entrati e usciti (tabella 6); successivamente, con il venir meno degli esuberi di manodopera, le uscite verso il reparto O diminuirono notevolmente, mentre i rientri si mantennero elevati, a indicare il recupero degli operai ancora abili. Minor peso ebbe il reparto M, che nella seconda metà degli anni cinquanta vide diminuire drasticamente il numero di giovani in partenza: segno evidente della tendenza a ridurre le assunzioni di giovani non militeassolti. I dati dei reparti O e M sono indicativi di una politica del personale che tendeva a modificare la composizione per età degli operai in direzione del privilegiamento delle classi di età centrali, considerate più produttive. Un peso marginale avevano le promozioni ai ruoli impiegatizi. Ogni anno in media tre o quattro lavoratori ogni mille ottenevano il passaggio alla retribuzione mensile: una quota limitata, indicativa delle scarse opportunità di carriera al di sopra dei ruoli operai, anche se qualche occasione in più sembrò aprirsi negli anni di maggiori assunzioni (1961-63). I decessi, infine, si ridussero dal 3 per mille della fine degli anni quaranta all'1,5 per mille dei primi anni sessanta, per effetto del progressivo ringiovanimento della manodopera. In totale, escluso il periodo bellico, anno per anno gli entrati ammontavano ora al 10, ora al 15, 20, 25, 30 per cento degli operai in forza, con una punta del 40 per cento nel 1961; gli usciti oscillavano tra il 10 e il 15 per cento, a parte le punte connesse agli scorpori di sezioni (tabella 2). Si trattava di un ricambio consistente, tale da determinare costi non irrisori di inquadramento e inserimento a pieno regime produttivo dei nuovi arrivati. La rigida disciplina e l'elevata proceduralizzazione del lavoro che la direzione tentava di imporre in quegli anni erano forse anche una risposta a questo problema. Andrebbe infine tenuto conto dei trasferimenti interni a Mirafiori, sui quali non abbiamo documentazione quantitativa, ma che alcuni indizi suggeriscono consistenti. Essi si sommavano al turn over nell'influire sui rapporti interpersonali, che erano di importanza decisiva nella configurazione dell'ambiente di lavoro, delle solidarietà di gruppo e della contrattazione informale in officina 13. I cambiamenti di reparto all'interno di uno stabilimento gigantesco, in cui nei primi giorni di assunzione gli operai non riuscivano a orientarsi 14, contribuivano a rendere instabile la composizione delle squadre, determinando una situazione in cui, salvo realtà particolari, non erano molti i compagni di lavoro che si conoscevano da lungo tempo. I passaggi tra sezioni e tra reparti all'interno delle sezioni erano senz'altro dettati da esigenze di organizzazione produttiva. Accanto ai trasferimenti di gruppi, 13 Per una recente discussione degli approcci allo studio dei gruppi e dei comportamenti operai nell'ambito delle relazioni sociali nell'impresa si veda T. Welskopp, Das Betrieb als soziales Handlungsfeld. Neuere Forschungsansätze in der Industrie- und Arbeitergeschichte, in "Geschichte und Gesellschaft", 1996, n. 22. Per alcuni aspetti della contrattazione informale si veda Relazioni industriali a Torino 1935-1955, numero monografico di "Movimento operaio e socialista", 1990, n. 1-2. 14 Questa l'esperienza descritta in molte delle interviste ad anziani Fiat ex operai di Mirafiori. Si veda il saggio di Marcella Filippa e Luisa Passerini in questo stesso volume. 6 o di un certo numero di lavoratori, vi erano tuttavia i trasferimenti individuali (tabella 4 bis). Questi ultimi erano per lo più risultato di richieste dei lavoratori, che camminavano sui fili informali dei rapporti personali tra operai e capi e tra capi, e che non era difficile esaudire in grandi impianti in espansione che accoglievano quotidianamente unità aggiuntive di manodopera. Le reti di relazioni personali contavano sicuramente molto anche nelle assunzioni, almeno negli anni in cui queste non furono massicce. Di certo il periodo di prova non fu usato per una significativa selezione del personale. La selezione --non sappiamo quanto severa-- avveniva forse a monte, probabilmente in base ai semplici dati anagrafici di chi chiedeva l'assunzione (allo scopo di perseguire il ringiovanimento della manodopera), o alle risultanze della visita medica, di test psicoattitudinali, o alle referenze personali e politiche. Gli ammessi al periodo di prova venivano confermati nella quasi totalità dei casi. Anche in riferimento al periodo di prova, tuttavia, si possono osservare tre fasi: 1940-46, 1947-1960, 19611965. Nella prima fase, di forte ricambio, ebbero una certa consistenza i licenziamenti per mancata conferma e le dimissioni nel periodo di prova, con una prevalenza delle dimissioni sulle mancate conferme. Nella seconda, entrambe le modalità di uscita furono irrilevanti. Nella terza fase, caratterizzata dal forte incremento delle assunzioni, aumentarono tanto le dimissioni che le mancate conferme, di nuovo con una prevalenza delle prime sulle seconde; mentre negli anni cinquanta, in media, un solo operaio su cento neo-assunti usciva nel periodo di prova per abbandono volontario o per decisione dell'azienda, nei primi anni sessanta uscivano 4 o 5 operai su cento (tabella 7). L'aumento della percentuale dei "fallimenti" negli anni di forti assunzioni, può essere ricollegabile al fatto che tentavano la via dell'occupazione in fabbrica persone culturalmente lontane dall'ambiente operaio, che venivano scartate o abbandonavano di fronte a un lavoro che, proprio in quegli anni, diventava sempre più intenso e rigidamente disciplinato; ma probabilmente l'effervescenza stessa del mercato del lavoro nell'ultimo periodo del boom economico lasciava aperte altre opportunità a chi era in cerca di occupazione. Quanto ai licenziamenti, dopo il 1946 restarono quasi tutti gli anni sotto l'1 per cento della manodopera (tabella 8). Tra le motivazioni, l'esubero di personale scomparve dopo il 1947. Nella prima metà degli anni cinquanta prevalsero di gran lunga i licenziamenti per scarso rendimento, tra il 1956 e il 1965 vennero invece più sovente avanzati i motivi disciplinari. A queste cause vennero ricondotti i licenziamenti di militanti comunisti negli anni cinquanta 15, che peraltro a Mirafiori non furono numerosi. Le mancate conferme al termine del periodo di prova ebbero un peso limitato rispetto ai licenziamenti complessivi, tranne che nel 1946 e, come abbiamo già notato, nel 1961-64. 15 La storia dei licenziamenti degli anni cinquanta è stata ricostruita, prevalentemente attraverso le testimonianze e le storie di vita dei militanti, in A. Ballone, Uomini, fabbrica e potere. Storia dell’Associazione nazionale perseguitati e licenziati per rappresaglia politica e sindacale, Milano, Angeli, 1987. 7 Giovani, adulti, anziani, uomini, donne I ritmi sostenuti del turn over consentirono, come abbiamo accennato, un notevole ringiovanimento della manodopera. L'attezione con cui il servizio statistico interno seguì il fenomeno testimonia l'intervento consapevole della Direzione. A partire dal 1948 furono redatte, ogni anno e per ciascuna sezione Fiat, quadri per gruppi d'età degli operai, in complesso e per categoria di paga, e a partire dal 1953, con cadenza triennale, statistiche sull'età media e sull'anzianità contrattuale degli operai in forza ai singoli stabilimenti. Nel 1948 la manodopera risultava abbastanza invecchiata: gli ultraquarantenni costituivano oltre la metà degli operai (il 54 per cento). A distanza di 17 anni, nel 1965, il loro peso si ridusse a un quarto (26 per cento). I lavoratori della classe d'età centrale, quella tra i 31 e i 40 anni, crebbero nello stesso arco di tempo dal 25 al 40 per cento, mentre i giovani fino a 30 anni passarono dal 21 al 34 per cento (tabella 9). Il ringiovanimento non si verificò tuttavia in modo graduale e progressivo in tutto il periodo. Fino alla metà degli anni cinquanta ci furono oscillazioni, con una leggera tendenza opposta: nel 1954 gli ultraquarantenni erano saliti al 57 per cento, a scapito dei più giovani, scesi al 18 per cento. La grande trasformazione si attuò in soli quattro anni: alla fine del 1958 gli ultraquarantenni costituivano ancora il 47 per cento della manodopera, nel 1962 erano scesi al 25 per cento; nei tre anni successivi il processo si arrestò, e i cambiamenti si limitarono a una diminuzione della quota dei più giovani a favore degli operai tra i trenta e i quarant'anni. Senza voler azzardare improbabili catene causali, non si può non notare che alcuni eventi di grande importanza nella storia di Mirafiori si concentrarono in pochi anni: nel 1955, l'anno in cui maturò la sconfitta della Fiom, furono introdotte le prime macchine transfer nella produzione di parti meccaniche della "600" e avviate le moderne linee "dedicate" alla produzione di grande serie di utilitarie (la "600" prima e la "500" due anni più tardi); di lì a breve fu realizzato un ringiovanimento della manodopera incredibilmente rapido, che si accompagnò, come vedremo, a un forte aumento della quota degli operai comuni di terza categoria, addetti a mansioni semplici e ripetitive. Benché attuata con mezzi non traumatici (le nuove assunzioni innanzitutto, i trasferimenti tra stabilimenti, forse qualche dimissione incentivata), una simile trasformazione della composizione operaia richiedeva un grado di flessibilità della manodopera difficilmente ottenibile in presenza di organizzazioni sindacali agguerrite. Il ringiovanimento delle maestranze si attuò in tutte le sezioni Fiat: tra il 1953 e il 1965 l'età media degli operai passò da 42 a 35 anni alla Sezione Automobili, da 43 a 36 al Lingotto, da 43 a 38 alla Spa, da 41 a 37 alla Ricambi, da 46 a 38 alla Velivoli; ma ciò che caratterizzò gli stabilimenti auto, di Mirafiori ma anche 8 del Lingotto, fu il concentrarsi della manodopera nelle classi d'età centrali: nel 1965, a Mirafiori, gli operai tra i 25 e i 39 anni costituivano il 62 per cento della manodopera, contro il 60 per cento del Lingotto, il 55 per cento della Spa, il 54 per cento delle Ferriere, il 49 per cento della Motori Avio, il 48 per cento della Velivoli, il 47 per cento della Ricambi; all'interno dell'area di Mirafiori, solo le Fonderie e Fucine, col 63 per cento, raggiungevano una percentuale pari alla Sezione Automobili, mentre le Produzioni ausiliarie, in cui lavoravano operai specializzati di età più anziana e venivano inseriti parecchi giovani per apprendere il mestiere, la percentuale era solo del 35 per cento. Anche dai dati sull'anzianità media in Fiat risulta che il ringiovanimento fu più accentuato negli stabilimenti di produzione autoveicoli, quelli maggiormente interessati dalla produzione di grande serie. Nel 1953 a Mirafiori l'anzianità Fiat degli operai risultava mediamente di 11,7 anni, nel 1967 era scesa a 7,8; nello stesso arco di tempo, alle Fonderie e Fucine era passata da 10,2 a 8,2; alle Produzioni Ausiliarie da 12,1 a 10,8; al Lingotto da 11,9 a 7,7; alle Ferriere da 13,0 a 12,9; alla Spa da 13,0 a 8,8; alla Ricambi da 11,1 a 10,7; alla Velivoli da 15,5 a 13,4; alla Grandi Motori da 14,6 a 13,0; alla Materiale Ferroviario da 13,7 a 12,5. Nel 1953 a Mirafiori la metà degli operai risultava entrata in Fiat dal 1945 in avanti; il 20 per cento era entrato tra il 1940 e il 1944, un altro 20 per cento negli anni trenta, il 10 per cento negli anni 20 e ancor prima (43 operai erano in Fiat già da prima del 1915, e 158 erano entrati tra il 1915 e il 1919). A distanza di nove anni, nel 1962, ben il 73 per cento degli operai era entrato in Fiat dopo il 1953, vale a dire in quegli ultimi 9 anni, il 17 per cento era entrato tra il 1945 e il 1953, il 5 per cento tra il 1940 e il 1944, un altro 5 per cento negli anni trenta, e solo l'1 per cento (327 persone) risaliva agli anni venti. Il ringiovanimento era stato davvero consistente. All'inizio degli anni cinquanta vi era a Mirafiori una presenza non sporadica di lavoratori che avevano visto dall'interno degli stabilimenti Fiat i conflitti del biennio rosso e l'avvento del fascismo, e rilevante era il numero di coloro che avevano sperimentato la contrattazione corporativa, vissuto la seconda guerra mondiale, i bombardamenti e la resistenza --qualunque fosse il loro orientamento politico; nei primi anni sessanta, questo patrimonio di esperienze storiche dirette era andato largamente perduto: il 90 per cento degli operai di Mirafiori era entrato in Fiat dopo il 1945. La memoria storica poteva trasmettersi con la comunicazione intergenerazionale nel territorio sociale o attraverso i canali delle organizzazioni del movimento operaio, ma era ormai quasi del tutto assente dentro la fabbrica. Il ringiovanimento interessò tanto la manodopera maschile che quella femminile. Le donne però, già nel 1948, apparivano più degli uomini concentrate nell'età dai 31 ai 50 anni, con una minor presenza, in confronto agli uomini, di giovani e di anziane. Tra il 1948 e il 1965 raddoppiò la quota di operaie di età compresa tra i 21 e i 30 anni (dal 14 per cento nel 1948 al 28 per cento nel 1965), mentre diminuì la quota della classe d'età tra 41 e 50 anni (dal 37 al 26 per cento, tabella 10). A differenza di quanto accadde per gli uomini, però, la classe d'età 31-40, invece di 9 aumentare, diminuì leggermente, dal 29 al 27 per cento, e in netta controtendenza crebbe, anche se di poco, la quota delle donne tra i 51 e i 60 anni, dal 15 al 18 per cento. ll ringiovanimento delle operaie, dunque, fu meno netto, ma non incise significativamente sulla distribuzione per età dell'insieme della manodopera, perché nell'arco di tempo considerato la quota della manodopera femminile, come vedremo, si ridusse drasticamente. Nel 1948 la quota di operaie ultraquarantenni nella manodopera femminile di Mirafiori era piuttosto elevata, se confrontata alle tradizionali modalità di presenza delle donne sul mercato del lavoro industriale. In particolare, l'età delle operaie di Mirafiori appare decisamente elevata in confronto all’età delle operaie dei settori di tradizionale occupazione femminile (tessile, vestiario, alimentare ecc.). E' pur vero che negli anni trenta si erano osservate alcune tendenze a superare il modello dell'abbandono del lavoro extradomestico da parte delle donne dopo il matrimonio o la nascita dei figli, e soprattutto un aumento dei tentativi di rientro sul mercato del lavoro regolare e a tempo pieno dopo aver cresciuto i figli. Tuttavia si era trattato solo di primissime scalfitture di un modello di comportamento che sarebbe durato ancora a lungo in ambiente operaio, almeno fino al calo del tasso di natalità degli anni settanta. Probabilmente un'occupazione alla Fiat era difficile da lasciare, perché garantiva guadagni molto più elevati dei salari femminili medi. Del resto, da alcune testimonianze di operaie Fiat emergono, già negli anni trenta, comportamenti demografici moderni 16. Il ridotto ringiovanimento della manodopera femminile a Mirafiori negli anni cinquanta va poi messo in relazione alla caduta della quota della manodopera femminile: mentre le donne al lavoro tendevano a mantenere il posto, e invecchiavano, le nuove assunzioni privilegiavano la manodopera maschile. Nel 1948 gli uomini si distribuivano piuttosto uniformemente nelle varie classi di età, ad eccezione dei ragazzi sotto i 20 anni, che erano molto pochi (3 per cento); il 18 per cento dei maschi aveva 21-30 anni, il 25 per cento 31-40 anni, il 27 per cento 41-50 anni, il 20 per cento 51-60 anni, e si registrava ancora una presenza consistente di ultrasessantenni, pari al 7 per cento. I più giovani erano destinati a ridursi a una quota irrilevante nel 1965 (1,5 per cento): i nuovi assunti tendevano forse ormai a coincidere con coloro che uscivano dalla Scuola Allievi. Scomparvero anche gli ultrasessantenni. I giovani adulti tra i 21 e i 30 anni crebbero quasi del doppio, dal 18 al 32 per cento, gli operai tra i 31 e i 40 anni aumentarono dal 25 al 40 per cento. Come abbiamo già accennato, nei vent'anni successivi alla seconda guerra mondiale la presenza di personale femminile diminuì, e in misura consistente. Nella seconda metà degli anni trenta, al Lingotto, ogni 100 operai 10 o 11 erano donne: si trattava di una presenza consistente, non distante dalla media dell'intero settore metalmeccanico (che in provincia di Torino era passato da una presenza 16 Si veda L. Passerini, Torino operaia e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1984. Sulle donne operaie alla Fiat si veda anche G. Bonansea, Immaginario femminile tra lavoro di fabbrica e dimensione del corpo, in P. Nava (a cura di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992, pp. 96-103. 10 femminile del 9,7 per cento nel 1911 al 12,5 per cento nel 1927). In precedenza, l'industria automobilistica torinese aveva impiegato percentuali di manodopera femminile inferiori a quelle dell'intero settore (3,7 per cento nel 1911 e 6,3 per cento nel 1920, in Torino città). L'industria metalmeccanica era costellata di piccole officine che utilizzavano collaboratori familiari, tra cui molte donne, mentre nella produzione di minuterie metalliche si faceva largo uso di operaie e ragazzi. Al Lingotto la semplificazione di alcune lavorazioni di serie e soprattutto le dimensioni crescenti della produzione avevano consentito la creazione di intere squadre femminili in selleria, ai fanali, ai cavi elettrici. Le norme emanate dal fascismo per la limitazione dell'occupazione femminile a favore di quella maschile operarono più nella pubblica amministrazione e nel terziario che in campo industriale, più sul versante impiegatizio che su quello operaio. Alle aziende che, esportando parte della produzione, erano impegnate nella concorrenza internazionale non fu mai negata una quota di manodopera femminile, il cui costo, definito dalla contrattazione corporativa centralizzata, era decisamente inferiore a quello della manodopera maschile, anche a parità di qualificazione e prestazione17. Lo scoppio della guerra non portò alla Sezione Autocentro un incremento significativo dell'impiego di donne, a differenza di altri stabilimenti Fiat 18. La quota di operaie salì al 12,6 per cento nel 1943, e toccò il massimo nel 1945 (14,5 per cento). Anche in altre sezioni Fiat il massimo fu toccato dopo la guerra, nel 1945 o 17 Ci permettiamo di rimandare a S. Musso, Il salario sessuato. Differenziali retributivi nell'industria metalmeccanica (1920-1960), in P. Nava (a cura di), Operaie..., cit., pp. 104-121. Sulla politica fascista nei riguardi dell'occupazione femminile, V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993. Più in generale, sul lavoro femminile in fabbrica, F. Bettio, The Sexual Division of Labour. The Italian Case, Oxford, Clarendon Press, 1988. 18 La percentuale di operaie sul totale della manodopera nelle principali sezioni Fiat, nel periodo della seconda guerra mondiale risulta la seguente (al gennaio di ogni anno): 1938 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 1946 1947 (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) 11,2 10.8 10,6 10,2 9,2 12,0 13,4 13,6 14,0 10,5 0,1 0,1 0,1 0,1 0,2 0,3 6,3 5,7 5,5 4,2 11,1 10,0 10,0 9,9 10,9 17,1 20,5 19,9 14,4 12,9 1,9 1,7 2,4 2,4 3,0 3,9 5,1 5,4 5,0 4,1 4,7 4,6 9,1 9,3 8,4 8,6 11,1 11,2 11,4 11,2 0,6 0,5 0,4 0,5 0,8 0,9 3,9 3,4 3,0 4,5 4,4 5,4 4,2 5,6 5,7 5,0 5,7 4,5 (1) Autocentro (nel 1947 solo Mirafiori) (2) Spa (3) Materiale ferroviario (4) Ferriere (stabilimento di Torino) (5) Aeronautica d'Italia (6) Grandi motori (meccanica) (7) Grandi motori (fonderia) 11 nel 1946, quando certo non operavano più le esigenze della produzione bellica e la necessità di sostituire manodopera maschile impegnata al fronte. L'assunzione di donne nell'immediato dopoguerra va collocata nel clima generale cui abbiamo accennato --in particolare la nuova consapevolezza del ruolo femminile che si era diffusa durante il conflitto 19. La quota delle operaie a Mirafiori restò alta nel 1946 (anno in cui, in termini assoluti ci fu un leggero incremento), poi iniziò una discesa, dapprima lenta, poi rapida alla fine degli anni cinquanta e ancor più accelerata nei primi anni sessanta. Mentre cresceva il numero degli operai con l'espansione degli impianti, il numero delle donne diminuiva anno dopo anno (con rare eccezioni). Nel 1946 le donne erano 2.324, nel 1965 solo più 1.006, e la loro quota si ridusse al 2,8 per cento (tabella 11). Anche nell'intero gruppo Fiat la presenza di operaie diminuì in questo periodo, dal 15 per cento del 1943 al 2 per cento della metà degli anni sessanta 20. Ciò avveniva mentre nell'intero settore metalmeccanico della provincia di Torino la quota di manodopera femminile restava stabile sui valori prebellici: 12,8 per cento nel 1951 e 12,6 per cento nel 1961). La riduzione dell'impiego di donne fu pertanto una peculiarità della Fiat, non di Mirafiori, né può essere connessa a trasformazioni dell'organizzazione produttiva. Un primo elemento di spiegazione va individuato nella scelta, operata non solo dalla Fiat ma dall'insieme della media e grande industria in quegli anni, di concentrare manodopera maschile giovane adulta; si determinò così, alla fine degli anni sessanta, quella segmentazione del mercato del lavoro industriale in Italia individuata da Massimo Paci in due grandi settori: uno centrale, costituito da uomini delle classi di età più produttive per resistenza fisica e qualificazione; uno periferico, ad ampia presenza femminile, giovanile e di manodopera anziana di scarsa qualificazione, occupato nelle piccole imprese, nell'artigianato, nelle microimprese di servizi e nel lavoro a domicilio, con una forte componente di lavoro precario e stagionale21. Un secondo elemento di spiegazione può essere avanzato in linea ipotetica, guardando non più al lato della domanda, ma al versante dell'offerta. Gli anni di più rapida diminuzione della presenza di donne coincisero con il periodo delle grandi assunzioni, che pescavano nel bacino degli immigrati dal Mezzogiorno e dalle aree rurali del Piemonte. Tra gli immigrati, specie nelle prime ondate, prevalevano nettamente i giovani adulti maschi. E maschi erano i non pochi operai pendolari dai centri agricoli circostanti Torino. Non è dunque improbabile che l'assunzione di donne trovasse limitazioni dal lato dell'offerta, tenuto anche conto del fatto che proprio negli anni del miracolo economico iniziò ad affermarsi anche nelle famiglie operaie la figura della casalinga a tempo pieno 22. Tuttavia, la riduzione del numero assoluto delle donne impiegate in Fiat e 19 Si veda A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991. Solo nel 1970 si sarebbe registrata una leggera ripresa, che avrebbe fatto oscillare tra il 6 e il 4 per cento la quota femminile nella prima metà degli anni settanta. 21 M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973. 22 N. Federici, Procreazione, famiglia, lavoro della donna, Torino, Loescher, 1984. 20 12 l'abbattimento della loro quota addirittura a un quarto rispetto ai livelli del periodo fascista, a fronte della stabilità della presenza femminile nell'intero settore metalmeccanico, lasciano più di un dubbio sulla possibilità che la componente da offerta abbia giocato un ruolo fondamentale. Un altro importante fattore ha operato influenzando ancora la domanda: il lento cammino verso la parità retributiva tra uomini e donne, raggiunta nel 1962 ma che già aveva compiuto passi decisivi nel 195423, contribuì senza dubbio a rafforzare la scelta delle grandi imprese in direzione del personale maschile, essendo venuto meno il risparmio sui costi salariali ottenibile con l'impiego di operaie. Le donne furono lasciate alle piccole imprese dove, tra l'altro, era più facile eludere il contratto. Il risultato della politica del personale che abbiamo cercato di descrivere fu, nei primi anni sessanta, una manodopera molto omogenea sotto il profilo demografico, a differenza di quella impiegata alla fine degli anni quaranta. Nel 1948, su 100 operai 3 erano giovani maschi sotto i 20 anni, 16 erano giovani adulti sotto i 30 anni, 2 erano giovani donne sotto i 30 anni, 47 erano gli uomini tra i 30 e i 50 anni, 6 le donne in questa stessa classe d'età, 24 erano gli operai anziani ultracinquantenni, 2 le operaie anziane. Vi erano dunque consistenti gruppi individuabili sulla base del sesso e dell'età. Nel 1965 i giovanissimi e gli ultrasessantenni erano scomparsi: ogni cento operai vi era solo un giovane maschio tra i 18 e i 20 anni; due in tutto erano le donne, una tra i 20 e i 40 anni e un'altra tra i 40 e i 60; 10 operai avevano tra i 50 e i 60 anni, 16 tra 40 e 50 anni, 39 tra 30 e 40 anni, 31 tra 20 e 30 anni. Dunque, il 70 per cento della manodopera era ora costituito da giovani uomini tra i 20 e i 40 anni (tabella 10). Se l'innesto degli immigrati dal Mezzogiorno introduceva elementi di differenziazione di tipo nuovo, culturale e linguistico, altri fattori di omogeneità derivavano dalla distribuzione per categorie contrattuali. 23 La parità salariale a parità di lavoro (per qualifica e prestazione) fu ottenuta con le nuove categorie di inquadramento degli operai previste dall'accordo nazionale del 20 ottobre 1962, (ma il processo era entrato in fase avanzata già nel 1954, con l'accordo interconfederale sul conglobamento in paga base dell'indennità di contingenza). Le categorie per l'industria metalmeccanica variarono come segue: operaio specializzato operaio qualificato manovale specializzato manovale comune donna di 1^ cat. donna di 2^ cat. donna di 3^ cat. 22.11.1961 20.10.1962 1^ categoria 2^ categoria 3^ categoria 5^ categoria 4^ categoria 6^ categoria 7^ categoria 1^ categoria 2^ categoria 3^ categoria 6^ categoria 4^ categoria 5^ categoria 7^ categoria 17.2.1963 1^ categoria 2^ categoria 3^ categoria 4^ categoria 5^ categoria operaio specializzato operaio qualificato manovale specializzato e donna di 1^ cat. donna di 2^ cat. manovale comune e donna di 3^ cat. 13 I gruppi professionali Il primo insieme di gruppi professionali può essere individuato nelle categorie contrattuali. Nel secondo dopoguerra le categorie erano ancora quelle stabilite dal primo contratto nazionale di lavoro per l'industria metalmeccanica del 1928. Vi erano quattro categorie per i maschi adulti e due per le donne, oltre ad alcune categorie per i minorenni. Per ciascuna categoria era fissata la paga base oraria, che variava localmente, e costituiva un minimo al di sopra del quale era possibile retribuire con aumenti di merito. Nelle aziende maggiori erano in vigore paghe orarie superiori ai minimi per una larga maggioranza degli operai. La prima categoria dei maschi adulti era quella degli operai specializzati, che svolgevano lavori per i quali era richiesta una specifica competenza tecnico-pratica e abilità manuale (erano gli eredi degli operai di mestiere: tracciatori, modellisti, utensilisti, calibristi, collaudatori non di serie, addetti alla manutenzione); la seconda categoria era quella degli operai qualificati, che necessitavano di una specifica capacità pratica (la figura tipica era quella del tornitore per lavori in piccola serie, che provvedeva da sé alla regolazione e all'attrezzaggio della macchina); la terza categoria era quella dei manovali specializzati (successivamente chiamati anche operai comuni), le cui mansioni non richiedevano che un breve periodo di addestramento (erano gli addetti macchina per la produzione di serie che conducevano macchine già regolate e attrezzate); la quarta categoria era costituita dai manovali comuni, che svolgevano lavori richiedenti unicamente dispendio di energia fisica (in genere erano addetti al trasporto a mano di materiali o a lavori di pulizia); le donne di prima categoria svolgevano lavori corrispondenti a quelli del manovale specializzato, le donne di seconda categoria lavori corrispondenti a quelli del manovale comune (pulizia, trasporti leggeri) o lavori semplici eseguiti senza macchine operatrici. Nel 1942 le categorie femminili furono portate a tre: alla prima categoria delle donne erano assegnate le operaie che svolgevano lavori corrispondenti a quelli degli operai qualificati, o lavori da addette macchine particolarmente disagiati; la seconda e la terza coincidevano con le due categorie precedenti24. 24 La suddivisione delle donne in tre categorie, attuata nel corso della guerra per riconoscere il nuovo ruolo delle donne in fabbrica, introdusse la prima categoria per le donne che svolgevano lavori qualificati. Questa categoria, però, rimase poco più che una categoria fantasma, specie al di fuori delle grandi aziende. Alla Fiat, dove vi erano classificate pochissime donne, veniva indicata come la categoria 05, in quanto alle quattro categorie dei maschi adulti seguivano la 5^ e la 6^ categoria, che corrispondevano alle due tradizionali categorie femminili. Tra il 1959 e il 1962, nel sistema di enumerazione della categorie in Fiat, scomparve stranamente la quinta posizione: dopo le quattro categorie maschili, la categoria 05 fu indicata come 6^, e le ultime due categorie femminili divennero la 7^ e la 8^. Nel 1963, infine, col definitivo riordinamento contrattuale, manovali specializzati e donne di prima furono unificati nella 3^ categoria, le donne di 2^ diventarono la 4^ categoria, i manovali comuni e le donne di terza furono unificati nella 5^ categoria. A quel punto, dopo l’eliminazione della distinzione tra categorie maschili e femminili, le differenze nelle 14 Come abbiamo già accennato, nel corso della guerra e nell'immediato dopoguerra vi furono facili e numerosi passaggi di categoria. Gli avanzamenti costituirono uno dei mezzi con cui si rispose alle pressioni per aumenti salariali in un periodo di elevata inflazione caratterizzato, in un primo tempo, durante la guerra, dal regime di blocco contrattuale dei salari, poi, nel dopoguerra, dalla forte centralizzazione contrattuale e dagli accordi di “blocco salariale”. Le promozioni corrisposero solo in parte all'aumento della quota di manodopera indiretta, necessaria ai lavori di manutenzione, riparazione delle macchine e ripristino degli impianti a seguito delle distruzioni belliche. L'entità di questi lavori era stata notevole, come pure la disorganizzazione produttiva che ne conseguiva, e aveva contribuito alla drastica diminuzione degli operai lavoranti a cottimo (dal 75 per cento del 1939 al 47 per cento del 1945); ma non era stata tale, per quantità e modalità di esecuzione dei lavori, da giustificare l'entità degli avanzamenti nella classificazione. Considerando solo i lavoratori maschi adulti, gli operai di prima categoria erano cresciuti dal 10,8 per cento nel 1938 al 14,4 nel 1945, al 18,3 nel 1947; gli operai di seconda categoria erano passati, negli stessi anni, dal 20,5 per cento al 25,4 e al 28,1; gli operai di terza erano invece scesi dal 62,3 per cento al 52,2 e al 48,6. La percentuale dei cottimisti riprese a crescere nel 1946 (quando entrò in vigore un accordo aziendale per l'incentivo di produzione) e si avvicinò ai livelli prebellici nel 1949. L'inversione di tendenza nella distribuzione per categorie iniziò nel 1948, l’anno in cui si può collocare la fine del clima di collaborazione per la ricostruzione che aveva caratterizzato nel dopoguerra i rapporti tra direzione e commissioni interne. L’irrigidimento aziendale di fronte alle richieste operaie, derivante dalla volontà di ripristinare la disciplina, e l’avvio dei piani di riorganizzazione produttiva favoriti dal Piano Marshall, portarono dapprima a uno sgonfiamento delle categorie superiori, seguito dall’aumento degli operai comuni, di pari passo con la razionalizzazione delle linee produttive. Nel 1948, in rapporto all'intera manodopera, gli operai di prima categoria erano il 15,5 per cento, quelli di seconda il 26,3 per cento, quelli di terza il 44,1 per cento, gli operai di quarta il 4,4 per cento; le donne di prima categoria erano solo 43, pari allo 0,3 per cento, le donne di seconda ammontavano all'8 per cento, quelle di terza all'1,4 per cento. Con una diminuzione progressiva della quota delle categorie degli operai specializzati e qualificati, e un corrispondente aumento degli operai comuni, si giunse, nei primi anni sessanta, a una situazione fortemente modificata: nel 1962 gli operai di prima erano diminuiti in numero assoluto, e in percentuale erano crollati al 6,2 per cento; gli operai di seconda si erano ridotti al 14,8 per cento; gli operai di terza erano invece saliti al 71,5 per cento; gli operai di quarta erano quasi scomparsi (1,6 per cento); la quasi totalità delle donne superstiti era inquadrata nella seconda categoria (3,2 per cento); le donne di terza si erano ridotte allo 0,2 per cento, quelle di prima erano solo più 30, pari allo 0,09 per cento (tabella 12). paghe medie orarie tra uomini e donne appartenenti alla stessa categoria (riscontrabili nella tabella 13) sono da imputare al fatto che si tratta di paghe medie orarie di fatto, comprensive dell’anzianità aziendale e degli aumenti di merito. 15 La distribuzione della manodopera in categorie contrattuali non sempre costituisce un fedele riflesso dell’organizzazione del lavoro, in quanto –-e lo si è visto con l’aumento degli operai specializzati e qualificati tra guerra e dopoguerra— la pressione dei lavoratori e la contrattazione interna per gli avanzamenti di qualifica possono alterare il quadro della classificazione. Tuttavia, il fatto che a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta ben tre operai su quattro fossero inquadrati nella terza categoria, quella degli operai comuni addetti alle linee di montaggio o alle macchine per la produzione di pezzi in serie, indica che il processo di dequalificazione delle mansioni riconducibile all’implementazione del sistema taylorista era ormai in uno stadio avanzato. Tra il 1962 e il 1965, in effetti, la situazione si stabilizzò, segnando solo un lieve incremento della quota degli operai qualificati25. All’inizio degli anni sessanta dunque, ben tre operai su quattro erano inquadrati nella terza categoria, Con il mutamento del peso relativo delle categorie si modificarono anche i differenziali retributivi, nel senso di una riduzione del ventaglio che avvicinò notevolmente i salari degli operai comuni a quelli delle categorie più qualificate. Un primo forte restringimento delle tradizionali differenze si era avuto nel corso della guerra, per la necessità di garantire condizioni minime a tutti in periodi di gravi difficoltà economiche; l'appiattimento era poi proseguito nell'immediato dopoguerra, come effetto di rivendicazioni egualitarie tipiche dei periodi di accesa conflittualità. A partire dal 1947 furono effettuati alcuni ritocchi a favore delle categorie superiori, così che nel 1949, almeno nella paga media oraria di fatto 26 i differenziali retributivi risultavano ancora abbastanza ampi (tabella 13): fatta uguale a 100 la paga oraria degli operai di terza categoria (operai comuni), gli specializzati guadagnavano 140, i qualificati 118, i manovali 91, le donne di prima 75, le donne di seconda 69, quelle di terza 64. Le differenze restarono su questi livelli fino al 1954, quando si restrinsero notevolmente per effetto dell'accordo nazionale sul conglobamento in paga base dell'indennità di contingenza: fatta sempre uguale a 100 la paga dell'operaio comune, gli specializzati guadagnavano ora 120, i qualificati 107, i manovali 94, le donne di prima 89, le operaie di seconda 84, quelle di terza 79. Negli anni successivi si riaprì leggermente e con gradualità il ventaglio a favore degli operai di prima e di seconda, i cui indici nel 1960 25 Non ci sembra pertanto condivisibile la conclusione cui giunge Giuseppe Volpato, che (sulla base dei dati sulla classificazione della manodopera a Mirafiori tra il 1948 e il 1958 forniti da O.M. Sassi, Considerazioni sul progresso tecnologico alla Fiat nella produzione automobilistica, in AA.VV., Il progresso tecnologico e la società italiana, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1961) vede nella diminuzione della quota dei manovali di 4^ categoria e delle categorie femminili e minorili un indicatore più significativo dell’aumento degli operai di terza, ritenendo che il processo di dequalificazione delle mansioni di tipo taylorista vada posticipato di un decennio. Cfr. G. Volpato, Il caso Fiat. Una strategia di riorganizzazione e di rilancio, Torino, UTET Libreria, 1996, pp. 55-56. 26 Le paghe di fatto, comprensive dell'anzianità aziendale e degli aumenti di merito, risultavano più differenziate dei minimi contrattuali, in quanto gli aumenti di merito a favore degli operai qualificati e, soprattutto, di quelli specializzati erano più consistenti di quelli concessi agli operai comuni; inoltre gli scatti di anzianità accrescevano le medie orarie delle categorie qualificate, nelle quali l'età media era più avanzata. 16 giunsero rispettivamente a 133 e 112. Seguì un nuovo restringimento, che portò i differenziali ad attestarsi, nel 1963-65, a 128 per gli operai di prima, 109 per quelli di seconda, 91 per i manovali; quanto alle categorie femminili, per effetto dell'accordo sulla parità retributiva del 1962 le donne superarono i manovali comuni con indici di 102, 96 e 94. In quindici anni, dunque, gli operai di prima categoria persero mediamente un terzo del loro vantaggio nella paga oraria rispetto agli operai comuni, gli operai di seconda addirittura la metà. Inoltre, va tenuto conto che le distanze nella retribuzione complessiva erano decisamente inferiori a quelle nella paga oraria, perché le altre voci retributive restringevano i ventagli: innanzitutto l'indennità di contingenza e le varie indennità e compensi accessori erano meno distanziati della paga di categoria (anche gli assegni familiari, per chi aveva lo stesso numero di persone a carico, rappresentavano somme uguali per tutti in busta paga); in secondo luogo, il sistema incentivante27 permetteva a molti operai di categoria inferiore di avvicinare i propri guadagni a quelli degli operai a economia di categoria superiore28. Nei primi anni sessanta, indennità di contingenza e sistema incentivante avevano accresciuto di parecchio il loro peso in busta paga in confronto alla fine degli anni quaranta, e di converso era diminuita l'importanza della paga oraria. Ne conseguiva la riduzione dei ventagli salariali. Questo era tanto più vero alla Fiat, dove i premi di produzione avevano costituito uno dei perni della politica vallettiana di costruzione del consenso --o dell'acquiescenza-- operaia e di erosione della forza della Fiom. A Mirafiori, considerando la media generale per l'insieme degli operai, nel 1948 il premio di produzione incideva per l'11 per cento sul guadagno complessivo orario lordo 29, ed era pari al 47 per cento della paga oraria. Nel 1950, in seguito all'introduzione del premio generale di stabilimento30, il peso del sistema incentivante salì al 21 per cento, e divenne pari all'importo della paga oraria; nel 1954 arrivò a incidere per il 26 per cento, superando di molto la paga oraria (172 lire di incentivo per cento lire di paga oraria). In seguito ai conglobamenti in paga base dell'indennità di contingenza (1954 e 1962), la paga oraria tornò a superare l'incentivo; quest'ultimo mantenne però il forte peso sul guadagno totale, oscillando intorno alla quota del 1954, con un picco del 28 per cento nel 1962 (tabella 14). L'indennità di contingenza, da parte sua, era una grossa componente del salario (nel 1948 superava la somma di paga oraria e incentivo) e 27 Il sistema incentivante era costituito da una sorta di cottimo collettivo di squadra chiamato premio di produzione (in vigore dal 1946) e da un premio generale di stabilimento (detto superpremio) legato in un primo tempo alla produzione, in seguito alla produttività dello stabilimento (in vigore dal 1949). 28 Agli operai che non lavoravano a incentivo, tuttavia, era concessa una percentuale della media dei guadagni dei cottimisti (una specie di indennità di mancato cottimo). Nel 1947, ad esempio, la paga oraria media di fatto degli operai diretti incentivati (cottimisti), era leggermente inferiore alla paga media degli economisti (41,45 lire orarie contro 43,84), ma nella medie orarie comprensive dei guadagni di cottimo o delle percentuali di mancato cottimo, i diretti incentivati superavano gli economisti (51,89 contro 50,64). 29 Comprensivo dei compensi accessori (gratifiche, indennità, maggiorazioni varie, e quote orarie per ferie e festività), al lordo delle ritenute per l'imposta di ricchezza mobile e per i contributi previdenziali a carico del lavoratore. 30 Si veda la nota 27. 17 riduceva le differenze retributive sia come voce autonoma che quando entrava in paga base. Altri gruppi operai erano determinati dalla collocazione nel processo produttivo e dalla posizione rispetto al sistema di incentivazione. La direzione del personale classificava la manodopera in quattro classi, contrassegnate dalle lettere A, B, C, D. Alla classe A appartenevano gli operai addetti direttamente alla "produzione normale", vale a dire alla fabbricazione delle parti e al montaggio dei prodotti destinati alla vendita; alla classe B appartenevano gli addetti indirettamente alla produzione normale, cioè gli operai che non partecipavano alla trasformazione del prodotto, ma erano a contatto coi lavoratori della classe A e svolgevano lavori sussidiari; la classe C era costituita dai lavoratori addetti alle "produzioni interne" (per assistenza alla fabbricazione, o per il magazzino) e alle "lavorazioni interne" (esperienze e prove), ausiliarie rispetto all'esecuzione della produzione normale (i lavoratori di questo gruppo erano a loro volta suddivisi in due sottoclassi, Ca e Cb, corrispondenti agli operai diretti e agli indiretti); la classe D, infine, era costituita dagli addetti ai servizi generali di stabilimento (servizi aziendali e servizi della fabbricazione). La distribuzione degli addetti a queste quattro classi non subì grossi cambiamenti. Nel 1947-48, quando ancora perduravano le deficienze organizzative e gli effetti di una politica del personale non rigorosa, la classe A rappresentava poco più della metà degli addetti (55 per cento), mentre erano alte le quote tanto degli indiretti che degli addetti alle produzioni ausiliarie e ai servizi generali; questa realtà era lamentata dalla direzione della Fiat in quegli anni, come indice di scarsa efficienza, in riferimento non solo a Mirafiori ma tutte le Sezioni). Nei primi anni cinquanta, quando il recupero di efficienza fu ottenuto principalmente tramite il disciplinamento del personale, crebbe di una decina di punti la quota degli addetti alla produzione principale e diminuirono gli addetti alle produzioni ausiliarie e ai servizi. Nella seconda metà degli anni cinquanta, invece, quando giunse a compimento l'ammodernamento degli impianti, diminuì nuovamente la quota dei diretti addetti alla produzione principale e si tornò alla distribuzione del 1947-48 (tabella 15); ora però, l'aumento della quota degli indiretti e degli addetti alle produzioni ausiliarie aveva un nuovo significato: la produzione di grande serie con elevata meccanizzazione e alto impiego di manodopera non qualificata necessitava di un notevole lavoro di preparazione e assistenza. La somma delle classi A e Ca costituiva l'insieme degli operai diretti, quella delle classi B, Cb e D gli operai indiretti. Vi erano operai incentivati non solo tra i diretti ma anche tra gli indiretti, e operai a economia sia tra i diretti che tra gli indiretti. In tutte e quattro le classi --anche se in proporzioni assai diverse31-- vi erano operai incentivati e operai a economia. Dal punto di vista del premio di produzione (cottimo) si distinguevano gli operai diretti incentivati, i diretti a 31 E' evidente che la quota dei cottimisti era massima nella classe A e minima nella classe D; tuttavia le nostre fonti non offrono dati incrociati. 18 economia, gli indiretti collegati alla produzione (nel senso che svolgevano un lavoro sussidiario a contatto con gli operai diretti, e il loro ritmo di lavoro era influenzato dai tempi della produzione), gli indiretti non collegati alla produzione, che non dovevano seguire alcuni ritmo. I diretti incentivati lavoravano a cottimo o partecipavano direttamente al cottimo di squadra, gli altri tre gruppi ricevevano percentuali sulla media dei guadagni realizzati dai diretti incentivati; tali percentuali erano di tanto in tanto oggetto di contrattazione interna (oscillavano tra il 50 e il 90 per cento), ed erano più basse per gli indiretti non collegati. Nel periodo 1947-1958, la distribuzione della manodopera secondo queste quattro categorie di incentivazione ebbe un andamento parallelo a quello delle classi A, B, C, D. I diretti incentivati aumentarono dal 63 al 70 tra il dopoguerra e i primi anni cinquanta, per poi ridiscendere gradualmente al 60-61 per cento; le altre tre categorie, per converso, scesero per poi aumentare, alla fine degli anni cinquanta, a un livello leggermente superiore a quello di dieci anni prima (tabella 16). Il numero molto più basso di indiretti non collegati in confronto agli addetti ai servizi generali (classe D), mostra come i lavoratori premessero, con discreto successo, per non essere inquadrati tra gli indiretti non collegati, che ricevevano quote ridotte del premio di cottimo. Le categorie in profondità I livelli di paga cui gli operai erano assegnati non si riducevano a una decina, uno per ciascuna della quattro categorie dei maschi adulti, delle tre categorie femminili, più un numero variabile nel tempo di categorie giovanili. Gli aumenti di merito individuali e di anzianità aziendale moltiplicavano i gradini della paga oraria, che nel dicembre 1948 erano distanziati di cinquanta centesimi ed erano davvero numerosi: 22 erano gli scaglioni per gli operai specializzati, 18 quelli per gli operai qualificati, 17 per gli operai comuni, 6 per i manovali, 6 per le donne di prima categoria, 5 per le donne di seconda, 4 per quelle di terza, 6 per le categorie minorili; 10 erano infine i gradini di paga per gli addetti a mansioni discontinue (autisti, fattorini, sorveglianti, infermieri, ecc.). I livelli di paga erano complessivamente meno numerosi della somma degli scaglioni per ciascuna categoria, perché nelle categorie dei maschi adulti i gradini più elevati della categoria inferiore, grazie agli scatti di anzianità, raggiungevano quelli bassi della categoria superiore; ma lo sventagliamento delle paghe orarie, sempre nel 1948, era notevole, da un minimo di lire 27,50 a un massimo di lire 68. 19 Gli operai specializzati erano la categoria maggiormente differenziata al suo interno. Godevano del massimo scarto tra il minimo contrattuale e le paghe di fatto: gli scaglioni andavano da 55,50 a 68 lire, contro un minimo contrattuale di 49,30; tuttavia, una metà abbondante degli specializzati si collocava tra le 62 e le 64 lire. Alla prima categoria molti lavoratori giungevano al culmine della loro carriera operaia: si registrava dunque un'alta presenza di operai ultrasessantenni (oltre un terzo), e due terzi avevano più di 40 anni (tabella 17). Gli operai sotto i 30 anni erano solo il 13 per cento. Nel 1948, un terzo degli specializzati apparteneva ai diretti incentivati, e questa quota, negli anni successivi, si ridusse a un quarto (tabella 18). Gli altri specializzati si suddividevano tra diretti a economia e indiretti collegati. Il ringiovanimento della manodopera interessò anche gli specializzati; tuttavia, nel 1962 la presenza di ultracinquantenni sfiorava ancora il 30 per cento. Gli operai qualificati, nel 1948, erano retribuiti da un minimo di 48,50 a un massimo di 58 lire (contro un minimo contrattuale di 44,45), ma tre su quattro erano collocati tra le 52 e le 54 lire, e quasi tutti gli altri avevano paghe inferiori alle 50 lire: appena un 2 per cento, grazie all'anzianità, aveva paghe orarie pari ai gradini bassi degli specializzati. Solo il 20 per cento era ultracinquantenne, mentre i giovani sotto i 30 anni ammontavano al 25 per cento. Si trattava dunque di una categoria che contava meno anziani e più giovani della media, mentre la quota delle classi d'età tra i 30 e i 50 anni era appena sopra la media. I cambiamenti della composizione per età nel periodo considerato furono pertanto limitati: si registrò solo la scomparsa degli ultrasessantenni con un aumento della quota dei 5060enni, e una diminuzione dei 40-50enni a favore dei 30-40enni. Un grosso mutamento si ebbe invece in riferimento alle categorie di incentivazione. Nel 1948 il 60 per cento degli operai di seconda lavorava a cottimo, una quota doppia in confronto a quella degli specializzati: l'organizzazione produttiva era ancora quella delle serie limitate, in cui parecchio lavoro qualificato era utilizzato per la produzione diretta. Tra il 1962 e il 1965 la quota dei diretti incentivati si ridusse al 36-39 per cento. Il passaggio di molti operai qualificati dai ruoli dei cottimisti a quelli dei diretti a economia e degli indiretti (e lo stesso fenomeno si verificò tra gli specializzati, seppur, come abbiamo visto, in tono minore, data la presenza tradizionalmente scarsa di cottimisti tra gli operai di prima categoria) è da collegare ai cambiamenti dell'organizzazione produttiva, cui abbiamo fatto cenno, che richiedevano un aumento del lavoro di preparazione e assistenza: essendo in diminuzione la quota di operai specializzati e qualificati, essi venivano impiegati in misura maggiore in mansioni ausiliarie e indirette. Anche gli operai comuni, nel 1948, erano distribuiti su numerosi scaglioni di paga oraria, guadagnavano da 39 a 49 lire (contro un minimo contrattuale di 37,75), ma erano, ancor più delle categorie superiori, concentrati su pochi gradini: il 55 per cento guadagnava 46,50, e un'altro 35 per cento guadagnava tra le 45 e le 46 lire. Erano la categoria più giovane, con la quota più elevata di 20-30enni e quella più bassa di ultracinquantenni. Impiegati come addetti macchine o al montaggio in linea, erano in massima parte diretti incentivati (82 per cento). 20 All'inizio degli anni sessanta, come abbiamo visto, la terza categoria divenne la classificazione tipica di gran parte degli operai, con una componente giovanile ancora più rilevante: nel 1962 il 44 per cento degli operai comuni aveva tra 21 e 30 anni, il 37 per cento tra 31 e 40 anni. Tra gli operai comuni, infine, la quota di diretti incentivati si mantenne sostanzialmente stabile. Il ventaglio delle paghe dei manovali comuni, sempre nel 1948, andava da lire 38,65 a 41,50 (minimo contrattuale 34,80); quasi tutti erano però retribuiti con la paga massima (ben l'82 per cento), e un altro 13 per cento era collocato al gradino immediatamente inferiore (41 lire). Questa concentrazione sul livello più elevato era dovuta all'età sorprendentemente alta dei manovali, che incideva sugli scatti di anzianità: gli ultrasessantenni erano il 25 per cento, e i 50-60enni il 34 per cento; aggiungendo il 23 per cento dei 40-50enni, si aveva che gli ultraquarantenni erano l'82 per cento, esattamente la percentuale di coloro che stavano al gradino di paga massimo. Addetti a lavori di fatica, privi anche della scarsa qualificazione che derivava dalla conduzione di una macchina semplice o dal montaggio in linea, gli operai di quarta categoria erano tutti classificati tra gli indiretti ed esclusi dal cottimo. Con la crescente meccanizzazione dei trasporti interni, i manovali diminuirono anche in numero assoluto, scendendo da 623 nel 1948 a 170 nel 1965: pochi furono tra i neoassunti coloro che andarono a rimpiazzare i manovali usciti per pensionamento; tuttavia il ringiovanimento interessò in pieno anche questa categoria in via di estinzione. Le donne di prima categoria, come si è già detto, erano molto poche, e nel 1948 guadagnavano da 32 lire a 37,50 (minimo 31,10), più di metà 33,50. Le donne di seconda guadagnavano invece da 29,40 a 31,50, e la quasi totalità era assegnata ai due gradini superiori. Le donne di terza categoria erano pagate da lire 27,50 a 29, e anche in questo caso si concentravano sui due scaglioni più elevati. Tra le donne, era più elevata che non tra gli uomini la percentuale di diretti incentivati (tabella 15), in virtù della ridotta presenza di dirette a economia. In particolare, tra le donne di seconda (la categoria femminile di gran lunga più numerosa) la quota delle cottimiste sfiorava il 90 per cento; tra le donne di prima, invece, le cottimiste erano solo il 56 per cento. Le donne di terza, dal canto loro, erano tutte classificate tra le indirette, al pari dei manovali maschi. La distribuzione per classi d'età richiamava le differenze che abbiamo visto tra le categorie maschili: mentre le operaie di seconda (le cui mansioni corrispondevano a quelle dell'operaio comune) erano mediamente giovani ma distribuite su tutto l'arco delle classi di età, le donne di prima (che svolgevano lavori qualificati) erano quasi tutte ultratrentenni, e due su tre avevano più di 40 anni; l'età media più elevata toccava alle donne di terza, che corrispondevano ai manovali maschi: il 43 per cento aveva oltre 50 anni, e il 36 per cento tra 40 e 50 anni. Il ringiovanimento toccò tutte le categorie femminili, anche se tra le donne di prima e quelle di terza restò consistente la percentuale di ultraquarantenni (peraltro, queste due categorie erano ormai ridotte al lumicino). Le categorie minorili, infine, variarono nel tempo. Nell'immediato 21 dopoguerra venivano classificati, in sottocategorie di quelle adulte, i giovanissimi tra i 16 e i 18 anni e quelli di età inferiore a 16 anni (per le donne, solo le ragazze inferiori a 16 anni). Nel dicembre 1948, a Mirafiori, lavoravano solo 12 operai comuni tra 16 e 18 anni (con quattro gradini di paga oraria compresi tra 29,35 e 34 lire), un operaio comune sotto i 16 anni (lire 28), un manovale tra 16 e 18 anni (lire 29,50); non vi erano ragazze sotto i 16 anni. Nel corso degli anni cinquanta, furono classificati a parte anche i giovani tra i 18 e i 20 anni, e al di sotto di questi furono unificati tutti i ragazzi con meno di 18 anni. Ma a Mirafiori i giovani sotto i 20 anni avevano una presenza molto scarsa e in via di diminuzione. Al processo di restringimento dei differenziali salariali tra categorie legato alla contrattazione nazionale, si accompagnò un aumento del numero degli scaglioni della paga oraria di fatto. Nel 1964, infatti, i gradini salariali in vigore per le varie categorie erano molto più numerosi di quelli del 1948: 79 per gli operai di prima categoria (da lire 265,55 a 375); 59 per quelli di seconda (da 237,40 a 287); 76 per gli operai di terza (da 223,30 a 253,30); 19 per la quinta categoria uomini (gli ex manovali di quarta categoria, da 201,15 a 214,60); 17 per le ex donne di prima categoria (da 223,30 a 245), ora riunite con gli uomini di terza categoria nella nuova classificazione nazionale, con lo stesso minimo dei colleghi maschi ma con un massimo inferiore di una decina di lire; 41 erano i gradini della quarta categoria (ex donne di seconda, da 207,20 a 232); 11 quelli per le ex donne di terza categoria (da 201,15 a 212,35), ora riunite con gli ex manovali nella quinta categoria, anche in questo caso con lo stesso minimo degli uomini ma con un massimo inferiore. Nel 1964, inoltre, non esisteva più quella concentrazione di quote consistenti di operai su uno stesso gradino salariale che abbiamo visto essere condizione diffusa nel 1948: solo gli operai di terza categoria erano assegnati in grande maggioranza a un unico gradino, quello minimo (73 per cento), mentre gli operai di prima e quelli di seconda erano sparpagliati su tutti i gradini. All'appiattimento delle differenze di paga la Fiat aveva evidentemente risposto, a favore degli operai qualificati e specializzati, con una moltiplicazione delle differenze individuali legate agli aumenti di merito e agli scatti di anzianità. Per converso, l'assegnazione di buona parte degli operai di terza categoria, il gruppo di gran lunga più numeroso, a un unico, basso scaglione, tendeva a mantenere una certa distanza retributiva tra gli operai comuni e quelli qualificati. Contribuiva però al contempo al configurarsi di quelle condizioni di forte omogeneità degli operai comuni e, dato il peso della categoria, di gran parte della manodopera, che abbiamo visto caratterizzare i cambiamenti della composizione operaia tra la fine degli anni quaranta e i primi anni sessanta. I gruppi operai tra mediazione e conflitto. 22 Negli anni del miracolo economico Torino registrò l’aumento di popolazione più rapido tra le grandi città italiane. Tra il censimento del 1951 e quello del 1961 il numero degli abitanti crebbe del 42,5 per cento, a fronte del 25 per cento di Milano. Nel solo 1962, l’anno in cui gli operai Fiat tornarono a scioperare e si verificarono i fatti di piazza Statuto32, gli immigrati furono 80.000, 36.000 dei quali (il 45 per cento) provenienti dalle regioni meridionali e insulari. Nel decennio 1952-1962 il saldo migratorio fu di 367.000 persone, gli immigrati furono in complesso 562.000, gli emigrati 195.000; nel dicembre 1962 Torino arrivò a 1.079.000 abitanti: in dieci anni la popolazione si rinnovò dunque per oltre la metà, accogliendo quote crescenti di meridionali, che dovevano adattarsi a condizioni abitative particolarmente precarie e sovraffollate. Quando si aprì la fase più intensa del boom, alla fine degli anni cinquanta, ogni anno si rendevano disponibili 30.000 posti di lavoro nella sola industria, la metà dei quali per pensionamento, morte, emigrazione, l’altra metà per le esigenze dello sviluppo. Circa 12.000 posti venivano coperti dalle nuove leve dei giovani torinesi, gli altri attiravano immigrati 33. Il tasso di disoccupazione scese al 3 per cento, ai limiti della disoccupazione frizionale. La ripresa degli scioperi in occasione del rinnovo contrattuale del 1962-63 fu certamente dovuta alla tensione sul mercato del lavoro 34. Quanto ai disagi dell’immigrazione, questi non si ripercuotevano ancora sul conflitto industriale: la maggior parte dei nuovi assunti, provenienti dalle campagne e da regioni economicamente depresse, considerava la nuova condizione lavorativa migliore di quelle precedenti, mentre la mancanza di tradizione operaia contribuiva a comportamenti moderati; inoltre, gli immigrati che sopportavano le condizioni di vita più difficili, quelli provenienti dal Mezzogiorno, seppur tendenzialmente maggioritari nei movimenti migratori e nelle nuove assunzioni, all’inizio degli anni sessanta avevano ancora un peso limitato nell’occupazione complessiva: tra gli operai Fiat la quota dei meridionali è stimabile intorno al 15 per cento 35. Le cause della ripresa della conflittualità furono in larga parte esterne alla fabbrica. Tuttavia, anche i mutamenti della composizione operaia e le trasformazioni del sistema di mediazione interno giocarono un ruolo, in uno stabilimento delle dimensioni di Mirafiori che concentrava da solo circa un decimo della nuova domanda occupazionale nell’area torinese. I fattori interni agirono, al pari dell’immigrazione, non tanto nell’immediato, in riferimento alle agitazioni del 1962: determinarono piuttosto una situazione favorevole all’asprezza dello scontro che si sarebbe acceso alla fine degli anni sessanta, di nuovo in una situazione di virtuale piena occupazione, cui si aggiunsero le più acute tensioni sociali accumulate dalle 32 Sui fatti di piazza Statuto si veda D. Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Milano, Feltrinelli, 1979. 33 Sull’immigrazione a Torino si veda G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964. 34 Sul ritorno al conflitto a Torino all’inizio degli anni sessanta, dall’osservatorio dell’associazione degli industriali metalmeccanici, si veda G. Berta, L’AMMA e le trasformazioni delle relazioni industriali, in La metalmeccanica torinese nel secondo dopoguerra (1945-1972), a cura di P.L. Bassignana e G. Berta, Torino, Samma, 1997. 35 Tale percentuale risulta dal campione di operai Fiat utilizzato per la ricerca di G. Bonazzi, Alienazione e anomia nella grande industria. Una ricerca sui lavoratori dell’automobile, Milano, Edizioni Avanti!, 1964; in tale campione gli operai di Mirafiori erano il 35,2 per cento. 23 successive ondate migratorie. Tra la fine della guerra e i primi anni cinquanta le categorie e i gruppi operai di Mirafiori presentarono, nell’ambito della contrattazione in azienda, rivendicazioni specifiche a difesa della propria posizione. Gli specializzati e i qualificati reclamavano il riconoscimento salariale delle loro capacità professionali, gli operai comuni erano più interessati ai tempi di cottimo, le donne chiedevano, timidamente36, trattamenti meno distanti da quelli delle categorie maschili. Fino al 1953-54, prima che il premio generale di stabilimento assumesse un'importanza molto maggiore del cottimo nella busta paga, gli economisti e gli indiretti collegati e non collegati rivendicarono a più riprese miglioramenti delle loro percentuali di partecipazione al cottimo. Vi erano infine gruppi particolari di operai che richiedevano passaggi di categoria in base alla qualificazione richiesta dalle mansioni svolte, oppure indennità speciali per lavori pesanti, nocivi, disagevoli. Le rivendicazioni particolari dei vari gruppi operai erano inevitabilmente basate sul confronto con gli altri gruppi: le capacità professionali, il disagio, lo sforzo, e così via, richiesti da questa o quella mansione. Fino alla fine degli anni quaranta avveniva che le pressioni di un gruppo, quando venivano accolte dalla direzione, fornivano occasione per richieste da parte degli altri gruppi, e i rapporti di forza erano tali da indurre la direzione a cedere in una sorta di crescendo di concessioni. I confronti tra gruppi non sfociavano allora in rivalità. Ma quando la mobilitazione operaia perse di incisività, gli interessi specifici minarono la solidarietà collettiva, e furono uno dei fattori di indebolimento del sindacalismo “politico” della Fiom-Cgil, a fronte del sindacalismo aziendale del gruppo di Edoardo Arrighi, che era attento a prendersi cura di problemi e aspirazioni individuali37. Alla fine degli anni cinquanta, tuttavia, vennero scemando le occasioni per le rivendicazioni particolari. Innanzitutto era diminuita la consistenza di alcuni gruppi professionali, e scomparsa la varietà dei gruppi anagrafici, che in base al sesso e all'età potevano interpretare in modo diverso situazioni identiche. Ma soprattutto le differenze di trattamento salariale tra gruppi professionali avevano perduto importanza: la distanza tra cottimisti, economisti e indiretti era ormai di poco conto, e i passaggi di categoria, pur sempre ambiti, comportavano miglioramenti retributivi meno consistenti. La stessa azione di tutela individuale del Sida, che pur continuò a occuparsi dei sempre meno numerosi passaggi di categoria, si indirizzò prevalentemente a mediare l’accesso ai servizi assistenziali (la casa Fiat, in primo luogo); ma con questa azione il Sida entrava in diretta concorrenza con la gerarchia aziendale. Infine, non minore importanza ebbe il fatto che erano diventati meno efficienti i canali attraverso i quali i gruppi potevano esprimere richieste e rivendicazioni. 36 In occasione di alcuni momenti di trattativa interna che le riguardavano, le operaie espressero il timore che un consistente avvicinamento delle retribuzioni femminili a quelle maschili potesse avere riflessi negativi sulle mansioni loro assegnate. Cfr. Progetto Archivio Storico Fiat, Le relazioni industriali alla Fiat nei verbali delle Commissioni interne, cit. 37 Cfr. G. Fissore, Origine e sviluppo del sindacato aziendale alla Fiat, in “Movimento operaio e socialista”, 1990, n. 12. 24 Le commissioni interne, infatti, protagoniste delle trattative aziendali nel clima di accesa conflittualità dei primi anni del dopoguerra, anche dopo la sconfitta della Fiom e la conquista della maggioranza da parte del sindacato aziendale non furono autenticamente legittimate e sostenute dalla Fiat nel loro ruolo di rappresentanti degli operai: il principio dell'unicità dell'autorità in azienda e il rigido sistema gerarchico ricostituito negli anni cinquanta riservavano l'opera di intermediazione ai capi38: questi potevano farsi tramite di richieste, ma non di rivendicazioni, e farsi portavoce per singoli individui o piccolissimi gruppi, non per intere categorie. La perdita di ruolo delle commissioni interne fu tanto più forte in uno stabilimento gigantesco quale Mirafiori, in cui l’esiguità del numero dei membri di commissione interna in rapporto alla massa dei lavoratori era di per se stesso motivo di inefficacia della rappresentanza e della mediazione. Gli operai dell'immediato dopoguerra costituivano una manodopera eterogenea, che in un clima politico elettrizzato combinava rivendicazioni particolari in una mobilitazione collettiva, attraverso organismi di rappresentanza che tendevano a esorbitare dai limiti posti alla loro azione dalle stesse organizzazioni sindacali esterne. Tuttavia, l'opera di rappresentanza e mediazione svolta dalle commissioni interne, seppur costosa per l'azienda sul piano economico, contribuiva a riportare in un ambito contrattuale interno le tensioni accumulate nella guerra e nel dopoguerra; queste tensioni, in una situazione di accentuata centralizzazione della contrattazione sindacale, rischiavano di esplodere in mobilitazioni generali che avrebbero assunto un carattere accentuatamente politico. Inoltre, le rivendicazioni venivano incanalate in un sistema di mediazione attraverso il quale i gruppi operai percepivano la possibilità di far giungere la loro voce a una direzione aziendale disposta ad ascoltarla. Negli anni sessanta, invece, il terreno diventò favorevole all'esplosione di mobilitazioni generali, condotte da maestranze molto più omogenee, in una situazione in cui gli interessi dei diversi gruppi, non certo scomparsi, avevano scarse possibilità di esprimersi. In conclusione, nell'arco di una quindicina d'anni la Mirafiori operaia cambiò profondamente. Nonostante le nuove divisioni sotto il profilo culturale prodotte dalla massiccia immissione di immigrati dalle regioni del Mezzogiorno, le maestranze mostravano una forte omogeneità sotto il profilo del sesso e dell'età, erano in larga parte concentrate in un solo gruppo professionale, la riduzione dei differenziali salariali aveva avvicinato le condizioni retributive delle varie categorie. Ciò non significa che quegli anni abbiano segnato il primo avvento dell’ “operaio massa”, un concetto, questo, semplificatorio e riduzionista, che avrebbero potuto essere corretto senza attendere la “svolta dei quarantamila” dell’autunno 1980: la sociologia militante più avvertita aveva sottolineato, nei primi anni sessanta, 38 Si veda in proposito G. Berta, Le Commissioni interne nella storia delle relazioni industriali alla Fiat, in Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat, cit. 25 la varietà e la diversificazione degli atteggiamenti operai 39. Anche la questione della dequalificazione del lavoro va considerata dal punto di vista dei lavoratori come individui. L’aumento delle mansioni parcellizzate non ha significato la dequalificazione di lavoratori qualificati, costretti a operazioni semplici e ripetitive: in un quadro di forte crescita occupazionale, il numero degli operai di prima e seconda categoria è cresciuto, nonostante la diminuzione della loro quota; e la carenza di operai professionali caratterizzò il mercato del lavoro negli anni cinquanta40. Certo, anche le mansioni qualificate poteva subire processi di routinizzazione e proceduralizzazione. Ma al di sotto della crescente omogeneità della composizione di classe, le occasioni di divisione tra operai qualificati e operai comuni, per certi versi crescevano. I primi erano sempre meno impiegati nella produzione diretta e sempre più addetti a lavori di manutenzione e preparazione (come mostra la diminuzione della quota dei diretti incentivati tra gli operai di prima e seconda categoria, si veda la tabella 18); la qualità del loro lavoro poteva incidere sul rendimento e l’impegno richiesto agli operai comuni, che pagavano con ritmi più elevati e con il lavoro in linea l’avvicinamento dei loro salari a quelli delle categorie superiori. Dal punto di vista degli operai specializzati e qualificati l'appiattimento retributivo poteva essere percepito attraverso filtri differenti, e probabilmente due filtri di segno opposto operavano contemporaneamente, pur con diverse gradazioni, negli stessi individui: un senso di crescente comunanza solidale con i lavoratori meno qualificati, o un desiderio di ritorno alle differenze precedenti, accompagnato in taluni da uno spirito di rivalsa verso categorie nelle quali, oltre tutto, si concentravano nuovi immigrati estranei alle tradizionali culture operaie del lavoro41. Tuttavia, il peso delle qualifiche superiori nell'insieme della manodopera era ormai ridotto, e i cambiamenti della composizione operaia che abbiamo analizzato, crearono indubbiamente un terreno favorevole alla ripresa di una conflittualità generale e all’egualitarismo delle rivendicazioni salariali, condizionando le modalità delle imponenti agitazioni di massa iniziate alla fine degli anni sessanta. 39 La ricerca di Giuseppe Bonazzi (Alienazione e anomia nella grande industria, cit.), aveva sottolineato la diversificazione degli atteggiamenti operai (alienazione, anomia e autoritarismo), tra categorie, generazioni, esperienze lavorative precedenti, origine geografica, livello e tipo di istruzione. Va qui ricordata la tipologia degli operai e impiegati Fiat alla fine degli anni settanta, risultato di una ricerca condotta dal CESPE e dall’ Istituto Gramsci su iniziativa della federazione torinese del PCI, che tracciava un quadro lontano dagli stereotipi correnti sul radicalismo operaio: S. Scamuzzi, Operai e impiegati Fiat fra vecchi e nuovi radicalismi, in “politica ed economia”, giugno 1982; A. Accornero, F. Carmignani, M. Magna, I tre tipi di operai Fiat, ivi, maggio 1986; A. Accornero, A. Baldissera, S. Scamuzzi, Le origini di una sconfitta. Gli operai Fiat alla vigilia dei 35 giorni e della marcia dei quarantamila, ivi, dicembre 1990. Una recente rassegna degli studi storici, sociologici e politologici su operai e movimento sindacale a Torino nel secondo dopoguerra in C. Dellavalle, Il movimento operaio torinese. Una proposta di percorso, in Tra le carte della Camera del lavoro di Torino. Percorsi e proposte. Guida ai fondi archivistici delle strutture torinesi, Torino, Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, 1992. 40 Da qui l’attenzione con cui l’AMMA si occupò dei problemi dell’istruzione professionale, fino alla fondazione da parte dell’Unione industriale della scuola professionale intitolata a Giancarlo Camerana, che a partire dal 1959 organizzò corsi serali per tipiche qualifiche metalmeccaniche (tracciatore, rettificatore, stampista, tornitore), di durata biennale e triennale a seconda della preparazione e dell'addestramento posseduti dai frequentanti. Sulla Scuola allievi Fiat si veda il saggio di Giuseppe Berta in questo stesso volume. 41 Sulle culture del lavoro a Torino sii veda Le culture del lavoro. L’esperienza di Torino nel quadro europeo, a cura di B. Bottiglieri, P. Ceri, Bologna, Il Mulino, 1987. 26 Lavorare in Fiat Le testimonianze di anziani lavoratori stabilmente occupati in Fiat, ex operai di Mirafiori negli anni cinquanta e sessanta, raccolte in occasione di questa ricerca 42 aiutano a ricostruire l'immagine di un mondo del lavoro articolato, ricco di sfumature altrimenti perdute nella classificazione statistica dei gruppi operai per caratteristiche anagrafiche e posizioni professionali43. Dalle interviste emergono in particolare le sensibilità individuali nei confronti del lavoro e dei rapporti con l'azienda, che possono senza dubbio essere influenzate dalle segmentazioni create dall'organizzazione di fabbrica, ma che nella loro differenziazione rimandano alla più ampia realtà in cui i soggetti vivono esperienze e processi di socializzazione. Le testimonianze, inoltre, offrono una finestra, per quanto mediata dalla memoria soggettiva, sulla vita e sulla prassi quotidiana in azienda, sui rapporti tra compagni di lavoro e tra operai e livelli gerarchici. Ne risulta un quadro sfaccettato, largamente impressionistico. Nelle risposte, tuttavia, alcuni atteggiamenti, valutazioni, situazioni appaiono ricorrenti, tali da indurre a considerarli significativi, anche perché, almeno in parte, tagliano trasversalmente le diverse culture e sensibilità politiche, diventando luoghi condivisi. Ne tenteremo una descrizione sommaria, per aggiungere in conclusione qualche tessera a un mosaico incompiuto sugli operai di Mirafiori. "Chi poteva entrare in Fiat era come toccare il cielo", dice un'operaia (2.16), "un miraggio", gli fa eco un militante Fiom (1.18). Salari più alti, migliori servizi assistenziali, sicurezza occupazionale: erano questi i tre elementi che differenziavano il posto di lavoro alla Fiat da qualsivoglia occupazione manuale, anche nelle altre grandi aziende torinesi. Questi elementi sono condivisi e sottolineati, senza eccezioni, da tutti gli intervistati. Oltre, e forse più ancora che sui vantaggi salariali, l'accento viene posto sull'assistenza, e in particolare sulla Malf (la mutua aziendale). La casa Fiat, poi, era "una benedizione" (1.5); certo non poteva essere per tutti, ma rappresentava una possibilità concreta per chi aveva una certa anzianità aziendale: su 54 testimoni, 8 risultano assegnatari (15 per cento). L'assunzione in Fiat avveniva per lo più tramite la mediazione diretta, o 42 Si veda il saggio di Marcella Filippa e Luisa Passerini in questo stesso volume. Occorre precisare che dal punto di vista della storia orale in questo capitolo si fa un uso improprio delle testimonianze, che nel racconto ricerca informazioni, situazioni, e ne valuta la ricorrenza, laddove gli storici orali indagano sulla soggettività e l’immaginario. Il riferimento per le citazioni è costituito da un primo numero che rimada ai tre blocchi di testimonianza raccolti dalle tre intervistatrici, e da un secondo numero riferito alla posizione dell’intervista nella raccolta. Trascrizioni e nastri delle tre raccolte sono conservati in ASF. 43 27 quantomeno dietro informazioni e suggerimenti di conoscenti o parenti. Nel racconto di ben venti degli intervistati (pari al 37 per cento, e, si badi, in assenza di una domanda specifica) si accenna a parenti stretti che lavoravano in Fiat. "... ma già noi siamo una dinastia della Fiat, c'era mio papà che ha fatto entrare la sorella maggiore, poi la sorella maggiore e mio papà hanno fatto entrare me, poi tutti e tre insieme abbiamo fatto entrare l'ultima... noi praticamente eravamo in quattro a lavorare alla Fiat"(1.18); "della mia famiglia oggi giorno c'è già 103 anni che lavora in Fiat, perché mio papà ha fatto 37 anni [...] io ho fatto 40, mio figlio ha fatto l'operaio a Mirafiori [...] adesso c'è mio nipote, è cinque anni [...] perciò sono già 103 anni"(1.4): sono questi i casi di due operai, tra l'altro militanti Fiom. Forse si tratta di situazioni eccezionali, intorno alle quali, tuttavia, una miriade di casi meno eclatanti fa dell'occupazione in Fiat una sorta di impiego familiare. L'assunzione di parenti, perorata dagli operai, era apertamente favorita dall'azienda, perché rafforzava quel senso della comunità aziendale per il quale operavano il dopolavoro e i servizi assistenziali; qualche capo lo riassumeva per i nuovi assunti chiamando "grande famiglia" l'azienda di cui erano entrati "a fare parte"(2.16). Anche l'assunzione di personale femminile, tra gli anni cinquanta e sessanta, sembra aver seguito criteri che riflettevano mentalità e modelli riguardo alla famiglia e al ruolo della donna dominanti nella società italiana degli anni cinquanta. Il calo della presenza femminile in fabbrica, innanzitutto: non è da escludere un legame con le suggestioni di impronta fordista riguardo all'ambiente familiare in cui era bene l'operaio vivesse 44. Un testimone, in riferimento a quegli anni, sostiene che le donne "una volta [erano di] meno, perché le donne una volta lavoravano solo le vedove, quelle che restavano vedove che avevano il marito che era morto e lavorava lì. Poi han preso tutte, avevan bisogno"(3.13); e una donna racconta di aver rinviato il matrimonio con il fidanzato operaio Fiat a dopo la sua assunzione, perché come moglie non sarebbe entrata(2.16). In alcune interviste si esprimono sentimenti di riconoscenza e senso di appartenenza all'azienda che richiamano valori del paternalismo aziendale, in altre prevale la convinzione di aver pagato col lavoro quanto si è ricevuto, in altre ancora un atteggiamento più strumentale, che sottolinea l'appartenenza non a una famiglia ma a quella che si potrebbe definire una "comunità del privilegio": in ogni caso "allora entrare in Fiat voleva dire qualcosa. Difatti se lei doveva comprare qualcosa diceva: vado a lavorare in Fiat, le davano tutto"(2.16). L'impiego in Fiat "all'epoca sembrava che fosse una Mecca", afferma un iscritto alla Fiom (1.17), stemperando però subito dopo il senso del privilegio con 44 Si possono osservare alcune analogie tra la “politica familiare” alla Fiat e alla Ford. Azzardata appare l’interpretazione, avanzata di recente da Wayne Lewchuk, secondo la quale la mancata assunzione di donne alla Ford negli anni venti rispondeva al disegno di offrire agli operai maschi della produzione di massa un’identità consolatoria e sostitutiva della fierezza del mestiere attraverso l’idea, propagandata tra i lavoratori Ford, di un club di uomini che con la loro capacità di duro lavoro mantenevano la famiglia e all’interno di questa esercitavano quell’autonomia e potere decisionale sottratti loro sul piano professionale. Cfr. W. A. Lewchuk, Men and Mass Production: The Role of Gender in Managerial Strategies in the British and American Automobile Industries, in Fordism Transformed. The Development of Production Methods in the Automobile Industry, a cura di H. Shiomi, K. Wada, Oxford, Oxfrod University Press, 1995. 28 un'allusione alle differenze tra Lancia e Fiat, per la severa disciplina imposta da Valletta, con la quale si "pagavano" i guadagni più elevati ("non si poteva fare pipì"). Molti intervistati sottolineano la durezza del lavoro, la proceduralizzazione delle mansioni e, in una certa misura, la formalità dei rapporti gerarchici. Da questo punto di vista Mirafiori appare diversa dal Lingotto. Mirafiori è vista come una fabbrica nuova, più pulita e ordinata, con migliori attrezzature per gli operai, a cominciare dagli spogliatoi e dai servizi igienici. Tuttavia, il vecchio stabilimento di Via Nizza "era tutta un'altra cosa [...] era più familiare [...] a Mirafiori c'era già un po' più disciplina"(2.17); "Al Lingotto era completamente diverso [...] non c'era tutta la disciplina di Mirafiori [...] La produzione era meno alta [...] Eravamo tutti amici, ogni tanto una parola. Però si lavorava"(3.4); a Mirafiori c'era un' "altra mentalità [...] c'era più distacco tra i capi, gli operatori, gli operai. C'era una gerarchia che noi forse... Lingotto non c'era perché magari capisquadra li facevano lì dall'officina e magari erano gente che andavi fuori a bere... poi dentro ognuno faceva il suo lavoro però era più familiare"(3.14). Si riflettono in queste percezioni operaie la ricostruzione della gerarchia interna e il ripristino dell'autorità dei capi operati dall'azienda nel corso degli anni cinquanta. Quanto all'organizzazione del lavoro, "dal Lingotto a Mirafiori... praticamente è come da una boita a una grande fabbrica. Perché il Lingotto era una mezza boita, eh, diciamo pure"(3.14). Un aggiustatore attrezzista che aveva lavorato in precedenza alla Lancia afferma --peraltro in riferimento ad anni successivi, quelli dell'assorbimento da parte della Fiat-- che nell'azienda di Borgo San Paolo, "pur essendo lo stesso lavoro [...] lavoravo con fantasia", con minor assillo per "la produzione"; "mentre in Lancia mettevi del tuo, lì [a Mirafiori] eri subordinato, lì dovevi fare quello che volevano loro [...] se uno sapeva lavorare era un peccato, perché [...] perdeva tutto quello che aveva [...] ci son voluti un paio d'anni a prendere il ritmo Fiat"(3.11). La proceduralizzazione del lavoro, tuttavia, era molto più accentuata nel montaggio in linea: se nel lavoro qualificato riduceva gli spazi di autonomia con cui si applicava il vecchio mestiere, sulle linee determinava ritmi più elevati e controllati. "In linea, ma in linea... allora mi han fatto sputar sangue [...] perché sembrava che le macchine andassero piano ma via una l'altra, via una l'altra per otto ore"(2.9). Assieme ad altre mansioni più pesanti o nocive, la catena di montaggio costituisce un fattore forte della distinzione tra posti di lavoro buoni e posti di lavoro cattivi, dalla quale scaturisce una sorta di graduatoria delle mansioni che si riflette in una gerarchizzazione degli operai, solo in parte coincidente con la classificazione delle categorie contrattuali. I posti brutti erano la verniciatura, la lastroferratura, la limatura del piombo, e il lavoro in linea, specie nel montaggio finale, perché "in meccanica era forse meno", ma in carrozzeria "il tratto che avevamo noi viaggiava troppo forte [...] tiravano troppo veloce la linea, quando hanno fatto la Seicento"(2.17); "la catena è un po' una schiavitù, lo dice la parola stessa"(3.7); "e la linea che girava sempre, girava sempre. Delle volte io 29 arrivavo a casa persino con i giramenti di testa"(2.15). Fortunato --o bravo, furbo o raccomandato-- era invece "chi aveva un lavoro fuori linea" perché "chi aveva da fare il lavoro al banco [...] poteva farsi una scorta e poi andare al bagno quando voleva!"(2.17); "quando uno non è in linea allora qualunque cosa era bellissima" (2.15). I lavori migliori erano naturalmente quelli specializzati; in manutenzione, in particolare, "si stava bene perché era un lavoro... prima cosa non si lavorava a cottimo [...] Noi non eravamo controllati... Si capisce, avevamo il caposquadra che se vedeva che qualcuno batteva la fiacca ci diceva delle cose, ed era anche giusto. Però non c'era quelle pretese o quell'obbligo di dover fare"(3.18). Naturalmente le mansioni qualificate richiedevano una certa preparazione professionale; ma il mestiere lo si imparava senza troppe difficoltà una volta assegnati al reparto, specie se si poteva contare sull'aiuto degli operai più esperti o sulla benevolenza dei capi. Un operaio ricorda il passaggio dalla linea delle carrozzerie alla macchina utensile singola delle meccaniche: "in linea [...] magari uno che doveva andare in bagno doveva fare in fretta, uno che fumava non poteva fumare... invece alla meccanica era già più differente [...] mi potevo anche portare avanti sulla produzione, mi potevo fumare una sigaretta, andare su, giù... così mi son trovato meglio"; a questo operaio, favorito nel passaggio da un amico che conosceva il nuovo caporeparto, venne offerta la possibilità di apprendere il lavoro a molte macchine, fino a ottenere il passaggio di categoria: "Gli altri li mettevano sempre lì, invece quando vedeva che io imparavo qua mi mettevano là. E allora giravo tutte le macchine e imparavo"(3.10). "Chi lavorava in linea --ricorda un altro operaio-- era un po' disprezzato perché in linea [...] non avevano il mestiere". Ma il "mestiere" non consisteva solo di abilità professionali: "le reclute appena arrivavano andavano tutti ai lavori più brutti... se uno poi non era capace ad aggiustarsi..."(1.12). Essere "capaci ad aggiustarsi di qua e di là" implicava anche abilità sociali e relazionali, indirizzate a ottenere il passaggio a nuove mansioni, nello svolgimento delle quali era poi necessario dimostrarsi produttivi. Molti degli operai intervistati sono riusciti in questi passaggi: in un periodo in cui la manodopera aumentava a ritmo sostenuto non era difficile per chi già era in azienda ottenere il trasferimento a mansioni o reparti più ambiti, lasciando i posti peggiori agli ultimi arrivati. Proprio ai primi anni sessanta, quando gli ultimi arrivati erano in maggioranza meridionali, può essere fatta risalire la sovrapposizione tra segmentazioni etniche e professionali ancora operante all'epoca della "marcia dei quarantamila" 45. Anche tra i "piemontesi" non mancavano le divisioni. Otto degli intervistati (15 per cento) sottolineano nel racconto la presenza di numerosi pendolari dalle aree rurali circostanti Torino. Molti di questi provenivano da famiglie contadine e continuavano a coadiuvare nella conduzione delle piccole aziende agricole. Lontani dalla cultura operaia urbana e restii o lenti ad accettarne le logiche e i comportamenti, erano considerati, dagli operai inclini all'azione sindacale, una 45 Si veda A. Baldissera, La svolta dei quarantamila: dai quadri Fiat ai Cobas, Milano, Comunità, 1988. 30 componente grigia, amorfa e pericolosa per l'unità operaia. Un operaio qualificato che si autodefinisce "all'antica", passato operatore e caposquadra dopo aver fornito un buon suggerimento premiato in denaro e con lettera d'encomio, sostiene che la solidarietà esistente tra operai è stata incrinata all'epoca del boom della produzione e delle assunzioni, quando "si è creato il favoritismo, il clientelismo, il grado di parentela, i contadini che portavano il vino, il maiale [...] perché allora i contadini [...] che erano pendolari, lavoravano tre mesi, quattro mesi all'anno [...] Non venire a lavorare e prendere lo stipendio"(3.9). Un altro operaio afferma che molti pendolari facevano la notte fissa per poter lavorare di giorno nei campi, e lamenta le gelosie create dalle raccomandazioni: "chi poteva farsi raccomandare era gente che avrebbe potuto benissimo vivere del suo, perché c'era tanta gente che arrivava dai miei paesi, gente che aveva la cascina a casa con dei beni notevoli e avrebbe potuto benissimo vivere del suo, ma venivano lì, il solito giro di raccomandazioni..."(3.17). La questione degli operai "possidenti" era una vecchia storia, che periodicamente tornava alla ribalta, nei periodi di crisi, quando di fronte alle prospettive di riduzione del personale gli operai avanzavano la richiesta che toccasse a chi "poteva vivere del suo": ciò avvenne nella grande crisi del 192934, e si ripeté alla fine della guerra, quando i malumori nei confronti di "quelli delle damigiane di vino" vennero aggravati dal risentimento verso gli operaicontadini che potevano disporre di beni alimentari autoprodotti ed erano accusati di aver approfittato del mercato nero. Un militante Fiom più incline a considerazioni generali di carattere politico, sostiene che dopo la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del 1948, la Fiat "iniziò ad assumere tutti i contadini delle nostre valli [...] per vedere di rompere il fronte sindacale, rompere gli scioperi... invece quella gente lì quando sono stati dentro con la cruda realtà della fabbrica, della linea di montaggio in poco tempo hanno cambiato e facevano sciopero anche loro... poi han provato con i meridionali [...] hanno sempre cercato di portare una manodopera come rottura [...] della coesione sindacale [...] sotto un aspetto poi ci sono riusciti, sotto un aspetto"(1.18). Con l'inizio degli anni sessanta altre linee di divisione si aprirono con i meridionali e con i giovani, spesso confusi nel ricordo dei testimoni: i meridionali erano anche i giovani, portatori di interessi, mentalità e comportamenti diversi da quelli degli operai del primo dopoguerra e degli anni cinquanta. Riguardo ai meridionali, le testimonianze sono molto discordi, con un ricco arco di sfumature che riempie lo spazio tra chi afferma: "in Fiat ho avuto più amici tra i meridionali che non tra i miei paesani diretti... perché erano piuttosto...piemontesi falsi e cortesi è nato giusto ecco 'sto detto"(1.17), e chi ribadisce invece vecchi contrasti e risentimenti: "loro hanno tanti diritti e nessun dovere, poi sono arrivati qua, addirittura avrebbero voluto cambiare il clima"(3.17). Quanto ai giovani, mancava loro l'abitudine al lavoro e la voglia di lavorare sodo. Molti testimoni (13, pari al 24 per cento) ricordano, negli anni del boom, il gran numero di ore straordinarie, il lavoro di sabato e domenica, che svolgevano 31 volentieri per i guadagni aggiuntivi coi quali potevano acquistare beni di consumo durevoli, andare in vacanza durante le ferie, o far studiare i figli 46. Pochi ammettono di aver svolto un doppio lavoro (solo due testimoni), ma alcuni vi accennano come sistema abbastanza diffuso per arrotondare le entrate familiari. I giovani, invece, "per loro era già un lavoro pesante quello [dell'orario normale]", tendevano a lavorare il minimo necessario, avevano "un'altra mentalità, un'altra mentalità"(2.8); "andando avanti con gli anni --dice un altro operaio, in riferimento al periodo di turbolenza iniziato alla fine degli anni sessanta-- noi anziani eravamo mal visti dai nuovi assunti perché i nuovi assunti avevano solo la pretesa di fare poco e andare in giro a chiacchierare"(1.3); "rimprovero ai giovani di quel periodo che [...] hanno vissuto in un certo benessere, sia alimentare, tutti col Plasmon, non hanno sofferto né fame né sete, né freddo né stanchezza, che pensassero che il mondo fosse tutto lì, cioè avere tutto e averlo subito, perché poi, da vecchi non serve più"(3.12). La conflittualità di quegli anni viene da alcuni collegata al massiccio afflusso di giovani meridionali, a partire dagli anni sessanta: "quando hanno fatto venire su tanta gente non ero affatto contento --dice un operaio iscritto al Sida-- Qui andiamo a finir male! Far venire su quella gente là... non lavorano mica tanto, tanto, sa? Vogliono alloggi e soldi subito, non come noi [...] E poi sono cominciati gli scioperi"(2.9). Anche alcuni vecchi iscritti alla Fiom sottolineano le difficoltà di comunicazione coi giovani. Alla soglia della pensione, come quasi tutti gli intervistati, negli anni settanta non erano propensi agli scioperi frequenti, né 46 L'enfasi con cui questi testimoni parlano del fatto che per loro "domeniche non ce n'era nessuna", trova riscontro nei dati sulle ore straordinarie conservati nel Fondo Sepin, qualora si ipotizzi che non tutti gli operai facessero gli straordinari nella stessa misura. Le ore straordinarie, in percentuale media annua sul totale delle ore lavorate (ordinarie più straordinarie), ebbero un'entità variabile, legata ai mini-cicli economici (diminuzioni nel 1951-52 e 1964-65): 1944 1945 1946 1947 1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 7,5 4,8 3,0 3,1 3,5 6,1 5,5 2,6 3,7 4,7 5,1 4,7 4,2 4,9 4,5 6,3 4,9 6,4 5,6 6,4 4,0 3,7 32 alla conflittualità esacerbata. Racconta una donna, che nell'immediato dopoguerra era stata collettrice dei bollini sindacali per la Fiom: "c'erano quei capi squadra capi reparto di prima che... eravamo quasi diventati... amici no ma però... io gli dicevo: ma vedete adesso questi qui cosa fanno che ce l'avevate sempre con noi... ah! ha detto: aveva ragione, aveva ragione, perché questi qui non li ferma nessuno"(1.1). Ma i vecchi militanti erano anche in disaccordo con i nuovi comportamenti che confliggevano con le tradizionali pratiche operaie: "io avevo dei compagni di lavoro [...] che lavoravano alle macchine, che tre quarti d'ora prima della fine del turno si erano già lavati le mani e andavano a sedersi eh... fuori, perciò come si può poi protestare, fare uno sciopero perché non ce la fai a fare la produzione quando ti trovi un 45 minuti di libertà no? Sarebbe bastato lavorare in modo intelligente non strafare prima e arrivare giusto con la produzione all'ultimo minuto e allora si poteva poi [...] e logicamente la Fiat queste cose le vedeva anche se sul momento faceva finta di no... poi è successo tutto quello che è successo [...] ha lasciato corda fino a un certo punto poi ha detto: adesso basta... si è ripresa tutto..."(1.17). A Mirafiori, negli anni di Valletta, "il tempo serviva appena a far quello che ci davano e se finivi prima aumentavano subito la produzione. Bisognava regolarsi... finire con quelle ore"(3.13). La vecchia pratica operaia di segnare il passo nella produzione per non dare adito al taglio dei tempi di cottimo veniva contrapposta all'irruenza giovanile che spingeva a ultimare in fretta la produzione per liberare tempo di lavoro a favore della socialità dentro la fabbrica: le chiacchiere alla macchinetta del caffè, la partita a carte. I comportamenti di questo ultimo tipo, tuttavia, non erano mancati nella seconda metà degli anni quaranta. Una parte dei testimoni ha vissuto, a Mirafiori o comunque in Fiat, le agitazioni dell'immediato dopoguerra e la loro sconfitta negli anni cinquanta; un'altra parte è stata invece socializzata in fabbrica sotto la disciplina vallettiana. Le testimonianze evidenziano l'importanza di un'analisi della formazione delle generazioni nella composizione operaia, e il ricordo degli anni settanta rimanda a conflitti intergenerazionali che suggeriscono due punti problematici: le dimensioni della minorité agissant che ha percepito il ciclo di lotte 1968-1980 come una rivincita sugli "anni duri" della Fiat (dimensioni probabilmente ridotte tra i vecchi lavoratori); l'importanza di indagare, all'interno dei turbolenti anni settanta, su una periodizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di differenti gruppi operai, nella demarcazione dei quali l'età sembra giocare un ruolo fondamentale. 33