gli operai di mirafiori - Mirafiori accordi e lotte

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gli operai di mirafiori - Mirafiori accordi e lotte
GLI OPERAI DI MIRAFIORI. Dalla ricostruzione al miracolo economico.
Un'analisi quantitativa.*
di Stefano Musso
------------------------* La principale fonte di questo saggio è il fondo Sepin conservato presso
l'Archivio storico Fiat. Il fondo, di grande interesse, raccoglie una documentazione
statistica molto ricca, concernente il personale delle varie sezioni in cui si articolava
il gruppo Fiat, per un periodo che va dagli anni trenta agli anni sessanta. Per la
rilevazione e l’elaborazione dei dati su Mirafiori qui utilizzati devo un
ringraziamento a Maria Rosaria Mancino.
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Nel 1947, quando lo stabilimento di Mirafiori fu scorporato dalla Sezione
Autocentro (comprendente Lingotto e Mirafiori) per essere costituito in ente Fiat
separato, contava 14.000 operai. L'autonomia gestionale/contabile e i cambiamenti
di denominazione ufficiale simboleggiavano il passaggio del testimone dal Lingotto
a Mirafiori: quest'ultimo diventava lo "Stabilimento Automobili", mentre il primo
era declassato a semplice "Sezione Officine Lingotto" e di lì a qualche anno, a
"Officine
Sussidiarie Auto"1. Le vicende belliche avevano ritardato il
raggiungimento della primazia da parte di Mirafiori: erano trascorsi ben otto anni
dall'inaugurazione, quando un manifesto di propaganda annunciava che il nuovo
impianto era previsto per 22.000 operai su due turni 2, e tale numero di dipendenti fu
toccato solo alla metà degli anni cinquanta, quando si può ritenere che abbiano
finalmente trovato attuazione i principi della produzione in linea secondo i quali
Mirafiori era stato concepito. All'inizio, furono traslocate dal Lingotto le officine
per la costruzione dei gruppi meccanici di autovetture, autoveicoli industriali e aerei,
e l'intera fabbricazione degli autocarri, ma la carrozzeria delle autovetture rimase
al Lingotto3. Nel dopoguerra, con l'intensificazione dei lavori di ricostruzione,
la sistemazione degli impianti non fu opera facile. Richiese successive modifiche e
il trasferimento di officine da Lingotto a Mirafiori e viceversa, con imponenti
traslochi di macchinari e uomini. Fino alla metà degli anni cinquanta, il numero dei
lavoratori in forza allo Stabilimento Automobili subì oscillazioni, anche consistenti
1
Gli impianti di Mirafiori furono inizialmente accorpati per la gestione e contabilità al Lingotto, col quale costituirono la Sezione
Autocentro fino al 31 dicembre 1946. Al 1° gennaio 1947 Mirafiori assunse la denominazione di Stabilimento Automobili, il
Lingotto quella di Sezione Officine Lingotto, poi modificata, l'11 novembre 1954, in Officine Sussidiarie Auto. Il 31 gennaio
1958, infine, Mirafiori diventò la Sezione Automobili, il Lingotto la Sezione Officine Sussidiarie Auto. Queste
informazioni sono contenute nelle schede sulle sezioni predisposte dalla Fiat Servizi per l'Industria - Sepin, in ASF.
2
Il manifesto, conservato in ASF, è stato riprodotto nell'apparato iconografico del volume di V. Castronovo, Giovanni Agnelli,
Torino, Utet, 1971.
3
Queste informazioni sono contenute in una nota della Direzione Stabilimento Automobili (Mirafiori), Servizio Impianti e
Sistemazioni, datata 31 dicembre 1955, in ASF.
1
(tabella 1), in relazione ai traslochi e al passaggio di alcune officine a nuove
sezioni4. In seguito, con la crescita delle esigenze produttive, i ricorrenti
adeguamenti e ampliamenti fecero di Mirafiori un cantiere permanente, che
necessitava di continui afflussi di manodopera. I soli operai addetti alla Sezione
Automobili salirono a 17.000 nel 1950 e a 23.000 nel 1960; balzarono poi a
36.000 nel 1965, dopo che il "raddoppio" di Mirafiori (con la costruzione dei
fabbricati a sud del Corso Settembrini) ebbe segnato il definitivo slancio verso
quel gigantismo industriale che avrebbe portato i lavoratori di Mirafiori a quota
47.500 alla fine del 1969 --e agli operai si aggiungevano circa 5.000 impiegati e
dirigenti5.
4
Oltre agli stabilimenti centrali di produzione automobilistica in senso stretto (officine meccaniche e
carrozzeria), Mirafiori comprendeva gli impianti di prima lavorazione (fonderia ghisa e alluminio, fucine, presse)
e le officine sussidiarie per la produzione e manutenzione di attrezzature, stampi, utensili e macchine. Il 1° ottobre
1949 fu costituito l' ente autonomo Stabilimento Fonderie, il 1° novembre 1951 fu la volta dello Stabilimento
Produzioni Ausiliarie. Il 31 dicembre 1958 i due enti assunsero rispettivamente le denominazioni di Sezione
Fonderie e Fucine, e Sezione Produzioni Ausiliarie.
5
Il numero di operai in forza alla Sezione Automobili Mirafiori fu di 41.504 a fine 1966 e 46.416 alla fine del
1967; in quest'ultimo anno fu aperto lo stabilimento di Rivalta, che restò accorpato a Mirafiori fino al 1° luglio 1969,
quando fu costituita la Sezione Officine di Rivalta; alla fine del 1968 gli operai, compresi quelli di Rivalta, salirono a
51.361; alla fine del 1969, con lo scorporo, gli operai di Mirafiori risultarono 47.593, quelli di Rivalta 11.792.
Dalle informazioni contenute nel Fondo Sepin il numero degli impiegati risulta il seguente. Nel dicembre 1945,
l'intera sezione Autocentro aveva 4.312 impiegati (2.859 uomini e 1.453 donne), più 317 impiegati negli spacci (149
uomini e 168 donne). Nel gennaio 1948 Mirafiori aveva 3.915 impiegati (2.503 uomini e 1.412 donne), Lingotto 574
impiegati (413 uomini e 161 donne). Nell'aprile 1952 la Sezione Automobili di Mirafiori 1.844 impiegati (1.347
uomini e 497 donne), Lingotto 791 impiegati (566 uomini e 225 donne). L'elevato numero di impiegati nel 1945-48
rimanda forse all'aumento del lavoro tecnico e contabile nella fase della ricostruzione; ma la successiva, netta
diminuzione degli impiegati a Mirafiori tra il 1948 e il 1952 --in parte dovuta allo scorporo delle fonderie e delle
officine sussidiarie (vedi nota 4) che nel 1952 contavano complessivamente 588 impiegati-- fa pensare che il
fenomeno dell' “inflazione delle categorie superiori” (la facilità con cui si concedevano i passaggi alla seconda e
prima categoria tra guerra e immediato dopoguerra), riscontrato per gli operai (ci permettiamo di rinviare a
Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat. Saggi critici e note storiche, Fabbri
Editori, Milano, 1992, in particolare la nota di S. Musso, L'"inflazione" delle categorie superiori, pp. 150-153), abbia
operato anche per chi già si trovava ai livelli superiori con la concessione della qualifica impiegatizia a intermedi e
operai di prima categoria. Non abbiamo elementi per valutare se nei primi anni cinquanta siano state attuate
riorganizzazioni del lavoro impiegatizio, in concomitanza con l'ammodernamento degli impianti produttivi consentito
dal Piano Marshall.
Negli anni successivi, alla Sezione Automobili il numero di impiegati (compresi i dirigenti) aumentò costantemente,
anche se in misura leggermente meno che proporzionale al numero di operai:
impiegati
e dirigenti
(a fine anno)
maggio
settembre
dicembre
marzo
marzo
marzo
ottobre
giugno
aprile
agosto
1957
1959
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
2.496
2.717
3.018
3.226
3.597
3.709
3.976
4.169
4.822
5.396
in % del numero di
operai e intermedi
13,7
13,1
12,6
10,4
10,9
10,4
10,9
10,0
10,4
10,5
2
Le assunzioni e il turn-over
A pochi mesi dall'entrata in funzione di Mirafiori, la guerra determinò continui
cambiamenti nell'utilizzo delle risorse umane, materiali e tecniche: si cercava di
rispondere alle esigenze della produzione bellica e di porre rimedio alle
difficoltà create dai bombardamenti, dalla disarticolazione dei trasporti, dalle
carenze nel rifornimento di energia e materie prime. Tra il 1939 e il 1943, mentre i
dipendenti del gruppo Fiat crescevano da 50.000 circa a quasi 70.000, il numero
degli operai in forza all'intera Sezione Autocentro 6 restava stabile, intorno alle
15.000 unità: altre produzioni, più direttamente connesse agli
armamenti,
richiamavano i nuovi assunti. All'Autocentro, la stabilità del numero complessivo
dei dipendenti si accompagnò a un forte turn-over, presumibilmente dovuto ai
problemi organizzativi, al clima sociale surriscaldato, allo sfollamento. Ogni anno
le assunzioni oscillavano tra un quarto e un terzo degli operai in forza, i
licenziamenti tra il 6 e il 13 per cento, le dimissioni (pensionamenti e dimissioni
volontarie) tra il 3 e il 10 per cento (tabella 3); i trasferimenti ad altri
stabilimenti del gruppo coprivano la differenza tra entrati e usciti, mantenendo
pressoché stabile il numero di operai. Benché una parte di coloro che se ne
andavano fosse costituita da nuovi entrati 7, si può immaginare che la prima
formazione di gruppi operai a Mirafiori sia avvenuta in circostanze eccezionali:
dapprima fu resa difficile da un ricambio molto rapido, poi fu influenzata, ancora
in condizioni di instabilità occupazionale, dall'effervescenza della situazione politica
che si sovrappose, e in parte si sostituì, all'ancor scarsa sedimentazione di
stratificazioni ascrivibili all'organizzazione del lavoro, al mercato del lavoro, alla
politica delle assunzioni.
Nell'immediato dopoguerra i giovani, le donne, i reduci, gli ex internati, i
partigiani costituivano altrettanti gruppi operai che disponevano di proprie
organizzazioni, nate su iniziativa politica; essi cercavano una tutela dei propri
interessi nel sistema aziendale, anche attraverso la contrattazione sindacale
interna, affiancandosi e intersecandosi ai tradizionali gruppi professionali definiti
dalla categoria contrattuale, dal sistema di incentivazione, da specifiche
mansioni. Le commissioni interne nel dopoguerra tentarono una difficile
rappresentanza complessiva dei differenti gruppi, finendo spesso per operare una
semplice sommatoria delle varie rivendicazioni 8. Dopo i primi anni cinquanta,
quando il clima postbellico di mobilitazione politica venne meno, quando la
6
Non disponiamo di documentazione specifica sugli operai di Mirafiori prima del 1947; tuttavia, è lecito supporre
che la quota degli operai di Mirafiori sul totale dell'Autocentro fosse ampiamente maggioritaria. Nel 1947, l'anno
dello scorporo, Mirafiori aveva in forza 14.204 operai, il Lingotto 3.734.
7
Non ci è possibile quantificare il numero di operai che entravano e uscivano nell'arco dell'anno. L'unico dato a
nostra disposizione riguarda i licenziamenti e le dimissioni nel periodo di prova, che sommati rappresentavano, in
proporzione agli operai in forza, il 2,3 per cento nel 1940, l'1,1 nel 1941, il 2,0 nel 1942, l' 1,7 nel 1943.
8
Si veda Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat, cit., in particolare le note di
G. Berta, Il mestiere del commissario interno, pp. 61-64 e B. Manghi, Rappresentare tutti, pp. 77-80.
3
componente socialcomunista perse consensi e il ruolo delle commissioni interne
fu ridimensionato, le lenti ideologiche persero efficacia nel filtrare e ricomporre
le segmentazioni. Queste si approfondirono, e le strategie collettive furono
accantonate. Ma il quadro della composizione operaia, come vedremo, era a quel
punto profondamente mutato. Mirafiori diventò una grande città del lavoro, in
continua espansione, che reclutava manodopera in spazi sociali molto diversi e
la ridifferenziava secondo le modalità dell'organizzazione di fabbrica.
Dal punto di vista del ricambio del personale, il 1945 e il 1946 ebbero un
andamento ancora molto simile a quello degli anni di guerra. Il 1945 registrò molte
assunzioni e molte dimissioni; furono invece pochi i licenziamenti. Le assunzioni
furono ancora molto numerose: ammontarono a quasi 5.500, più che nel 1940 e poco
meno che nel 1943; ma certo non derivavano più da esigenze produttive: prima del
25 aprile l'assunzione serviva a evitare il reclutamento forzato da parte tedesca;
poi fu la volta di reduci, partigiani, ex internati, disoccupati, donne (che proprio in
quell'anno raggiunsero la quota più elevata di tutto il periodo); probabilmente vi
furono riassunzioni di operai che avevano interrotto il rapporto di lavoro nel
19449. Più in generale le assunzioni si trasformarono in una forma
particolare di quei servizi assistenziali che la Fiat aveva erogato durante la
guerra a decine di migliaia di dipendenti e familiari, diventando uno dei pilastri
della sopravvivenza a Torino10. L’assistenza, soprattutto la distribuzione di generi
essenziali, non fu sospesa alla fine del conflitto, per il perdurare della scarsità degli
approvvigionamenti; ancora nel 1946 la minestra Fiat veniva distribuita anche ai
poveri, fuori degli stabilimenti. Nel nuovo clima postbellico, in presenza di un forte
esubero di manodopera, le assunzioni, imposte anche per decreto prefettizio 11,
servivano a guadagnare meriti politici.
Pur in netto calo rispetto all'anno precedente, nel 1946 le assunzioni si
mantennero su un livello elevato (3.250), sfiorando il 20 per cento degli operai in
forza; poche furono le dimissioni, molti invece i licenziamenti (quasi 1900), per
due terzi motivati da esubero di personale: evidentemente lo sblocco dei
licenziamenti (gennaio 1946), per quanto contrastato dalle commissioni interne e
generalmente ritenuto poco efficace nelle grandi aziende ad alta sindacalizzazione,
consentì comunque di ridurre la pressione di una manodopera largamente
9
O che erano rimasti nei libri matricola ma non comparivano più nei libri paga, il che potrebbe spiegare la
drastica riduzione degli operai in forza in quell'anno: il 1944 fu denso di situazioni eccezionali che complicavano il
rapporto tra i dipendenti e l'azienda, tanto da far saltare il sistema interno di rilevazione statistica, come si può
notare dal numero eccessivamente ridotto degli operai in forza in quell'anno. Le situazioni eccezionali si possono
riassumere in sfollamento, decentramento di impianti, irregolarità della produzione, irregolarità della presenza in
fabbrica, richieste di lunghi permessi, servizio militare, lavoro volontario in Germania, deportazione,
partecipazione alla lotta partigiana ecc.
10
L'assistenza Fiat durante la guerra assunse un'importanza enorme e un nuovo significato, perché consentì agli operai
e alle loro famiglie il mantenimento di condizioni vitali minime attraverso il rifornimento di generi essenziali,
specie dopo il 1943, quando le istituzioni pubbliche allo sbando non erano più in grado di funzionare. L’attenzione
con cui la Fiat seguiva la situazione economica e la capacità d’acquisto dei propri dipendenti è testimoniata
dall’indagine campionaria condotta dall’ “Ufficio statistica Fiat” sui bilanci familiari di operai e impiegati tra il 1940 e il
1951. Cfr. R. Bozuffi, Nota sui bilanci familiari di dipendenti “Fiat” a Torino (1946-1951), in “Rivista italiana di
economia, demografia e statistica”, n. 3-4, luglio-dicembre 1952, pp. 19-45.
11
Il decreto prefettizio che imponeva l’assunzione di reduci ed ex-partigiani fu emanato il 19 gennaio 1946.
4
eccedente.
Negli ultimi anni quaranta e per tutto il decennio successivo le assunzioni ebbero
un andamento altalenante, con anni di forte contenimento (1948, 1951-54, 1958, tra
l'1 e il 4 per cento degli operai in forza) e anni di andamento sostenuto (1949-50,
1955, 1959, tra il 15 e il 20 per cento). Il turn-over fu invece estremamente
contenuto, per la riduzione tanto dei licenziamenti che delle dimissioni. Nel 196163, in connessione al "raddoppio" di Mirafiori, si ebbe una nuova ondata di
assunzioni (quasi 22.000 in tre anni), che comportò un certo aumento dei
licenziamenti per mancata conferma nel periodo di prova (tabelle 7, 8); una crescita
abbastanza consistente fu registrata anche dalle dimissioni (che toccarono il 4-6 per
cento), tanto da far tornare a livelli consistenti il turn-over (tabella 3).
Nel valutare l'ampiezza delle assunzioni va tenuto conto anche dei trasferimenti
da e per altre sezioni del gruppo Fiat. A parte gli anni di scorporo di nuove sezioni
(1949, 1951), il saldo tra gli entrati e gli usciti verso altri stabilimenti assunse
raramente grandi dimensioni (tabella 4). In alcuni anni rappresentò tuttavia una
voce consistente, tale da condizionare l'entità delle assunzioni e l'andamento
complessivo della manodopera. Fu così, in particolare, nel 1960 --e poi ancora nel
1961 e 1962-- quando si ebbe un forte saldo negativo seguito
--e poi
accompagnato-- dalle grandi assunzioni del 1961-63. I passaggi attuati nei
dodici mesi intercorsi tra il 4 aprile 1960 e il 2 aprile 1961 furono tanto rilevanti da
essere seguiti con speciale attenzione dal servizio statistico interno: conosciamo
così le sezioni di provenienza e destinazione dei lavoratori trasferiti (tabella 4
bis); la riorganizzazione interessò, ovviamente, la produzione di veicoli: la
Sezione Automobili cedette ben 1.708 operai al Lingotto, 491 alla Spa, 104 alla
Ricambi.
I trasferimenti tra sezioni diedero un contributo ancor più rilevante al ricambio
del personale. Il saldo dei trasferimenti, infatti, era ridotto in quanto somma
algebrica tra entrati e usciti, ma il numero degli entrati e il numero degli usciti
erano entrambi elevati, e dal punto di vista del ricambio del personale assumevano
entrambi segno positivo: per tutti gli anni cinquanta i trasferimenti tra stabilimenti
incisero sul turn over con quote superiori a quelle di licenziamenti e dimissioni.
A completare il quadro degli entrati e degli usciti dagli operai in forza
concorrevano infine i decessi e i passaggi alla retribuzione mensile (tabella 5), e i
passaggi ai "reparti" indicati con le sigle O (ammalati) e M (militari). I malati di
lungo periodo e i giovani che lasciavano le officine per il servizio militare non
erano più considerati in forza allo stabilimento, ma mantenevano l'iscrizione a
matricola. Il reparto O --una sorta di sistema interno di cassa integrazione creato
allo scopo di raccogliere il personale in esubero individuato tra i più anziani e i meno
abili al lavoro12-- rappresentò una voce importante della mobilità del personale fino
12
Sul reparto O non siamo riusciti a raccogliere informazioni adeguate. Accenni agli operai anziani e inabili sospesi,
agli ammalati e ai dipendenti inviati ai convalescenziari sono contenuti nei verbali delle trattative con le
commissioni interne, pubblicati in Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat nei
verbali delle Commissioni interne, cit., vol. 1 1944-1950, in particolare pp. 201-202, 239, 262-263, 398-399.
5
alla metà degli anni cinquanta, con cifre decisamente rilevanti di entrati e usciti
(tabella 6); successivamente, con il venir meno degli esuberi di manodopera, le
uscite verso il reparto O diminuirono notevolmente, mentre i rientri si
mantennero elevati, a indicare il recupero degli operai ancora abili. Minor peso ebbe
il reparto M, che nella seconda metà degli anni cinquanta vide diminuire
drasticamente il numero di giovani in partenza: segno evidente della tendenza a
ridurre le assunzioni di giovani non militeassolti. I dati dei reparti O e M sono
indicativi di una politica del personale che tendeva a modificare la composizione
per età degli operai in direzione del privilegiamento delle classi di età centrali,
considerate più produttive.
Un peso marginale avevano le promozioni ai ruoli impiegatizi. Ogni anno in media
tre o quattro lavoratori ogni mille ottenevano il passaggio alla retribuzione mensile:
una quota limitata, indicativa delle scarse opportunità di carriera al di sopra dei
ruoli operai, anche se qualche occasione in più sembrò aprirsi negli anni di
maggiori assunzioni (1961-63). I decessi, infine, si ridussero dal 3 per mille della
fine degli anni quaranta all'1,5 per mille dei primi anni sessanta, per effetto del
progressivo ringiovanimento della manodopera.
In totale, escluso il periodo bellico, anno per anno gli entrati ammontavano ora
al 10, ora al 15, 20, 25, 30 per cento degli operai in forza, con una punta del 40 per
cento nel 1961; gli usciti oscillavano tra il 10 e il 15 per cento, a parte le punte
connesse agli scorpori di sezioni (tabella 2). Si trattava di un ricambio consistente,
tale da determinare costi non irrisori di inquadramento e inserimento a pieno
regime produttivo dei nuovi arrivati. La rigida disciplina e l'elevata
proceduralizzazione del lavoro che la direzione tentava di imporre in quegli
anni erano forse anche una risposta a questo problema.
Andrebbe infine tenuto conto dei trasferimenti interni a Mirafiori, sui quali non
abbiamo documentazione quantitativa,
ma che alcuni indizi suggeriscono
consistenti. Essi si sommavano al turn over nell'influire sui rapporti interpersonali,
che erano di importanza decisiva nella configurazione dell'ambiente di lavoro, delle
solidarietà di gruppo e della contrattazione informale in officina 13. I cambiamenti
di reparto all'interno di uno stabilimento gigantesco, in cui nei primi giorni di
assunzione gli operai non riuscivano a orientarsi 14, contribuivano a rendere
instabile la composizione delle squadre, determinando una situazione in cui, salvo
realtà particolari, non erano molti i compagni di lavoro che si conoscevano da lungo
tempo.
I passaggi tra sezioni e tra reparti all'interno delle sezioni erano senz'altro
dettati da esigenze di organizzazione produttiva. Accanto ai trasferimenti di gruppi,
13
Per una recente discussione degli approcci allo studio dei gruppi e dei comportamenti operai nell'ambito delle
relazioni sociali nell'impresa si veda T. Welskopp, Das Betrieb als soziales Handlungsfeld. Neuere
Forschungsansätze in der Industrie- und Arbeitergeschichte, in "Geschichte und Gesellschaft", 1996, n. 22. Per
alcuni aspetti della contrattazione informale si veda Relazioni industriali a Torino 1935-1955, numero monografico
di "Movimento operaio e socialista", 1990, n. 1-2.
14
Questa l'esperienza descritta in molte delle interviste ad anziani Fiat ex operai di Mirafiori. Si veda il saggio di
Marcella Filippa e Luisa Passerini in questo stesso volume.
6
o di un certo numero di lavoratori, vi erano tuttavia i trasferimenti individuali
(tabella 4 bis). Questi ultimi erano per lo più risultato di richieste dei lavoratori, che
camminavano sui fili informali dei rapporti personali tra operai e capi e tra capi, e
che non era difficile esaudire in grandi impianti in espansione che accoglievano
quotidianamente unità aggiuntive di manodopera.
Le reti di relazioni personali contavano sicuramente molto anche nelle assunzioni,
almeno negli anni in cui queste non furono massicce. Di certo il periodo di prova
non fu usato per una significativa selezione del personale. La selezione --non
sappiamo quanto severa-- avveniva forse a monte, probabilmente in base ai
semplici dati anagrafici di chi chiedeva l'assunzione (allo scopo di perseguire il
ringiovanimento della manodopera), o alle risultanze della visita medica, di test
psicoattitudinali, o alle referenze personali e politiche. Gli ammessi al periodo di
prova venivano confermati nella quasi totalità dei casi. Anche in riferimento al
periodo di prova, tuttavia, si possono osservare tre fasi: 1940-46, 1947-1960, 19611965. Nella prima fase, di forte ricambio, ebbero una certa consistenza i
licenziamenti per mancata conferma e le dimissioni nel periodo di prova, con una
prevalenza delle dimissioni sulle mancate conferme. Nella seconda, entrambe le
modalità di uscita furono irrilevanti. Nella terza fase, caratterizzata dal forte
incremento delle assunzioni, aumentarono tanto le dimissioni che le mancate
conferme, di nuovo con una prevalenza delle prime sulle seconde; mentre negli anni
cinquanta, in media, un solo operaio su cento neo-assunti usciva nel periodo di
prova per abbandono volontario o per decisione dell'azienda, nei primi anni
sessanta uscivano 4 o 5 operai su cento (tabella 7). L'aumento della percentuale dei
"fallimenti" negli anni di forti assunzioni, può essere ricollegabile al fatto che
tentavano la via dell'occupazione in fabbrica persone culturalmente lontane
dall'ambiente operaio, che venivano scartate o abbandonavano di fronte a un
lavoro che, proprio in quegli
anni, diventava sempre più intenso
e
rigidamente disciplinato; ma probabilmente l'effervescenza stessa del mercato del
lavoro nell'ultimo periodo del boom economico lasciava aperte altre opportunità a
chi era in cerca di occupazione.
Quanto ai licenziamenti, dopo il 1946 restarono quasi tutti gli anni sotto l'1 per
cento della manodopera (tabella 8). Tra le motivazioni, l'esubero di personale
scomparve dopo il 1947. Nella prima metà degli anni cinquanta prevalsero di gran
lunga i licenziamenti per scarso rendimento, tra il 1956 e il 1965 vennero
invece più sovente avanzati i motivi disciplinari. A queste cause vennero ricondotti
i licenziamenti di militanti comunisti negli anni cinquanta 15, che peraltro a
Mirafiori non furono numerosi. Le mancate conferme al termine del periodo di
prova ebbero un peso limitato rispetto ai licenziamenti complessivi, tranne che
nel 1946 e, come abbiamo già notato, nel 1961-64.
15
La storia dei licenziamenti degli anni cinquanta è stata ricostruita, prevalentemente attraverso le testimonianze e le
storie di vita dei militanti, in A. Ballone, Uomini, fabbrica e potere. Storia dell’Associazione nazionale perseguitati e
licenziati per rappresaglia politica e sindacale, Milano, Angeli, 1987.
7
Giovani, adulti, anziani, uomini, donne
I ritmi sostenuti del turn over consentirono, come abbiamo accennato, un
notevole ringiovanimento della manodopera. L'attezione con cui il servizio
statistico interno seguì il fenomeno testimonia l'intervento consapevole della
Direzione. A partire dal 1948 furono redatte, ogni anno e per ciascuna sezione Fiat,
quadri per gruppi d'età degli operai, in complesso e per categoria di paga, e a
partire dal 1953, con cadenza triennale, statistiche sull'età media e sull'anzianità
contrattuale degli operai in forza ai singoli stabilimenti.
Nel 1948 la manodopera risultava abbastanza invecchiata: gli ultraquarantenni
costituivano oltre la metà degli operai (il 54 per cento). A distanza di 17 anni, nel
1965, il loro peso si ridusse a un quarto (26 per cento). I lavoratori della classe
d'età centrale, quella tra i 31 e i 40 anni, crebbero nello stesso arco di tempo dal
25 al 40 per cento, mentre i giovani fino a 30 anni passarono dal 21 al 34 per cento
(tabella 9). Il ringiovanimento non si verificò tuttavia in modo graduale e
progressivo in tutto il periodo. Fino alla metà degli anni cinquanta ci furono
oscillazioni, con una leggera tendenza opposta: nel 1954 gli ultraquarantenni
erano saliti al 57 per cento, a scapito dei più giovani, scesi al 18 per cento. La
grande trasformazione si attuò in soli quattro anni: alla fine del 1958 gli
ultraquarantenni costituivano ancora il 47 per cento della manodopera, nel 1962
erano scesi al 25 per cento; nei tre anni successivi il processo si arrestò, e i
cambiamenti si limitarono a una diminuzione della quota dei più giovani a favore
degli operai tra i trenta e i quarant'anni.
Senza voler azzardare improbabili catene causali, non si può non notare che
alcuni eventi di grande importanza nella storia di Mirafiori si concentrarono in pochi
anni: nel 1955, l'anno in cui maturò la sconfitta della Fiom, furono introdotte le
prime macchine transfer nella produzione di parti meccaniche della "600" e
avviate le moderne linee "dedicate" alla produzione di grande serie di utilitarie (la
"600" prima e la "500" due anni più tardi); di lì a breve fu realizzato un
ringiovanimento della manodopera incredibilmente rapido, che si accompagnò,
come vedremo, a un forte aumento della quota degli operai comuni di terza categoria,
addetti a mansioni semplici e ripetitive. Benché attuata con mezzi non traumatici (le
nuove assunzioni innanzitutto, i trasferimenti tra stabilimenti, forse qualche
dimissione incentivata), una simile trasformazione della composizione operaia
richiedeva un grado di flessibilità della manodopera difficilmente ottenibile in
presenza di organizzazioni sindacali agguerrite.
Il ringiovanimento delle maestranze si attuò in tutte le sezioni Fiat: tra il 1953
e il 1965 l'età media degli operai passò da 42 a 35 anni alla Sezione Automobili,
da 43 a 36 al Lingotto, da 43 a 38 alla Spa, da 41 a 37 alla Ricambi, da 46 a 38
alla Velivoli; ma ciò che caratterizzò gli stabilimenti auto, di Mirafiori ma anche
8
del Lingotto, fu il concentrarsi della manodopera nelle classi d'età centrali: nel
1965, a Mirafiori, gli operai tra i 25 e i 39 anni costituivano il 62 per cento della
manodopera, contro il 60 per cento del Lingotto, il 55 per cento della Spa, il 54 per
cento delle Ferriere, il 49 per cento della Motori Avio, il 48 per cento della
Velivoli, il 47 per cento della Ricambi; all'interno dell'area di Mirafiori, solo le
Fonderie e Fucine, col 63 per cento, raggiungevano una percentuale pari alla
Sezione Automobili, mentre le Produzioni ausiliarie, in cui lavoravano operai
specializzati di età più anziana e venivano inseriti parecchi giovani per apprendere
il mestiere, la percentuale era solo del 35 per cento.
Anche dai dati sull'anzianità media in Fiat risulta che il ringiovanimento fu
più accentuato negli
stabilimenti
di produzione autoveicoli, quelli
maggiormente interessati dalla produzione di grande serie. Nel 1953 a Mirafiori
l'anzianità Fiat degli operai risultava mediamente di 11,7 anni, nel 1967 era scesa
a 7,8; nello stesso arco di tempo, alle Fonderie e Fucine era passata da 10,2 a 8,2;
alle Produzioni Ausiliarie da 12,1 a 10,8; al Lingotto da 11,9 a 7,7; alle Ferriere da
13,0 a 12,9; alla Spa da 13,0 a 8,8; alla Ricambi da 11,1 a 10,7; alla Velivoli da
15,5 a 13,4; alla Grandi Motori da 14,6 a 13,0; alla Materiale Ferroviario da 13,7 a
12,5. Nel 1953 a Mirafiori la metà degli operai risultava entrata in Fiat dal 1945 in
avanti; il 20 per cento era entrato tra il 1940 e il 1944, un altro 20 per cento negli
anni trenta, il 10 per cento negli anni 20 e ancor prima (43 operai erano in Fiat già
da prima del 1915, e 158 erano entrati tra il 1915 e il 1919). A distanza di nove
anni, nel 1962, ben il 73 per cento degli operai era entrato in Fiat dopo il 1953,
vale a dire in quegli ultimi 9 anni, il 17 per cento era entrato tra il 1945 e il 1953,
il 5 per cento tra il 1940 e il 1944, un altro 5 per cento negli anni trenta, e solo l'1
per cento (327 persone) risaliva agli anni venti.
Il ringiovanimento era stato davvero consistente. All'inizio degli anni cinquanta
vi era a Mirafiori una presenza non sporadica di lavoratori che avevano visto
dall'interno degli stabilimenti Fiat i conflitti del biennio rosso e l'avvento del
fascismo, e rilevante era il numero di coloro che avevano sperimentato la
contrattazione corporativa, vissuto la seconda guerra mondiale, i bombardamenti e
la resistenza --qualunque fosse il loro orientamento politico; nei primi anni
sessanta, questo patrimonio di esperienze storiche dirette era andato largamente
perduto: il 90 per cento degli operai di Mirafiori era entrato in Fiat dopo il 1945.
La memoria storica
poteva trasmettersi
con
la comunicazione
intergenerazionale nel territorio sociale o attraverso i canali delle organizzazioni del
movimento operaio, ma era ormai quasi del tutto assente dentro la fabbrica.
Il ringiovanimento interessò tanto la manodopera maschile che quella femminile.
Le donne però, già nel 1948, apparivano più degli uomini concentrate nell'età dai
31 ai 50 anni, con una minor presenza, in confronto agli uomini, di giovani e
di anziane. Tra il 1948 e il 1965 raddoppiò la quota di operaie di età compresa tra i
21 e i 30 anni (dal 14 per cento nel 1948 al 28 per cento nel 1965), mentre diminuì
la quota della classe d'età tra 41 e 50 anni (dal 37 al 26 per cento, tabella 10). A
differenza di quanto accadde per gli uomini, però, la classe d'età 31-40, invece di
9
aumentare, diminuì leggermente, dal 29 al 27 per cento, e in netta controtendenza
crebbe, anche se di poco, la quota delle donne tra i 51 e i 60 anni, dal 15 al 18 per
cento. ll ringiovanimento delle operaie, dunque, fu meno netto, ma non incise
significativamente sulla distribuzione per età dell'insieme della manodopera,
perché nell'arco di tempo considerato la quota della manodopera femminile, come
vedremo, si ridusse drasticamente.
Nel 1948 la quota di operaie ultraquarantenni nella manodopera femminile
di Mirafiori era piuttosto elevata, se confrontata alle tradizionali modalità di
presenza delle donne sul mercato del lavoro industriale. In particolare, l'età
delle operaie di Mirafiori appare decisamente elevata in confronto all’età delle
operaie dei settori di tradizionale occupazione femminile (tessile, vestiario,
alimentare ecc.). E' pur vero che negli anni trenta si erano osservate alcune tendenze
a superare il modello dell'abbandono del lavoro extradomestico da parte delle donne
dopo il matrimonio o la nascita dei figli, e soprattutto un aumento dei tentativi di
rientro sul mercato del lavoro regolare e a tempo pieno dopo aver cresciuto i
figli. Tuttavia si era trattato solo di primissime scalfitture di un modello di
comportamento che sarebbe durato ancora a lungo in ambiente operaio, almeno
fino al calo del tasso di natalità degli anni settanta. Probabilmente un'occupazione
alla Fiat era difficile da lasciare, perché garantiva guadagni molto più elevati dei
salari femminili medi. Del resto, da alcune testimonianze di operaie Fiat
emergono, già negli anni trenta, comportamenti demografici moderni 16. Il ridotto
ringiovanimento della manodopera femminile a Mirafiori negli anni cinquanta
va poi messo in relazione alla caduta della quota della manodopera femminile:
mentre le donne al lavoro tendevano a mantenere il posto, e invecchiavano, le
nuove assunzioni privilegiavano la manodopera maschile.
Nel 1948 gli uomini si distribuivano piuttosto uniformemente nelle varie classi di
età, ad eccezione dei ragazzi sotto i 20 anni, che erano molto pochi (3 per cento); il
18 per cento dei maschi aveva 21-30 anni, il 25 per cento 31-40 anni, il 27 per
cento 41-50 anni, il 20 per cento 51-60 anni, e si registrava ancora una presenza
consistente di ultrasessantenni, pari al 7 per cento. I più giovani erano destinati a
ridursi a una quota irrilevante nel 1965 (1,5 per cento): i nuovi assunti tendevano
forse ormai a coincidere con coloro che uscivano dalla Scuola Allievi.
Scomparvero anche gli ultrasessantenni. I giovani adulti tra i 21 e i 30 anni crebbero
quasi del doppio, dal 18 al 32 per cento, gli operai tra i 31 e i 40 anni aumentarono
dal 25 al 40 per cento.
Come abbiamo già accennato, nei vent'anni successivi alla seconda guerra
mondiale la presenza di personale femminile diminuì, e in misura consistente.
Nella seconda metà degli anni trenta, al Lingotto, ogni 100 operai 10 o 11 erano
donne: si trattava di una presenza consistente, non distante dalla media dell'intero
settore metalmeccanico (che in provincia di Torino era passato da una presenza
16
Si veda L. Passerini, Torino operaia e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1984. Sulle donne operaie alla Fiat si veda
anche G. Bonansea, Immaginario femminile tra lavoro di fabbrica e dimensione del corpo, in P. Nava (a cura
di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992, pp. 96-103.
10
femminile del 9,7 per cento nel 1911 al
12,5 per cento nel 1927). In
precedenza, l'industria automobilistica torinese aveva impiegato percentuali
di manodopera femminile inferiori a quelle dell'intero settore (3,7 per cento nel
1911 e 6,3 per cento nel 1920, in Torino città). L'industria metalmeccanica era
costellata di piccole officine che utilizzavano collaboratori familiari, tra cui molte
donne, mentre nella produzione di minuterie metalliche si faceva largo uso di
operaie e ragazzi. Al Lingotto la semplificazione di alcune lavorazioni di serie e
soprattutto le dimensioni crescenti della produzione avevano consentito la
creazione di intere squadre femminili in selleria, ai fanali, ai cavi elettrici. Le
norme emanate dal fascismo per la limitazione dell'occupazione femminile a
favore di quella maschile operarono più nella pubblica amministrazione e nel
terziario che in campo industriale, più sul versante impiegatizio che su quello
operaio. Alle aziende che, esportando parte della produzione, erano impegnate
nella concorrenza internazionale non fu mai negata una quota di manodopera
femminile, il cui costo, definito dalla contrattazione corporativa centralizzata, era
decisamente inferiore a quello della manodopera maschile, anche a parità di
qualificazione e prestazione17.
Lo scoppio della guerra non portò alla Sezione Autocentro un incremento
significativo dell'impiego di donne, a differenza di altri stabilimenti Fiat 18. La quota
di operaie salì al 12,6 per cento nel 1943, e toccò il massimo nel 1945 (14,5 per
cento). Anche in altre sezioni Fiat il massimo fu toccato dopo la guerra, nel 1945 o
17
Ci permettiamo di rimandare a S. Musso, Il salario sessuato. Differenziali
retributivi
nell'industria
metalmeccanica (1920-1960), in P. Nava (a cura di), Operaie..., cit., pp. 104-121. Sulla politica fascista nei
riguardi dell'occupazione femminile, V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993. Più in
generale, sul lavoro femminile in fabbrica, F. Bettio, The Sexual Division of Labour. The Italian Case, Oxford,
Clarendon Press, 1988.
18
La percentuale di operaie sul totale della manodopera nelle principali sezioni Fiat, nel periodo della seconda
guerra mondiale risulta la seguente (al gennaio di ogni anno):
1938
1939
1940
1941
1942
1943
1944
1945
1946
1947
(1)
(2)
(3)
(4)
(5)
(6)
(7)
11,2
10.8
10,6
10,2
9,2
12,0
13,4
13,6
14,0
10,5
0,1
0,1
0,1
0,1
0,2
0,3
6,3
5,7
5,5
4,2
11,1
10,0
10,0
9,9
10,9
17,1
20,5
19,9
14,4
12,9
1,9
1,7
2,4
2,4
3,0
3,9
5,1
5,4
5,0
4,1
4,7
4,6
9,1
9,3
8,4
8,6
11,1
11,2
11,4
11,2
0,6
0,5
0,4
0,5
0,8
0,9
3,9
3,4
3,0
4,5
4,4
5,4
4,2
5,6
5,7
5,0
5,7
4,5
(1) Autocentro (nel 1947 solo Mirafiori)
(2) Spa
(3) Materiale ferroviario
(4) Ferriere (stabilimento di Torino)
(5) Aeronautica d'Italia
(6) Grandi motori (meccanica)
(7) Grandi motori (fonderia)
11
nel 1946, quando certo non operavano più le esigenze della produzione bellica e la
necessità di sostituire manodopera maschile impegnata al fronte. L'assunzione
di
donne nell'immediato dopoguerra va collocata nel clima generale cui
abbiamo accennato --in particolare la nuova consapevolezza del ruolo femminile
che si era diffusa durante il conflitto 19. La quota delle operaie a Mirafiori restò alta
nel 1946 (anno in cui, in termini assoluti ci fu un leggero incremento), poi iniziò una
discesa, dapprima lenta, poi rapida alla fine degli anni cinquanta e ancor più
accelerata nei primi anni sessanta. Mentre cresceva il numero degli operai con
l'espansione degli impianti, il numero delle donne diminuiva anno dopo anno
(con rare eccezioni). Nel 1946 le donne erano 2.324, nel 1965 solo più 1.006, e la
loro quota si ridusse al 2,8 per cento (tabella 11). Anche nell'intero gruppo Fiat la
presenza di operaie diminuì in questo periodo, dal 15 per cento del 1943 al 2 per
cento della metà degli anni sessanta 20. Ciò avveniva mentre nell'intero settore
metalmeccanico della provincia di Torino la quota di manodopera femminile
restava stabile sui valori prebellici: 12,8 per cento nel 1951 e 12,6 per cento nel
1961).
La riduzione dell'impiego di donne fu pertanto una peculiarità della Fiat,
non di Mirafiori, né può essere connessa a trasformazioni dell'organizzazione
produttiva. Un primo elemento di spiegazione va individuato nella scelta, operata
non solo dalla Fiat ma dall'insieme della media e grande industria in quegli anni, di
concentrare manodopera maschile giovane adulta; si determinò così, alla fine
degli anni sessanta, quella segmentazione del mercato del lavoro industriale in
Italia individuata da Massimo Paci in due grandi settori: uno centrale, costituito da
uomini delle classi di età più produttive per resistenza fisica e qualificazione; uno
periferico, ad ampia presenza femminile, giovanile e di manodopera anziana di
scarsa qualificazione, occupato nelle piccole imprese, nell'artigianato, nelle
microimprese di servizi e nel lavoro a domicilio, con una forte componente di
lavoro precario e stagionale21.
Un secondo elemento di spiegazione può essere avanzato in linea ipotetica,
guardando non più al lato della domanda, ma al versante dell'offerta. Gli anni di più
rapida diminuzione della presenza di donne coincisero con il periodo delle
grandi assunzioni, che pescavano nel bacino degli immigrati dal Mezzogiorno e
dalle aree rurali del Piemonte. Tra gli immigrati, specie nelle prime ondate,
prevalevano nettamente i giovani adulti maschi. E maschi erano i non pochi operai
pendolari dai centri agricoli circostanti Torino. Non è dunque improbabile che
l'assunzione di donne trovasse limitazioni dal lato dell'offerta, tenuto anche conto del
fatto che proprio negli anni del miracolo economico iniziò ad affermarsi anche nelle
famiglie operaie la figura della casalinga a tempo pieno 22.
Tuttavia, la riduzione del numero assoluto delle donne impiegate in Fiat e
19
Si veda A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Solo nel 1970 si sarebbe registrata una leggera ripresa, che avrebbe fatto oscillare tra il 6 e il 4 per cento la quota
femminile nella prima metà degli anni settanta.
21
M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973.
22
N. Federici, Procreazione, famiglia, lavoro della donna, Torino, Loescher, 1984.
20
12
l'abbattimento della loro quota addirittura a un quarto rispetto ai livelli del periodo
fascista, a fronte della stabilità della presenza femminile nell'intero settore
metalmeccanico, lasciano più di un dubbio sulla possibilità che la componente da
offerta abbia giocato un ruolo fondamentale. Un altro importante fattore ha
operato influenzando ancora la domanda: il lento cammino verso la parità
retributiva tra uomini e donne, raggiunta nel 1962 ma che già aveva compiuto
passi decisivi nel 195423, contribuì senza dubbio a rafforzare la scelta delle grandi
imprese in direzione del personale maschile, essendo venuto meno il risparmio sui
costi salariali ottenibile con l'impiego di operaie. Le donne furono lasciate alle
piccole imprese dove, tra l'altro, era più facile eludere il contratto.
Il risultato della politica del personale che abbiamo cercato di descrivere fu, nei
primi anni sessanta, una manodopera molto omogenea sotto il profilo demografico,
a differenza di quella impiegata alla fine degli anni quaranta. Nel 1948, su 100
operai 3 erano giovani maschi sotto i 20 anni, 16 erano giovani adulti sotto i 30
anni, 2 erano giovani donne sotto i 30 anni, 47 erano gli uomini tra i 30 e i 50 anni,
6 le donne in questa stessa classe d'età, 24 erano gli operai anziani
ultracinquantenni, 2 le operaie anziane. Vi erano dunque consistenti gruppi
individuabili sulla base del sesso e dell'età. Nel 1965 i giovanissimi e gli
ultrasessantenni erano scomparsi: ogni cento operai vi era solo un giovane maschio
tra i 18 e i 20 anni; due in tutto erano le donne, una tra i 20 e i 40 anni e un'altra tra
i 40 e i 60; 10 operai avevano tra i 50 e i 60 anni, 16 tra 40 e 50 anni, 39 tra 30 e 40
anni, 31 tra 20 e 30 anni. Dunque, il 70 per cento della manodopera era ora
costituito da giovani uomini tra i 20 e i 40 anni (tabella 10). Se l'innesto degli
immigrati dal Mezzogiorno introduceva elementi di differenziazione di tipo nuovo,
culturale e linguistico, altri fattori di omogeneità derivavano dalla distribuzione per
categorie contrattuali.
23
La parità salariale a parità di lavoro (per qualifica e prestazione) fu ottenuta con le nuove categorie di
inquadramento degli operai previste dall'accordo nazionale del 20 ottobre 1962, (ma il processo era entrato in fase
avanzata già nel 1954, con l'accordo interconfederale sul conglobamento in paga base dell'indennità di
contingenza). Le categorie per l'industria metalmeccanica variarono come segue:
operaio specializzato
operaio qualificato
manovale specializzato
manovale comune
donna di 1^ cat.
donna di 2^ cat.
donna di 3^ cat.
22.11.1961
20.10.1962
1^ categoria
2^ categoria
3^ categoria
5^ categoria
4^ categoria
6^ categoria
7^ categoria
1^ categoria
2^ categoria
3^ categoria
6^ categoria
4^ categoria
5^ categoria
7^ categoria
17.2.1963
1^ categoria
2^ categoria
3^ categoria
4^ categoria
5^ categoria
operaio specializzato
operaio qualificato
manovale specializzato e donna di 1^ cat.
donna di 2^ cat.
manovale comune e donna di 3^ cat.
13
I gruppi professionali
Il primo insieme di gruppi professionali può essere individuato nelle
categorie contrattuali. Nel secondo dopoguerra le categorie erano ancora quelle
stabilite dal primo contratto nazionale di lavoro per l'industria metalmeccanica del
1928. Vi erano quattro categorie per i maschi adulti e due per le donne, oltre ad
alcune categorie per i minorenni. Per ciascuna categoria era fissata la paga base
oraria, che variava localmente, e costituiva un minimo al di sopra del quale
era possibile retribuire con aumenti di merito. Nelle aziende maggiori erano in
vigore paghe orarie superiori ai minimi per una larga maggioranza degli operai. La
prima categoria dei maschi adulti era quella degli
operai specializzati, che
svolgevano lavori per i quali era richiesta una specifica competenza tecnico-pratica
e abilità manuale (erano gli eredi degli operai di mestiere: tracciatori, modellisti,
utensilisti, calibristi, collaudatori non di serie, addetti alla manutenzione); la
seconda categoria era quella degli operai qualificati, che necessitavano di una
specifica capacità pratica (la figura tipica era quella del tornitore per lavori in
piccola serie, che provvedeva da sé alla regolazione e all'attrezzaggio della
macchina); la terza categoria era quella dei manovali specializzati (successivamente
chiamati anche operai comuni), le cui mansioni non richiedevano che un breve
periodo di addestramento (erano gli addetti macchina per la produzione di serie
che conducevano macchine già regolate e attrezzate); la quarta categoria era
costituita dai manovali comuni, che svolgevano lavori richiedenti unicamente
dispendio di energia fisica (in genere erano addetti al trasporto a mano di materiali
o a lavori di pulizia); le donne di prima categoria svolgevano lavori corrispondenti a
quelli del manovale specializzato, le donne di seconda categoria lavori
corrispondenti a quelli del manovale comune (pulizia, trasporti leggeri) o lavori
semplici eseguiti senza macchine operatrici. Nel 1942 le categorie femminili
furono portate a tre: alla prima categoria delle donne erano assegnate le operaie
che svolgevano lavori corrispondenti a quelli degli operai qualificati, o lavori da
addette macchine particolarmente disagiati; la seconda e la terza coincidevano con
le due categorie precedenti24.
24
La suddivisione delle donne in tre categorie, attuata nel corso della guerra per riconoscere il nuovo ruolo delle donne
in fabbrica, introdusse la prima categoria per le donne che svolgevano lavori qualificati. Questa categoria, però,
rimase poco più che una categoria fantasma, specie al di fuori delle grandi aziende. Alla Fiat, dove vi erano
classificate pochissime donne, veniva indicata come la categoria 05, in quanto alle quattro categorie dei maschi
adulti seguivano la 5^ e la 6^ categoria, che corrispondevano alle due tradizionali categorie femminili. Tra il 1959 e il
1962, nel sistema di enumerazione della categorie in Fiat, scomparve stranamente la quinta posizione: dopo le quattro
categorie maschili, la categoria 05 fu indicata come 6^, e le ultime due categorie femminili divennero la 7^ e la 8^. Nel
1963, infine, col definitivo riordinamento contrattuale, manovali specializzati e donne di prima furono unificati nella 3^
categoria, le donne di 2^ diventarono la 4^ categoria, i manovali comuni e le donne di terza furono unificati nella 5^
categoria. A quel punto, dopo l’eliminazione della distinzione tra categorie maschili e femminili, le differenze nelle
14
Come abbiamo già accennato, nel corso della guerra e nell'immediato
dopoguerra vi furono facili e numerosi passaggi di categoria. Gli avanzamenti
costituirono uno dei mezzi con cui si rispose alle pressioni per aumenti salariali in
un periodo di elevata inflazione caratterizzato, in un primo tempo, durante la guerra,
dal regime di blocco contrattuale dei salari, poi, nel dopoguerra, dalla forte
centralizzazione contrattuale e dagli accordi di “blocco salariale”. Le promozioni
corrisposero solo in parte all'aumento della quota di manodopera indiretta,
necessaria ai lavori di manutenzione, riparazione delle macchine e ripristino
degli impianti a seguito delle distruzioni belliche. L'entità di questi lavori era stata
notevole, come pure la disorganizzazione produttiva che ne conseguiva, e aveva
contribuito alla drastica diminuzione degli operai lavoranti a cottimo (dal 75 per
cento del 1939 al 47 per cento del 1945); ma non era stata tale, per quantità e
modalità di esecuzione dei lavori, da giustificare l'entità degli avanzamenti nella
classificazione. Considerando solo i lavoratori maschi adulti, gli operai di prima
categoria erano cresciuti dal 10,8 per cento nel 1938 al 14,4 nel 1945, al 18,3 nel
1947; gli operai di seconda categoria erano passati, negli stessi anni, dal 20,5 per
cento al 25,4 e al 28,1; gli operai di terza erano invece scesi dal 62,3 per cento al
52,2 e al 48,6. La percentuale dei cottimisti riprese a crescere nel 1946 (quando
entrò in vigore un accordo aziendale per l'incentivo di produzione) e si avvicinò ai
livelli prebellici nel 1949. L'inversione di tendenza nella distribuzione per categorie
iniziò nel 1948, l’anno in cui si può collocare la fine del clima di collaborazione per
la ricostruzione che aveva caratterizzato nel dopoguerra i rapporti tra direzione e
commissioni interne. L’irrigidimento aziendale di fronte alle richieste operaie,
derivante dalla volontà di ripristinare la disciplina, e l’avvio dei piani di
riorganizzazione produttiva favoriti dal Piano Marshall, portarono dapprima a uno
sgonfiamento delle categorie superiori, seguito dall’aumento degli operai comuni, di
pari passo con la razionalizzazione delle linee produttive.
Nel 1948, in rapporto all'intera manodopera, gli operai di prima categoria erano
il 15,5 per cento, quelli di seconda il 26,3 per cento, quelli di terza il 44,1 per
cento, gli operai di quarta il 4,4 per cento; le donne di prima categoria erano solo
43, pari allo 0,3 per cento, le donne di seconda ammontavano all'8 per cento,
quelle di terza all'1,4 per cento. Con una diminuzione progressiva della quota delle
categorie degli operai specializzati e qualificati, e un corrispondente aumento degli
operai comuni, si giunse, nei primi anni sessanta, a una situazione fortemente
modificata: nel 1962 gli operai di prima erano diminuiti in numero assoluto, e in
percentuale erano crollati al 6,2 per cento; gli operai di seconda si erano ridotti al
14,8 per cento; gli operai di terza erano invece saliti al 71,5 per cento; gli operai di
quarta erano quasi scomparsi (1,6 per cento); la quasi totalità delle donne superstiti
era inquadrata nella seconda categoria (3,2 per cento); le donne di terza si erano
ridotte allo 0,2 per cento, quelle di prima erano solo più 30, pari allo 0,09 per cento
(tabella 12).
paghe medie orarie tra uomini e donne appartenenti alla stessa categoria (riscontrabili nella tabella 13) sono da imputare
al fatto che si tratta di paghe medie orarie di fatto, comprensive dell’anzianità aziendale e degli aumenti di merito.
15
La distribuzione della manodopera in categorie contrattuali non sempre costituisce
un fedele riflesso dell’organizzazione del lavoro, in quanto –-e lo si è visto con
l’aumento degli operai specializzati e qualificati tra guerra e dopoguerra— la
pressione dei lavoratori e la contrattazione interna per gli avanzamenti di qualifica
possono alterare il quadro della classificazione. Tuttavia, il fatto che a cavallo tra gli
anni cinquanta e sessanta ben tre operai su quattro fossero inquadrati nella terza
categoria, quella degli operai comuni addetti alle linee di montaggio o alle
macchine per la produzione di pezzi in serie, indica che il processo di
dequalificazione delle mansioni riconducibile all’implementazione del sistema
taylorista era ormai in uno stadio avanzato. Tra il 1962 e il 1965, in effetti, la
situazione si stabilizzò, segnando solo un lieve incremento della quota degli operai
qualificati25.
All’inizio degli anni sessanta dunque, ben tre operai su quattro erano inquadrati
nella terza categoria, Con il mutamento del peso relativo delle categorie si
modificarono anche i differenziali retributivi, nel senso di una riduzione del
ventaglio che avvicinò notevolmente i salari degli operai comuni a quelli delle
categorie più qualificate.
Un primo forte restringimento delle tradizionali differenze si era avuto nel
corso della guerra, per la necessità di garantire condizioni minime a tutti in
periodi di gravi difficoltà economiche; l'appiattimento era poi proseguito
nell'immediato dopoguerra, come effetto di rivendicazioni egualitarie tipiche dei
periodi di accesa conflittualità.
A partire dal 1947 furono effettuati alcuni ritocchi a favore delle categorie
superiori, così che nel 1949, almeno nella paga media oraria di fatto 26 i differenziali
retributivi risultavano ancora abbastanza ampi (tabella 13): fatta uguale a 100 la
paga oraria degli operai di terza categoria (operai comuni), gli specializzati
guadagnavano 140, i qualificati 118, i manovali 91, le donne di prima 75, le donne di
seconda 69, quelle di terza 64. Le differenze restarono su questi livelli fino al 1954,
quando si restrinsero notevolmente per effetto dell'accordo nazionale
sul
conglobamento in paga base dell'indennità di contingenza: fatta sempre uguale a
100 la paga dell'operaio comune, gli specializzati guadagnavano ora 120, i
qualificati 107, i manovali 94, le donne di prima 89, le operaie di seconda 84,
quelle di terza 79. Negli anni successivi si riaprì leggermente e con gradualità il
ventaglio a favore degli operai di prima e di seconda, i cui indici nel 1960
25
Non ci sembra pertanto condivisibile la conclusione cui giunge Giuseppe Volpato, che (sulla base dei dati sulla
classificazione della manodopera a Mirafiori tra il 1948 e il 1958 forniti da O.M. Sassi, Considerazioni sul progresso
tecnologico alla Fiat nella produzione automobilistica, in AA.VV., Il progresso tecnologico e la società italiana, 2
voll., Milano, Giuffrè, 1961) vede nella diminuzione della quota dei manovali di 4^ categoria e delle categorie femminili
e minorili un indicatore più significativo dell’aumento degli operai di terza, ritenendo che il processo di dequalificazione
delle mansioni di tipo taylorista vada posticipato di un decennio. Cfr. G. Volpato, Il caso Fiat. Una strategia di
riorganizzazione e di rilancio, Torino, UTET Libreria, 1996, pp. 55-56.
26
Le paghe di fatto, comprensive dell'anzianità aziendale e degli aumenti di merito, risultavano più differenziate dei
minimi contrattuali, in quanto gli aumenti di merito a favore degli operai qualificati e, soprattutto, di quelli
specializzati erano più consistenti di quelli concessi agli operai comuni; inoltre gli scatti di anzianità accrescevano
le medie orarie delle categorie qualificate, nelle quali l'età media era più avanzata.
16
giunsero rispettivamente a 133 e 112. Seguì un nuovo restringimento, che portò i
differenziali ad attestarsi, nel 1963-65, a 128 per gli operai di prima, 109 per quelli
di seconda, 91 per i manovali; quanto alle categorie femminili, per effetto
dell'accordo sulla parità retributiva del 1962 le donne superarono i manovali comuni
con indici di 102, 96 e 94.
In quindici anni, dunque, gli operai di prima categoria persero mediamente un
terzo del loro vantaggio nella paga oraria rispetto agli operai comuni, gli operai di
seconda addirittura la metà. Inoltre, va tenuto conto che le distanze nella retribuzione
complessiva erano decisamente inferiori a quelle nella paga oraria, perché le
altre voci retributive restringevano i ventagli: innanzitutto l'indennità di
contingenza e le varie indennità e compensi accessori erano meno distanziati della
paga di categoria (anche gli assegni familiari, per chi aveva lo stesso numero di
persone a carico, rappresentavano somme uguali per tutti in busta paga); in
secondo luogo, il sistema incentivante27 permetteva a molti operai di categoria
inferiore di avvicinare i propri guadagni a quelli degli operai a economia di
categoria superiore28.
Nei primi anni sessanta, indennità di contingenza e sistema incentivante avevano
accresciuto di parecchio il loro peso in busta paga in confronto alla fine degli anni
quaranta, e di converso era diminuita l'importanza della paga oraria. Ne
conseguiva la riduzione dei ventagli salariali. Questo era tanto più vero alla Fiat,
dove i premi di produzione avevano costituito uno dei perni della politica
vallettiana di costruzione del consenso --o dell'acquiescenza-- operaia e di
erosione della forza della Fiom. A Mirafiori, considerando la media generale per
l'insieme degli operai, nel 1948 il premio di produzione incideva per l'11 per cento
sul guadagno complessivo orario lordo 29, ed era pari al 47 per cento della paga
oraria. Nel 1950, in seguito all'introduzione del premio generale di stabilimento30, il
peso del sistema incentivante salì al 21 per cento, e divenne pari all'importo della
paga oraria; nel 1954 arrivò a incidere per il 26 per cento, superando di molto la
paga oraria (172 lire di incentivo per cento lire di paga oraria). In seguito ai
conglobamenti in paga base dell'indennità di contingenza (1954 e 1962), la paga
oraria tornò a superare l'incentivo; quest'ultimo mantenne però il forte peso sul
guadagno totale, oscillando intorno alla quota del 1954, con un picco del 28 per
cento nel 1962 (tabella 14). L'indennità di contingenza, da parte sua, era una grossa
componente del salario (nel 1948 superava la somma di paga oraria e incentivo) e
27
Il sistema incentivante era costituito da una sorta di cottimo collettivo di squadra chiamato premio di produzione
(in vigore dal 1946) e da un premio generale di stabilimento (detto superpremio) legato in un primo tempo alla
produzione, in seguito alla produttività dello stabilimento (in vigore dal 1949).
28
Agli operai che non lavoravano a incentivo, tuttavia, era concessa una percentuale della media dei guadagni dei
cottimisti (una specie di indennità di mancato cottimo). Nel 1947, ad esempio, la paga oraria media di fatto degli
operai diretti incentivati (cottimisti), era leggermente inferiore alla paga media degli economisti (41,45 lire orarie
contro 43,84), ma nella medie orarie comprensive dei guadagni di cottimo o delle percentuali di mancato cottimo, i
diretti incentivati superavano gli economisti (51,89 contro 50,64).
29
Comprensivo dei compensi accessori (gratifiche, indennità, maggiorazioni varie, e quote orarie per ferie e festività),
al lordo delle ritenute per l'imposta di ricchezza mobile e per i contributi previdenziali a carico del lavoratore.
30
Si veda la nota 27.
17
riduceva le differenze retributive sia come voce autonoma che quando entrava in
paga base.
Altri gruppi operai erano determinati dalla collocazione nel processo produttivo
e dalla posizione rispetto al sistema di incentivazione. La direzione del personale
classificava la manodopera in quattro classi, contrassegnate dalle lettere A, B, C,
D. Alla classe A appartenevano gli operai addetti direttamente alla "produzione
normale", vale a dire alla fabbricazione delle parti e al montaggio dei prodotti
destinati alla vendita; alla classe B appartenevano gli addetti indirettamente alla
produzione normale, cioè gli operai che non partecipavano alla
trasformazione del prodotto, ma erano a contatto coi lavoratori della classe A e
svolgevano lavori sussidiari; la classe C era costituita dai lavoratori addetti alle
"produzioni interne" (per assistenza alla fabbricazione, o per il magazzino) e
alle "lavorazioni interne" (esperienze e prove), ausiliarie rispetto all'esecuzione
della produzione normale (i lavoratori di questo gruppo erano a loro volta suddivisi
in due sottoclassi, Ca e Cb, corrispondenti agli operai diretti e agli indiretti); la
classe D, infine, era costituita dagli addetti ai servizi generali di stabilimento
(servizi aziendali e servizi della fabbricazione). La distribuzione degli addetti a
queste quattro classi non subì grossi cambiamenti. Nel 1947-48, quando ancora
perduravano le deficienze organizzative e gli effetti di una politica del personale
non rigorosa, la classe A rappresentava poco più della metà degli addetti (55 per
cento), mentre erano alte le quote tanto degli indiretti che degli addetti alle
produzioni ausiliarie e ai servizi generali; questa realtà era lamentata dalla direzione
della Fiat in quegli anni, come indice di scarsa efficienza, in riferimento non solo
a Mirafiori ma tutte le Sezioni). Nei primi anni cinquanta, quando il recupero di
efficienza fu ottenuto principalmente tramite il disciplinamento del personale,
crebbe di una decina di punti la quota degli addetti alla produzione principale e
diminuirono gli addetti alle produzioni ausiliarie e ai servizi. Nella seconda metà
degli anni cinquanta, invece, quando giunse a compimento l'ammodernamento
degli impianti, diminuì nuovamente la quota dei diretti addetti alla produzione
principale e si tornò alla distribuzione del 1947-48 (tabella 15); ora però,
l'aumento della quota degli indiretti e degli addetti alle produzioni ausiliarie aveva
un nuovo significato: la produzione di grande serie con elevata meccanizzazione e
alto impiego di manodopera non qualificata necessitava di un notevole lavoro di
preparazione e assistenza.
La somma delle classi A e Ca costituiva l'insieme degli operai diretti, quella
delle classi B, Cb e D gli operai indiretti. Vi erano operai incentivati non solo tra
i diretti ma anche tra gli indiretti, e operai a economia sia tra i diretti che tra gli
indiretti. In tutte e quattro le classi --anche se in proporzioni assai diverse31-- vi
erano operai incentivati e operai a economia. Dal punto di vista del premio di
produzione (cottimo) si distinguevano gli operai diretti incentivati, i diretti a
31
E' evidente che la quota dei cottimisti era massima nella classe A e minima nella classe D; tuttavia le nostre fonti
non offrono dati incrociati.
18
economia, gli indiretti collegati alla produzione (nel senso che svolgevano un
lavoro sussidiario a contatto con gli operai diretti, e il loro ritmo di lavoro era
influenzato dai tempi della produzione), gli indiretti non collegati alla
produzione, che non dovevano seguire alcuni ritmo.
I diretti incentivati
lavoravano a cottimo o partecipavano direttamente al cottimo di squadra, gli altri
tre gruppi ricevevano percentuali sulla media dei guadagni realizzati dai diretti
incentivati; tali percentuali erano di tanto in tanto oggetto di contrattazione interna
(oscillavano tra il 50 e il 90 per cento), ed erano più basse per gli indiretti non
collegati.
Nel periodo 1947-1958, la distribuzione della manodopera secondo queste
quattro categorie di incentivazione ebbe un andamento parallelo a quello delle
classi A, B, C, D. I diretti incentivati aumentarono dal 63 al 70 tra il dopoguerra e i
primi anni cinquanta, per poi ridiscendere gradualmente al 60-61 per cento; le altre
tre categorie, per converso, scesero per poi aumentare, alla fine degli anni
cinquanta, a un livello leggermente superiore a quello di dieci anni prima (tabella
16). Il numero molto più basso di indiretti non collegati in confronto agli addetti
ai servizi generali (classe D), mostra come i lavoratori premessero, con discreto
successo, per non essere inquadrati tra gli indiretti non collegati, che ricevevano
quote ridotte del premio di cottimo.
Le categorie in profondità
I livelli di paga cui gli operai erano assegnati non si riducevano a una decina,
uno per ciascuna della quattro categorie dei maschi adulti, delle tre categorie
femminili, più un numero variabile nel tempo di categorie giovanili. Gli aumenti di
merito individuali e di anzianità aziendale moltiplicavano i gradini della paga
oraria, che nel dicembre 1948 erano distanziati di cinquanta centesimi ed erano
davvero numerosi: 22 erano gli scaglioni per gli operai specializzati, 18 quelli per
gli operai qualificati, 17 per gli operai comuni, 6 per i manovali, 6 per le donne di
prima categoria, 5 per le donne di seconda, 4 per quelle di terza, 6 per le categorie
minorili; 10 erano infine i gradini di paga per gli addetti a mansioni discontinue
(autisti, fattorini, sorveglianti, infermieri, ecc.). I livelli di paga erano
complessivamente meno numerosi della somma degli scaglioni per ciascuna
categoria, perché nelle categorie dei maschi adulti i gradini più elevati della
categoria inferiore, grazie agli scatti di anzianità, raggiungevano quelli bassi della
categoria superiore; ma lo sventagliamento delle paghe orarie, sempre nel 1948, era
notevole, da un minimo di lire 27,50 a un massimo di lire 68.
19
Gli operai specializzati erano la categoria maggiormente differenziata al suo
interno. Godevano del massimo scarto tra il minimo contrattuale e le paghe di fatto:
gli scaglioni andavano da 55,50 a 68 lire, contro un minimo contrattuale di
49,30; tuttavia, una metà abbondante degli specializzati si collocava tra le 62 e le
64 lire. Alla prima categoria molti lavoratori giungevano al culmine della loro
carriera operaia: si registrava dunque un'alta presenza di operai ultrasessantenni
(oltre un terzo), e due terzi avevano più di 40 anni (tabella 17). Gli operai sotto i
30 anni erano solo il 13 per cento. Nel 1948, un terzo degli specializzati apparteneva
ai diretti incentivati, e questa quota, negli anni successivi, si ridusse a un quarto
(tabella 18). Gli altri specializzati si suddividevano tra diretti a economia e indiretti
collegati. Il ringiovanimento della manodopera interessò anche gli specializzati;
tuttavia, nel 1962 la presenza di ultracinquantenni sfiorava ancora il 30 per cento.
Gli operai qualificati, nel 1948, erano retribuiti da un minimo di 48,50 a un
massimo di 58 lire (contro un minimo contrattuale di 44,45), ma tre su quattro
erano collocati tra le 52 e le 54 lire, e quasi tutti gli altri avevano paghe inferiori
alle 50 lire: appena un 2 per cento, grazie all'anzianità, aveva paghe orarie pari ai
gradini bassi degli specializzati. Solo il 20 per cento era ultracinquantenne, mentre
i giovani sotto i 30 anni ammontavano al 25 per cento. Si trattava dunque di una
categoria che contava meno anziani e più giovani della media, mentre la quota
delle classi d'età tra i 30 e i 50 anni era appena sopra la media. I cambiamenti della
composizione per età nel periodo considerato furono pertanto limitati: si registrò
solo la scomparsa degli ultrasessantenni con un aumento della quota dei 5060enni, e una diminuzione dei 40-50enni a favore dei 30-40enni. Un grosso
mutamento si ebbe invece in riferimento alle categorie di incentivazione. Nel 1948
il 60 per cento degli operai di seconda lavorava a cottimo, una quota doppia in
confronto a quella degli specializzati: l'organizzazione produttiva era ancora
quella delle serie limitate, in cui parecchio lavoro qualificato era utilizzato per
la produzione diretta. Tra il 1962 e il 1965 la quota dei diretti incentivati si ridusse
al 36-39 per cento. Il passaggio di molti operai qualificati dai ruoli dei cottimisti
a quelli dei diretti a economia e degli indiretti (e lo stesso fenomeno si verificò tra
gli specializzati, seppur, come abbiamo visto, in tono minore, data la presenza
tradizionalmente scarsa di cottimisti tra gli operai di prima categoria) è da
collegare ai cambiamenti dell'organizzazione produttiva, cui abbiamo fatto
cenno, che richiedevano un aumento del lavoro di preparazione e assistenza:
essendo in diminuzione la quota di operai specializzati e qualificati, essi
venivano impiegati in misura maggiore in mansioni ausiliarie e indirette.
Anche gli operai comuni, nel 1948, erano distribuiti su numerosi scaglioni di
paga oraria, guadagnavano da 39 a 49 lire (contro un minimo contrattuale di
37,75), ma erano, ancor più delle categorie superiori, concentrati su pochi gradini:
il 55 per cento guadagnava 46,50, e un'altro 35 per cento guadagnava tra le 45 e le
46 lire. Erano la categoria più giovane, con la quota più elevata di 20-30enni e
quella più bassa di ultracinquantenni. Impiegati come addetti macchine o al
montaggio in linea, erano in massima parte diretti incentivati (82 per cento).
20
All'inizio degli anni sessanta, come abbiamo visto, la terza categoria divenne la
classificazione tipica di gran parte degli operai, con una componente giovanile
ancora più rilevante: nel 1962 il 44 per cento degli operai comuni aveva tra 21 e 30
anni, il 37 per cento tra 31 e 40 anni. Tra gli operai comuni, infine, la quota di
diretti incentivati si mantenne sostanzialmente stabile.
Il ventaglio delle paghe dei manovali comuni, sempre nel 1948, andava da lire
38,65 a 41,50 (minimo contrattuale 34,80); quasi tutti erano però retribuiti con la
paga massima (ben l'82 per cento), e un altro 13 per cento era collocato al
gradino immediatamente inferiore (41 lire). Questa concentrazione sul livello più
elevato era dovuta all'età sorprendentemente alta dei manovali, che incideva sugli
scatti di anzianità: gli ultrasessantenni erano il 25 per cento, e i 50-60enni il 34
per cento; aggiungendo il 23 per cento dei 40-50enni, si aveva che gli
ultraquarantenni erano l'82 per cento, esattamente la percentuale di coloro che
stavano al gradino di paga massimo. Addetti a lavori di fatica, privi anche
della scarsa qualificazione che derivava dalla conduzione di una macchina
semplice o dal montaggio in linea, gli operai di quarta categoria erano tutti
classificati tra gli indiretti ed esclusi dal cottimo. Con la crescente
meccanizzazione dei trasporti interni, i manovali diminuirono anche in numero
assoluto, scendendo da 623 nel 1948 a 170 nel 1965: pochi furono tra i neoassunti
coloro che andarono a rimpiazzare i manovali usciti per pensionamento; tuttavia
il ringiovanimento interessò in pieno anche questa categoria in via di estinzione.
Le donne di prima categoria, come si è già detto, erano molto poche, e nel 1948
guadagnavano da 32 lire a 37,50 (minimo 31,10), più di metà 33,50. Le donne di
seconda guadagnavano invece da 29,40 a 31,50, e la quasi totalità era assegnata ai
due gradini superiori. Le donne di terza categoria erano pagate da lire 27,50 a 29, e
anche in questo caso si concentravano sui due scaglioni più elevati. Tra le donne,
era più elevata che non tra gli uomini la percentuale di diretti incentivati (tabella
15), in virtù della ridotta presenza di dirette a economia. In particolare, tra le donne
di seconda (la categoria femminile di gran lunga più numerosa) la quota delle
cottimiste sfiorava il 90 per cento; tra le donne di prima, invece, le cottimiste erano
solo il 56 per cento. Le donne di terza, dal canto loro, erano tutte classificate
tra le indirette, al pari dei manovali maschi. La distribuzione per classi d'età
richiamava le differenze che abbiamo visto tra le categorie maschili: mentre le
operaie di seconda (le cui mansioni corrispondevano a quelle dell'operaio comune)
erano mediamente giovani ma distribuite su tutto l'arco delle classi di età, le donne
di prima (che svolgevano lavori qualificati) erano quasi tutte ultratrentenni, e due
su tre avevano più di 40 anni; l'età media più elevata toccava alle donne di terza,
che corrispondevano ai manovali maschi: il 43 per cento aveva oltre 50 anni, e il 36
per cento tra 40 e 50 anni. Il ringiovanimento toccò tutte le categorie femminili,
anche se tra le donne di prima e quelle di terza restò consistente la
percentuale di ultraquarantenni (peraltro, queste due categorie erano ormai
ridotte al lumicino).
Le
categorie
minorili, infine, variarono nel tempo. Nell'immediato
21
dopoguerra
venivano
classificati,
in sottocategorie di quelle adulte, i
giovanissimi tra i 16 e i 18 anni e quelli di età inferiore a 16 anni (per le donne, solo
le ragazze inferiori a 16 anni). Nel dicembre 1948, a Mirafiori, lavoravano solo 12
operai comuni tra 16 e 18 anni (con quattro gradini di paga oraria compresi tra
29,35 e 34 lire), un operaio comune sotto i 16 anni (lire 28), un manovale tra 16 e
18 anni (lire 29,50); non vi erano ragazze sotto i 16 anni. Nel corso degli anni
cinquanta, furono classificati a parte anche i giovani tra i 18 e i 20 anni, e al di sotto
di questi furono unificati tutti i ragazzi con meno di 18 anni. Ma a Mirafiori i
giovani sotto i 20 anni avevano una presenza molto scarsa e in via di diminuzione.
Al processo di restringimento dei differenziali salariali tra categorie legato alla
contrattazione nazionale, si accompagnò un aumento del numero degli scaglioni
della paga oraria di fatto. Nel 1964, infatti, i gradini salariali in vigore per le
varie categorie erano molto più numerosi di quelli del 1948: 79 per gli operai di
prima categoria (da lire 265,55 a 375); 59 per quelli di seconda (da 237,40 a 287);
76 per gli operai di terza (da 223,30 a 253,30); 19 per la quinta categoria uomini
(gli ex manovali di quarta categoria, da 201,15 a 214,60); 17 per le ex donne di
prima categoria (da 223,30 a 245), ora riunite con gli uomini di terza categoria nella
nuova classificazione nazionale, con lo stesso minimo dei colleghi maschi ma
con un massimo inferiore di una decina di lire; 41 erano i gradini della quarta
categoria (ex donne di seconda, da 207,20 a 232); 11 quelli per le ex donne di terza
categoria (da 201,15 a 212,35), ora riunite con gli ex manovali nella quinta
categoria, anche in questo caso con lo stesso minimo degli uomini ma con un
massimo inferiore. Nel 1964, inoltre, non esisteva più quella concentrazione di
quote consistenti di operai su uno stesso gradino salariale che abbiamo visto essere
condizione diffusa nel 1948: solo gli operai di terza categoria erano assegnati in
grande maggioranza a un unico gradino, quello minimo (73 per cento), mentre gli
operai di prima e quelli di seconda erano sparpagliati su tutti i gradini.
All'appiattimento delle differenze di paga la Fiat aveva evidentemente risposto,
a favore degli operai qualificati e specializzati, con una moltiplicazione delle
differenze individuali legate agli aumenti di merito e agli scatti di anzianità. Per
converso, l'assegnazione di buona parte degli operai di terza categoria, il gruppo di
gran lunga più numeroso, a un unico, basso scaglione, tendeva a mantenere una
certa distanza retributiva tra gli operai comuni e quelli qualificati. Contribuiva però
al contempo al configurarsi di quelle condizioni di forte omogeneità degli operai
comuni e, dato il peso della categoria, di gran parte della manodopera, che
abbiamo visto caratterizzare i cambiamenti della composizione operaia tra la fine
degli anni quaranta e i primi anni sessanta.
I gruppi operai tra mediazione e conflitto.
22
Negli anni del miracolo economico Torino registrò l’aumento di popolazione più
rapido tra le grandi città italiane. Tra il censimento del 1951 e quello del 1961 il
numero degli abitanti crebbe del 42,5 per cento, a fronte del 25 per cento di Milano.
Nel solo 1962, l’anno in cui gli operai Fiat tornarono a scioperare e si verificarono i
fatti di piazza Statuto32, gli immigrati furono 80.000, 36.000 dei quali (il 45 per
cento) provenienti dalle regioni meridionali e insulari. Nel decennio 1952-1962 il
saldo migratorio fu di 367.000 persone, gli immigrati furono in complesso 562.000,
gli emigrati 195.000; nel dicembre 1962 Torino arrivò a 1.079.000 abitanti: in dieci
anni la popolazione si rinnovò dunque per oltre la metà, accogliendo quote crescenti
di meridionali, che dovevano adattarsi a condizioni abitative particolarmente precarie
e sovraffollate. Quando si aprì la fase più intensa del boom, alla fine degli anni
cinquanta, ogni anno si rendevano disponibili 30.000 posti di lavoro nella sola
industria, la metà dei quali per pensionamento, morte, emigrazione, l’altra metà per
le esigenze dello sviluppo. Circa 12.000 posti venivano coperti dalle nuove leve dei
giovani torinesi, gli altri attiravano immigrati 33. Il tasso di disoccupazione scese al 3
per cento, ai limiti della disoccupazione frizionale.
La ripresa degli scioperi in occasione del rinnovo contrattuale del 1962-63 fu
certamente dovuta alla tensione sul mercato del lavoro 34. Quanto ai disagi
dell’immigrazione, questi non si ripercuotevano ancora sul conflitto industriale: la
maggior parte dei nuovi assunti, provenienti dalle campagne e da regioni
economicamente depresse, considerava la nuova condizione lavorativa migliore di
quelle precedenti, mentre la mancanza di tradizione operaia contribuiva a
comportamenti moderati; inoltre, gli immigrati che sopportavano le condizioni di
vita più difficili, quelli provenienti dal Mezzogiorno, seppur tendenzialmente
maggioritari nei movimenti migratori e nelle nuove assunzioni, all’inizio degli anni
sessanta avevano ancora un peso limitato nell’occupazione complessiva: tra gli
operai Fiat la quota dei meridionali è stimabile intorno al 15 per cento 35.
Le cause della ripresa della conflittualità furono in larga parte esterne alla
fabbrica. Tuttavia, anche i mutamenti della composizione operaia e le trasformazioni
del sistema di mediazione interno giocarono un ruolo, in uno stabilimento delle
dimensioni di Mirafiori che concentrava da solo circa un decimo della nuova
domanda occupazionale nell’area torinese. I fattori interni agirono, al pari
dell’immigrazione, non tanto nell’immediato, in riferimento alle agitazioni del 1962:
determinarono piuttosto una situazione favorevole all’asprezza dello scontro che si
sarebbe acceso alla fine degli anni sessanta, di nuovo in una situazione di virtuale
piena occupazione, cui si aggiunsero le più acute tensioni sociali accumulate dalle
32
Sui fatti di piazza Statuto si veda D. Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Milano, Feltrinelli,
1979.
33
Sull’immigrazione a Torino si veda G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964.
34
Sul ritorno al conflitto a Torino all’inizio degli anni sessanta, dall’osservatorio dell’associazione degli industriali
metalmeccanici, si veda G. Berta, L’AMMA e le trasformazioni delle relazioni industriali, in La metalmeccanica
torinese nel secondo dopoguerra (1945-1972), a cura di P.L. Bassignana e G. Berta, Torino, Samma, 1997.
35
Tale percentuale risulta dal campione di operai Fiat utilizzato per la ricerca di G. Bonazzi, Alienazione e anomia nella
grande industria. Una ricerca sui lavoratori dell’automobile, Milano, Edizioni Avanti!, 1964; in tale campione gli
operai di Mirafiori erano il 35,2 per cento.
23
successive ondate migratorie.
Tra la fine della guerra e i primi anni cinquanta le categorie e i gruppi operai di
Mirafiori presentarono, nell’ambito della contrattazione in azienda, rivendicazioni
specifiche a difesa della propria posizione. Gli specializzati e i qualificati
reclamavano il riconoscimento salariale delle loro capacità professionali, gli operai
comuni erano più interessati ai tempi di cottimo, le donne chiedevano,
timidamente36, trattamenti meno distanti da quelli delle categorie maschili. Fino
al 1953-54, prima che il premio generale di stabilimento assumesse un'importanza
molto maggiore del cottimo nella busta paga, gli economisti e gli indiretti collegati e
non collegati rivendicarono a più riprese miglioramenti delle loro percentuali di
partecipazione al cottimo. Vi erano infine gruppi particolari di operai che
richiedevano passaggi di categoria in base alla qualificazione richiesta dalle
mansioni svolte, oppure indennità speciali per lavori pesanti, nocivi, disagevoli.
Le rivendicazioni particolari dei vari gruppi operai erano inevitabilmente basate
sul confronto con gli altri gruppi: le capacità professionali, il disagio, lo sforzo, e
così via, richiesti da questa o quella mansione. Fino alla fine degli anni quaranta
avveniva che le pressioni di un gruppo, quando venivano accolte dalla direzione,
fornivano occasione per richieste da parte degli altri gruppi, e i rapporti di forza
erano tali da indurre la direzione a cedere in una sorta di crescendo di concessioni. I
confronti tra gruppi non sfociavano allora in rivalità. Ma quando la mobilitazione
operaia perse di incisività, gli interessi specifici minarono la solidarietà collettiva, e
furono uno dei fattori di indebolimento del sindacalismo “politico” della Fiom-Cgil,
a fronte del sindacalismo aziendale del gruppo di Edoardo Arrighi, che era attento a
prendersi cura di problemi e aspirazioni individuali37.
Alla fine degli anni cinquanta, tuttavia, vennero scemando le occasioni per le
rivendicazioni particolari. Innanzitutto era diminuita la consistenza di alcuni
gruppi professionali, e scomparsa la varietà dei gruppi anagrafici, che in base al
sesso e all'età potevano interpretare in modo diverso situazioni identiche. Ma
soprattutto le differenze di trattamento salariale tra gruppi professionali avevano
perduto importanza: la distanza tra cottimisti, economisti e indiretti era ormai di
poco conto, e i passaggi di categoria, pur sempre ambiti, comportavano
miglioramenti retributivi meno consistenti. La stessa azione di tutela individuale del
Sida, che pur continuò a occuparsi dei sempre meno numerosi passaggi di categoria,
si indirizzò prevalentemente a mediare l’accesso ai servizi assistenziali (la casa Fiat,
in primo luogo); ma con questa azione il Sida entrava in diretta concorrenza con la
gerarchia aziendale.
Infine, non minore importanza ebbe il fatto che erano diventati meno efficienti
i canali attraverso i quali i gruppi potevano esprimere richieste e rivendicazioni.
36
In occasione di alcuni momenti di trattativa interna che le riguardavano, le operaie espressero il timore che un
consistente avvicinamento delle retribuzioni femminili a quelle maschili potesse avere riflessi negativi sulle mansioni
loro assegnate. Cfr. Progetto Archivio Storico Fiat, Le relazioni industriali alla Fiat nei verbali delle Commissioni
interne, cit.
37
Cfr. G. Fissore, Origine e sviluppo del sindacato aziendale alla Fiat, in “Movimento operaio e socialista”, 1990, n. 12.
24
Le commissioni interne, infatti, protagoniste delle trattative aziendali nel clima di
accesa conflittualità dei primi anni del dopoguerra, anche dopo la sconfitta della
Fiom e la conquista della maggioranza da parte del sindacato aziendale non
furono autenticamente legittimate e sostenute dalla Fiat nel loro ruolo di
rappresentanti degli operai: il principio dell'unicità dell'autorità in azienda e il
rigido sistema gerarchico ricostituito negli anni cinquanta riservavano l'opera
di intermediazione ai capi38: questi potevano farsi tramite di richieste, ma non di
rivendicazioni, e farsi portavoce per singoli individui o piccolissimi gruppi, non per
intere categorie. La perdita di ruolo delle commissioni interne fu tanto più forte in
uno stabilimento gigantesco quale Mirafiori, in cui l’esiguità del numero dei
membri di commissione interna in rapporto alla massa dei lavoratori era di per se
stesso motivo di inefficacia della rappresentanza e della mediazione.
Gli
operai dell'immediato dopoguerra
costituivano
una manodopera
eterogenea, che in un clima politico elettrizzato combinava rivendicazioni
particolari in una mobilitazione collettiva, attraverso organismi di rappresentanza
che tendevano a esorbitare dai limiti posti alla loro azione dalle stesse
organizzazioni sindacali esterne. Tuttavia, l'opera di rappresentanza e mediazione
svolta dalle commissioni interne, seppur costosa per l'azienda sul piano
economico, contribuiva a riportare in un ambito contrattuale interno le tensioni
accumulate nella guerra e nel dopoguerra; queste tensioni, in una situazione di
accentuata centralizzazione della contrattazione sindacale, rischiavano di
esplodere in mobilitazioni generali che avrebbero assunto un carattere
accentuatamente politico. Inoltre, le rivendicazioni venivano incanalate in un
sistema di mediazione attraverso il quale i gruppi operai percepivano la possibilità
di far giungere la loro voce a una direzione aziendale disposta ad ascoltarla. Negli
anni sessanta, invece, il terreno diventò favorevole all'esplosione di mobilitazioni
generali, condotte da maestranze molto più omogenee, in una situazione in cui
gli interessi dei diversi gruppi, non certo scomparsi, avevano scarse possibilità di
esprimersi.
In conclusione, nell'arco di una quindicina d'anni la Mirafiori operaia cambiò
profondamente. Nonostante le nuove divisioni sotto il profilo culturale prodotte
dalla massiccia immissione di immigrati dalle regioni del Mezzogiorno, le
maestranze mostravano una forte omogeneità sotto il profilo del sesso e dell'età,
erano in larga parte concentrate in un solo gruppo professionale, la riduzione dei
differenziali salariali aveva avvicinato le condizioni retributive delle varie
categorie. Ciò non significa che quegli anni abbiano segnato il primo avvento dell’
“operaio massa”, un concetto, questo, semplificatorio e riduzionista, che avrebbero
potuto essere corretto senza attendere la “svolta dei quarantamila” dell’autunno
1980: la sociologia militante più avvertita aveva sottolineato, nei primi anni sessanta,
38
Si veda in proposito G. Berta, Le Commissioni interne nella storia delle relazioni industriali alla Fiat, in
Progetto Archivio Storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat, cit.
25
la varietà e la diversificazione degli atteggiamenti operai 39. Anche la questione della
dequalificazione del lavoro va considerata dal punto di vista dei lavoratori come
individui. L’aumento delle mansioni parcellizzate non ha significato la
dequalificazione di lavoratori qualificati, costretti a operazioni semplici e ripetitive:
in un quadro di forte crescita occupazionale, il numero degli operai di prima e
seconda categoria è cresciuto, nonostante la diminuzione della loro quota; e la
carenza di operai professionali caratterizzò il mercato del lavoro negli anni
cinquanta40. Certo, anche le mansioni qualificate poteva subire processi di
routinizzazione e proceduralizzazione. Ma al di sotto della crescente omogeneità
della composizione di classe, le occasioni di divisione tra operai qualificati e operai
comuni, per certi versi crescevano. I primi erano sempre meno impiegati nella
produzione diretta e sempre più addetti a lavori di manutenzione e preparazione
(come mostra la diminuzione della quota dei diretti incentivati tra gli operai di prima
e seconda categoria, si veda la tabella 18); la qualità del loro lavoro poteva incidere
sul rendimento e l’impegno richiesto agli operai comuni, che pagavano con ritmi più
elevati e con il lavoro in linea l’avvicinamento dei loro salari a quelli delle categorie
superiori. Dal punto di vista degli operai
specializzati
e qualificati
l'appiattimento retributivo poteva essere percepito attraverso filtri differenti, e
probabilmente due filtri di segno opposto operavano contemporaneamente, pur con
diverse gradazioni, negli stessi individui: un senso di crescente comunanza solidale
con i lavoratori meno qualificati, o un desiderio di ritorno alle differenze precedenti,
accompagnato in taluni da uno spirito di rivalsa verso categorie nelle quali,
oltre tutto, si concentravano nuovi immigrati estranei alle tradizionali culture
operaie del lavoro41. Tuttavia, il peso delle qualifiche superiori nell'insieme della
manodopera era ormai ridotto, e i cambiamenti della composizione operaia che
abbiamo analizzato, crearono indubbiamente un terreno favorevole alla ripresa di
una conflittualità generale e all’egualitarismo delle rivendicazioni salariali,
condizionando le modalità delle imponenti agitazioni di massa iniziate alla fine
degli anni sessanta.
39
La ricerca di Giuseppe Bonazzi (Alienazione e anomia nella grande industria, cit.), aveva sottolineato la
diversificazione degli atteggiamenti operai (alienazione, anomia e autoritarismo), tra categorie, generazioni, esperienze
lavorative precedenti, origine geografica, livello e tipo di istruzione. Va qui ricordata la tipologia degli operai e
impiegati Fiat alla fine degli anni settanta, risultato di una ricerca condotta dal CESPE e dall’ Istituto Gramsci su
iniziativa della federazione torinese del PCI, che tracciava un quadro lontano dagli stereotipi correnti sul radicalismo
operaio: S. Scamuzzi, Operai e impiegati Fiat fra vecchi e nuovi radicalismi, in “politica ed economia”, giugno 1982;
A. Accornero, F. Carmignani, M. Magna, I tre tipi di operai Fiat, ivi, maggio 1986; A. Accornero, A. Baldissera, S.
Scamuzzi, Le origini di una sconfitta. Gli operai Fiat alla vigilia dei 35 giorni e della marcia dei quarantamila, ivi,
dicembre 1990. Una recente rassegna degli studi storici, sociologici e politologici su operai e movimento sindacale a
Torino nel secondo dopoguerra in C. Dellavalle, Il movimento operaio torinese. Una proposta di percorso, in Tra le
carte della Camera del lavoro di Torino. Percorsi e proposte. Guida ai fondi archivistici delle strutture torinesi,
Torino, Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, 1992.
40
Da qui l’attenzione con cui l’AMMA si occupò dei problemi dell’istruzione professionale, fino alla fondazione da
parte dell’Unione industriale della scuola professionale intitolata a Giancarlo Camerana, che a partire dal 1959
organizzò corsi serali per tipiche qualifiche metalmeccaniche (tracciatore, rettificatore, stampista, tornitore), di durata
biennale e triennale a seconda della preparazione e dell'addestramento posseduti dai frequentanti. Sulla Scuola
allievi Fiat si veda il saggio di Giuseppe Berta in questo stesso volume.
41
Sulle culture del lavoro a Torino sii veda Le culture del lavoro. L’esperienza di Torino nel quadro europeo, a cura di
B. Bottiglieri, P. Ceri, Bologna, Il Mulino, 1987.
26
Lavorare in Fiat
Le testimonianze di anziani lavoratori stabilmente occupati in Fiat, ex operai di
Mirafiori negli anni cinquanta e sessanta, raccolte in occasione di questa ricerca 42
aiutano a ricostruire l'immagine di un mondo del lavoro articolato, ricco di
sfumature altrimenti perdute nella classificazione statistica dei gruppi operai per
caratteristiche anagrafiche e posizioni professionali43. Dalle interviste emergono
in particolare le sensibilità individuali nei confronti del lavoro e dei rapporti
con l'azienda, che possono senza dubbio essere influenzate dalle segmentazioni
create dall'organizzazione di fabbrica, ma che nella loro differenziazione
rimandano alla più ampia realtà in cui i soggetti vivono esperienze e processi di
socializzazione. Le testimonianze, inoltre, offrono una finestra, per quanto
mediata dalla memoria soggettiva, sulla vita e sulla prassi quotidiana in azienda,
sui rapporti tra compagni di lavoro e tra operai e livelli gerarchici. Ne risulta un
quadro sfaccettato, largamente impressionistico. Nelle risposte, tuttavia, alcuni
atteggiamenti, valutazioni, situazioni appaiono ricorrenti, tali da indurre a
considerarli significativi, anche perché, almeno in parte, tagliano trasversalmente le
diverse culture e sensibilità politiche, diventando luoghi condivisi. Ne tenteremo
una descrizione sommaria, per aggiungere in conclusione qualche tessera a un
mosaico incompiuto sugli operai di Mirafiori.
"Chi poteva entrare in Fiat era come toccare il cielo", dice un'operaia (2.16), "un
miraggio", gli fa eco un militante Fiom (1.18). Salari più alti, migliori servizi
assistenziali, sicurezza
occupazionale: erano questi i tre elementi
che
differenziavano il posto di lavoro alla Fiat da qualsivoglia occupazione manuale,
anche nelle altre grandi aziende torinesi. Questi elementi sono condivisi e
sottolineati, senza eccezioni, da tutti gli intervistati. Oltre, e forse più ancora che
sui vantaggi salariali, l'accento viene posto sull'assistenza, e in particolare sulla
Malf (la mutua aziendale). La casa Fiat, poi, era "una benedizione" (1.5); certo non
poteva essere per tutti, ma rappresentava una possibilità concreta per chi aveva una
certa anzianità aziendale: su 54 testimoni, 8 risultano assegnatari (15 per cento).
L'assunzione in Fiat avveniva per lo più tramite la mediazione diretta, o
42
Si veda il saggio di Marcella Filippa e Luisa Passerini in questo stesso volume.
Occorre precisare che dal punto di vista della storia orale in questo capitolo si fa un uso improprio delle
testimonianze, che nel racconto ricerca informazioni, situazioni, e ne valuta la ricorrenza, laddove gli storici orali
indagano sulla soggettività e l’immaginario. Il riferimento per le citazioni è costituito da un primo numero che rimada ai
tre blocchi di testimonianza raccolti dalle tre intervistatrici, e da un secondo numero riferito alla posizione dell’intervista
nella raccolta. Trascrizioni e nastri delle tre raccolte sono conservati in ASF.
43
27
quantomeno dietro informazioni e suggerimenti di conoscenti o parenti. Nel
racconto di ben venti degli intervistati (pari al 37 per cento, e, si badi, in assenza di
una domanda specifica) si accenna a parenti stretti che lavoravano in Fiat. "...
ma già noi siamo una dinastia della Fiat, c'era mio papà che ha fatto entrare la
sorella maggiore, poi la sorella maggiore e mio papà hanno fatto entrare me, poi
tutti e tre insieme abbiamo fatto entrare l'ultima... noi praticamente eravamo in
quattro a lavorare alla Fiat"(1.18); "della mia famiglia oggi giorno c'è già 103 anni
che lavora in Fiat, perché mio papà ha fatto 37 anni [...] io ho fatto 40, mio figlio
ha fatto l'operaio a Mirafiori [...] adesso c'è mio nipote, è cinque anni [...] perciò
sono già 103 anni"(1.4): sono questi i casi di due operai, tra l'altro militanti Fiom.
Forse si tratta di situazioni eccezionali, intorno alle quali, tuttavia, una miriade di
casi meno eclatanti fa dell'occupazione in Fiat una sorta di impiego familiare.
L'assunzione di parenti, perorata dagli operai, era apertamente favorita
dall'azienda, perché rafforzava quel senso della comunità aziendale per il quale
operavano il dopolavoro e i servizi assistenziali; qualche capo lo riassumeva per i
nuovi assunti chiamando "grande famiglia" l'azienda di cui erano entrati "a fare
parte"(2.16). Anche l'assunzione di personale femminile, tra gli anni cinquanta e
sessanta, sembra aver seguito criteri che riflettevano mentalità e modelli riguardo
alla famiglia e al ruolo della donna dominanti nella società italiana degli anni
cinquanta. Il calo della presenza femminile in fabbrica, innanzitutto: non è da
escludere un legame con le suggestioni di impronta fordista riguardo all'ambiente
familiare in cui era bene l'operaio vivesse 44. Un testimone, in riferimento a quegli
anni, sostiene che le donne "una volta [erano di] meno, perché le donne una volta
lavoravano solo le vedove, quelle che restavano vedove che avevano il marito che
era morto e lavorava lì. Poi han preso tutte, avevan bisogno"(3.13); e una donna
racconta di aver rinviato il matrimonio con il fidanzato operaio Fiat a dopo la sua
assunzione, perché come moglie non sarebbe entrata(2.16).
In alcune interviste si esprimono sentimenti di riconoscenza e senso di
appartenenza all'azienda che richiamano valori del paternalismo aziendale, in altre
prevale la convinzione di aver pagato col lavoro quanto si è ricevuto, in altre
ancora un atteggiamento più strumentale, che sottolinea l'appartenenza non a una
famiglia ma a quella che si potrebbe definire una "comunità del privilegio": in ogni
caso "allora entrare in Fiat voleva dire qualcosa. Difatti se lei doveva comprare
qualcosa diceva: vado a lavorare in Fiat, le davano tutto"(2.16).
L'impiego in Fiat "all'epoca sembrava che fosse una Mecca", afferma un iscritto
alla Fiom (1.17), stemperando però subito dopo il senso del privilegio con
44
Si possono osservare alcune analogie tra la “politica familiare” alla Fiat e alla Ford. Azzardata appare
l’interpretazione, avanzata di recente da Wayne Lewchuk, secondo la quale la mancata assunzione di donne alla Ford
negli anni venti rispondeva al disegno di offrire agli operai maschi della produzione di massa un’identità consolatoria e
sostitutiva della fierezza del mestiere attraverso l’idea, propagandata tra i lavoratori Ford, di un club di uomini che con
la loro capacità di duro lavoro mantenevano la famiglia e all’interno di questa esercitavano quell’autonomia e potere
decisionale sottratti loro sul piano professionale. Cfr. W. A. Lewchuk, Men and Mass Production: The Role of Gender
in Managerial Strategies in the British and American Automobile Industries, in Fordism Transformed. The
Development of Production Methods in the Automobile Industry, a cura di H. Shiomi, K. Wada, Oxford, Oxfrod
University Press, 1995.
28
un'allusione alle differenze tra Lancia e Fiat, per la severa disciplina imposta da
Valletta, con la quale si "pagavano" i guadagni più elevati ("non si poteva fare
pipì"). Molti intervistati sottolineano la durezza del lavoro, la proceduralizzazione
delle mansioni e, in una certa misura, la formalità dei rapporti gerarchici.
Da questo punto di vista Mirafiori appare diversa dal Lingotto. Mirafiori è
vista come una fabbrica nuova, più pulita e ordinata, con migliori attrezzature per gli
operai, a cominciare dagli spogliatoi e dai servizi igienici. Tuttavia, il vecchio
stabilimento di Via Nizza "era tutta un'altra cosa [...] era più familiare [...] a
Mirafiori
c'era
già
un
po'
più disciplina"(2.17); "Al Lingotto era
completamente diverso [...] non c'era tutta la disciplina di Mirafiori [...] La
produzione era meno alta [...] Eravamo tutti amici, ogni tanto una parola. Però si
lavorava"(3.4); a Mirafiori c'era un' "altra mentalità [...] c'era più distacco tra i capi,
gli operatori, gli operai. C'era una gerarchia che noi forse... Lingotto non c'era
perché magari capisquadra li facevano lì dall'officina e magari erano gente che
andavi fuori a bere... poi dentro ognuno faceva il suo lavoro però era più
familiare"(3.14).
Si riflettono in queste percezioni operaie la ricostruzione della gerarchia interna
e il ripristino dell'autorità dei capi operati dall'azienda nel corso degli anni
cinquanta. Quanto all'organizzazione del lavoro, "dal Lingotto a Mirafiori...
praticamente è come da una boita a una grande fabbrica. Perché il Lingotto era una
mezza boita, eh, diciamo pure"(3.14). Un aggiustatore attrezzista che aveva
lavorato in precedenza alla Lancia afferma --peraltro in riferimento ad anni
successivi, quelli dell'assorbimento da parte della Fiat-- che nell'azienda di Borgo
San Paolo, "pur essendo lo stesso lavoro [...] lavoravo con fantasia", con minor
assillo per "la produzione"; "mentre in Lancia mettevi del tuo, lì [a Mirafiori] eri
subordinato, lì dovevi fare quello che volevano loro [...] se uno sapeva lavorare era
un peccato, perché [...] perdeva tutto quello che aveva [...] ci son voluti un paio
d'anni a prendere il ritmo Fiat"(3.11). La proceduralizzazione del lavoro, tuttavia,
era molto più accentuata nel montaggio in linea: se nel lavoro qualificato
riduceva gli spazi di autonomia con cui si applicava il vecchio mestiere, sulle
linee determinava ritmi più elevati e controllati. "In linea, ma in linea... allora mi
han fatto sputar sangue [...] perché sembrava che le macchine andassero piano ma
via una l'altra, via una l'altra per otto ore"(2.9).
Assieme ad altre mansioni più pesanti o nocive, la catena di montaggio
costituisce un fattore forte della distinzione tra posti di lavoro buoni e posti di
lavoro cattivi, dalla quale scaturisce una sorta di graduatoria delle mansioni
che si riflette in una gerarchizzazione degli operai, solo in parte coincidente con
la classificazione delle categorie contrattuali. I posti brutti erano la verniciatura, la
lastroferratura, la limatura del piombo, e il lavoro in linea, specie nel montaggio
finale, perché "in meccanica era forse meno", ma in carrozzeria "il tratto che
avevamo noi viaggiava troppo forte [...] tiravano troppo veloce la linea, quando
hanno fatto la Seicento"(2.17); "la catena è un po' una schiavitù, lo dice la
parola stessa"(3.7); "e la linea che girava sempre, girava sempre. Delle volte io
29
arrivavo a casa persino con i giramenti di testa"(2.15).
Fortunato --o bravo, furbo o raccomandato-- era invece "chi aveva un lavoro
fuori linea" perché "chi aveva da fare il lavoro al banco [...] poteva farsi una scorta
e poi andare al bagno quando voleva!"(2.17); "quando uno non è in linea
allora qualunque cosa era bellissima" (2.15). I lavori migliori erano naturalmente
quelli specializzati; in manutenzione, in particolare, "si stava bene perché era
un lavoro... prima cosa non si lavorava a cottimo [...] Noi non eravamo controllati...
Si capisce, avevamo il caposquadra che se vedeva che qualcuno batteva la fiacca
ci diceva delle cose, ed era anche giusto. Però non c'era quelle pretese o
quell'obbligo di dover fare"(3.18). Naturalmente le mansioni qualificate
richiedevano una certa preparazione professionale; ma il mestiere lo si imparava
senza troppe difficoltà una volta assegnati al reparto, specie se si poteva contare
sull'aiuto degli operai più esperti o sulla benevolenza dei capi. Un operaio ricorda il
passaggio dalla linea delle carrozzerie alla macchina utensile singola delle
meccaniche: "in linea [...] magari uno che doveva andare in bagno doveva fare in
fretta, uno che fumava non poteva fumare... invece alla meccanica era già più
differente [...] mi potevo anche portare avanti sulla produzione, mi potevo
fumare una sigaretta, andare su, giù... così mi son trovato meglio"; a questo
operaio, favorito nel passaggio da un amico che conosceva il nuovo caporeparto,
venne offerta la possibilità di apprendere il lavoro a molte macchine, fino a
ottenere il passaggio di categoria: "Gli altri li mettevano sempre lì, invece
quando vedeva che io imparavo qua mi mettevano là. E allora giravo tutte le
macchine e imparavo"(3.10).
"Chi lavorava in linea --ricorda un altro operaio-- era un po' disprezzato perché
in linea [...] non avevano il mestiere". Ma il "mestiere" non consisteva solo di
abilità professionali: "le reclute appena arrivavano andavano tutti ai lavori più
brutti... se uno poi non era capace ad aggiustarsi..."(1.12). Essere "capaci ad
aggiustarsi di qua e di là" implicava anche abilità sociali e relazionali, indirizzate
a ottenere il passaggio a nuove mansioni, nello svolgimento delle quali era poi
necessario dimostrarsi produttivi. Molti degli operai intervistati sono riusciti
in questi passaggi: in un periodo in cui la manodopera aumentava a ritmo sostenuto
non era difficile per chi già era in azienda ottenere il trasferimento a mansioni o
reparti più ambiti, lasciando i posti peggiori agli ultimi arrivati. Proprio ai
primi anni sessanta, quando gli ultimi arrivati erano in maggioranza meridionali,
può essere fatta risalire la sovrapposizione tra segmentazioni etniche e
professionali ancora operante all'epoca della "marcia dei quarantamila" 45.
Anche tra i "piemontesi" non mancavano le divisioni. Otto degli intervistati (15
per cento) sottolineano nel racconto la presenza di numerosi pendolari dalle aree
rurali circostanti Torino. Molti di questi provenivano da famiglie contadine e
continuavano a coadiuvare nella conduzione delle piccole aziende agricole.
Lontani dalla cultura operaia urbana e restii o lenti ad accettarne le logiche e i
comportamenti, erano considerati, dagli operai inclini all'azione sindacale, una
45
Si veda A. Baldissera, La svolta dei quarantamila: dai quadri Fiat ai Cobas, Milano, Comunità, 1988.
30
componente grigia, amorfa e pericolosa per l'unità operaia. Un operaio qualificato
che si autodefinisce "all'antica", passato operatore e caposquadra dopo aver
fornito un buon suggerimento premiato in denaro e con lettera d'encomio, sostiene
che la solidarietà esistente tra operai è stata incrinata all'epoca del boom della
produzione e delle assunzioni, quando "si è creato il favoritismo, il
clientelismo, il grado di parentela, i contadini che portavano il vino, il maiale [...]
perché allora i contadini [...] che erano pendolari, lavoravano tre mesi, quattro
mesi all'anno [...] Non venire a lavorare e prendere lo stipendio"(3.9). Un
altro operaio afferma che molti pendolari facevano la notte fissa per poter lavorare
di giorno nei campi, e lamenta le gelosie create dalle raccomandazioni: "chi
poteva farsi raccomandare era gente che avrebbe potuto benissimo vivere del suo,
perché c'era tanta gente che arrivava dai miei paesi, gente che aveva la cascina a
casa con dei beni notevoli e avrebbe potuto benissimo vivere del suo, ma venivano
lì, il solito giro di raccomandazioni..."(3.17).
La questione degli operai "possidenti" era una vecchia storia, che
periodicamente tornava alla ribalta, nei periodi di crisi, quando di fronte alle
prospettive di riduzione del personale gli operai avanzavano la richiesta che
toccasse a chi "poteva vivere del suo": ciò avvenne nella grande crisi del 192934, e si ripeté alla fine della guerra, quando i malumori nei confronti di "quelli
delle damigiane di vino" vennero aggravati dal risentimento verso gli operaicontadini che potevano disporre di beni alimentari autoprodotti ed erano
accusati di aver approfittato del mercato nero. Un militante Fiom più incline a
considerazioni generali di carattere politico, sostiene che dopo la sconfitta del
Fronte Popolare alle elezioni del 1948, la Fiat "iniziò ad assumere tutti i contadini
delle nostre valli [...] per vedere di rompere il fronte sindacale, rompere gli
scioperi... invece quella gente lì quando sono stati dentro con la cruda realtà della
fabbrica, della linea di montaggio in poco tempo hanno cambiato e facevano
sciopero anche loro... poi han provato con i meridionali [...] hanno sempre
cercato di portare una manodopera come rottura [...] della coesione sindacale
[...] sotto un aspetto poi ci sono riusciti, sotto un aspetto"(1.18).
Con l'inizio degli anni sessanta altre linee di divisione si aprirono con i
meridionali e con i giovani, spesso confusi nel ricordo dei testimoni: i meridionali
erano anche i giovani, portatori di interessi, mentalità e comportamenti diversi
da quelli degli operai del primo dopoguerra e degli anni cinquanta. Riguardo ai
meridionali, le testimonianze sono molto discordi, con un ricco arco di sfumature
che riempie lo spazio tra chi afferma: "in Fiat ho avuto più amici tra i meridionali
che non tra i miei paesani diretti... perché erano piuttosto...piemontesi falsi e
cortesi è nato giusto ecco 'sto detto"(1.17), e chi ribadisce invece vecchi contrasti
e risentimenti: "loro hanno tanti diritti e nessun dovere, poi sono arrivati qua,
addirittura avrebbero voluto cambiare il clima"(3.17).
Quanto ai giovani, mancava loro l'abitudine al lavoro e la voglia di lavorare
sodo. Molti testimoni (13, pari al 24 per cento) ricordano, negli anni del boom, il
gran numero di ore straordinarie, il lavoro di sabato e domenica, che svolgevano
31
volentieri per i guadagni aggiuntivi coi quali potevano acquistare beni di
consumo durevoli, andare in vacanza durante le ferie, o far studiare i figli 46. Pochi
ammettono di aver svolto un doppio lavoro (solo due testimoni), ma alcuni vi
accennano come sistema abbastanza diffuso per arrotondare le entrate familiari. I
giovani, invece, "per loro era già un lavoro pesante quello [dell'orario normale]",
tendevano a lavorare il minimo necessario,
avevano
"un'altra
mentalità,
un'altra mentalità"(2.8); "andando avanti con gli anni --dice un altro operaio, in
riferimento al periodo di turbolenza iniziato alla fine degli anni sessanta-- noi
anziani eravamo mal visti dai nuovi assunti perché i nuovi assunti avevano solo la
pretesa di fare poco e andare in giro a chiacchierare"(1.3); "rimprovero ai giovani
di quel periodo che [...] hanno vissuto in un certo benessere, sia alimentare, tutti
col Plasmon, non hanno sofferto né fame né sete, né freddo né stanchezza, che
pensassero che il mondo fosse tutto lì, cioè avere tutto e averlo subito, perché poi,
da vecchi non serve più"(3.12). La conflittualità di quegli anni viene da alcuni
collegata al massiccio afflusso di giovani meridionali, a partire dagli anni sessanta:
"quando hanno fatto venire su tanta gente non ero affatto contento --dice un operaio
iscritto al Sida-- Qui andiamo a finir male! Far venire su quella gente là... non
lavorano mica tanto, tanto, sa? Vogliono alloggi e soldi subito, non come noi [...] E
poi sono cominciati gli scioperi"(2.9).
Anche alcuni vecchi iscritti alla Fiom sottolineano le difficoltà di
comunicazione coi giovani. Alla soglia della pensione, come quasi tutti gli
intervistati, negli anni settanta non erano propensi agli scioperi frequenti, né
46
L'enfasi con cui questi testimoni parlano del fatto che per loro "domeniche non ce n'era nessuna", trova riscontro nei
dati sulle ore straordinarie conservati nel Fondo Sepin, qualora si ipotizzi che non tutti gli operai facessero gli
straordinari nella stessa misura. Le ore straordinarie, in percentuale media annua sul totale delle ore lavorate
(ordinarie più straordinarie), ebbero un'entità variabile, legata ai mini-cicli economici (diminuzioni nel 1951-52 e
1964-65):
1944
1945
1946
1947
1948
1949
1950
1951
1952
1953
1954
1955
1956
1957
1958
1959
1960
1961
1962
1963
1964
1965
7,5
4,8
3,0
3,1
3,5
6,1
5,5
2,6
3,7
4,7
5,1
4,7
4,2
4,9
4,5
6,3
4,9
6,4
5,6
6,4
4,0
3,7
32
alla conflittualità esacerbata. Racconta una donna, che nell'immediato dopoguerra
era stata collettrice dei bollini sindacali per la Fiom: "c'erano quei capi squadra
capi reparto di prima che... eravamo quasi diventati... amici no ma però... io gli
dicevo: ma vedete adesso questi qui cosa fanno che ce l'avevate sempre con noi...
ah! ha detto: aveva ragione, aveva ragione, perché questi qui non li ferma
nessuno"(1.1). Ma i vecchi militanti erano anche in disaccordo con i nuovi
comportamenti che confliggevano con le tradizionali pratiche operaie: "io avevo dei
compagni di lavoro [...] che lavoravano alle macchine, che tre quarti d'ora prima
della fine del turno si erano già lavati le mani e andavano a sedersi eh... fuori,
perciò come si può poi protestare, fare uno sciopero perché non ce la fai a fare la
produzione quando ti trovi un 45 minuti di libertà no? Sarebbe bastato lavorare in
modo intelligente non strafare prima e arrivare giusto con la produzione all'ultimo
minuto e allora si poteva poi [...] e logicamente la Fiat queste cose le vedeva
anche se sul momento faceva finta di no... poi è successo tutto quello che è
successo [...] ha lasciato corda fino a un certo punto poi ha detto: adesso basta...
si è ripresa tutto..."(1.17). A Mirafiori, negli anni di Valletta, "il tempo serviva
appena a far quello che ci davano e se finivi prima aumentavano subito la
produzione. Bisognava regolarsi... finire con quelle ore"(3.13). La vecchia pratica
operaia di segnare il passo nella produzione per non dare adito al taglio dei tempi
di cottimo veniva contrapposta all'irruenza giovanile che spingeva a ultimare in
fretta la produzione per liberare tempo di lavoro a favore della socialità dentro la
fabbrica: le chiacchiere alla macchinetta del caffè, la partita a carte. I comportamenti
di questo ultimo tipo, tuttavia, non erano mancati nella seconda metà degli anni
quaranta. Una parte dei testimoni ha vissuto, a Mirafiori o comunque in Fiat, le
agitazioni dell'immediato dopoguerra e la loro sconfitta negli anni cinquanta;
un'altra parte è stata invece socializzata in fabbrica sotto la disciplina vallettiana.
Le testimonianze evidenziano l'importanza di un'analisi della formazione delle
generazioni nella composizione operaia, e il ricordo degli anni settanta rimanda a
conflitti intergenerazionali che suggeriscono due punti problematici: le dimensioni
della minorité agissant che ha percepito il ciclo di lotte 1968-1980 come una
rivincita sugli "anni duri" della Fiat (dimensioni probabilmente ridotte tra i vecchi
lavoratori); l'importanza di indagare, all'interno dei turbolenti anni settanta, su
una periodizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di differenti gruppi
operai, nella demarcazione dei quali l'età sembra giocare un ruolo fondamentale.
33