La Pellicola - Parrocchia Gesu Divino Lavoratore
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La Pellicola - Parrocchia Gesu Divino Lavoratore
LA PELLICOLA I componenti fondamentali delle moderne pellicole fotografiche erano già in uso prima dell'inizio di questo secolo, anche se da allora sono stati introdotti molti perfezionamenti. L'interazione principale sulla quale si basa la fotografia in bianconero è la riduzione chimica in argento metallico dell'alogenuro d'argento esposto alla luce. Il termine “alogenuro d'argento” si riferisce al gruppo di composti formati da argento e bromo, cloro o iodio. I cristalli di alogenuro d'argento esposti alla luce vengono “segnati” in modo da ridursi, durante lo sviluppo, a particelle d'argento metallico nere. Con l'esposizione, la luce produce un'invisibile immagine latente composta da cristalli che, pur non avendo ancora subito nessun percettibile cambiamento, una volta sviluppati costituiranno l'argento dell'immagine. Le parti della pellicola che sono state esposte ad una grande quantità di luce disporranno, dopo lo sviluppo, di un grande deposito di argento ridotto, a cui si farà riferimento col termine di elevata densità; le zone della pellicola esposte con poca luce disporranno, al contrario, di poco argento, saranno cioè di bassa densità. Dato che l'immagine sulla pellicola è negativa, le zone che qui appaiono scure corrispondono alle zone luminose del soggetto. I minuscoli cristalli di alogenuro d'argento sensibili alla luce sono distribuiti in un'emulsione di gelatina (o di una sostanza analoga), depositata su un supporto o base. L'emulsione viene stesa sul materiale di supporto in uno o più strati sottilissimi e perfettamente uniformi. Il materiale di cui è costituito il supporto deve essere forte e trasparente. Oggi è sovente triacetato di cellulosa, una sostanza ininfiammabile (da cui il termine “safety film”, pellicola di sicurezza; le prime pellicole erano composte di nitrato di cellulosa, un materiale instabile e altamente infiammabile, che causò non pochi casi di incendio nei cinematografi dei primi decenni del secolo). Attualmente viene sempre più usata una robusta base in poliestere, in particolare per le pellicole piane). Sul lato posteriore della base possono essere stesi altri strati allo scopo di prevenire le graffiature e l'incurvamento della pellicola, e per impedire la formazione di “aloni”. Sensibilità della pellicola Ogni pellicola ha una particolare sensibilità alla luce, stabilita al momento della fabbricazione. Una determinata pellicola necessita di una specifica quantità di luce per produrre la prima densità utile, e quantità di luce maggiori forniscono densità maggiori, fino a un massimo. La regolazione del tempo d' esposizione e dell'apertura di diaframma ci permette di assicurarci che la quantità di luce che proviene dal soggetto e raggiunge la pellicola rientri nella gamma di luminosità in grado di produrre incrementi di densità visibili, e quindi un'immagine utilizzabile. Pertanto, dobbiamo disporre di una misura della sensibilità della pellicola, cioè della sua rapidità. A questo scopo, nel tempo sono stati impiegati diversi sistemi, ma i due oggi più diffusi sono la scala ASA e la scala di origine tedesca DIN. Entrambi i sistemi sono ora confluiti in un unico standard internazionale, denominato ISO. La rapidità ASA di una pellicola è rappresentata da una scala aritmetica nella quale il raddoppio della sensibilità viene indicato dal raddoppio del numero ASA; ad ogni raddoppio numerico, l'esposizione necessaria per una determinata ripresa è ridotta alla metà (ovvero di uno stop: un diaframma o un valore di tempo di otturazione). La rapidità della pellicola deve essere riportata sul quadrante dell'esposimetro che si usa, oppure sulla fotocamera stessa quando questa ha l'esposimetro incorporato. Pellicole differenti possono reagire in modi differenti ai diversi colori dello spettro. Le prime emulsioni, quelle degli esordi della fotografia, erano sensibili solo alla luce blu, e questo è il motivo per cui il cielo, nella maggior parte delle fotografie di paesaggio del secolo scorso, appare vuoto. Il blu del cielo veniva infatti sovraesposto, a causa dei lunghi tempi di esposizione necessari alla registrazione del paesaggio, e questo faceva sì che il cielo, una volta stampato, risultasse perfettamente bianco. Le pellicole pancromatiche (sensibili all'intero spettro visibile), utilizzate oggi per la maggior parte delle fotografie sono solitamente denominate “Tipo B”. L'effetto di reciprocità La formula E=I x T esprime il rapporto reciproco fra l'intensità della luce che raggiunge la pellicola e il tempo durante il quale è consentito di agire sulla stessa. Se l'uno aumenta e l'altro diminuisce proporzionalmente, non si verifica alcun cambiamento nell'esposizione. Tuttavia, le esposizioni molto lunghe o molto brevi non seguono questa legge, e occorre intervenire con una correzione. Questa caratteristica è nota come “difetto di reciprocità” o effetto di reciprocità, (poiché non è un difetto vero e proprio). Per esempio, se l'esposimetro indica un tempo d'otturazione di 1 s, la maggior parte delle pellicole in bianco e nero richiederebbero in effetti un'esposizione di 2 s per assicurare il negativo desiderato. Quanto più il tempo d'otturazione aumenta, andando oltre questo punto, tanto maggiore dovrà essere l'entità della correzione; per un'esposizione indicata di 10 s occorrerà in realtà dare circa 50 s. L'effetto di reciprocità non è lo stesso lungo tutta la scala delle densità del negativo. Nelle lunghe esposizioni, i valori bassi tendono a essere intaccati (sottoesposti) più dei valori elevati, provocando una diminuzione della loro densità, e si verifica quindi un aumento nel contrasto del negativo. La reciprocità delle brevi esposizioni è invece il risultato dell'introduzione dei lampeggiatori elettronici, che possono avere una durata del lampo di 1/50 000 di secondo o inferiore. Il fattore k Se sollecitati, i fabbricanti di certi esposimetri riconosceranno che nella messa a punto dei loro apparecchi si discostano dalla calibratura standard incorporando un “fattore K”. Si presume infatti che questo fattore sia in grado di fornire un a più elevata percentuale di immagini accettabili, in condizioni d'illuminazione medie, rispetto a un esposimetro calibrato esattamente su una riflettanza del 18%. L'effetto pratico del fattore k è che, se eseguiamo un'accurata lettura di una superficie grigiomedio ed esponiamo come indicato dall'esposimetro, il risultato non sarà esattamente un grigio medio. Questo effetto non è direttamente in relazione con il funzionamento dell'esposimetro in sé, ma ha a che fare con la naturale disposizione di luci e ombre nella maggior parte dei soggetti reali. I fabbricanti, presupponendo che gli esposimetri vengano il più delle volte usati per eseguire letture medie dell'intera superficie del soggetto, ne tengono conto ricorrendo al fattore K.