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Antonio Devicienti -FIAMMETTA GIUGNI, PER UN’ARCHITETTURA DEL SÉ alexey terenin . Le Edizioni CFR di Gianmario Lucini propongono un nuovo libro di Fiammetta Giugni: PER UN’ARCHITETTURA DEL SÉ, secondo classificato al Premio Fortini 2013. Per uno spazio qual è Cartesensibili una nuova raccolta poetica dell’autrice valtellinese non poteva passare sotto silenzio; Fernanda Ferraresso aveva puntualmente presentato il bellissimo CARMINA FLAMMULAE e, con la generosità che la caratterizza, Fernanda stessa mi chiede di parlare ora della silloge più recente di Fiammetta. Siccome ho già scritto, su invito dell’autrice stessa, alcune pagine di presentazione al libro, cercherò adesso di avviare qualche riflessione che mi è nata rileggendo, a distanza di pochi mesi, l’ARCHITETTURA. È infatti salutare e riprova della vitalità di una scrittura tornare su di un libro già compulsato e scoprirne (con gioia ed emozione) nuove implicazioni e suggestioni. Mi sembra che quella di Fiammetta Giugni sia, tra l’altro (tra il molto altro ch’essa sa essere), una poesiaspazio: è lo spazio interiore (del sé, o meglio della ricerca e della faticosissima costruzione del sé), è lo spazio del linguaggio (peculiare e riconoscibilissimo), è lo spazio della casa e della famiglia e della memoria, è lo spazio dell’amatissima Valtellina. So (ne abbiamo parlato) che talvolta Fiammetta si sente isolata e quasi soffocare in una realtà per alcuni versi provinciale (vivo in una valle dell’alto Varesotto e credo di capire), ma nella poesia e nella propria ricerca interiore ella si muove in uno spazio viceversa liberatorio ed amatissimo, in una Valtellina di antichissima e stratificata civiltà, materiata di case costruite con la sapienza secolare dei contadini e dei pastori, geniali architetti senza sapere di esserlo, ma architetti e geniali proprio perché capaci di lasciarsi nutrire e guidare dalle caratteristiche del territorio, dalla ricorrenza delle stagioni, dai moti solari, dal corso (e talvolta dalla furia) delle acque. Ecco: montagne, sentieri, muri a secco, muri portanti, archi, stanze, poi di nuovo scoscendimenti del terreno, boschi, recinti, croci votive, cime che indicano il cielo e l’oltreconfine, talvolta anime affini. La parola poetica è, in questo libro, anche una Valtellina di tal fatta dove il tempo si è stratificato ed il passato viene indagato e preservato con cura direi sacerdotale, dove c’è un’antica casa che è riflesso e parte del corpo della Valle. Una delle ferite sottese alla nascita del libro è, però, la consapevolezza che, dal lato opposto, è in atto un’erosione psicologica e fisica della Valtellina: moderne villette di cemento che non tengono alcun conto del contesto ambientale, strade ed asfalto, riduzione dei boschi, offese ripetute ai corsi d’acqua, cancellazione della memoria e dell’identità, imporsi di un’omologazione affaristico-televisiva capace di camuffare la propria violenza con il mito dello “sviluppo”. Che cosa fa allora un poeta? Costruisce un canto, dice il dolore in un linguaggio capace di creare uno spazio, di far sorgere luoghi che hanno la stessa realtà e concretezza dei luoghi violati; nel cuore di un’ARCHITETTURA DEL SÉ c’è infatti la casa cui si accennava poco prima, già possesso dei nonni di Fiammetta e che quest’ultima, dopo una serie di vicende, sta lentamente riparando. Non scrivo “ristrutturando” (orribile termine, trovo), ma “riparando”: si ripara ad un errore, al mal fatto, ai guasti degli uomini e del tempo. Nella silloge viene cercata proprio una riparazione: la casa è costata conflitti e risentimenti alla famiglia (succede spesso, purtroppo), cosicché Fiammetta è impegnata a riparare la memoria ferita; nella casa ha vissuto l’amatissimo papà, cosicché il libro è anche riparazione in nome di un amore che fu ripetutamente dichiarato e che la morte non può, non deve interrompere (direi: tentativo di riparazione, traverso la poesia, dei guasti provocati dalla morte); tempo e forzata incuria hanno rovinato la costruzione, cosicché Fiammetta, anche con le proprie mani, è intenta a riparare intonaci, stipiti, gradini….. È così che questa casa di nuovo in fieri può riparare chi vi cerca un rifugio, svelando la doppia accezione del verbo e lasciandoci entrare nello spazio-lingua del libro. Come sempre in poesia tutto accade e si rivela nella e attraverso la lingua. Nel caso presente peculiare è la compresenza dell’italiano, del valtellinese, del latino e dell’italiano due- e trecentesco (soprattutto quello della letteratura religiosa) che convivono e rampollano l’uno dall’altro con naturalezza estrema, essendo, vien fatto di pensare, la lingua usuale in cui Fiammetta dialoga con se stessa e con le cose. Tali “cose” sono un subconscio ed un inconscio continuamente indagati (anch’essi, dunque, spazi smisurati, talvolta bui e minacciosi, spesso dolorosi e doloranti), musiche e libri amati, una professione (quella veterinaria) che porta a contatto quotidiano con la nascita e con la malattia, con gli escrementi e con la morte ed una trascendenza desiderata, temuta, interrogata, talvolta misticamente intuita e talaltra sfuggente. Altro spazio che si manifesta per lampi e rapide emersioni linguistiche è quello biologico e sessuale, uno spazio-corpo indagato e rappresentato anch’esso senza indulgenza; il primo ricorre negli indimenticabili versi dedicati alla cantina della casa dove fermentavano (e torneranno a fermentare) gli enzimi dei formaggi e dove sarà di nuovo travasato il vino e comunque in tutti quei luoghi che hanno ospitato l’esistenza delle generazioni della famiglia; il secondo affiora nelle sezioni del libro nelle quali più esplicitamente si insegue il senso del poetare, spesso, in Fiammetta Giugni, inscindibile dall’esperienza mistico-religiosa espressa con il linguaggio dei grandi mistici italiani, spagnoli e tedeschi. E, direi, fin dalla dedica posta in limine alla raccolta, meo paterno generi dicatus, si apre l’itinerarium mentis che passa per l’atto dell’essere stati generati ed amati (padre – figlia) e del generare (la poeta, come ama dire Fiammetta, che genera anche con dolore la parola e che a sua volta ne viene generata). Ma attenzione: non si tratta di un trionfo, né di un approdo definitivo; è, invece, un rigoroso esercizio di sottrazione e di rinuncia, un vero e proprio ascetismo, un saltare nel vuoto e nel buio: un tentativo, appunto, di costruire il sé. Chi ha letto CARMINA FLAMMULAE si è già accostato ad un linguaggio capace di espressioni icastiche e di immagini ardite, sempre sorrette dalla logica tutta peculiare del dire in poesia, altrettanto rigorosa e severa quanto la logica matematico-filosofica ed arricchita dal particolare dono di una pronuncia il cui effetto è di naturalezza e spontaneità, proprio perché necessitata a dire, ma anche allenata da lunghe meditazioni e profonde letture condotte con un orecchio bene attento al ritmo, introiettato poi nella prosodia di Fiammetta. Chi non ha ancora fatto una tale esperienza potrebbe regalarsi la gioia di immergersi in entrambi i libri, come minimo per ossigenarsi grazie ad una lingua ricca ed inventiva che riscatta il nostro linguaggio quotidiano sempre più povero, banale, triviale. La poesia è un dono anche perché è in grado di riparare, appunto, lo svuotamento (inteso qui con connotazione negativa) cui è soggetta la nostra vita e perché i bei libri di poesia sono luoghi di resistenza contro la volgarità, granellini che (da illuso ed idealista qual sono lo spero vivamente) possono far inceppare gli ingranaggi del nostro oggi violento ed offensivo. Non a caso ho parlato poco prima di “ferite sottese alla nascita di questo libro”; facendo mia l’intuizione zanzottiana di un trauma che sarebbe radice del nostro rapporto con la realtà, mi sembra infatti di leggere in trasparenza nell’ARCHITETTURA la storia e la cronistoria di traumi personali capaci di divenire esemplari d’un sentire appartenente a molti: nasce così, penso, l’idea di un libro di poesia spazio-comune e spazio condiviso, per cui il sé di Fiammetta può trovare molti altri sé impegnati sul medesimo arduo sentiero. Un padre, lo sappiamo già, ma anche un maestro pure lui non più in vita baluginano nelle pagine della silloge: il sé deve imparare a compiere da solo il suo nuovo cammino, convivere col lutto; è questo un sé che conosce anche l’autoironia (in un breve componimento Fiammetta scherza un po’ col proprio cognome, ma è uno scherzo davvero molto serio: se nomen omen, allora bisogna davvero fare i conti con tutto il proprio portato di rimozioni e di sensi di colpa, di desideri non realizzati e di rimpianti, di ferite e di cicatrici). Tutto questo confluisce nell’atto dello scrivere e credo che Fiammetta scriva, per fortuna, usando penna e foglio di carta, perché, legata a quest’antichissima abitudine che sta rischiando di diventare obsoleta, è presente nel libro in almeno due luoghi l’immagine della mano che poi s’allontana dal rigo, s’invola addirittura e così lo spazio-corpo diventa anche spazio geografico che si dilata e che può raggiungere il mare dove contorto ma luminoso oscilla “un olivo croato / sulla riva del mare di agosto”. . alexey terenin . Attacco non cade mai a caso una nota sul rigo ma fra il rigo e la nota l’attrazione è di estasi o di spavento? (è carezza o castigo?) e si intende per “cadere” lo sfinimento di una resistenza oppure il fine di un incedere prodigo: la predisposizione ad assecondare il clivium con obbligo di allegrezza? A modo di invocazione fa’ che io non sappia cos’è la poesia (forse non lo so ancora) precedimi nel luogo adulto della teoria del canto e chiudimi le porte lasciami fuori come un bambino abbracciato alla sua nostalgia (io m’incappai in lieve paroletta ch’innanzi a me danzò siccome detta né io la sua raggione addimandai pur del mio canto ad ornagion l’usai) Dalla sezione : per un’architettura del Sé (una casa come pretesto) oh! che per l’invòolt io cedo alla fascinazione del fonema tutto un bene nascosto un presagio scuro trionfo di palato a coperta sulla vocale lunga lunga di speranza oro bruno intra muros né manca a questa casa un invòolt: il regno dell’umido della febbricitante fermentazione degli umori era il riposo insonne delle proteine delle caseine il sedimento lento probiotico degli odori sudori era il tesoro raffermo della gola la costola tra il fuori (de ciùn e vàca e vìgna) e la cucina nella cantina era tutto un intennà un tastà un voltaepìrla e müfa e un “Laga stà!” urlato ai redesìn gulùus adesso è il pegno pagato al mio inconscio (curiùus) La cantina * la cambra e il suo cumò: primo cassetto per il borsellino il velo per la messa e la libréta e l’acre intimità notturna dell’urinare insieme stesso rumore del fontanino fuori nel cortile sotto le avare stelle di Colda La camera da letto dei nonni Dalla sezione: Esercizi di sottrazione II. secondo cominciamento è venuto dal mare da un lutto seppellito tra le onde fu ed è la sottrazione del maestro qualche volta sorge ancora da una pagina scritta l’incitamento al ballo delle menti ma mancano le labbra e la sua voce (il corpo è mio maestro il mio maestro aveva un corpo) il distacco del mare che continuamente lambisce la terra ed eternamente la abbandona è il paragone il lutto torna a ogni ritorno d’onda e ogni volta cessa di accudire V. della costruzione della casa: perenne imperfezione aggiungere e pentirsi passo le notti riedificando il nido e porto pietre il mattino distrugge mentre risorge il sole sul muro a est inalterato forse un po’ costa abbandonare il sogno spendo in rinuncia VII il guaritore porta una ferita il bravo guaritore porta una ferita (ho fatto nascere tanti animali il silenzio del premito squarciava la stalla le mie mani di veterinario volevano farsi invisibili volevo essere solo l’ala intelligente dell’angelo del parto) XI e ultimo al crogiuolo del modello stocastico ho rifuso le tracce delle mie stagioni ma più che differenze io cercavo assonanze e ho assurto il Tuo silenzio (pregno di senso) ad affanno e a misura comune ho visto la lancia che ha corso dall’inverno all’estate e la breccia che ha aperto le porte di ogni mio autunno ho trovato un orizzonte di prato regolare (come quando falce e falciatore sono nell’intimo una cosa sola) e non sono più curiosa di parole Dalla sezione: Silloge dei risorti (nel mio idioletto) amur che me circumdi e che te scundi amur che me cumfundi amur grave amur suave (grave e lieve io confondo perché amore mi circonda e si nasconde) * defendeme dai giugni tentadori doi labri et caldi me clamano fori doi labri et caldi et morbedi fili de phylo dupleci et generosi defendeme al meno un poco dai giugni volïosi * gran nostalzía de la mea mano sento amor ke me ‘ncatena l’ha exsiliata et libera canendo s’è ‘nvolata De longe zunge a me la soa poesía Chiusa mi sono meritata lo strazio della pazienza la Palma dell’improtagonista sosto resto e quasi mi addormento appoggiata ai muri e neppure attendo non faccio non dico non scrivo quasi non ne fossi capace e mi contorco quasi inutilmente (come un olivo croato sulla riva del mare di agosto) mi secco mi rinserro chiudo le mani e gli occhi il sangue me nonostante scorre e un cuore lentamente mi batte quasi al centro del torace **