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MAURIZIO CINELLI
LA RIFORMA DELLE PENSIONI DEL GOVERNO “TECNICO”.
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APPUNTI SULLA LEGGE N. 214 DEL 2011
1. I principi
La legge n. 214 del 2011 (o “riforma Monti”, o decreto “salva
Italia”) notoriamente si colloca nell’ambito degli impegni che,
per fronteggiare la persistente, grave situazione di crisi economico-finanziaria che la affligge, l’Italia ha assunto con l’Unione europea e la comunità internazionale: compreso, - per quanto specificamente interessa nella presente sede –, appunto, quello di “rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico
in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo”, impegni oggetto del “richiamo” di cui alla ben nota
“lettera” della BCE del 5 agosto 2011.
In tale quadro, la riforma si ispira – come enuncia la norma che,
a modo di preambolo, ne introduce le disposizioni in materia, appunto, di trattamenti pensionistici (art. 24, 1° comma) – ai principi dell’ “equità”, della “flessibilità nell’accesso ai trattamenti
pensionistici”, dell’ “adeguamento dei requisiti di accesso alle
variazioni della speranza di vita”, della “armonizzazione ed economicità dei profili di funzionamento delle diverse gestioni previdenziali”.
Si può affermare, dunque, che la disciplina pensionistica che si radica nella legge di fine 2011 idealmente si collochi, nell’ambito dei “valori”,
all’interno del modello di sistema pensionistico a suo tempo elaborato dalla
legge di riforma del 1995. E nel quadro, le innovazioni più coerenti e
di maggior spicco appaiono essere la generalizzazione del criterio
contributivo di calcolo delle pensioni per le anzianità contributive
che maturano a partire dal 1° gennaio 2012 in poi, e il definitivo
accantonamento dell’istituto del pensionamento per anzianità di
servizio (giusti gli impegni ricordati sopra).
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Report la “Giornata di studio sulla riforma previdenziale”, promossa da Confservizi, in Roma, il
26 aprile 2012.
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Va registrato, tuttavia che, nonostante la specifica intitolazione
dell’art. 24 ai “trattamenti pensionistici” – e non già, come in
precedenza, l’art. 18, legge n. 111 del 2011, intitolato, più in generale, alla “materia previdenziale” – la legge di riforma in esame non si occupa soltanto di pensioni. E’ quanto risulta già da alcune disposizioni contenute in quell’articolo, ma sopratutto dalle
specifiche disposizioni di cui agli artt. 6 e 21 (e anche, per alcuni
particolari aspetti, dall’art. 26, comma 6).
E, infatti, uno degli obiettivi che – nell’ottica della razionalizzazione attraverso il risparmio – la legge dichiaratamente si prefigge è, prima ancora della “riregolazione” del sistema delle pensioni”, quello della semplificazione amministrativa e della armonizzazione dei regimi.
E’ da apprezzare in tale prospettiva, innanzitutto, la disposizione (art. 6) che restringe radicalmente l’ambito operativo degli istituti della causa di servizio, dell’equo indennizzo e della pensione
privilegiata, limitandolo a poche, particolari categorie di dipendenti pubblici: il personale appartenente al comparto sicurezza, a
quello della difesa, al corpo dei vigili del fuoco, al soccorso pubblico; una scelta di disciplina “riservata”, che si giustifica in ragione dei “peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i
correlati impieghi in attività usuranti”, già evidenziato dal legislatore in altre occasioni (art. 19, legge n. 183 del 2010). Per ciò
che riguarda tutte le altre categorie del pubblico impiego la specifica forma di tutela viene di fatto “spostata” nell’area
dell’assicurazione gestita dall’INAIL, della quale, dunque, viene
ulteriormente rafforzato (dopo l’incorporazione, da parte di detto
Istituto, dell’IPSEMA e dell’ISPESL, disposta dalla legge n. 122
del 2010) il carattere di centralità nel sistema della tutela contro i
danni da lavoro.
Nella medesima prospettiva va collocato anche il clamoroso révirement – rispetto a scelte effettuate solo poche settimane prima
con l’art. 2, legge n. 183 del 2011, c.d. “legge di stabilità” – rappresentato dalla soppressione dell’INPDAP e dell’ENPALS, e
dall’ incorporazione delle relative funzioni nell’INPS (art. 21, 1°
comma), chiamato, dunque, a succedere, a titolo universale a detti
enti.
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Si conferma e rafforza, in tal modo, il processo di concentrazione in capo all’INPS e all’INAIL, per quanto di rispettiva competenza, di ruoli e funzioni del sistema previdenziale: una sorta di
“polarizzazione”, che ha sicuramente dei pregi, quanto a complessivo livello di armonizzazione del sistema nel suo insieme,
ma anche intuibili rischi sul piano dell’efficienza, per effetto della
lievitazione delle relative strutture, che rischia ormai di divenire
eccessiva e, per questo, difficilmente “controllabile” (v. al proposito l’art. 72, d.d.l. S. n. 3249 di riforma del mercato del lavoro).
2. Determinazione dell’importo dei trattamenti pensionistici e
decorrenza
Per quanto riguarda l’entità dei trattamenti, la legge n. 214 del
2011 provvede a generalizzare il criterio di calcolo contributivo
delle pensioni: con l’effetto della sua estensione a tutti coloro che
acquisiscono il diritto alla pensione dal gennaio 2012 in poi, e,
cioè, per i periodi assicurativi e contributivi successivi a tale data.
Da quest’anno, dunque, potranno darsi soltanto trattamenti pensionistici determinati sulla base del “calcolo contributivo puro”
(lavoratori assunti dopo il 31 dicembre 1995) o del “calcolo contributivo misto” (lavoratori assunti prima di quella data).
La precedente disciplina (calcolo retributivo integrale) continua
ad applicarsi a coloro che, con anzianità assicurativa di almeno
18 anni alla data del 1° gennaio 1996, abbiano maturato il diritto
alla pensione entro il 31 dicembre 2011, anche se il relativo godimento, per effetto delle finestre, slitta a data successiva al 1°
gennaio 2012 (combinato del 5° e 6° comma dell’art. 24 di detta
legge).
Per quanto riguarda gli obiettivi di contenimento della spesa, la
misura appare destinata a rivestire un valore prevalentemente
simbolico, se si considera che il massimo di efficienza
dell’innovazione – giusto il meccanismo che la legge di riforma
del 1995 ha ereditato dalla legge di riforma del 1992, facendone
una sorta di “regola” –, potrà esplicarsi nei confronti di una fascia
di lavoratori piuttosto ristretta, quale è quella di coloro che hanno
mantenuto un’anzianità assicurativa non inferiore a 34 anni alla
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data del 1° gennaio 2012.
In effetti, a suo tempo, il legislatore del 1995 è stato condizionato dalla scelta effettuata dalla legge n. 421 del 1992, che per
ragioni meramente politiche (e non anche giuridiche) ebbe a qualificare come “diritto quesito” il parametro della anzianità contributiva di 15 anni al 1° gennaio 1993 (divenuti poi 18 anni al sopravvento della legge di riforma n. 335 del 1995), assunto come
criterio di delega: vincolo che, destinato in via contingente al legislatore delegato del 1992, ha finito per condizionare, come disposizione “di principio”, la legislazione successiva.
Per coloro che maturano i requisiti per il pensionamento successivamente al 1° gennaio 2012, non si applicano le c.d. finestre;
dunque, la pensione di vecchiaia decorre (ex art. 6, legge n. 155
del 1981) dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale
l’assicurato ha compiuto l’età pensionabile, ovvero della data
successiva di maturazione del requisito amministrativo, o, presenti detti requisiti, dal primo giorno del mese successivo a quello di
presentazione della domanda.
E’ richiesta la cessazione del rapporto di lavoro.
E’ consentita l’opzione per il calcolo contributivo (art. 24,
comma 7), per coloro che al momento dell’opzione abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 15 anni, di cui
almeno 5 nel sistema contributivo (ex art. 2, legge n. 417 del
2011).
Il calcolo contributivo ex art. 24, comma 2, si applica anche alle
anzianità contributive successive al 31 dicembre 2011 relative ai
pubblici dipendenti.
Per i pubblici dipendenti, non membri del Parlamento, chiamati
all’ufficio di Ministro o di Sottosegretario valgono le disposizioni
di ci all’art. 26, comma 6 (obbligo contributivo calcolato con riferimento all’ultimo trattamento economico in godimento prima del
conferimento dell’incarico governativo, trattamento rilevante anche ai fini del calcolo di trattamento di fine servizio).
3. Blocco della perequazione e contribuzione di solidarietà
Le scelte rigoriste in tema di importi delle pensioni, comunque,
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trovano espressione anche per via diversa da quella
dell’intervento diretto sui criteri di calcolo: precisamente, nella
prosecuzione e nell’accentuazione delle misure già attivate dalla
legge n. 111 del 2011, quanto a contribuzione di solidarietà (21°
comma), ed anche nella reiterazione del blocco della perequazione automatica (25° comma), già disposto da quella stessa legge.
Tale reiterazione, a così breve distanza di tempo, del blocco
della perequazione non può non richiamare alla memoria, però, il
monito espresso dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 316
del 2010, che ha avvertito che la frequente reiterazione di misure
dirette a bloccare il meccanismo di adeguamento delle pensioni
“esporrebbe il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili
principi di ragionevolezza e proporzionalità”.
La tecnica dei contributi di solidarietà o di perequazione (art.
24, 31° comma bis), che va ad integrare l’art. 18, legge n. 111 del
2011) sui trattamenti pensionistici più elevati è funzionale al contenimento della spesa, ma potrebbe essere valutata anche come
tecnica di armonizzazione.
Tuttavia, la specifica disposizione adottata dalla legge n. 214 è
disposizione – la circostanza va registrata – che presenta una coerenza alquanto “precaria” e discutibile con il principio di equità
(art. 24, 1° comma), giacché si rivela “sorda” rispetto alle peculiarità che possono distinguere l’uno dall’altro i singoli rapporti
intercorrenti tra carriera retributiva e trattamento pensionistico,
non potendo di certo assumersi che una pensione alta sia sempre
e comunque finanziariamente sperequata rispetto alla carriera retributiva cui si collega.
L’intervento in questione non si estende all’area del pubblico
impiego. Non è comparabile con esso il contributo di cui al comma 22, legge n. 111 del 2011, del quale è indiscutibile la natura
tributaria derivante dalla destinazione del contributo stesso
all’Agenzia delle entrate; costituisce in qualche modo una ulteriore penalizzazione rispetto alla previsione dell’art. 12 , commi 12
septies, octies e novies, legge 122 del 2010 (v. infra).
Viene bloccata (comma 25), per il biennio 2012-2013, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, nei termini a suo
tempo fissati dal combinato dell’art. 34, comma 1, legge n. 448
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del 1998 e art. 59, comma 3, legge n. 449 del 1997 (dunque, congelando prestazioni di base e prestazioni integrative, ma tra queste, solo quelle a prestazioni definite e non anche quelle a contribuzione definita, giusto il dettato di quelle norme) che superino
tre volte il trattamento minimo INPS (misura così ritoccata rispetto alla iniziale, più rigorosa previsione).
4. Totalizzazione e ricongiunzione
Si può affermare che svolge una certa funzione di “bilanciamento” (seppur minimale) del complessivo inasprimento la disposizione (art. 24, 19° comma) che agevola i titolari di posizioni
assicurative frazionate in più regimi, attraverso l’eliminazione
della clausola che escludeva la possibilità di computare in regime
di totalizzazione i periodi di assicurazione inferiore a tre anni (così ridotti, dai precedenti sei, dall’art. 1, 1° comma, legge n. 42 del
2006), ferme le altre disposizioni della legislazione in materia
(art. 1, 2° anno, legge succitata). Prevalgono, comunque, le ulteriori disposizioni della legge n. 214, ivi compresi i requisiti anagrafici (65 anni), ovvero, in caso di accesso indipendente dall’età,
i quaranta anni di anzianità contributiva, nonché la “finestra mobile” (18 mesi) prevista dall’art. 12, comma 3, legge n. 122 del
2010; trova, inoltre, applicazione il meccanismo di adeguamento
all’incremento della speranza di vita (cfr. circ. INPS n. 37 del
2012, punto 13).
Sulla ricongiunzione, vale quanto innovativamente stabilito
dall’art. 12, comma 12 septies, octies e novies, legge n. 122 del
2010: soppressione della gratuità (per l’assicurato della ricongiunzione operata “nella direzione” dell’assicurazione generale
obbligatoria, e l’applicazione dello stesso regime di onerosità –
“50 per cento della somma risultante dalla differenza tra la riserva matematica (...), necessaria per la copertura assicurativa relativa al periodo utile interessato e le somme versate dalla gestione
o dalle gestioni interessate” –, previsto dall’art. 2, legge n. 29 del
1979, per le ricongiunzioni operate “nella direzione” opposta;
nuova disciplina applicabile anche “nei casi di trasferimento della posizione assicurativa del Fondo di previdenza per i dipenden-
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ti dell’Ente nazionale per l’energia elettrica e delle aziende elettriche private al Fondo pensioni lavoratori dipendenti” (salvo
che per le domande presentate anteriormente al 1° luglio 2010),
così come negli analoghi casi interessati gli iscritti al Fondo di
previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di telefonia.
5. Requisiti del diritto alla pensione di vecchiaia: a) requisito
anagrafico
Di effettivo, sensibile rilievo pratico sul piano del contenimento
della spesa pensionistica è, invece l’intervento rigorista sui requisiti per il riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia,
tanto quello anagrafico, quanto quello assicurativo.
Quanto al primo – ferma l’applicazione della previgente disciplina a favore degli assicurati che abbiano maturato i requisiti di
età e di anzianità contributiva per acquisire il diritto al pensionamento entro il 31 dicembre 2011 –, per tutti gli altri – cioè, per
tutti coloro che sono destinati ad andare in pensione dopo quella
data – il requisito anagrafico (edittale) subisce un incremento con
effetto immediato (art. 24, 6° comma).
Precisamente, detto requisito viene così incrementato: a 66 anni
per i pubblici dipendenti, senza distinzione di sesso, e per i lavoratori di sesso maschile del settore privato; a 62 anni, per le lavoratrici dipendenti del settore privato, tanto quelle iscritte al regime generale, quanto quelle iscritte alle forme sostitutive
dell’assicurazione generale obbligatoria, con, in più,
l’assoggettamento a un meccanismo di incremento progressivo
destinato a portare detta età a 66 anni nel 2018; a 63 anni, per le
lavoratrici autonome, e a 66 anni, per i lavoratori autonomi, compresi gli iscritti, di ambo i sessi, alla gestione separata (o “quarta
gestione”) dell’INPS, con l’assoggettamento al medesimo meccanismo di progressione dell’età pensionabile a 66 anni a partire
dal medesimo anno di cui sopra.
Vengono fatti salvi (20° comma) i provvedimenti di collocamento a riposo dei pubblici dipendenti per raggiungimento del
limite di età ai sensi dell’art. 72, legge n. 133 del 2008, già adottati alla data di entrata in vigore della nuova disciplina. In detto
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settore, comunque, si pone un problema di raccordo con i limiti di
età ordinamentale (65 anni per i dipendenti statali ex art. 4, d.P.R.
n. 1092 del 1973 e art. 12, legge n. 70 del 1975 per i dipendenti
degli enti parastatali; 70 anni, per avvocati dello Stato, professori
universitari, magistrati, ex artt. 5, d.lgs. n. 511 del 1946, 34, r.d.
n. 1611 del 1933, 19, d.P.R. n. 382 del 1980), da affrontare con
riferimento al principio della prosecuzione, desumibile (v. circ. n.
2 Pres. Cons. min., Dipartimento funzione pubblica dell’8 marzo
2012) dell’art. 6 e 2 bis, legge n. 31 del 2008, a proposito del
reintegro sul posto di lavoro a seguito di licenziamento.
Dunque, nel 2018, per effetto della “legge Monti”, si raggiungerà la assoluta parificazione dell’età pensionabile a 66 anni.
Va considerata, peraltro, anche l’aggiunta – tre mesi fin da ora,
destinati a moltiplicarsi in prosieguo – in esito al meccanismo di
adeguamento periodico di detta età edittale all’aumento di speranza di vita, di cui all’art. 12, legge n. 112 del 2010.
La progressione di tale cruciale età per l’accesso al trattamento
pensionistico, comunque, non è destinata a arrestarsi a detto livello.
La norma stabilisce, infatti, che, a partire dall’anno 2021, l’età
minima di accesso al trattamento pensionistico debba, comunque,
essere non inferiore a 67 anni (9° comma): con l’ulteriore incremento conseguente alla operatività del meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile alle variazioni della speranza di vita
media (di cui all’art. 12, legge n. 122 del 2010), la cui periodicità,
anzi, per effetto di quanto disposto dalla legge in esame, a partire
dal 2019, subirà una accelerazione, in quanto destinata ad un aggiornamento con cadenza non più triennale, bensì biennale (12° e
13° comma).
L’intendimento del recente legislatore è palesemente quello di
“spingere” l’età pensionabile fino al limite dei 70 anni intorno al
2050, oltre ai mesi di ulteriore incremento per effetto del meccanismo suddetto.
Tale limite, però, non opera per il pubblico impiego (circ. Dipartimento funzione pubblica, n. 2, del 2012, cit.).
L’utilizzazione dei calcoli attuariali, come elemento di automatismo del regime pensionistico, risale alla riforma attuata dalla
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legge n. 335 del 1995 (o “riforma Dini”), dove il coefficiente di
trasformazione nel calcolo della rendita generata dal montante
accumulato con il metodo contributivo venne correlato alla variazione della speranza matematica di vita. Tuttavia, alla scadenza
del decennio, non seguì la prevista procedura di aggiornamento in
via amministrativa, sicché fu il legislatore a provvedere direttamente (art. 14, legge n. 247 del 2007), ridefinendo le tabelle recanti i coefficienti di trasformazione, con decorrenza 1° gennaio
2010 (con un complessivo ritardo di cinque anni rispetto al già
lungo periodo di dieci anni), e abbreviando, con l’occasione, il
periodo di aggiornamento dei coefficienti da dieci a tre anni.
Come già l’art. 12, comma 12 sexies, lett. b), legge n. 122 del
2010 – che destina le risorse provenienti dalla disposta elevazione
dell’età pensionabile delle pubbliche dipendenti alla formazione
di un Fondo “per interventi dedicati a politiche sociali e familiari
con particolare attenzione alla non autosufficienza e all'esigenza
di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare delle lavoratrici” –, la legge in esame prevede (art. 27) la costituzione di un
Fondo per l’implementazione dell’occupazione giovanile e delle
donne.
Nulla è modificato, quanto ad età anagrafica, per l’accesso al
pensionamento dei non vedenti (art. 1, comma 6, d.lgs. n. 503 del
1992) e degli invalidi all’80% (art. 1, comma 8, d.lgs. cit.): cfr.
circ. INPS n. 35 del 2012.
Per coloro per i quali la previgente disciplina prevede il pensionamento con requisiti diversi da quello generale, e che accedono
al pensionamento da data successiva al 31 dicembre 2011, l’art.
24, comma 18, demanda ad un regolamento interministeriale (ex
art. 17, comma 2, legge n. 400 del 2008), da emanare entro giugno 2012, l’adozione di misure di armonizzazione dei requisiti di
accesso alla pensione, per quanto riguarda le casse pensioni gestite dall’ex INPS si tratta delle forze armate; dei carabinieri; della
polizia ad ordinamento tanto civile (polizia di stato, corpo forestale, polizia penitenziaria), quanto militare (guardia di finanza);
dei vigili del fuoco; dei lavoratori per i quali viene meno il titolo
abilitante per raggiunti limiti di età (piloti, controllori del traffico
aereo, ecc.): fermo, per tutti, naturalmente, il calcolo retributivo
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per le anzianità contributive maturate dall’1° gennaio 2012 in poi.
6. Segue: gli incentivi al differimento del pensionamento.
La legge n. 214 (4° comma), operando attraverso i coefficienti
di trasformazione, che, innovativamente stabilisce che vengano
“calcolati fino all’età di 70 anni” (in luogo dei precedenti 65) – e
anch’essi da rideterminare, a decorrere dal 2019, a cadenza biennale (16° comma) –, incentiva il proseguimento dell’attività lavorativa, e, dunque, il differimento del pensionamento, anche oltre
la data di maturazione dei requisiti per il diritto alla pensione di
vecchiaia, fino al tetto, appunto, dei 70 anni.
L’“incentivo” di cui sopra è reso più convincente attraverso
l’intervento sulla disciplina stessa del rapporto di lavoro, perché
al lavoratore viene garantita (art. 24, 4° comma, ultimo periodo)
la stabilità reale del rapporto di lavoro stesso, “fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”.
Non può evitarsi di notare, però, come detto richiamo alla disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori appaia destinato a
suscitare non poche perplessità; e ciò, non solo in considerazione
della “congiuntura sfavorevole” nella quale, al momento, quella
norma si trova (v. d.d.l. S. n. 3249, di riforma del mercato del lavoro), ma anche e comunque perché la ratio che sostiene la disposizione di legge alla quale la clausola che qui si considera appare ispirarsi (l’art. 6, 2° comma, legge n. 31 del 2008) è stata
quella di “governare” lo “sfasamento” – determinato dalla legge
stessa, attraverso la disciplina delle c.d. “finestre” – tra data di
maturazione del diritto alla pensione e data di accessibilità a quel
diritto, mentre, nel caso di specie, quella particolare, rafforzata
garanzia viene riconosciuta in riferimento a casi in cui quello
stesso “sfasamento” è meramente “fattuale”, perché in concreto
dipende da una scelta del tutto discrezionale dell’interessato1.
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Osserva P. SANDULLI, Il sistema pensionistico tra una manovra e l’altra. Prime riflessioni sulla
legge n. 214/2011, in RDSS n. 1/2012) che la flessibilità incentivata attraverso la dilatazione del
meccanismo di stabilità reale del posto di lavoro anche in favore degli optanti, giustifica alcune
«riflessioni: i) sul piano sistematico, trova conferma la stretta correlazione, ed anzi immedesimazione, del diritto della previdenza sociale e del diritto del contratto individuale di lavoro, risalente
all’art. 11, l. n. 604 del 1966: eppure, il richiamo al solo art. 18, l. n. 300 del 1970 non è in linea
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E’ evidente che, stanti i suddetti criteri di progressivo (astrattamente indefinito) incremento dell’età pensionabile nel tempo, non
ha più motivo di operare (come infatti si ricava dall’art. 24, 5°
comma) – salvo che per le pensioni destinate agli addetti ai lavori
usuranti (17° comma: v. infra) – quel criterio di surrettizia elevazione dell’età pensionabile, che è stato rappresentato dalle c.d.
“finestre”.
L’incentivo al differimento del personale al compimento dei 70
anni non opera nel settore del pubblico impiego (v. punto 5 e 11).
7. Requisiti del diritto alla pensione di vecchiaia: b) il requisito
amministrativo.
Quanto al requisito amministrativo per l’accesso alla pensione
di vecchiaia, la nuova legge richiede, in concorso con il requisito
anagrafico, un’anzianità contributiva minima di 20 anni; con
l’aggiuntiva condizione di una giustificazione finanziaria: e, cioè,
che il montante contributivo risultante da detta anzianità sia di entità tale da sviluppare un importo non inferiore a 1,5 volte quello
(da rivalutare annualmente) dell’assegno sociale.
Evidente è, a quest’ultimo proposito, il parallelismo con la disciplina dettata a suo tempo dall’art. 1, comma 2, prima parte,
legge n. 335 del 1995. Ma il più lungo arco temporale sul quale
calcolare oggi il montante contributivo evita le incongruenze, cui,
viceversa, conduceva quella più risalente norma, nel “promettere”
con la portata universale della protezione contro i licenziamenti - pur differenziata in ragione delle
dimensioni aziendali, sotto forma di stabilità reale o sotto forma di stabilità obbligatoria – finora
disposta in correlazione all’età pensionabile: ii) sul piano della politica del diritto, la estensione
temporale – ovviamente, in favore degli optanti lavoratori dipendenti, per tener conto della circostanza che l’opzione verso i 70 anni è esercitabile anche dai collaboratori a progetto - della “efficacia” dell’art. 18 nella sua interezza, ivi comprese dunque le disposizioni sul campo di applicazione, ora operante “fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”, al di là
dunque dell’età pensionabile, non può non incidere sul dibattito da subito avviatosi con il nuovo
Governo in ordine ad una diversa impostazione da dare alla portata stessa dell’art. 18; iii)
l’assimilazione della disposizione in esame a quella dell’art. 6, c. 2 bis, d.l. n. 248 del 2007, sub l.
conv. n. 31 del 2008 è frutto di una scorretta ed ingiustificata sovrapposizione concettuale: la norma del 2007 copre lo sfasamento imposto dalla legge fra data di maturazione dei requisiti di accesso e data di effettiva fruizione della pensione, in ragione del differimento determinato dalla operatività delle c.d. finestre (oramai superate: cfr. comma 5), laddove la nuova disciplina copre lo sfasamento conseguente alla scelta individuale (per definizione, volontaria) di differire la fruizione
del trattamento pensionistico, una volta raggiunto il requisito legale».
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una possibilità di pensionamento con soli 5 anni di assicurazione
di fatto assai difficile da realizzare; salvo, ovviamente, che per i
destinatari di retribuzioni (e, dunque, di contribuzioni) di livello
particolarmente elevato.
Per altro verso, la legge in esame stabilisce (art. 24, 7° comma)
– con disposizione che, di fatto, appare destinata essenzialmente
ai lavoratori con carriere discontinue e precarie – che si può prescindere dall’importo minimo di cui sopra, nel caso in cui
l’assicurato abbia 70 anni di età ed abbia comunque maturato
un’anzianità contributiva minima effettiva di 5 anni. Si tratta, però, di disposizione che, come sembra, avrà bisogno di essere coordinata con la disciplina dell’assegno sociale.
Per la maturazione del requisito amministrativo sono validi anche i contributi figurativi, ex art. 1, comma 40, legge n. 335 del
1995. Invece, nella suddetta situazione di favor ritagliata per coloro che abbiano almeno 5 anni di assicurazione, per espressa disposizione sono richiesti (almeno) 5 anni di contribuzione “effettiva” (sembra da ritenere, però, che accertata la sussistenza di detto requisito, anche finanziario, eventuali, aggiuntivi periodi di
contribuzione figurativa possono essere presi in considerazione ai
fini dell’incremento dell’importo da riconoscere).
8. Discipline derogatorie
Non mancano, comunque, le disposizioni derogatorie, giustificate da situazioni particolari.
Vengono fatte salve, infatti, (art. 24, 14° comma), “le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime della decorrenza del trattamento pensionistico, vigenti prima della data di
entrata in vigore” della nuova disciplina, non solo a favore dei
soggetti che abbiano maturato i requisiti per il pensionamento entro la data del 31 dicembre 2011, ma anche a favore delle seguenti fasce di lavoratori.
A) In primo luogo, la deroga è prevista a favore delle lavoratrici che (ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1, 9° comma, legge
n. 243 del 2004) abbiano esercitato – o decidano di esercitare en-
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tro il 2015 – la facoltà di opzione per la liquidazione (in via integrale) della propria pensione secondo le regole del calcolo contributivo.
Precisamente, la succitata disposizione consente che, attraverso
l’esercizio (nel termine) di detta opzione, le lavoratrici, sia autonome che subordinate, possano sfuggire all’innalzamento dell’età
pensionabile e, dunque – purché in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni –, barattare, a loro insindacabile scelta, il più favorevole calcolo retributivo (in pro rata) con la possibilità di acquisire il trattamento pensionistico anticipatamente,
cioè già all’età di 57 anni, se dipendenti, o di 58, se autonome.
B) Il trattamento derogatorio vale, inoltre – ma nei limiti delle
risorse messe a disposizione dal legislatore del 2011, ed entro determinati limiti numerici (art. 24, 15° comma), e, dunque, con sostanziale affievolimento dei diritti coinvolti (per un ravvicinato
precedente, si veda l’art. 18, comma 22 quater, legge n. 111 del
2011) –, per i lavoratori collocati in mobilità (ex artt. 4 e 24, legge n. 223 del 1991) o in mobilità lunga (ex art. 7 stessa legge),
quando ciò sia avvenuto per effetto di accordi collettivi stipulati
entro il 4 dicembre 2011; nonché per i lavoratori destinatari delle
prestazioni dei fondi di solidarietà di settore (ex art. 2, 28° comma, legge n. 662 del 1996), purché, anche in tal caso, ciò si sia
verificato per effetto di accordi collettivi stipulati anch’essi entro
il 4 dicembre 2011; e, infine, per i dipendenti pubblici esonerati
dal servizio entro quella stessa data.
C) Una disposizione ad hoc, che ricalca la previgente disciplina
dettata “in via eccezionale” (15° comma bis) per regolare una situazione di diritto transitorio, vale per quei lavoratori del settore
privato (essenzialmente i nati negli anni 1951 e 1952, e già forniti
di una anzianità contributiva di 35 anni – i maschi – o di 20 anni
– le femmine – alla data del 31 dicembre 2012), i quali, in assenza di adeguati correttivi (quali quelli dettati con detta disposizione), sarebbero stati destinati a subire una particolare penalizzazione per effetto della introduzione dei nuovi criteri di accesso al
pensionamento: “i lavoratori che abbiano maturato un’anzianità
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contributiva di almeno 35 anni entro il 31 dicembre 2012 i quali
avrebbero maturato, prima dell’entrata in vigore del presente
decreto, i requisiti per il trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2012 (...) possono conseguire il trattamento della pensione anticipata al compimento dell’età anagrafica non inferiore a
64 anni”; anche le lavoratrici possono andare in pensione con detta età anagrafica (oltre che, se più favorevoli, alle condizioni dettate in via generale dalla legge di riforma: v. supra, punto 5),
“qualora maturino entro il 31 dicembre 2012 un’anzianità contributiva di almeno 20 anni e alla medesima data consegnano
un’età anagrafica di almeno 60 anni” (e, dunque, in tal caso
l’operatività delle pensione anticipata suddetta è limitata ad un
arco temporale che si concluderà nel 2016).
D) Per i lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto entro il
31 dicembre 2011, per effetto di accordi individuali sottoscritti ai
sensi degli artt. 410-412-ter c.p.c. o in applicazione di accordi
collettivi di incentivo all’esodo stipulati dalle organizzazioni
comparativamente più rappresentative a livello nazionale, l’art. 6
della legge n. 14 del 2012 ha consentito la conservazione della
previgente disciplina, alle seguenti condizioni: che la data di cessazione del rapporto di lavoro risulti da elementi certi e oggettivi,
quali le comunicazioni obbligatorie agli ispettorati del lavoro o
altri soggetti equipollenti; che il lavoratore risulti in possesso dei
requisiti anagrafici e contributivi che, in base alla previgente disciplina pensionistica, avrebbero comportato la decorrenza del
trattamento medesimo entro un periodo non superiore a 24 mesi
dalla data di pubblicazione del decreto legge n. 201 del 2011,
cioè entro il 6 dicembre 2013.
e) L’art. 6, comma 2 septies della succitata legge n. 14 del 2012
(aggiungendo alla lettera e del comma 14 dell’art. 24 la lettera e
bis), ha incluso tra gli aventi titolo per conservare la disciplina
previgente i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2011 siano
risultati in congedo per assistere figli con disabilità grave (ex art.
42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001), a condizione che maturino,
entro 24 mesi dalla data di inizio del predetto congedo, il requisi-
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14
to contributivo per l’accesso al pensionamento (indipendentemente dall’età anagrafica).
9. La pensione anticipata
Per ciò che riguarda il pensionamento collegato, anziché all’età,
all’anzianità di lavoro, la legge n. 214, ormai generalizzato (nei
termini dei quali si è detto) il criterio contributivo di calcolo delle
pensioni, porta a compimento quanto già era implicito nella legge
di riforma del 1995: chi matura i requisiti per il pensionamento
dal 2012 in poi, in luogo della (previgente) pensione di anzianità
potrà ottenere soltanto la pensione anticipata: cioè, “anticipare”
(a determinate condizioni e con determinate conseguenze) la pensione di vecchiaia.
A) Per coloro che hanno instaurato il rapporto assicurativo in
data anteriore al 1° gennaio 1996, e per i quali, dunque, la pensione si calcola in pro rata – destinatario del sistema contributivo
misto –, l’accesso alla pensione anticipata ad età inferiori a quella prevista in via generale per la pensione di vecchiaia “è consentito esclusivamente se risulta maturata una anzianità contributiva
di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, con riferimento ai soggetti che maturano i requisiti nell’anno
2012 (...), aumentati di un ulteriore mese per l’anno 2013 e di un
ulteriore mese a decorrere dall’anno 2014” (art. 24, 10° comma).
L’aggiunta delle mensilità suddette può essere considerata come una sostanziale “incorporazione” nel nuovo requisito di anzianità minima delle mensilità aggiuntive alla “finestra unica”, introdotte, poco prima che intervenisse la legge in esame, dall’art.
18, 22° comma ter, legge n. 111 del 2011.
Comunque, perché la “pensione anticipata” possa essere accreditata nell’importo pieno, l’interessato deve aver conseguito, alla
data del pensionamento, almeno 62 anni di età che così non è,
l’importo della pensione subisce una riduzione (sulla quota di
trattamento relativo all’anzianità contributiva maturata in data anteriore al 1° gennaio 2012), “pari a 1 punto percentuale per ogni
anno di anticipazione nell’accesso al pensionamento rispetto
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all’età di 62 anni” e “a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni” (art. 24, 10° comma, seconda
parte).
Detta situazione non si applica nei confronti di coloro a favore
dei quali sussistano le condizioni di cui al comma 2 quater (introdotto dalla legge n. 14 del 2012): cioè, la maturazione entro il
2017 del requisito di anzianità contributiva derivante esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, ivi inclusi i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l’assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e per cassa integrazione
guadagni ordinaria.
Una residuale possibilità di acquisire il diritto all’accesso al
pensionamento, indipendentemente dall’età anagrafica, sembrerebbe tuttora consentita dall’art. 12, 12° comma bis, legge n. 122
del 2010, così come modificato dall’art. 24, 12° comma, lett. a),
della legge che qui si considera (la disposizione non è del tutto
chiara): precisamente, laddove detta norma, nel prescrivere che
tutti i requisiti di accesso al sistema pensionistico “devono essere
aggiornati a cadenza triennale con decreto direttoriale (...) da
emanare almeno dodici mesi prima della data di decorrenza di
ogni aggiornamento”, include nell’elencazione anche la fattispecie di cui all’art. 1, 20° comma, legge n. 335 del 1995 e “il requisito contributivo ai fini del conseguimento del diritto all’accesso
al pensionamento indipendentemente dall’età”, ivi previsto (cioè,
un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni).
Traspare in maniera chiara da dette disposizioni la finalità di disincentivare le richieste di anticipazione del trattamento pensionistico.
Tuttavia è altrettanto evidente la penalizzazione, che così si realizza, dei lavoratori precoci – quelli che hanno cominciato a lavorare a 19 anni, o prima ancora –, in palese controtendenza con
scelte, della cui ragionevolezza, eppure, non si era mai dubitato,
fatte dal legislatore in precedenti occasioni (va registrato, comunque, che, come apparente segno di “resipiscenza”, uno slittamento dell’operatività della disposizione, a fini di “ammorbidimento”
del suo rigore, è prevista dal c.d. decreto milleproroghe).
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B) Per i destinatari del calcolo pensionistico secondo il criterio
contributivo puro – cioè, per coloro il cui primo accredito contributivo decorra da data successiva al 1995 –, il diritto alla “pensione anticipata”, invece, può essere conseguito – previa risoluzione del rapporto di lavoro – “al compimento del requisito anagrafico di 63 anni, a condizione che risultino versati e accreditati
in favore dell’assicurato almeno 20 anni di contribuzione effettiva e che l’ammontare mensile della prima rata di pensione risulti
non inferiore ad un importo mensile, annualmente rivalutato (...),
pari, per l’anno 2012, a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno
sociale” (11° comma).
Atteso che l’importo dell’assegno sociale attualmente non arriva a 500 euro mensili e che il tasso di sostituzione della pensione
rispetto all’ultimo trattamento retributivo si aggira oggi intorno al
50 per cento, è da ritenere che, affinché il montante contributivo
maturato possa sviluppare l’importo predetto, al lavoratore che
sia destinatario di retribuzioni di entità non elevata (e, tanto più,
ovviamente, nel caso di retribuzioni di entità modesta) potranno
occorrere più dei 20 anni di lavoro e contribuzione ivi previsti
(tanto più se si considera – v. circ. INPS n. 35 del 2012, punto 2.2
– che non concorre alla maturazione di detto requisito la contribuzione volontaria).
Anche in tal caso, dunque, viene prefigurata una situazione analoga a quella già delineata dall’art. 1, 20° comma, legge n. 335
del 1995, per il pensionamento (entro l’arco di età anagrafica
all’epoca consentito) con soli 5 anni di contribuzione effettiva,
dove l’aggiuntiva condizione dell’acquisizione di un montante
contributivo atto a sviluppare una pensione di importo “non inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale” comportava un
pressoché inevitabile “slittamento” ben oltre quel limite.
C) Infine, disposizioni particolari (che mantengono la previgente combinazione tra età anagrafica e età di lavoro, nonché, come
già anticipato, il regime delle “finestre”) sono dettate (art. 24, 17°
e 17° comma bis) a favore della “pensione anticipata” che spetta
agli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e usuranti,
di cui all’art. 1, legge n. 183 del 2010 e all’art. 21, legge n. 67 del
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2011. Per essi continua a trovare applicazione la “finestra mobile” di cui all’art. 12, commi 1 e 2, legge n. 122 del 2010, ancorché maturino il requisito per il pensionamento in data successiva
al 31 dicembre 2011 (cfr. circ. INPDAP n. 43 del 2011 e circ.
INPS n. 37 del 2012).
10. Rapporti con le altre assicurazioni (art. 24, c. 2; art. 6)
A) Assicurazione obbligatoria contro l’invalidità (legge n. 222
del 1984).
Assegno ordinario di invalidità: al compimento dell’età anagrafica fissato dalla riforma si trasforma d’ufficio in pensione di
vecchiaia (art. 1, comma 10, legge n. 222 del 1984), purché sussistano i relativi requisiti previsti dalla legge n. 214 e l’interessato
abbia cessato il rapporto di lavoro dipendente.
Pensione di inabilità: fermo quanto disposto dall’art. 2, legge n.
222 del 1984, la relativa maggiorazione, a decorrere dal 1° febbraio 2012, si calcola secondo le regole del sistema contributivo.
Pensione di invalidità (sospesa ex art. 8, legge n. 638 del 1983):
come per l’assegno ordinario.
B) Pensione supplementare e supplementi: trovano applicazione
i nuovi requisiti anagrafici (cfr. circ. INPS n. 35 del 2012).
C) Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
Come già ricordato sopra (v. punto 1), l’art. 6 ha ristretto radicalmente l’ambito operativo degli istituti della causa di servizio,
dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata, rinviando per
il resto, di fatto, all’assicurazione infortuni gestita dall’INAIL,
ove applicabile.
11. Disciplina del pensionamento e disciplina ordinamentale del
servizio nel pubblico impiego
Ai sensi dell’art. 24, commi 3 e 14, i dipendenti pubblici che
hanno maturato i requisiti per il pensionamento entro la data del
31 dicembre 2011, anche se sono ancora in servizio, non sono
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soggetti, neppure su opzione, al nuovo regime relativo ai requisiti
di età e di anzianità contributiva; diviene ad essi applicabile soltanto il regime contributivo per le anzianità maturate a decorrere
dal 1° gennaio 2012.
Pertanto, le amministrazioni pubbliche, nell’anno 2012 o negli
anni successivi, dovranno collocare a riposo, al compimento
dell’età ordinamentale (65 anni o la diversa età stabilita per particolari categorie, salva in ogni caso la disciplina del trattenimento
in servizio) quei dipendenti che alla data del 31 dicembre 2011
erano già in possesso della massima anzianità contributiva, o della c.d. “quota” (somma dei requisiti di età e di anzianità contributiva), o comunque dei requisiti previsti per la pensione.
Infatti, la legge n. 214 riguarda soltanto i requisiti per l’accesso
al trattamento
pensionistico – nella specie, già gestito
dall’INPDAP ed ora della relativa gestione speciale presso
l’INPS –, ma non tocca il regime dei limiti di età per la permanenza in servizio, la cui vigenza, anzi, è stata espressamente confermata (art. 24, comma 4).
Dunque, in base ai principi generali (Corte cost. n. 282 del
1991; art. 6, comma 2 bis, legge n. 31 del 2008), una volta raggiunto il limite di età ordinamentale, l’Amministrazione prosegue
il rapporto di lavoro o di impiego con il dipendente soltanto nel
caso in cui ciò sia necessario al conseguimento del requisito minimo per il diritto alla pensione.
Per i dipendenti che hanno maturato il diritto a pensione (anche
se diversa da quella di vecchiaia) l’età ordinamentale costituisce
il limite non superabile – se non per il caso di trattenimento in
servizio (espressamente normato), o per la disciplina della c.d.
“finestra mobile” – in presenza del quale l’amministrazione deve
far cessare il rapporto di impiego.
Nel settore del lavoro pubblico non operare, dunque, il principio di incentivazione alla permanenza in servizio sino a 70 anni
di cui all’art. 24, comma 4, della suddetta legge.
Poiché la legge di riforma ha generalizzato l’applicazione del
sistema contributivo pro rata per le anzianità che maturano successivamente al 1° gennaio 2012, viene meno il concetto di massima anzianità contributiva; quindi, divengono inapplicabili tutte
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le previgenti disposizioni (art. 1, comma 4 quinquies, legge n. 37
del 1990, per i dirigenti civili dello Stato e art. 509, comma 2,
d.lgs. n. 297 del 1994 per il personale del comparto scuola), che
consentivano al personale interessato di proseguire il servizio sino al raggiungimento delle condizioni per ottenere il massimo
della pensione.
Rimangono invece fermi gli specifici limiti ordinamentali –
salva, sempre, la applicazione del sistema contributivo pro rata
per le anzianità successive al 31 dicembre 2011 –, relativi al personale delle forze armate, della polizia ad ordinamento civile e
militare, e dei vigili del fuoco. Per tale personale, tuttavia (e, più
in generale, per tutti i regimi che presentino “scostamenti” rispetto alla generalità), la legge rinvia (art. 24, comma 18) ad apposito
regolamento di delegificazione la disciplina dell’armonizzazione
dei requisiti di accesso al trattamento pensionistico rispetto a
quanto valevole per la generalità dei pubblici dipendenti. Inoltre,
come già ricordato nei punto 1, detto personale conserva la tutela
in materia di equo indennizzo e di pensione privilegiata per causa
di servizio (art. 6).
12. Segue: trattenimento in servizio, risoluzione unilaterale del
rapporto di impiego, esonero, regime transitorio
E’ espressamente prevista l’attualizzazione della disciplina del
trattenimento in servizio oltre i limiti di età (art. 24, comma 20):
il presupposto per l’applicazione di detto istituto nei confronti di
coloro che maturino i requisiti da epoca successiva al 31 dicembre 2011 devono essere rimodulati in base ai nuovi requisiti di
accesso al pensionamento (circ. Dip. funzione pubblica n. 2 del
2012, punto 3).
Pertanto, anche dopo la riforma apportata dalla legge n. 214 i
dipendenti pubblici potranno chiedere e ottenere dalle amministrazioni di competenza il trattenimento in servizio, destinato a riferirsi al periodo successivo al conseguimento del nuovo requisito
anagrafico necessario per la pensione di vecchiaia. Restano soggetti al previgente regime coloro che abbiano maturato il requisito anagrafico e il diritto a pensione entro il 2011; pertanto, salva
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l’intervenuta concessione del trattenimento in servizio o
l’applicazione dell’eventuale finestra mobile, per tali dipendenti
l’età di collocamento a riposto resta fissata all’età ordinamentale,
oltre la quale, dunque, il servizio non potrà protrarsi (cfr circ.
succitata).
Quanto ancora al trattenimento in servizio, va segnalato che
l’art. 16, d.lgs. n. 503 del 1992 è stato nuovamente modificato
dall’art. 1, legge n. 111 del 2011, che ha valorizzato la discrezionalità della pubblica amministrazione nella concessione del trattenimento in servizio stesso; rimane fermo, pertanto, che il trattenimento in servizio non costituisce più oggetto di un diritto potestativo in capo all’interessato, ma un diritto condizionato, la cui
soddisfazione dipende dalle valutazioni che l’amministrazione
compie in ordine all’organizzazione, al fabbisogno professionale
e alla disponibilità finanziaria.
Il presupposto del potere unilaterale di risoluzione del rapporto
di impiego, di cui all’art. 72, legge n. 133 del 2008, per quanto riguarda i dipendenti che maturano i requisiti per la pensione a decorrere dal 1° gennaio 2012, non è più quello rappresentato
dall’anzianità massima contributiva (40 anni), ma è quello degli
anni di anzianità contributiva che, ai sensi della recente riforma,
sono necessari per la maturazione del diritto alla pensione anticipata; peraltro, le amministrazioni, considerato che la norma sulla
pensione anticipata prevede la possibilità di una penalizzazione
nel trattamento dei dipendenti che, pur essendo in possesso del
requisito contributivo, abbiano un’età inferiore ai 62 anni, dovranno fare attenzione a non esercitare detta facoltà di risoluzione
unilaterale nei confronti di quei soggetti per i quali potrebbe operare detta penalizzazione (in sostanza, sembra raffiorare per tal
via la ratio della rilevanza già accordata alla “anzianità massima
contributiva”).
L’istituto dell’esonero dal servizio (ex art. 72, commi da 1 a 6,
legge n. 133 del 2008) è stato soppresso (art. 24, comma 14, lett.
e); continua ad applicarsi soltanto gli esoneri già concessi prima
del 4 dicembre 2011.
Quanto al regime transitorio (art. 24, comma 20), la riforma fa
salvi gli effetti degli atti di collocamento a riposo per raggiunti
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limiti di età adottati dalle amministrazioni prima del 6 dicembre
2011 (data di pubblicazione del decreto legge n. 201, poi convertito nella legge n. 214), anche se destinati ad avere decorrenza
successiva al 1° gennaio 2012.
Detta salvaguardia concerne, però, solo le ipotesi del raggiungimento del limite di età. Ne consegue che debbono, invece, intendersi coinvolti dalla nuova disciplina – se aventi la suddetta
decorrenza successiva al 1° gennaio 2012 – le determinazioni ed i
provvedimenti di pensionamento eventualmente già adottati per
motivi diversi dal raggiungimento del limite di età ordinamentale
nei confronti dei dipendenti soggetti a nuovo regime, ma sprovvisti dei nuovi requisiti alla data di decorrenza dell’atto; pertanto, le
amministrazioni interessate dovranno rivedere o annullare le proprie determinazioni nei casi di risoluzione unilaterale aventi decorrenza dal 2013 per dipendenti con anzianità contributiva inferiore a 42 anni e 5 mesi, se uomini, 41 anni e 5 mesi, se donne, e
di età inferiore a 65 anni o di accoglimento delle dimissioni comunicate per raggiungimento della c.d. “quota”.
13. Segue: iscrizione all’INPDAP di soggetti privati
Questioni a parte si pongono per i soggetti, già “dipendenti degli enti pubblici e delle aziende municipalizzate o consortili”,
che, in occasione del passaggio “a società private per effetto di
norme di legge, di regolamento o convenzione che attribuiscano
alle stesse società le funzioni esercitate dai citati enti pubblici ed
aziende”, avvalendosi della facoltà loro attribuita dell’art. 5,
comma 1, legge n. 274 del 1991, abbiano optato per il mantenimento della propria posizione previdenziale nel regime pubblico
(già gestito dalle Casse pensioni degli istituti di previdenza e poi,
fino alla sua soppressione, dall’INPDAP).
La conservazione del regime INPDAP in tali casi accomuna i
dipendenti privati ai dipendenti pubblici solo per la posizione
previdenziale, non anche per i profili che attengono il rapporto di
lavoro; ne consegue che, a differenza dei secondi, per essi sarà
possibile avvalersi dei già descritti incentivi per la permanenza in
servizio fino a 70 anni (v. punto 6).
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In via di massima (possono darsi, però, situazioni che pongono,
al proposito, questioni di non agevole soluzione)2, la possibilità di
2
In effetti, quanto ad effettivo ambito di operatività dell’opzione in esame appaiono prospettabili
varie questioni (come ho già avuto modo di osservare in una precedente, analoga occasione). Già
la considerazione che l’art. 5, comma 1, legge n. 274 del 1991 fa riferimento a “dipendenti … che
transitano a società private”, parrebbe indirizzare a ritenere detta disposizione non applicabile alle
ipotesi (seppur rare) in cui il “transito” dei dipendenti sia effettuato in occasione di devoluzione in
concessione del servizio pubblico ad impresa individuale; è agevole obiettare, tuttavia, come detta
interpretazione avrebbe il conforto della “lettera” della norma, ma non della sua ratio. Del pari
non propriamente riferibile alla fattispecie normativa in questione, appare l’ipotesi di trasformazione dell’azienda speciale (quale ente pubblico) in società per azioni (art. 17, comma 51, legge n.
127 del 1997: c.d. legge Bassanini bis); detta “trasformazione”, infatti, pur differenziandosi da
quella propria prevista dall’art. 2498, c.c., non sembra implicare il “transito” indicato dalla norma
in esame, se per “transito” deve ivi ritenersi il passaggio da un soggetto ad un altro, riguardando il
regime giuridico della soggettività (da pubblico a privato), non già la permanenza (o la sostituzione) di quest’ultima. In tale caso, tuttavia, la facoltà dei lavoratori interessati di scegliere il regime
previdenziale è comunque da considerarsi possibile: l’opzione a favore della Cassa di previdenza
(già CPDEL, poi INPDAP), infatti, è consentita non solo (lettera “b” di quella norma) ai “dipendenti degli enti pubblici e delle aziende municipalizzate o consortili che transitino a società private”, ma, come già ricordato, anche (lettera “a”) ai “dipendenti degli enti che perdono la loro natura
giuridica pubblica”. L’applicabilità della norma in riferimento (con la conseguente facoltà di opzione da parte dei lavoratori interessati), naturalmente andrebbe comunque ritenuta (ai sensi della
lettera “b” di quella norma), ove dovesse riconoscersi fondata la tesi che, valorizzando il carattere
procedurale per la realizzazione della “privatizzazione” (sia in senso formale, che in senso sostanziale), interpreta detta “trasformazione speciale” – o, meglio, detta modifica di natura, da pubblico
a privato – come una fattispecie di successione tra soggetti. Nessun rilievo impeditivo, invece,
nell’applicazione della norma alle aziende speciali (consortili e non), sembra poter derivare dal
fatto che la stessa testualmente si riferisce alle “aziende municipalizzate o consortili”; va considerato, infatti, che le “aziende speciali” rappresentano lo sviluppo naturale (ex lege n. 142 del 1990)
di queste seconde, e che, d’altra parte, in ogni caso, avrebbe motivo di rilevare l’evidente unicità di
ratio. Passando all’esame delle problematiche prospettabili, in riferimento alle condizioni di esercizio e ai relativi effetti della facoltà di opzione, appare da escludere, innanzitutto, in via di principio, che la facoltà di opzione, non esercitata all’atto della prima trasformazione, possa essere esercitata in occasione degli eventuali “passaggi” successivi: cioè, quando alla vicenda di trasformazione del soggetto pubblico in società di capitali facciano seguito vicende di scissione o scorporazione mediante trasferimento di rami d’azienda dalla suddetta società - o società “madre” - alle società “figlie” (come è previsto, in particolare, nel settore elettrico, ex d.lgs. n. 79 del 1999). E ciò
proprio perché, in detto successivo sviluppo della vicenda, il “trasferimento” non avviene da una
entità pubblica ad una entità privata, ma tra due entità private. Invero, unico caso (peraltro, più teorico che di reale verificabilità pratica) che, allo specifico proposito, potrebbe richiamare
l’applicazione della norma in riferimento, nonostante il mancato esercizio della facoltà di opzione
“in prima battuta”, potrebbe essere quello dello scorporo dalla società “madre” che si realizzi prima che sia decorso il termine di decadenza surricordato per l’esercizio dell’opzione stessa; infatti,
non potendosi negare la ricorrenza di una fattispecie di trasferimento di ramo d’azienda, si potrebbe ritenere, quantomeno, che il principio di conservazione di cui all’art. 2112 c.c., faccia salvo, in
capo al lavoratore interessato, anche il diritto potestativo del quale detta facoltà di opzione è espressione (varrebbe, in ogni caso, quanto appresso si espone a proposito degli effetti “conservativi”, in particolari condizioni di trasferimenti successivi all’esercizio della facoltà di opzione). Più
complesso, nonostante quanto possa apparire ad un primo esame, è il caso inverso: cioè quello in
cui, successivamente all’esercizio della facoltà di opzione (per la permanenza nel regime previdenziale gestito dall’INPDAP), il lavoratore, già dipendente pubblico, subisca un ulteriore trasferimento ad altra entità privata. Ed, invero, in via di principio, è da escludere che il suddetto lavoratore, ormai dipendente di datore di lavoro privato, possa mantenere anche nei successivi sposta-
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menti alle dipendenze di altro datore di lavoro, quanto la legge eccezionalmente gli ha riconosciuto
all’atto del passaggio dal lavoro “pubblico” a quello “privato”; è evidente, infatti, che il diritto acquisito per effetto della suddetta opzione non può essere mantenuto indefinitamente, anche dopo
successivi passaggi ad altri datori di lavoro privati. Il tenore letterale e la ratio della disposizione
di legge al proposito sono “inequivocabili”: la vicenda considerata è il transito del lavoratore dal
settore pubblico a quello privato, e la giustificazione della prerogativa a lui attribuita (la facoltà di
opzione) è rappresentata dal trasferimento all’entità privata delle funzioni già esercitate dalla entità
pubblica (e alla quale il lavoratore ha aderito). D’altra parte, si tratta di norma che fa eccezione alla
regola, e, dunque, di stretta interpretazione. Ne consegue che, in via di principio, l’eventuale passaggio dell’ex dipendente pubblico alla dipendenza di altro datore di lavoro privato implica il suo
automatico assoggettamento, dalla data di tale successivo passaggio, al regime previdenziale
dell’INPS; e la cessazione, dunque, da quella stessa data, degli effetti dell’opzione da lui (eventualmente) esercitata, ai sensi dell’art. 5, comma 1, legge n. 274 del 1991. Se questa deve ritenersi
la giusta conclusione, considerarla tassativa potrebbe, però, risultare semplicistico: le vicende modificative in esame possono articolarsi nei modi più vari, sicché non è detto che non possano darsi
situazioni concrete, giustificative, in ipotesi, di soluzioni diverse (pur nel rispetto della ratio della
norma). Ed un caso di tale tipo appare essere, infatti, quello, non infrequente, che consegue alla
costituzione, per fusione o incorporazione, di una nuova società per azioni che acquisisca il personale già in forza presso le società inglobate, già destinatarie, a loro volta, delle “funzioni” in precedenza esercitate dall’ente pubblico; ma tale potrebbe essere anche il caso, inverso, cioè quello
conseguente alla scorporazione o scissione parziale dalla società originaria, o quello del passaggio
del personale di società costituita per la gestione di un servizio pubblico locale ad altra società
anch’essa destinataria di funzioni già svolte da ente o azienda pubblica. In tali ipotesi, infatti, la
prosecuzione degli effetti dell’opzione non contraddice, di per sé, la finalità razionalizzatrice e
semplificatrice dell’opzione consentita dalla norma; e, d’altra parte, dal tenore letterale della disposizione stessa non risulta affatto che la vicenda considerata – attribuzione “per effetto di norme
di leggi di regolamenti o convenzioni” a società private delle “funzioni” già esercitate dagli enti
pubblici o dalle aziende municipalizzate o consortili – debba concretizzarsi necessariamente unico
actu: cioè, senza possibilità di passaggi intermedi, o successivi svolgimenti, o adattamenti a processi di razionalizzazione organizzativa. Dunque ben può ipotizzarsi la conservazione, nelle suddette ipotesi, degli effetti dell’opzione esercitata anche dopo il “passaggio” ad altra entità privata,
nel sostanziale rispetto della finalità della norma. Una ulteriore “variabile” – e, dunque, un ulteriore elemento di complicazione del già difficile quadro – si può manifestare, peraltro, nell’ipotesi in
cui, ricorrendo la vicenda di reiterato trasferimento suddescritta, l’attività “ceduta” sia rappresentata da un’attività che non costituisse parte essenziale di quanto già formava oggetto del pubblico
servizio, bensì attività “accessoria” di quello, e sia, comunque, ormai integralmente “liberalizzata”
dal legislatore. Particolarmente rappresentativa, al proposito, va giudicata l’ipotesi di scorporo e
trasferimento ad altra soggettività privata dell’attività di vendita del gas, posto che, oggi, dopo il
d.lgs. n. 164 del 2000 (c.d. decreto Letta), “le attività di importazione, esportazione, trasporto e
dispacciamento, distribuzione e vendita di gas naturale” (art. 1) risultano, appunto, totalmente libere; ma va tenuto conto anche del fatto che la legge finanziaria per il 2002 stabilisce (art. 23, a
modifica dell’art. 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al d.lgs.
n. 267 del 2000) che, in generale, l’erogazione dei servizi venga separata dalla gestione di reti e di
impianti e si attui, in via di principio, in regime di concorrenza, sicché la suddescritta situazione
appare suscettibile di generalizzazione. Non è facile dire a priori se il personale addetto a tale attività commerciale, che venga trasferito ad altra entità privata, possa o meno conservare gli effetti in
questione, e, quindi, conservare, anche dopo detto, ulteriore passaggio, l’iscrizione al regime previdenziale, per il quale abbia optato; invero, sembra da escludere che fattore decisivo per la soluzione di tale dilemma possa risultare il carattere “accessorio” dell’attività in questione: infatti, la
norma (lettera b del comma 1 dell’art. 5) fa generico riferimento all’attribuzione di “funzioni esercitate dai citati enti pubblici ed aziende”, sicché, non distinguendo essa tra funzioni principali e
funzioni secondarie o accessorie, neppure l’interprete deve distinguere. Resta il fatto, però, che
quella particolare attività, per effetto della intervenuta liberalizzazione commerciale del settore che
la riguarda, può dirsi che abbia perso, nei fatti, ogni giustificazione che possa in qualche modo ri-
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conservare il regime pensionistico della gestione ex INPDAP viene perduta quanto il lavoratore passa alle dipendenze di altro datore di lavoro privato, posto che la facoltà accordata al proposito
dalla legge si esaurisce nel momento in cui i “dipendenti (...)
transitano a società private”.
14. I fondi speciali
E’ da ritenere che le disposizioni innovative dettate dalla legge
n. 214 non si applichino ai lavoratori iscritti al soppresso Fondo
di previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto, che rivestano la qualifica di “personale viaggiante”. Ciò,
in ragione della mancata abrogazione dell’art. 3, comma 6, d.lgs.
n. 414 del 1996, che, in materia di età pensionabile, conferma al
proposito (giusto l’art. 5, d.lgs. n. 503 del 1992) l’età pensionabile di 60 anni per gli uomini e di 55 anni per le donne (così circ.
INPS n. 35 del 2012 cit.).
Per quanto riguarda gli iscritti al Fondo di previdenza per il
personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, il
diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia, dovendosi ritenere la perdurante operatività dell’art. 3, comma 7, d.lgs. n. 164 del
1997, si consegue con un requisito anagrafico ridotto di 5 anni,
rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale
obbligatorio, giuste le innovazioni apportate al proposito dalla
legge n. 214. Resta in vigore la norma (art. 3, comma 11, del suddetto decreto) che consente a coloro che si siano iscritti a detto
Fondo dopo il 31 dicembre 1995 di aggiungere alla propria età
anagrafica, ai fini del conseguimento dell’età pensionabile e per
l’applicazione dei coefficienti di trasformazione di cui alla legge
n. 335 del 1995 un anno ogni cinque anni interi di lavoro svolto
con obbligo di iscrizione al Fondo fino ad un massimo di cinque
anni; anche in tal caso, peraltro, l’età anagrafica minima per il
pensionamento resta quella suindicata. Inoltre, a condizione che
chiamare il collegamento con il servizio pubblico (originario): sicché, superata la fase della “privatizzazione” (e l’eventuale, relativo periodo transitorio) e realizzato, dunque, l’obiettivo primario,
qualsiasi ulteriore iniziativa di “trasferimento” appare ben difficilmente ricollegabile alla vicenda,
che, sola, giustifica l’“eccezione” ai criteri di ripartizione tra i regimi previdenziali esistenti, rappresentata dall’opzione della quale ci stiamo occupando.
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possa far valere 20 anni di contribuzione obbligatoria e volontaria
al Fondo (ovvero 15 anni se appartenente alla categoria dei tecnici di volo o dei piloti collaudatori), l’iscritto al Fondo può richiedere e ottenere la corresponsione della pensione anticipata con
requisiti anagrafici e contributivi ridotti rispetto a quelli previsti
dalla legge n. 214, pari ad un anno ogni cinque interi di lavoro
svolto, fino ad un massimo di cinque anni (cfr. circ. INPS cit.).
La previgente normativa in materia di età anagrafica di pensionamento (ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 503 del 1992), continua a
trovare applicazione per le categorie di lavoratori marittimi ivi
previste (60 anni per gli uomini, 65 per le donne). La pensione
anticipata di vecchiaia può essere ottenuta a 55 anni di età a condizione della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 31, legge n.
413 del 1984. Ai sensi della legge n. 122 del 2010, continuano ad
applicarsi le disposizioni in tema di decorrenza del trattamento
pensionistico nei confronti di quei lavoratori marittimi (piloti di
porto), per i quali venga meno il titolo abilitante allo svolgimento
della specifica attività lavorativa per raggiungimento del limite di
età (cfr. messaggio INPS n. 1256 del 2011).
Le nuove disposizioni relative all’accesso alle prestazioni pensionistiche si applicano (art. 24, comma 18) anche ai lavoratori
iscritti al Fondo speciale ferrovie; pertanto, sono sostituiti dai
nuovi i limiti di età previsti per l’accesso di vecchiaia dalla precedente disciplina, in via differenziata a seconda dell’attività
svolta (58, 60 o 62 anni per il personale viaggiante e di macchina;
65 o 66 anni per il restante personale). Anche in tal caso si applicano in aggiunta i periodici adeguamenti agli incrementi della
speranza di vita.
L’ente previdenziale (v. circ. INPS n. 35 del 2012) sostiene che
per gli iscritti a detto Fondo, così come per gli iscritti al Fondo di
quiescenza poste, non si applica più la pensione privilegiata per
causa di servizio. Il richiamo, al proposito, a quanto disposto in
merito dall’art. 6 della legge n. 214 evidenzia che l’Istituto,
nell’interpretare l’ambito soggettivo di riferimento di detta disposizione – ma la considerazione potrebbe essere riferita anche ad
altri istituti della riforma – che dettano discipline differenziate tra
lavoratori del settore pubblico e lavoratori del settore privato –,
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privilegia la provenienza “pubblicistica” degli enti a cui detti
Fondi si riferiscono, anziché la loro attuale natura di società per
azioni (parrebbe delinearsi, per tal via, un contrasto di fondo tra
INPS e Dipartimento della funzione pubblica: cfr. la più volte citata circ. n. 2 del 2012 di quest’ultima).
Il Fondo di previdenza per il clero secolare e per i ministri di
culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica non viene
menzionato dalla legge di riforma; stante la particolare ratio di
detto Fondo, la sua giustificazione storica e il fatto che i relativi
iscritti non sono in senso proprio “lavoratori”, è da escludere che
ad esso si applichi la nuova disciplina (cfr., in tal senso – ma senza fornire spiegazioni – circ. INPS n. 35 del 2012, punto 11.6).
Le nuove disposizioni si applicano anche al Fondo di previdenza per il personale addetto alle imposte di consumo, nonché al
soppresso Fondo di previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di telefonia e al soppresso Fondo di previdenza per i
dipendenti dell’Enel e delle aziende elettriche private; per questi
ultimi, valgono la già ricordata (punto 4) disciplina innovativa in
tema di ricongiunzione onerosa.
Le innovazioni dettate dalla legge n. 214 si applicano, infine,
anche ai Fondi integrativi, e, quindi, anche agli iscritti alle gestioni di previdenza per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette, oltre che agli iscritti al Fondo di previdenza per personale dell’ex Consorzio autonomo del Porto di Genova e del personale dell’ex Fondo autonomo del Porto di Trieste.
15. Regime dei liberi professionisti
Disposizione con fini di armonizzazione – dopo quella adottata
dall’art. 14, legge n. 111 del 2011, attraverso l’estensione allo
specifico settore delle funzioni di vigilanza della COVIP – risulta
essere, in fondo, anche quella contenuta nell’art. 24, 24° comma,
che impone alle casse di previdenza dei liberi professionisti di
adottare misure atte ad assicurare l’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni, attraverso bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di cinquanta anni: pena, in difetto, l’espressa comminato-
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ria di assoggettamento autoritativo anche degli iscritti alle relative
gestioni all’applicazione, in pro rata, al calcolo contributivo alle
relative pensioni, e di imposizione di un contributo di solidarietà.
E’ da notare, però, innanzitutto, che, di fatto, il precetto, nonostante la formulazione “generalizzante”, non è concretamente applicabile alle casse costituite ai sensi del d.lgs. n. 103 del 1996 (e
dunque nate “private”, a differenza di quelle già pubbliche e “privatizzate” dal d.lgs. n. 509 del 1994), giacché le stesse hanno adottato ab origine il criterio di calcolo contributivo.
In secondo luogo, va osservato che l’adozione, di per sé sola,
del metodo contributivo non può rappresentare la panacea di situazioni di squilibrio di una gestione pensionistica, specie se di
carattere “professionale”, come quello in riferimento; così come è
esigenza di riequilibrio, riferita a bilanci tecnici, non può essere
soddisfatta dalla semplice corrispondenza tra entrate contributive
e spesa per le pensioni, ma, a rigore, dovrebbe comportare la presa in carico di tutte le componenti finanziarie dello specifico regime previdenziale, compresi gli investimenti immobiliari.
16. La previdenza complementare
La previdenza complementare è considerata solo indirettamente
dalla legge n. 214. Ciò non significa, però, che detta legge non sia
destinata a produrre apprezzabili effetti anche sul particolare
segmento dell’ordinamento pensionistico rappresentato dai fondi
pensione.
E’ evidente, innanzitutto, che l’elevazione dell’età pensionabile
è destinata a ridurre, di per sé, il flusso delle erogazioni a carico
di quei fondi; per altro verso, però, l’ulteriore contrazione degli
importi delle pensioni “di base” che la riforma comporta, è destinata ad avere, come contraltare (almeno in via di principio), un
incremento degli importi delle pensioni “complementari”. Una situazione “fattuale” della quale non potrà non tenersi conto, d’ora
in poi, nella gestione di quei fondi.
Un riferimento espresso alla specifica materia è presente, comunque, là dove la legge (art. 24, 28° comma), sia pure preoccupandosi di rassicurare circa il “rispetto degli equilibri e compati-
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bilità”, prende in considerazione la possibilità di introdurre forme
di “decontribuzione parziale dell’aliquota obbligatoria verso
schemi previdenziali integrativi, in particolare a favore delle
nuove generazioni”.
Ciò può voler dire che, di fatto, il recente legislatore, pur senza
dichiararlo espressamente, sconta la praticabilità, se non di vere e
proprie forme di opting out a favore dei giovani, di soluzioni che,
pur non essendo altrettanto dirompenti, comportino comunque
una sorta di “riposizionamento” degli equilibri del sistema previdenziale nelle sue due componenti “di base” e “complementare”.
In sostanza, appare ricavabile da detta disposizione l’implicita
ammissione della possibilità di accentuare il peso dei conti individuali a capitalizzazione, a scapito delle risorse gestite in base al
criterio a ripartizione: cioè, a scapito del criterio che storicamente
caratterizza e distingue il vigente sistema finanziario delle assicurazioni sociali.
Quanto sopra, potrebbe anche essere letto come un passo nella
direzione della possibilità di conversione all’obbligatorietà anche
del secondo pilastro dell’ordinamento pensionistico nazionale; il
quale, dunque, potrebbe, per tal via, ricomporsi ad unità, proprio
attraverso la suddivisione in “porzioni” – l’una gestita “a capitalizzazione” e l’altra gestita “a ripartizione” – da regolare, però,
sostanzialmente secondo gli stessi criteri.
Come è evidente, però, si tratta di scenario che presuppone
l’elaborazione (e l’accettazione) di un progetto innovativo “globale”, ancora tutto da delineare e discutere.
17. Generalizzazione degli adeguamenti all’allungamento della
vita media: lavori usuranti, assegno sociale, pensioni di invalidità civile
Come già ricordato, per espressa, tassativa disposizione (art. 24,
12° comma), a tutti i requisiti anagrafici suddetti – e, dunque (con
razionalità che, però, appare dubitabile), anche agli addetti alle
lavorazioni particolarmente faticose e usuranti – si applicano gli
adeguamenti alla speranza di vita, che l’art. 12, legge n. 122 del
2010, così come modificato dalla legge in riferimento, detta sol-
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tanto unidirezionalmente: nella prospettiva, cioè, dell’“accrescimento” di detta speranza di vita.
Tale unidirezionale prospettiva, però, se può considerarsi valida
per la generalità della popolazione, non è detto che lo sia altrettanto per categorie particolari di lavoratori, quali, appunto, gli addetti alle suddette lavorazioni, per i quali la prosecuzione
dell’attività nociva non favorisce di certo l’allungamento della vita, ma semmai (ulteriormente) l’accorcia.
La suddetta “regola”, proprio per il suo carattere generale, appare destinata ad incidere, inoltre, anche su quella particolare prestazione pensionistica – ma non di natura previdenziale – che è
l’assegno sociale per i cittadini sprovvisti di reddito, anch’esso
preso in considerazione, infatti, dalla legge in esame, che ne eleva
il requisito anagrafico a 66 anni a decorrere dal 2018 (art. 24, 8°
comma), e a 65 e 3 mesi già dal 2013.
E anche l’età di accesso alla pensione per gli invalidi civili –
nonostante, anche in tal caso, la natura indubitabilmente assistenziale, – è destinata a lievitare (invero, con dubbia razionalità) in
relazione all’incremento nel tempo della speranza di vita media.
Un’“ombra” (se vogliamo e, forse, non del tutto marginale) che
si proietta sullo scenario – già di pesante rigore – aperto dalla riforma, perché riguarda le tutele dei più bisognosi, e, comunque,
di situazioni particolari che, se separatamente considerate (come
sembrerebbe giusto), è assai probabile che risultino non partecipi
del suddetto processo di allungamento della vita. Né è da escludere che la regolamentazione di tali situazioni sia destinata ad inasprirsi ulteriormente per effetto delle nuove modalità che la legge
in esame detta (art. 5) per determinazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente, o ISEE, destinato, appunto, a
“giustificare” (anche) le prestazioni di natura assistenziale.
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