Lezione di Diritto Amministrativo n. 4

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Lezione di Diritto Amministrativo n. 4
LEZIONE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO 4
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
a cura di Massimiliano Di Pirro
Sul manuale: i principi generali del procedimento amministrativo (L. 241/1990); il
responsabile del procedimento; le fasi del procedimento; l’accesso ai documenti; la
conclusione del procedimento; semplificazione amministrativa e liberalizzazione delle
attività private.
Sommario
1. Gli atti endoprocedimentali.
2. Il tempo del procedimento e il ritardo procedimentale.
2.1. Il potere di sospensione degli atti amministrativi (art. 21quater L. 241/1990).
3. La motivazione del provvedimento amministrativo e l’integrazione della motivazione nel
corso del processo.
4. Il potere di autotutela.
4.1. Sull’istanza di autotutela la PA non ha l’obbligo di provvedere.
5. Il procedimento illegittimo di aggiudicazione degli appalti pubblici fa scattare la
responsabilità oggettiva della P.A.
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1. Gli atti endoprocedimentali. La L. 241/1990 fissa alcuni principi fondamentali in
materia di procedimento amministrativo:
- l’attività amministrativa deve essere ispirata a criteri di economicità, efficacia,
imparzialità, pubblicità e trasparenza;
- l’amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dalla doverosa attività istruttoria;
- tutti i procedimenti amministrativi devono concludersi con un provvedimento espresso;
- tutti i provvedimenti amministrativi devono essere motivati.
Tuttavia, anche prima della L. 241/1990 i principi di legalità, imparzialità e buon
andamento, predicati dall’art. 97 Cost., sono stati sempre ritenuti immediatamente cogenti e
direttamente applicabili all’azione della pubblica amministrazione. In particolare, sono stati
ritenuti illegittimi gli atti e i provvedimenti (sfavorevoli agli interessi dei privati) privi di
adeguata motivazione o non supportati da un’adeguata motivazione (Cons. Stato, sez. V, n.
158/1990, n. 580/1988) e quelli che determinano un ingiustificato arresto procedimentale,
rinviando sine die il doveroso esercizio della funzione amministrativa. Inoltre, è stata
sempre affermata la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento quando
l’amministrazione interponga un ingiustificato ritardo nel provvedere sull’istanza
legittimamente proposta dal privato, arrecandogli un pregiudizio (Cons. Stato, VI, 2-71987).
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Problemi particolari ha suscitato, nello studio della disciplina sul procedimento
amministrativo, il regime degli atti endoprocedimentali, ossia degli atti preparatori del
procedimento che precedono il provvedimento conclusivo. Tali atti:
- di regola, non possono essere impugnati disgiuntamente dal provvedimento finale del
procedimento in cui si inseriscono;
- sono immediatamente impugnabili soltanto se sono idonei a interrompere definitivamente
il procedimento, ossia se sono preclusivi delle aspirazioni dell’istante o comunque di uno
sviluppo diverso e per esso maggiormente favorevole.
Tra gli atti endoprocedimentali dotati di autonoma lesività, da impugnare immediatamente a
pena di decadenza, si annoverano anche i c.d. atti soprassessori, ossia gli atti che rinviano
il soddisfacimento dell’interesse del privato a un evento futuro e incerto nell’an e nel
quando. In tutte queste ipotesi, ciò che conta è l’effetto preclusivo del successivo sviluppo
del procedimento (Cons. di Stato, IV, 1829/2012), cioè il fatto che l’atto, lungi dal definire il
procedimento secondo l’obbligo imposto dall’art. 2 L. 241/1990, ha indebitamente
procrastinato la conclusione dell’istruttoria in danno dell’interessato (Tar Marche
704/2011).
L’impugnabilità autonoma e immediata dell’atto endoprocedimentale, in quanto costituisce
un’eccezione alla regola secondo la quale gli atti endoprocedimentali possono essere
impugnati soltanto insieme al provvedimento conclusivo del procedimento (Cons. giust.
amm. sic., 30-5-2012, n. 472), è rigorosamente circoscritta ed è ammessa, ad esempio,
quando l’atto endoprocedimentale produca una stasi procedimentale tale da impedire
sicuramente il conseguimento dell’utilità che il privato attende dal procedimento in
itinere (Tar Campania-Napoli n. 5161/2008). Infatti, ogni dato acquisito nella fase istruttoria
è provvisorio e quindi può essere corretto senza particolari formalità, diventando stabile e
definitivo solo quando viene assunto come contenuto dell’atto conclusivo.
Tra gli atti endoprocedimentali immediatamente impugnabili assumono particolare rilievo
gli atti amministrativi provvisori, ovvero gli atti emanati da organi straordinari o
commissioni tecniche idonei a imprimere un indirizzo ineluttabile al procedimento. Tali
atti preannunciano il tenore della futura decisione amministrativa e sono destinati a essere
sostituiti dal provvedimento definitivo, e la loro impugnazione immediata costituisce
un’eccezione alla regola, sicché l’impugnazione immediata deve essere esclusa se l’atto
provvisorio non è idoneo a imprimere una determinata direzione al procedimento.
Ad esempio, la comunicazione inviata da un dirigente comunale a un soggetto che ha
presentato un piano urbanistico attuativo, dalla quale si evince che l’amministrazione non
approverà il piano per la mancanza della titolarità delle aree, pur costituendo un arresto
procedimentale, deve considerarsi una mera comunicazione interlocutoria tra le parti. La
comunicazione circa la mancanza dei requisiti deve essere allora collocata nell’ambito della
fase istruttoria, essendo diretta a sollecitare l’impresa destinataria a colmare le irregolarità
riscontrate, a ottenere la documentazione richiesta e, quindi, a determinare una legittima
approvazione del Piano (Tar Veneto 1116/2012).
Per quanto riguarda il trattamento processuale, la giurisprudenza afferma che, al pari
dell’atto che determina un arresto procedimentale, l’atto provvisorio è solo
facoltativamente impugnabile, poiché l’atto effettivamente lesivo è quello conclusivo del
procedimento, da impugnare in ogni caso.
Ad esempio, la mancata impugnazione dell’ordine di sospensione dei lavori edili non rende
inammissibile la successiva impugnativa dell’ordine di demolizione, poiché il
provvedimento sospensivo ha carattere provvisorio, è fondato su un’istruttoria sommaria ed
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è produttivo di una temporanea lesione della sfera giuridica del privato, mentre l’altro
provvedimento costituisce l’atto finale del relativo procedimento e ha alla base un’adeguata
istruttoria, con definitiva lesione della sfera del privato (Tar Emilia-Romagna, Bologna, n.
464/2012).
Il problema dell’impugnazione facoltativa degli atti endoprocedimentali si è posto con
riferimento al rapporto tra aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva delle
gare d’appalto.
L’aggiudicazione provvisoria di un appalto pubblico ha natura di atto endoprocedimentale,
ad effetti ancora instabili e interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del
soggetto non aggiudicatario, lesione che si verifica solo con l’aggiudicazione definitiva, che
non costituisce un atto meramente confermativo della prima, comportando comunque una
nuova e autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti. Da ciò scaturisce che è
improcedibile il ricorso contro l’aggiudicazione provvisoria qualora non sia stata impugnata
l’aggiudicazione definitiva, benché conosciuta, con conseguente consolidarsi degli effetti di
quest’ultima, (Cons. Stato, V, 3671/2011).
Nella sequenza aggiudicazione provvisoria-aggiudicazione definitiva, in presenza di vizi
accertati dell’atto presupposto (quale è l’aggiudicazione provvisoria), deve riproporsi la
distinzione fra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante. Solo
l’invalidità ad effetto caducante comporta il travolgimento dell’atto a valle
indipendentemente dalla relativa impugnazione, e tale situazione si verifica normalmente
quando l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza
procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove
ed ulteriori valutazioni di interessi. Detto effetto caducante non intercorre fra
l’aggiudicazione provvisoria e l’aggiudicazione definitiva, in ragione degli effetti ancora
instabili e meramente interinali dell’aggiudicazione provvisoria e del complesso di verifiche
e accertamenti che spettano all’amministrazione dopo l’aggiudicazione provvisoria e prima
dell’aggiudicazione definitiva (sull’inidoneità a ingenerare qualunque affidamento tutelabile
con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell’operato
della p.a., Cons. Stato, VI, 195/2012).
Tuttavia, stabilire se tra l’atto presupposto e quello conseguenziale vi sia o meno quel
collegamento intimo, requisito imprescindibile del travolgimento automatico del secondo a
seguito dell’annullamento del primo, è tutt’altro che agevole: il criterio distintivo fondato
sulla diversa intensità che contraddistingue il nesso di presupposizione o di derivazione
intercorrente tra i due atti è talmente labile da consentire scelte di politica giurisprudenziale
assai mutevoli e non sempre coerenti (SAITTA).
2. Il tempo del procedimento e il ritardo procedimentale. Ai sensi dell’art. 2, co. 1, L.
241/1990, nei casi in cui disposizioni di legge non prevedono un termine diverso, i
procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici nazionali devono concludersi entro 30 giorni dall'inizio del procedimento d'ufficio
o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è su iniziativa di parte.
Il solo ritardo nell’emanazione di un atto è un elemento sufficiente per configurare un danno
ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo
lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento sia da concludere
con un provvedimento favorevole per il destinatario (Cons. Stato, IV, 1699/2010), in quanto
il tempo è un bene della vita per il cittadino e il ritardo nella conclusione di un
qualunque procedimento ha sempre un costo (Cons. Stato, V, 1271/2011).
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La giurisprudenza ha anche chiarito, inoltre, che la richiesta di accertamento del danno da
ritardo, ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento
favorevole, se da un lato deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi
pretensivi, dall’altro, in ossequio al principio di atipicità dell’illecito civile, costituisce una
fattispecie sui generis, di natura del tutto specifica e peculiare, che deve essere ricondotta
nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità.
Di conseguenza, l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di
principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo
nell’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art.
2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda (Cons. Stato, IV,
1406/2013, 2675/2011).
In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo
(prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello
di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero superamento del
termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce
un indice oggettivo ma non integra la piena prova del danno.
La valutazione che il giudice deve effettuare ai fini del risarcimento del danno è di natura
relativistica e deve tenere conto della specifica complessità procedimentale e di eventuali
condotte dilatorie, e quindi di sospensioni o rallentamenti ingiustificati e degli oneri
istruttori che abbiano ragionevolmente allungato l’iter decisionale (Cons. Stato, V,
1271/2011).
2.1. Il potere di sospensione degli atti amministrativi (art. 21quater L. 241/1990). Al
dovere di concludere il procedimento amministrativo previsto dall’art. 2 L. 241/1990 si
accompagna l’art. 21quater della legge medesima, il quale dispone che i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, sicché l’applicazione congiunta
delle due disposizioni configura, in esplicazione del principio di esecutorietà dei
provvedimenti amministrativi - ossia, della loro idoneità ad essere eseguiti, direttamente e
coattivamente, dall’amministrazione senza necessità di precostituire un titolo esecutivo
giudiziale - un potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva attuazione i
propri provvedimenti emessi al termine del procedimento (Cons. Stato, VI, 2565/2013).
L’efficacia immediata dei provvedimenti può essere, tuttavia, paralizzata
dall’Amministrazione, la quale, nell’esercizio del potere di autotutela di cui è titolare (e
che trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento postulati
dall’arti. 97 Cost.), può rivedere i propri precedenti provvedimenti amministrativi e, in
particolare:
- ritirarli quando siano viziati o inopportuni;
- sospenderne gli effetti, cautelativamente e temporaneamente, qualora ciò sia necessario
per consentire lo svolgimento dell’attività istruttoria e delle verifiche indispensabili per la
corretta assunzione della determinazione finale di riesame.
Tuttavia, affinché tale potere cautelare possa ritenersi correttamente esercitato, come del
resto previsto anche dall’art. 21quater, co. 2, L. 241/1990, è indispensabile che sussistano
gravi ragioni, cioè circostanze tali da rendere quantomeno inopportuno che un
provvedimento emanato, non inficiato da vizi macroscopici o facilmente riconoscibili,
continui a svolgere i propri effetti per evitare che questi possano definitivamente alterare e
compromettere il substrato fattuale sul quale incide.
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Proprio il richiamo ai gravi motivi che possono legittimare la sospensione degli effetti di un
provvedimento implica, peraltro, che il provvedimento di sospensione debba essere altresì
adeguato e proporzionato rispetto al fine concreto che con esso l’amministrazione intende
perseguire, con puntuale motivazione al riguardo.
Ad esempio, se l’Amministrazione sospende il pagamento di determinate somme a un
proprio dipendente, deve quantomeno dimostrare, anche soltanto a livello di meri indizi, che
il soggetto abbia tenuto una condotta illecita che abbia indotto l’Amministrazione a disporre
l’erogazione di quelle somme. Pertanto, la sola circostanza che alcuni dipendenti abbiano
posto in essere comportamenti fraudolenti, attraverso dichiarazioni non veritiere, per
conseguire vantaggi economici da una deliberazione dell’amministrazione, impone a
quest’ultima di adottare ogni provvedimento utile a evitare danni all’erario e alla sua stessa
immagine individuando direttamente ed esclusivamente i responsabili di tali comportamenti,
non potendo invece legittimarsi una generale sospensione dell’efficacia dell’atto di concreto
riconoscimento e di liquidazione di quel beneficio nei confronti di tutti i dipendenti
destinatari del provvedimento (Cons. Stato, V, 6507/2012).
Il potere di sospensione degli effetti dell’atto amministrativo precedentemente adottato,
previsto dall’art. 21quater L. 241/1990, non è un istituto generale di autotutela (al pari
dell’annullamento d’ufficio o della revoca), poiché configura una misura eccezionale a
carattere cautelare idonea a impedire autoritativamente la produzione degli effetti
pregiudizievoli di un provvedimento, in attesa della definizione della situazione o
dell’emanazione del definitivo provvedimento di autotutela.
Pertanto, deve ritenersi illegittima una sospensione sine die del provvedimento (Cons.
Stato, IV, 3276/2013).
3. La motivazione del provvedimento amministrativo e l’integrazione della motivazione
nel corso del processo. Ai sensi dell’art. 3, co. 1, L. 241/1990, ogni provvedimento
amministrativo deve essere motivato. Nella motivazione l’Amministrazione è tenuta a
illustrare i presupposti di fatto e le motivazioni giuridiche sulle quali si fonda l’esercizio del
potere, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, sia per rendere edotti i destinatari
dell’attività amministrativa del percorso seguito per giungere alla predetta decisione, sia per
consentire al giudice, eventualmente investito della questione, di sindacarne lo svolgimento
e l’esito finale.
Secondo la tesi prevalente, la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere
integrata nel corso del giudizio di annullamento del provvedimento, dovendo la motivazione
precedere e non seguire ogni provvedimento amministrativo.
Una parte della giurisprudenza, peraltro, è propensa a ritenere percorribile l’integrazione
della motivazione in corso di causa.
In primo luogo, una volta ammesso che l’Amministrazione possa essere potenzialmente
chiamata a rispondere in sede risarcitoria dell’illegittimità dei suoi atti, non sembra possibile
negarle, quando abbia riscontrato l’illegittimità nel proprio operato (e benché sia pendente al
riguardo un giudizio), il potere-dovere di intervenire per porvi rimedio allo scopo di
circoscrivere la propria responsabilità e limitare possibili danni per l’erario.
Non sembra dubbio che il principio del neminem laedere implichi, per tutti i soggetti di
diritto, privati e pubblici, chiamati a rispettarlo, un onere di attivarsi per far cessare la
situazione di illiceità che si sia cagionata e sia suscettibile di produrre ulteriori
conseguenze pregiudizievoli, pena altrimenti la dilatazione incontrollata del danno che
potrebbe dover essere risarcito.
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Pertanto, una volta ammessa in termini generali la possibilità che anche dall’esercizio delle
attività provvedimentali della P.A. possano scaturire illeciti ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
appare conseguente ritenere che l’Amministrazione debba poter esercitare un ampio ius
poenitendi in autotutela: diversamente, verrebbe violato il principio di parità tra le parti del
processo, poiché la pendenza del ricorso del privato impedirebbe all’Amministrazione di
assumere iniziative di diligenza a difesa (oltre che della legalità) dei propri interessi anche
patrimoniali.
Gli ostacoli opposti alla possibilità di interventi di sanatoria in pendenza di giudizio
traggono origine, come è noto, più che da perplessità di diritto sostanziale, da remore legate
alla struttura tradizionale del giudizio impugnatorio, dalla circostanza, cioè, che un nuovo
intervento provvedimentale dell’Amministrazione in funzione di sanatoria stravolgerebbe la
posizione di parità delle parti in causa, ponendo autoritativamente fine alla controversia e
costringendo il privato a ripartire da zero con una nuova impugnativa, in una defatigante
spirale che potrebbe non conoscere mai fine e finirebbe per svuotare la garanzia
giurisdizionale di ogni contenuto. Da ciò la conclusione che iniziative di autotutela
sarebbero illegittime perché violerebbero il diritto dell’interessato di vedere deciso il
giudizio con l’annullamento del provvedimento viziato.
In realtà, l’adozione di un ulteriore provvedimento inteso a emendare un vizio dell’atto
impugnato non pone automaticamente fine al relativo giudizio ma abilita semplicemente
l’interessato a integrare la sua originaria impugnativa mediante motivi aggiunti. Non vi è,
pertanto, il pericolo che il provvedimento di autotutela con funzioni di sanatoria vanifichi il
diritto costituzionale di azione e di difesa in giudizio.
D’altra parte, ove l’Amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di
sanatoria intenda avvalersi di tale facoltà, non sembra possa esserle opposto il diritto
dell’interessato di ottenere a ogni costo l’annullamento giurisdizionale del provvedimento
viziato, poiché il processo amministrativo è un giudizio (non soltanto sull’atto, ma anche)
sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento del giudice deve
investire, più che la legittimità formale del singolo provvedimento, il grado di fondatezza
delle aspettative e delle correlative pretese che costituiscono la materia del singolo rapporto
di diritto amministrativo.
Perciò il ricorrente, in pendenza del giudizio, così come è in grado di beneficiare di un
rinnovato esercizio del potere amministrativo in una direzione a lui favorevole - con l’esito
di una cessazione della materia del contendere -, può anche, simmetricamente, essere posto
di fronte a un nuovo provvedimento diretto semplicemente a emendare un vizio del
precedente atto, non ritirandolo, quindi, ma soltanto sanandolo. Del resto, è contraddittorio
consentire all’Amministrazione di intervenire con un atto di ritiro e disconoscerle, invece, la
possibilità di una semplice riforma del provvedimento (Tar Campania, Salerno, n.
4022/2009).
4. Il potere di autotutela. In applicazione dei principi generali, all’organo competente
all’adozione del provvedimento finale spetta anche il potere di verifica della legittimità delle
fasi pregresse del procedimento, laddove ravvisi incongruenze e violazioni di legge
procedimentale o sostanziale.
Questo riesame della legittimità di precedenti provvedimenti è finalizzato a garantire, con
l’adozione del contrarius actus, i principi di legalità, efficacia, imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa (Cons. Stato, III, 3452/2013).
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Con particolare riferimento gli appalti pubblici, deve osservarsi che tutti gli atti di gara, a
partire dal bando per finire all’aggiudicazione definitiva, possono formare oggetto di
ritiro in via di autotutela.
Tale principio è stato consacrato dall’art. 11, co. 9, D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti
pubblici), che nel disciplinare il termine finale per la stipulazione del contratto fa salvo il
potere di autotutela dell’amministrazione: la disposizione chiarisce quale sia, per la stazione
appaltante, la portata del vincolo derivante dall’intervenuta aggiudicazione.
L’amministrazione non è, infatti, incondizionatamente tenuta alla stipulazione del contratto,
ma l’impegno conseguente alla definitiva individuazione dell’aggiudicatario può essere
eliminato attraverso l’esercizio del potere di autotutela.
Peraltro, già prima del Codice dei contratti pubblici si era riconosciuto che, nei procedimenti
di gara, al di là degli atti tipici finalizzati a verificare la legittimità dell’iter di formazione del
contratto (quali l’approvazione e l’eventuale controllo), dovesse ritenersi vigente il generale
principio dell’autotutela decisoria; pertanto, in aggiunta agli strumenti tipici di verifica
immediata dell’attività compiuta dall’amministrazione, deve ritenersi consentito l’esercizio
del generale potere di riesame in un momento successivo alla conclusione del procedimento;
dunque, l’estrinsecazione del potere di autotutela della p.a. non incontra alcun limite
insuperabile nella convenzione intervenuta con il privato: i diritti e i doveri delle parti
derivanti dall’accordo non sottraggono l’atto amministrativo presupposto al potere di
autotutela.
L’immanenza del potere di autotutela decisoria trova fondamento:
a) nel principio costituzionale di buon andamento e imparzialità della funzione pubblica,
senza che, a tal fine, occorra una diffusa motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico;
b) nel principio di diritto comune enucleato dall’art. 1328 c.c., in base al quale la proposta di
concludere il contratto (qual è l’atto di indizione della gara, ancorché espressa in forma
pubblicistica e subordinata all’osservanza delle regole procedimentali per la scelta del
contraente), è sempre revocabile fino a che il contratto non sia concluso.
Peraltro, le caratteristiche del potere di autotutela decisoria in materia di procedure di
appalto devono essere coordinate con i vincoli scaturenti dalla sentenza di annullamento
degli atti di gara.
In linea generale, il rapporto di incidenza fra autotutela amministrativa e sentenza di
annullamento non deve essere risolto aprioristicamente (con l’affermazione assoluta della
prevalenza della seconda sul primo) ma affidato, in concreto, al riscontro dell’esatta
portata della sentenza e del bene della vita riconosciuto; ad esempio, non elude la
sentenza di annullamento degli atti di gara la la p.a. che indica una nuova gara introducendo
prescrizioni nuove e prevedendo una durata dell’appalto diversa da quella originariamente
concepita per la gara i cui atti di procedura siano stati annullati dal giudice amministrativo
(Cons. Stato, V, 1054/2012).
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4.1. Sull’istanza di autotutela la PA non ha l’obbligo di provvedere. Secondo la
giurisprudenza prelevante, la PA non ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera
esplicita su una diffida diretta a ottenere provvedimenti in autotutela, poiché l’attività di
autotutela è espressione di ampia discrezionalità e, come tale, è incoercibile dall’esterno.
Sulla non percorribilità della procedura del silenzio-rifiuto con riferimento a domande
dirette a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela è principio giurisprudenziale
consolidato quello per cui non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi
su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile
dall’esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto
amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto dall'art.
117 Cod. processo amministrativo; infatti, il potere di autotutela si esercita
discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito
dell’Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte,
aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere (Cons.
Stato, VI, 4308/2010).
In questa prospettiva non pare inutile aggiungere che:
- l’art. 21nonies L. 241/1990, nell’affermare che il provvedimento amministrativo illegittimo
può essere annullato d’ufficio sussistendone le ragioni di interesse pubblico, rimette la scelta
sull’annullamento a un apprezzamento di natura preventiva affidato alla P. A.;
- opinare diversamente, ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di un’istanza
diretta a sollecitare l’esercizio della potestà di autotutela, l’Amministrazione è obbligata a
una pronuncia esplicita sull’istanza medesima, attraverso l’utilizzo dell’istituto del silenziorifiuto e dello strumento processuale di cui agli artt. 31 e 117 Codice proc. amm., vorrebbe
dire neutralizzare, in pratica, la condizione di inoppugnabilità del provvedimento
amministrativo che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di legge, vanificando
una garanzia di certezza dei rapporti giuridici che vedono coinvolta una P. A. (certezza che è
essa stessa un bene irrinunciabile posto a tutela anche dei cittadini), e avvilendo lo stesso
principio di economicità dell’azione amministrativa, che verrebbe posto nel nulla laddove si
imponesse, a semplice richiesta dell’interessato, l’obbligo di riesame di provvedimenti non
impugnati. L’istanza di provvedere in autotutela non può costituire, cioè, un escamotage per
eludere la decadenza dei termini per impugnare i provvedimenti (Cons. Stato, V,
5199/2012).
5. Il procedimento illegittimo di aggiudicazione degli appalti pubblici fa scattare la
responsabilità oggettiva della P.A. La Corte di giustizia europea, con sentenza del 30-92010, C-314/09, ha affermato che la normativa europea che regola le procedure di ricorso in
materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi non
consente di subordinare il risarcimento del danno all’accertamento della colpa della P.A.
In altre parole, la regola europea vigente in materia di risarcimento dei danno per
illegittimità accertate in materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti
illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una responsabilità oggettiva,
funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione
della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici.
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Tale regola non può essere circoscritta ai soli appalti europei ma deve estendersi, in quanto
principio generale di diritto europeo in materia di effettività della tutela, a tutto il campo
degli appalti pubblici, nei quali i principi del diritto europeo hanno diretta rilevanza e
incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel
Codice appalti (art. 2 D.Lgs. 163/2006).
Per certi versi, in questo settore viene i rilievo il modello, lungamente adottato dalla
giurisprudenza della Cassazione, della colpa in re ipsa, che obliterava l’elemento soggettivo
(dolo/colpa) nell’illecito provvedimentale, ritenendolo implicito nell’illegittimo esercizio
della funzione o nell’esecuzione di un atto illegittimo.
L’ordinamento europeo dimostra che ciò che rileva è l’ingiustizia del danno e non
l’elemento della colpevolezza; ciò determina la creazione di un diritto amministrativo
comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello europeo, in
applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni e costituiscono una sorta
di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti.
In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano
sostituiti da principi caratterizzati da più larga acquisizione, poiché il ravvicinamento e
l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello
della responsabilità piena della P.A. senza aree di franchigia.
Peraltro, l’assenza, nella disciplina europea degli appalti, di qualsiasi riferimento
all’elemento soggettivo della responsabilità, lungi dall’essere una dimenticanza si spiega
ponendo mente al fatto che, di norma, la via del risarcimento per equivalente è percorsa
qualora risulti preclusa quella della tutela in forma specifica: la reintegrazione in forma
specifica rappresenta l’obiettivo primario da perseguire e il risarcimento per equivalente
costituisce una misura residuale, subordinata all’impossibilità parziale o totale di giungere
alla correzione del potere amministrativo.
In tal modo, dunque, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira,
ossia la riedizione della gara o l’aggiudicazione definiva, può aspirare alla monetizzazione
del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse resa (dalla
normativa nazionale) impraticabile o assolutamente impervia, subordinando il risarcimento
del danno al riscontro della colpa della stazione appaltante, il privato rischierebbe di restare
sprovvisto di qualsiasi forma di tutela.
Ciò porta a ritenere, in materia di appalti pubblici (anche non di importo comunitario), che,
da un lato, non può gravare sul ricorrente danneggiato l’onere di provare che il danno
derivante dal provvedimento amministrativo illegittimo sia conseguenza di un
comportamento colposo della PA e, dall’altro lato, che l’amministrazione non può sottrarsi
all’obbligo di risarcire i danni cagionati da un suo provvedimento illegittimo adducendo
l’inesistenza a proprio carico di elementi di dolo o di colpa, poiché ogni danno che sia
conseguenza immediata e diretta della violazione di norme in tema di appalti pubblici può,
per ciò solo, definirsi ingiusto e, come tale, meritevole di risarcimento (Cons. Stato, V,
5686/2012).
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Manuale di Diritto Amministrativo
Vol. 4 – Ed. 30°