Non tutti gli anarchici hanno la Ferrari

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Non tutti gli anarchici hanno la Ferrari
Non tutti gli anarchici
hanno la Ferrari
Erano precisamente le otto e trenta di mattina quando l’Avvocato Barletta entrò nel Bar Bologna, fissato dai clienti che si trovavano già al bancone e sui tavoli. Nessuno era veramente interessato a lui, ma alla sua California T spider appena parcheggiata davanti al locale. Il Bar Bologna, in pieno quartiere Africano, non è certa-­‐
mente un Café de Flore romano. Chi è cliente fedele, per abitudine o per passione, difficilmente ha mai fatto una vita di lusso: Giorgio, Gianni, zu’ Beppe, Luchino e il Tartaglia –
chiamato così per via della balbuzie– non sono mai saliti su di un aereo, ad esempio; e dubito che Gianni e Giorgio siano seppur usciti dall’Italia. Sicuramente, nessuno ha mai gui-­‐
dato una Ferrari. Perciò, se anche i cittadini di Maranello non riescono a distogliere lo sguardo quando vedono pas-­‐
sare una California T, come poteva il Bar Bologna ignorare un gioiellino del genere? Alle otto e trentuno minuti, mentre Giorgio Barletta si sfi-­‐
lava i suoi guanti neri in pelle con il cavallino giallo diseg-­‐
nato sul dorso per sorseggiare al bancone il suo caffè mac-­‐
chiato, tutti erano rivolti verso di lui, come aspettando che si girasse a dire qualcosa. Tutti, tranne Luchino l’anarchico. Lui odiava le Ferrari. Lui detestava il lusso. Lui ripudiava la proprietà privata, soprattutto se Ferrari e soprattutto se di lusso. Da qui il suo nome, sebbene il suo identificarsi con il movimento anarchista fosse a dir poco incostante. Talvolta egli era anarchico, altre volte comunista. Delle volte per-­‐
sino anarco-­‐comunista. Spesso e volentieri si diceva demo-­‐
cratico, ma riformista. Era progressista, ma quando si par-­‐
lava di diritti civili diventava conservatore pur restando profondamente socialista. Era tutto un caos. I suoi amici napoletani lo chiamavano “Luchino o’ minestrone”. Luchino –al secolo Luca Roberti– era però sicuro di una co-­‐
sa: che «la proprietà privata è un furto! ». Soprattutto se degli altri. Per questo, non appena l’Avvocato Barletta fu uscito dal Bar Bologna dopo aver salutato barista e cassie-­‐
re, Luchino fece una sonora pernacchia. «Il solito invidioso! », commentarono tutti. E anche dopo che la California T si era allontanata a suon di 560 cavalli, l’intero Bar continuava ad essere rapito da quella visione. «Invidioso io? Ah! Questa è buona! », urlava Luchino, senza che alcuno lo prendesse veramente in considerazione. «Mi domando dove li ha presi i soldi. Chissà cosa c’è dietro a quella macchina». «Nun te fa idee strane. Guarda che quello è n’avvocato, guadagna n’sacco de’ sordi», fece Gianni. «’O conosce mi cuggina». «Peggio! Peggio! Avvocato quindi uomo di legge! Di quella legge ingiusta che ci opprime e ci impone l’autorità dello Stato. Credete che sia degno d’ammirazione solo perchè gi-­‐
ra con un auto costosa? Io! Io non lavorerei mai quindici ore al giorno per poter guidare un’auto costosa! Potrei, ma mi guardo bene dal farlo! », strillava. «Lavorare per smette-­‐
re di pensare, smettere di combattere! Va’ che affare. No, io aborrisco gli avvocati e deploro lo Stato». «Ma no’ la previdenza sociale! », ribattè uno, suscitando il riso di tutti. Già, perché Luchino in realtà era cieco. Uno di quei ciechi che possono guidare la macchina e fare la spesa senza l’aiuto di nessuno. Uno di quelli che non ci vedono solo sulla carta. Luchino riufiutava lo Stato, ma gradiva la pen-­‐
sione di invalidità. «Imbecilli», disse facendo per andarsene. Poi, quando era quasi sull’uscio della porta, Gianni commentò a zu’ Beppe che Giorgio Barletta «ha fatt’e scuole gesuite». Non l’avesse mai detto. Altra invettiva, più pesante di quella precedente, contro i gesuiti: perché preti, perché cari, perché questo, perché quest’altro. Poi sbattè la porta del locale, e se ne andò. Camminava velocemente per strada, col volto basso e il vi-­‐
so scuro. «Ignoranti. Imbecilli. Cretini.», ripeteva a voce bassa. Li detestava tutti. Come ogni mattina, si era arrabia-­‐
to con il mondo. Sarebbe volentieri andato a casa, a sten-­‐
dersi sul divano o ascoltare un po’ di musica, per calmarsi. Quello, però, non era un giorno qualunque, ma la prima domenica del mese. E come tutte le domeniche del mese, Luchino era finito in pieno quartiere Africano con uno sco-­‐
po ben preciso: suonare al civico 34 di via Zamboni e salire al terzo piano. Quando l’ebbe fatto e gli fu aperta la porta di casa, con lo sguardo smorto salutò sottovoce: «Papà». «Dov’è Jacopo? ». «Con la madre». «Io i soldi li do solo in mano a lui, lo sai. Per te non c’ho niente». «Madonna mia, quante storie. Che c’hai paura che me li spendo? Guarda che puoi chiamarlo stasera e chiedere se glieli ho dati». «Lascia fare, vuoi? Non è che non me fido. È una questione di correttezza. I soldi servono a lui per la scuola, non a te. E io li do a lui, che è grande abbastanza». E ripetè: «Per te non c’ho niente». Luca tentennò un secondo. Poi aggiunse: «sei sempre stato stronzo». Voleva litigare. E l’ottenne. «Stronzo io? Io? Se non fossi così imbecille magari non sta-­‐
resti qua a chiedermi i soldi. Se non fossi così imbecille, tu. Anche il posto che ti aveva trovato zio Carlo sei riuscito a perdere». Il signor Roberti era l’opposto del figlio. Tanto simili fisi-­‐
camente, quanto diversi di carattere. Aveva lavorato a To-­‐
rino come metalmeccanico per una vita intera. Tra sudore, fatica, scintille, macchinari pesanti e scioperi, aveva fatto nascere il suo unico figlio. Era il suo orgoglio, che si era las-­‐
ciato andare. L’avrebbe tanto voluto laureato, perchè anche l’operaio vuole il figlio dottore. Invece aveva perso questo giro. “Una generazione è saltata”, pensava. E puntava tutto sulla successiva. Il lavoro trovato da zio Carlo, in realtà, Luca non l’aveva perso ma abbandonato. «Perché era alienante», sosteneva lui. «Perché n’ c’ha mai avuto voglia de fa’ niente», diceva il padre. E così, ogni volta che poteva lo redarguiva. E quando sentiva parlare delle sue storie sull’anarchia e la lotta poli-­‐
tica, arrivava addirittura ad insultarlo. Non voleva sentire ragioni. «Quelli come me hanno fatto questo paese. T’hanno messo la pappa in bocca, e tu che fai?». Era fiero di sé e del suo lavoro. Erano dei gioielli le macchine che usci-­‐
vano dalla sua fabbrica, e le adorava come fossero sue. Ci credeva. E credeva che, come in una catena di montaggio, ognuno dovesse dare il proprio contributo. Per questo de-­‐
testava tanto il figlio, pur amandolo. Quella volta il signor Roberti finì per accedere alla richiesta di Luca. Con i soldi in mano, tesa per consegnarglieli, lo guardò negli occhi e disse: «Jacopo fallo studiare. Non me lo far crescere cretino come te». «Magari venisse su come me! », disse di tutta risposta. E se ne andò. Tornato a casa quella sera, mangiò velocemente quello che trovò nel frigorifero. Si lavò i denti e vestito si buttò sul let-­‐
to. Chiuse gli occhi e inizò a pensare. Chissà se suo figlio avrebbe mai fatto l’università. Chissà se avrebbe abbando-­‐
nato, come lui tanti anni addietro. Si tirò fuori i soldi dalla tasca e li ripose nel comò accanto al letto. Richiusi gli occhi, ebbe un attacco di sconforto. Un’ansia interiore che partiva dallo stomaco e saliva su fino a costringergli il craneo e strippargli il cervello: «potevo essere io quello di stamattina». Poi, con una franchezza che non gli apparteneva, ammise a denti stretti che quel “potrei ma non voglio” forse celava un più intimo “vorrei ma non posso”. Si menta anche agli altri, ma non si può prendere in giro anche sé stessi. Scacciò quei pensieri angosciosi, ed andò a dormire. La mattina dopo la sveglia suonava alle sette. Un nuovo giorno, per essere anarchico!