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CULTURE, ARTI E POPOLI IN LOMBARDIA
LA FORMA DELL’IDENTITÀ
CULTURA IDENTITARIA, ARCHITETTURA
E PAESAGGIO POPOLARE
Bimestrale edito da La Libera Compagnia Padana
39
Anno VIII - N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Anno VIII - N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Periodico bimestrale
I
ndice
●
Convegno di Varese - 9 Dicembre 2001
Introduzione
1
Saluto in apertura di Ettore A. Albertoni
2
Elementi strutturali ed elementi decorativi
nella dimora alpina - Giovanni Simonis
3
Paesaggio popolare - Giulio Carlo Crespi
13
La doppia sfida di Gianfranco Miglio - Aperti ma non proni,
radicati non provinciali - Leo Miglio
20
Spaesamento, perdita di luogo e rilocazione
dell’identità culturale - Luisa Bonesio
23
La riaffermazione dell’identità attraverso la gestione
dell’ambiente - Gilberto Oneto
30
●
Allegati
Presentazione - Gianfranco Miglio
35
Premessa - Gianfranco Miglio
36
Le trasformazioni dell’edilizia alpina - Gianfranco Miglio
37
La tutela della civiltà alpina nell’uso razionale
della montagna - Gianfranco Miglio
45
Edilizia moderna e paesaggio europeo:
la situazione attuale - Hans Sedlmayr
55
L’uomo in un ambiente inanimato - Hans Sedlmayr
61
Tecnica e Natura - Hans Sedlmayr
68
INTRODUZIONE
I
l giorno 9 dicembre 2001 si è tenuta a Varese , nel Salone della Villa Napoleonica della Villa Ponti la decima giornata di cultura padanista, organizzata da
La Libera Compagnia Padana con la promozione dell’Assessorato alle Culture e
Identità della Regione Lombardia, sul tema: “Culture, arti e popoli in Lombardia. La forma dell’identità. Cultura identitaria, architettura e paesaggio popolare”.
La giornata è stata dedicata a esaminare il valore dell’architettura popolare, della
costruzione del paesaggio e dei riferimenti ambientali nella formazione e conservazione dell’identità dei popoli. Si tratta di un tema poco studiato ma che assume
importanza fondamentale anche sotto la particolare luce della resistenza al globalismo e per l’affermazione dell’indipendentismo padano.
La giornata si è strutturata con il seguente programma:
❐ Saluto di Galeazzo Conti, reggitore de La Compagnia e moderatore dei lavori
❐ Introduzione di Ettore Albertoni, Assessore alle culture e Identità della Regione Lombardia (“Il valore della tradizione nella riprogettazione dello spazio culturale”)
❐ Giovanni Simonis – (“Documenti di architettura di montagna”)
❐ Giulio Crespi – (“La costruzione del paesaggio popolare”)
❐ Leo Miglio – (“La doppia sfida di Gianfranco Miglio: aperti ma non proni, radicati non provinciali”)
❐ Luisa Bonesio – (“Spaesamento, perdita del luogo e rilocalizzazione dell’identità culturale”)
❐ Gilberto Oneto – (“La riaffermazione dell’identità attraverso la gestione dell’ambiente”)
❐ Dibattito e conclusione dei lavori
I relatori e gli ospiti si sono intrattenuti a cena nella stessa Villa Ponti.
Questo numero speciale dei Quaderni Padani raccoglie tutti gli interventi e le relazioni
presentati al Convegno. Ad essi si aggiunge una serie di documenti di difficile reperimento e che si ritengono estremamente importanti per l’arricchimento del dibattito culturale
che si è iniziato a Varese e che si intende continuare. Si tratta di alcuni testi del professor
Gianfranco Miglio, a suo tempo pubblicati a presentazione del primo volume di una collana da lui diretta sul tema dell’architettura alpina e in un volumetto sullo stesso tema.
Sono testi da tempo esauriti e introvabili e per la cui ripubblicazione si ringraziano la casa editrice Jaka Book, la Banca Piccolo Credito Valtellinese e la famiglia Miglio. Ad essi si
aggiungono alcuni scritti di Hans Sedlmayr pubblicati quasi tre decenni fa e che hanno
forte attinenza con gli argomenti trattati nel Convegno. Vengono riproposti per la loro attualità e per l’originalità dell’approccio culturale. Si tratta anche in questo caso di documenti introvabili.
Il Convegno e la pubblicazione di questo numero speciale dei Quaderni Padani sono stati
realizzati grazie anche al contributo concesso dall’Assessorato alle Culture e Identità della Regione Lombardia.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Quaderni Padani - 1
SALUTO IN APERTURA
DI ETTORE A. ALBERTONI
arissimi amici,
con grande rammarico mi vedo costretto, a causa di impegni istituzionali, a rinunciare a partecipare alla decima giornata
di studi dedicata alla cultura padanista e relativa al tema “La forma dell’identità – cultura identitaria, architettura e paesaggio
popolare”. Sapete bene quanto mi stiano a
cuore il valore e la cura, oltre alla tutela e
alla conservazione, del preziosissimo patrimonio culturale lombardo. Culturale nel
senso il più possibile ampio di storie, tradizioni, architetture, monumenti, lingue e letterature. Elementi imprescindibili per ogni
Comunità che voglia saldamente ancorarsi
al presente e guardare fiduciosa al futuro,
le cui radici costituiscono dunque fondamenta ferme, punto di partenza e memoria
sempre viva delle singole Identità. Identità
al plurale, così come le Culture, termini che
ho vivamente voluto che identificassero, a
C
Santa Croce
di Piuro (SO)
partire dal giugno 2000, l’Assessorato regionale da me diretto, insieme con quello di
“Autonomie”.
Ricchezze assai diversificate da conoscere e
valorizzare, singole componenti di un più
ampio mosaico che è quello poi delle Regioni in generale e di quelle padane in particolare. Queste ultime da intendersi certamente non come mere costruzioni istituzionali imposte “dall’alto” ai territori, ma come
sinergiche unioni espressioni dei popoli e
loro forza. Sono concetti, ne sono pienamente consapevole, che non solo ben conosciamo, ma che soprattutto condividiamo, e per i quali combattiamo da sempre
battaglie contro le ottusità e l’arretratezza di
chi non vuole vedere, di chi si ostina a non
capire o finge di non capire.
Con la “Libera compagnia padana” siamo
riusciti in questi anni a contribuire a scardinare molti dei retaggi culturali di cui certi
ambiti “intellettuali” sono ancora prigionieri.
E la giornata odierna di studio e approfondimento, alla quale la Regione ha dato con grande convinzione e compiacimento
– un contributo, ne è ulteriore conferma.
Sono certo che questa e le altre tematiche
di rilevante importanza relative al rapporto
tra paesaggio e identità saranno da voi affrontate con la serietà e l’assoluta competenza che vi contraddistinguono, e sono altrettanto certo che - da relatori altamente
qualificati quali siete –saprete offrire generosità di idee e di intenti nei vostri interventi. A tutti voi rivolgo i miei migliori auguri di
un proficuo lavoro, sentendomi rassicurato
dal fatto che, grazie anche al vostro impegno odierno, il comune messaggio identitario e comunitario verrà ulteriormente
rafforzato. Tutto ciò contribuisce a rivolgere
uno sguardo fiducioso al futuro, presto degno custode del nostro glorioso e fiero
❐
passato.
Ettore A. Albertoni, Assessore alle Culture, Identità e
Autonomie della Lombardia
2 - Quaderni Padani
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
ELEMENTI STRUTTURALI
ED ELEMENTI DECORATIVI
NELLA DIMORA ALPINA
GIOVANNI SIMONIS
Premessa
L’esposizione che segue è parte di una ricerca in corso di elaborazione che potrebbe essere intitolata “Tecnologie costruttive
per insediamenti in condizioni ambientali
particolari: architettura alpina”. La ricerca
si avvale dell’apporto di due decenni di
sopralluoghi, fotografie, rilevazioni, estesi
a tutto l’arco alpino; dei dati ottenuti in alcune specifiche realtà locali con l’elaborazione di piani paesistici basati sull’analisi a
tappeto di tutti gli edifici esistenti e infine
degli apporti delle ricerche pubblicate sull’argomento che è stato possibile reperire.
Dato il limitato tempo disponibile l’esposizione riguarda un solo aspetto nel complesso delle problematiche della ricerca e
può richiedere integrazioni successive. In
particolare l’intervento che segue riguarda
il sistema di chiusure esterne e la struttura
del tetto in rapporto alle varie modalità
decorative.
condo questo schema tipologico:
- a travi orizzontali;
- a travi inclinate: correnti;
- a travi inclinate: puntoni;
- a travi reticolari.
Individuazione sommaria delle caratteristiMillauers, Val di Susa, casa del capitano di ventura Mack, 1644:
le decorazioni a collarino (consistenti in una lisciatura variamente sagomata intorno alle finestre, realizzata di solito con malta di
calce mescolata a polvere di marmo) richiamano quelle di località
alpine ad oltre mille chilometri di distanza.
Obiettivi della ricerca
La ricerca si propone di individuare alcune
correlazioni tra il sistema tecnologico-funzionale, il sistema funzionale-distributivo e
il sistema architettonico della costruzione
alpina.
Modalità illustrative dell’esposizione
Illustrazione con tavole grafiche delle varianti del sistema di chiusure esterne (di
pietra e di legno) e della struttura del tetto
(di legno) nella dimora alpina. Le chiusure
esterne sono organizzate secondo questo
schema tipologico:
- di pietra a vista;
- di pietra intonacata;
- di legno a vista a blinde, a ritti e panconi,
a crociera;
- di legno intonacato.
Le strutture del tetto sono organizzate seAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Quaderni Padani - 3
ambientale e culturale in
cui ogni soluzione viene
adottata. Le soluzioni
sono organizzate secondo questo schema tipologico:
- sistemi a travi a crociera, a ritti e panconi e a
blinde, e schemi generali
e di dettaglio;
- sistemi a travi di legno
e di pietra e decorazioni
a collarino, a graffito, a
pittura.
Metodo di lavoro
A differenza delle ricerche più diffuse sull’argomento, in particolare
quelle iniziate nel 1938
in Italia dal Consiglio
Nazionale delle Ricerche
(CNR) svolte soprattutto
da geografi ed etnologi e
che si basano sul metodo della classificazione
dei tipi, in questo lavoro
si propongono metodi
specifici della tecnologia
dell’architettura.
In particolare i criteri di
analisi utilizzati, indicati
con modalità diverse anche nell’introduzione al
libro pubblicato dall’autore alcuni anni fa Costruzioni di pietra, archiOberammergau, Oberbayern, fine ‘700, finte finestre con persone affac- tettura della Valvigezzo,
ciate, decorazioni dipinte. Le decorazione dipinte e a graffito (cioè su into- sono:
naco lisciato e graffiato in alcune parti prima dell’indurimento: le parti - rapporto tra tecnologia
graffiate assumono un tono più scuro) hanno origine in Italia dove erano costruttiva (materiali e
molto diffuse, perfino in città come Milano.
uso dei materiali) e ambiente (forma geologica
che e valutazione delle opportunità che del paesaggio, vegetazione, clima, tradiogni modalità costruttiva consente. Sinteti- zioni storiche culturali);
ca analisi dei sistemi funzionali distributivi - rapporto tra sistema funzionale (cioè
possibili con le varie soluzioni strutturali complesso di esigenze vitali espresso dal
di tetto, anche in relazione al contesto am- modo di vivere locale in epoche storiche
bientale e culturale in cui ogni soluzione ed attuali) e forma di villaggi ed edifici;
viene adottata.
- creatività, cioè capacità di variazioni e inIllustrazione con tavole grafiche e diaposi- novazioni in rigorosi schemi strutturali e
tive di molte soluzioni decorative in rela- compositivi in coerenza con il sistema
zione agli schemi strutturali del tetto, ai si- funzionale distributivo;
stemi di chiusure esterne e al contesto - fantasia, cioè capacità di usare elementi
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Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
località distanti, come l’Oberbayern e le
Prealpi bergamasche, il cuneese e la bassa
Engadina, hanno numerose analogie. Purtroppo il confronto degli edifici più antichi
è reso difficile dalla degradazione e la devastazione che le località montane, soprattutto in Italia, hanno subito negli ultimi
decenni.
Per Cereghini esiste unitarietà nelle condizioni ambientali climatiche, nella necessità
di risolvere ovunque problemi causati dall’altitudine, l’insolazione, le precipitazioni,
la pendenze del terreno, e anche nell’uniformità dei materiali impiegati nella costruzione: il legno e la pietra. Ma l’architettura alpina non può essere spiegata, come
dice Paul Guichonnet, “con il solo determiMittenvald, Oberbayern, casa del ‘700: frequentemente le decorazioni delle case alpine rappresentano episodi divertenti raccontati
con una tipica ironia.
Oberammergau, Oberbayern, Pilatohaus,
1784: una finestra barocca con colonne.
cromatici e decorativi anche non strettamente conseguenti alle tecnologie adottate.
Varietà della dimore alpine
Attraverso il confronto degli studi reperibili sulla costruzione alpina sembra impossibile una sintesi complessiva, e le
pubblicazioni che trattano l’argomento
dell’architettura delle Alpi in generale, dalle
Marittime alle Giulie, sono poche. Gli autori mettono subito in chiaro il problema:
“grande è la varietà di forme e di aspetti
della dimora dell’uomo nelle Alpi” dice per
esempio Roberto Pracchi in La casa alpina;
“quasi infinita” la varietà delle dimore rurali
alpine sul versante italiano scrive G. Danielli in Le Alpi; e Mario Cereghini in Costruire in montagna, pur cercando un unitario “stile alpino”, raccomanda di evitare
gli schematismi e dice che la rassegna dei
tipi “sarebbe vastissima e le caratteristiche
numerose”.
Uniformità delle dimore alpine
Attraverso un’analisi accurata e sistematica degli edifici si scopre che costruzioni in
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Quaderni Padani - 5
Orta, provincia di Novara, casa del ‘700, finta finestra con
una persona affacciata: demoralizzante la condizione di
degrado a paragone di analoghi esempi tedeschi.
nismo geografico, è il prodotto di una cultura almeno altrettanto, se non di più, che
della natura”.
Tra edifici di zone lontane centinaia di chilometri ci sono analogie nelle dimensioni,
nelle proporzioni, nell’uso dei materiali,
soprattutto nella capacità di ottenere un
risultato architettonico sfruttando, senza
mascherarle, necessità strutturali e tecnologiche. E analogie che riguardano il “linguaggio” architettonico, il suo modo di
esprimere una concezione della vita, integrando le forme e i volumi con “segni”
simbolici e decorativi.
Architettura di pietra e di legno
In montagna tutte le costruzioni sono di
legno e pietra, con pianta a base quadrata
o rettangolare e tetto a due falde: le eccezioni, nelle costruzioni non precarie, sono
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più rare di quanto possa apparire a un
primo momento.
A contatto con il terreno c’è almeno uno
zoccolo di pietra, ma il resto dell’edificio
può essere costruito in tutte le combinazioni possibili tra i due materiali. Tutto legno, compreso la struttura del tetto e la
copertura. Tutta pietra, escluso la struttura
del tetto ma compresa la copertura. Sola
variante nei tempi più antichi: la copertura
di paglia. Oppure casi intermedi: pietra
sotto e legno sopra; pietra su un lato e legno sull’altro; pietra davanti e legno di
dietro, con tutte le combinazioni di tetto.
I materiali sono usati sfruttando rigorosamente le loro caratteristiche strutturali,
che non vengono mai mascherate. Ci sono
naturalmente eccezioni, come il rivestimento con intonaco di alcune pareti d’ambito di legno nel Tirolo, nell’Oberbayern e
nella Valtellina; le pietre che coprono la
struttura del tetto in corrispondenza della
gronda in Ossola, e poche altre. La coerenza della forma, dell’aspetto esterno dell’edificio con il sistema strutturale e tecnologico, la cui scelta è influenzata e motivata da esigenze funzionali e culturali, determina l’architettura dell’edificio. Cioè l’architettura di montagna non è formalistica,
non si piega a raggiungere un risultato
formale ignorando o mascherando rigorosi principi tecnologici. È’ giusto quindi
parlare di “architettura” alpina: invece fino
a qualche decennio fa non si osava nemmeno citarne la parola e si parlava di “edilizia” o di “casa rurale”.
Al contrario spesso architetture descritte
su tutti i libri non sono corrette dal punto
di vista tecnologico o strutturale. F. L. Wright si indignava perché la cupola di Michelangelo per non crollare è fasciata da
una enorme catena di ferro: “non è architettura!” diceva. Van de Velde si ribellava
all’”atmosfera infetta” del formalismo dell’ottocento, predicando un uso coerente e
consapevole della funzione e della struttura. Ma questi principi, che Giedion definisce “morali” hanno avuto un seguito limitato nel tempo: non più di qualche decennio. Oggi siamo in un periodo in cui l’aspetto che l’edificio assume in fotografia o
in disegno sulle pagine di una rivista e
permette al progettista di confrontarsi con
le mode di una “cultura internazionale”
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
prevale su ogni altra considerazione: il
formalismo ha ripreso il sopravvento!
Le tecnologie di materiali come il calcestruzzo si sono sviluppate al punto di rendere possibile, soprattutto nell’edilizia di
piccola dimensione, che è quella che impegna gran parte del territorio (e che costituisce la quasi totalità delle costruzioni
alpine), ogni velleità formale, contribuendo
a svuotare il concetto stesso di coerenza
tecnologica e strutturale.
L’architettura alpina per secoli ha invece
sperimentato l’uso coerente di tecnologie
limitate (il legno e la pietra) in condizioni
estreme (temperature ed escursioni termiche, precipitazioni, vento, carichi di neve,
pendenze dei terreni, frane e slavine, praticabilità dei cantieri, sfruttamento delle risorse ambientali senza depauperarle per
le generazioni future). Una ricerca ricca di
insegnamenti utili anche per noi oggi.
1) al contrario di quanto afferma Cereghini, che considera le decorazioni alpine “un
fenomeno stilistico, quasi a sé stante, dell’Engadina, dela Valtellina e della val Bregaglia”, le decorazioni nelle varie forme,
collarino, graffito, pittura, erano diffuse in
tutte le Alpi;
2) il volume Bemalte Fassaden di Margarete Baur-Heinold, forse l’unica ricerca sistematica sull’argomento, ignora il versante
italiano delle Alpi; gli studi di C. Simonett e
di I.U. Konz riguardano i Grigioni, ed esistono alcune pubblicazioni su Tirolo e
Oberbayern: non esistono studi sul versante italiano;
3) nonostante “l’incuria, l’idiozia e l’avidità
umane” come dice Guido Nicosia “che
Averara, val Brembana, e Cogolo, Val di Pejo, case del ‘600 e ‘700,
indegna ed offensiva la condizione in cui sono tenute antiche case alpine in Italia.
Architettura decorata
L’uso della pietra e del legno con il razionale sfruttamento delle loro caratteristiche
costruttive e strutturali permette un numero di soluzioni e di risultati architettonici
molto più vario di quanto possa apparire
a un primo momento. Per esempio la
struttura del tetto illustrata riguardante
l’intero arco alpino, sembra, a parte qualche variazione di pendenza, simile ovunque: si tratta sempre di due falde simmetriche. Invece le differenze tecnologiche
della struttura del tetto combinate con
materiali diversi della copertura, con le varianti rese possibili dal diverso modo di
affrontare i dettagli, con le varie soluzioni
tecnologiche delle strutture murarie, conducono a innumerevoli soluzioni architettoniche.
Anche nelle decorazioni ci sono straordinarie analogie nelle zone più lontane, con
l’utilizzo delle stesse tecniche decorative e
con la ripetizione di motivi stilistici e formali a distanza di centinaia di chilometri.
L’architettura, separata in scelte tecnologiche motivate da precise necessità culturali,
si unisce in un “tema” che rivela, in innumerevoli variazioni, non solo una concezione formale stilistica unitaria, ma forse
addirittura un comune senso della vita.
Su questo argomento sono necessarie tre
considerazioni:
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
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Santa Maria Maggiore, Valle Vigezzo, decorazioni del 1794, con
richiami di precedenti epoche rinascimentale e barocca, su un
edificio di origini molto più antiche.
hanno cancellato stupendi monumenti,
demolito abitazioni, aggredito centri storici” in quasi tutte le località alpine italiane,
con una accurata ricerca si individuano
tracce di decorazioni che danno la certezza che in origine non erano inferiori per
quantità e qualità a quelle dei Grigioni, del
Tirolo e dell’Oberbayern.
Architettura meditata e razionale
La lunga consuetudine con forme espressive che molti insistono a chiamare “spontanee” mi ha convinto al contrario che si
tratta di forme meditate e razionali. Gran
parte delle decorazioni nascono, come
ogni espressione artistica, da una necessità. L’uomo ha maturato nei millenni esi8 - Quaderni Padani
genze complesse che muri solidi e tetto
efficiente non bastano a soddisfare né trovano appagamento di fronte a un piatto di
minestra calda e al focolare acceso. E non
si spiega la raffinata complessità delle decorazioni, la varietà di soluzioni e di idee,
la fantasia, l’ironia (vedi il libro pubblicato
dall’autore nel 1992 Architettura alpina decorata), l’estensione nel tempo (più di seicento anni) e nello spazio (180.000 chilometri quadrati di montagne), con la superstizione, con la funzione scaramantica di
segni e disegni.
Decorare la propria casa è espressione
della necessità di dare senso ed equilibrio
all’assurdo succedersi di eventi della vita.
Un riferimento ordinato nell’inspiegabile
alternarsi di vicende piacevoli e spiacevoli,
di momenti di serenità e momenti di dolore, di tiepida luce del sole e di rabbiosa
violenza del gelo, di frutti abbondanti e di
minaccioso incombere della carestia, di
lunghe oziose notti invernali e di frenetici
periodi di fatica, di decenni di pace e di
periodi di guerra e di morte.
Decorare un muro con linee sottili e campiture tinteggiate può apparire ingenuo.
Ma i disegni e i colori non coprono la
struttura creando un falso per seguire uno
stile di moda o stupire con una dimostrazione di ricchezza e di potere. Non nascondono niente, lasciano in vista tutto.
Non creano qualcosa di diverso, ma aggiungono, cioè contribuiscono alla “qualità” sottolineando o equilibrando fattori
compositivi. Un raffinato gioco architettonico basato sull’intelligenza e l’ironia, in
cui il rigore costruttivo si integra con la
sensibilità pittorica.
Provenienza e diffusione
delle decorazioni
In epoca etrusca, greca e poi romana in
Italia si decoravano i muri delle case. I dipinti erano interni all’alloggio, anche perché lo schema distributivo delle abitazioni,
sia cittadine che di campagna, era basato
su locali che davano su un cortile (peristilio). Cioè la casa veniva vissuta soprattutto
dall’interno, in spazi coperti o aperti, circondati da un muro.
Le decorazioni murali a pittura vennero rifatte e ripetute in forme diverse per secoli
e riportate anche sulle facciate esterne deAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
gli edifici, fino a divenire una caratteristica
tipicamente italiana, soprattutto in epoca
rinascimentale. A Milano, dice Giacomo
Bescapé, “nell’età del Rinascimento è frequente l’intonaco chiaro, con graffiti e affreschi decorativi: stemmi, trofei, festoni di
frutta, finti marmi, composizioni ornamentali di vario genere”. Oggi nelle pianure italiane le decorazioni sono scomparse, sostituite a cominciare dal Seicento e dal Sttecento, con nicchie, lesene, colonne, fasce di
pietra e di stucco.
Nelle località alpine invece le decorazioni
sono evidenti e ben conservate nelle zone
di lingua tedesca: Oberbayern, Graubunden, Nord e Süd Tirol; ma una ricerca accurata ci permette di trovarne numerosissime tracce in tutte le Alpi italiane.
Non c’è evidenza di decorazioni prima del
‘400, salvo qualche dipinto di carattere religioso. Cioè non è ben chiaro come fossero
decorate e se lo fossero, le case nell’epoca
del massimo sviluppo economico e sociale
delle Alpi, dal 1100 al 1400 circa. È probabile che il sistema di decorare le case (nelle
tre forme: collarino, graffito e pittura) sia
Zuoz, Ober Engadin, casa del 1561, con una
pavimentazione semplice ma accurata, si può
mettere in risalto l’ingresso principale.
Andeer, Schons, casa del 1501, le decorazioni a graffito (cioè su
intonaco lisciato e graffiato in alcune parti prima dell’indurimento: le parti graffiate assumono un tono più scuro) sono di qualche
decennio successive. Il riferimento è il palazzo rinascimentale italiano.
penetrato in quel periodo, quando la vendita dei prodotti alpini si diffuse in città come Milano e Como, sopravanzando la
concorrenza delle zone agricole padane.
Distribuite ovunque nelle Alpi, le decorazioni rivelano ancora oggi sorprendenti
analogie nelle zone più lontane, a dimostrazione che se l’origine fu uno scambio
al di fuori dell’ambito alpino, la diffusione
proseguì poi nel suo interno, finendo per
diventare una caratteristica esclusiva. Il
progresso economico, lo sviluppo degli
scambi commerciali, l’uso sempre più intenso di alcuni percorsi alpini, il diffondersi
di esigenze complesse, crearono la necesAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Quaderni Padani - 9
sità ma non portarono al risultato, che va
invece ricercato nell’ambito culturale relativamente omogeneo che si era costituito
nei secoli precedenti.
Intelligenza
Le dimensioni degli edifici sono coordinate
sulle lunghezze delle travi di legno (cioè dei
tronchi degli alberi) reperibili in zona; le
falde del tetto proporzionate una all’altra
per equilibrare pesi che variano rapidamente quando nevica e quando la neve
viene appesantita dalla pioggia. I muri dimensionati su carichi variabili e capaci di
assorbirli in modo elastico (strutture di legno) o rigido (strutture di pietra) e di distribuirne sul terreno uniformemente gli effetArdez, Unter Engadin, casa progettata dall’arch. C. Konz nel 1961:
anche alcuni contemporanei sono capaci di recuperare antiche
tradizioni e reinterpretarle con intelligenza e buon gusto.
Mustair, Val Mustair, casa del 1611, ecco un
collarino a distanza di mille chilometri da
quello già rappresentato. I contatti culturali
tra zone alpine avevano uno sviluppo straordinario, considerato che si viaggiava solo a
piedi.
ti. Le finestre e le aperture coordinate con i
carichi, ma anche con esigenze di areazione ed illuminazione ed in modo da non
creare ponti di dispersione termica.
I dettagli (incastri, giunti) del tetto a puntoni o del tetto a correnti, del sistema costruttivo a ritti e panconi (Standerbolenbau)
o di quello a crociera (Bundwerk), sono
prefabbricati, quindi richiedono una accurata progettazione: non si può arrivare alla
costruzione dell’edificio se progettando il
dettaglio non si conosce già il risultato che
si vuole ottenere nel complesso. E’ un esercizio difficile senza il tecnigrafo, la calcolatrice e il computer.
Solo l’intelligenza, cioè la capacità di tener
conto di tutte le esigenze in gioco coordinandole e correlandole anche quando
sembrano contraddittorie, permetteva di
giungere a una costruzione stabile ed usabile dell’edificio. E solo la creatività, cioè la
capacità di variare ed innovare in rigorosi
10 - Quaderni Padani
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
schemi strutturali compositivi, permetteva
di costruire edifici sempre diversi.
componenti (travi, tavole, blocchi, mensole,
lastre) e con limitate variazioni dimensionali e decorative.
La combinazione simultanea di forme che
costituisce l’”armonia” dell’edificio, come
nella musica, è una aggregazione verticale,
incapace di variare nel tempo, immobile.
Ma l’architettura di montagna riesce a introdurre una dimensione orizzontale, uno
sviluppo nel tempo (e nello spazio) nella
successione di forme coordinate e correlate in un tutto organico. Il risultato non è
solo “melodia” ma più propriamente “contrappunto”, somma di diverse linee melodiche in senso orizzontale.
Calcestruzzo armato
La tecnologia del calcestruzzo non si accorda facilmente con gli schemi armonici
della struttura tradizionale di legno e di
pietra. Un edificio con struttura di calcestruzzo in ambiente alpino è un elemento
di difformità perché il calcestruzzo ha modalità costruttive e di dettaglio particolari e
rende possibili dissimmetrie nelle falde dei
tetti, dimensioni inusitate negli aggetti, angoli e sbalzi, forti chiaroscuri, varietà dimensionali.
La diversa inclinazione delle falde del tetto
non è possibile nelle costruzioni di legno e Fussen, Hohes Schloss, 1499, stupendi dipinti gotici che non mandi pietra: con un tetto sottoposto a mezza cano di entusiasmante creatività.
tonnellata al metro quadro di neve e una
struttura che, per ragioni di razionalità
economica, lavora in condizioni limite, la
simmetria funziona meglio, equilibrando i
carichi, agendo in modo uniforme e omogeneo sui giunti portanti. Sono possibili limitate variazioni: per esempio la soluzione
a correnti permette lunghezze diverse delle
falde, quella a puntoni obbliga invece non
solo alla stessa inclinazione, ma anche alla
stessa lunghezza.
Con il calcestruzzo invece diviene economicamente possibile, in particolare per piccoli edifici residenziali, qualsiasi soluzione
strutturale. Libertà che rende inutile l’esercizio dell’intelligenza e della creatività, fa
diventare stilistica ogni scelta formale, privilegia la moda e il consumo sul rigore e la
coerenza.
Gli elementi melodici delle costruzioni tradizionali vengono stravolti, ed in un ambiente che ha subito lente e progressive
trasformazioni in più di un millennio, vengono inserite dissonanze che non è più
possibile coordinare in un complesso armonico coerente.
Per secoli in montagna si è costruito con
l’intelligenza, ora si costruisce con il calcestruzzo armato.
Contrappunto
La forma dell’edificio ha origine nella razionalità e nella creatività e si basa sull’accostamento, la successione, il contrappunto di elementi tipici della tecnologia del legno e della pietra, con la ripetizione dei
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Quaderni Padani - 11
Oberammergau, Oberbayern, casa del 1785, il barocco tedesco in una delle sue migliori espressioni.
Il termine “contrappunto”, nel significato
della pratica musicale di sovrapporre una
melodia a un’altra preesistente curando i
rapporti di nota contro nota, si presta particolarmente bene a spiegare l’architettura
alpina da almeno tre punti di vista:
1) la sovrapposizione, nello stesso edificio,
di modifiche, variazioni, decorazioni, a volte di epoche diverse ma con attenzione alle
conseguenze dell’inserimento di dettagli
nuovi sui preesistenti (punctus contra punctum);
2) la sovrapposizione in tempi diversi (anche a centinaia di anni di distanza) nello
stesso ambiente (valle, villaggio) di edifici di
forme diverse ma sempre curandone punctus contra punctum il reciproco accostamento;
3) la sovrapposizione al canto “fermo” (lo
schema tecnologico strutturale) di un canto inventato, che segue ad una certa distanza nota contro nota (le decorazioni a
collarino, graffito o pittura).
Purtroppo all’eufonia delle complesse costruzioni musicali che gli antichi architetti
di montagna ci avevano regalato nel corso
di almeno sei secoli, negli ultimi decenni,
12 - Quaderni Padani
per presunzione e per ignoranza, abbiamo
sostituito la cacofonia di strutture progettate in modo affrettato e superficiale.
Il destino delle Alpi
Secondo Galileo ogni uomo può facilmente essere più alto dei suoi predecessori
perché, anche se nano, si trova sulle spalle
di un gigante, il passato.
Purtroppo l’abbandono e la sistematica alterazione delle case, dei villaggi e del paesaggio in tutte le zone alpine (particolarmente in quelle italiane) non ci lascia molte
possibilità: non abbiamo più forti spalle su
cui sollevarci. Soprattutto lo sviluppo eccessivo delle seconde case, non coordinato
in un razionale utilizzo del territorio ha reso illeggibili le rigorose logiche di aggregazione e di sviluppo degli antichi insediamenti. I giovani non hanno più la traccia, la
struttura logica ed armonica su cui costruire il futuro della loro vita nelle Alpi. Forse
solo attraverso approfondite ricerche, realizzate con tecniche e modalità spesso simili a quelle degli archeologi, potremo faticosamente recuperare la posizione privile❐
giata sulle spalle del gigante.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
PAESAGGIO POPOLARE
GIULIO CARLO CRESPI
Adesso, di mattina, si vedono solo le sagome delle creste
e delle vette, di un azzurro grigio quelle davanti, mentre quelle dietro,
schiarendosi, appaiono sempre più luminose, sottili e argentee. Ma gli occhi
ben presto si voltano da quella vista abbagliante a oriente e incominciano
il loro lavoro quotidiano rivolgendosi al suolo, padrone e custode del giardino.
Hermann Hesse, In Giardino
Ed. Guanda (pag.80)
N
ell’attuale fase di rivalutazione del paesaggio e della progressiva indagine
antropologica che la tradizionale geografia scientifica descrittiva va sviluppando
si rivela sempre più correlata l’esperienza
umana e le strutture di un territorio o paesaggio che si vogliono sincreticamente definire. La dizione popolare è più sfuggente
e tende alla doppia linea interpretativa:
cioè di popolo con i suoi sistemi di valori
o più banalmente un oggetto conosciuto
da moltitudini d’individui non necessariamente costituiti in una comunità. Per
esemplificare un popolo può riconoscersi
in una terra: “Questa terra è la vostra”, con
forte connotazione simbolico relazionale
fino al limite di una “Terra Promessa”, o
quando si incarni in un revival storico, vedi il caso d’Israele e
la Palestina. In altro
modo New York è
popolare e Manhattan è un luogo
dove avvengono
fatti e si realizzano
strutture come i
grattacieli che connotano un paesaggio popolare – cioè
noto. Del resto si
dice anche delle
persone che sono
popolari, indipendentemente dalla
conoscenza diretta
delle stesse, specie
nella nostra civiltà
multimediale. Esiste quindi una certa
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
ambiguità semantica nella parola popolare. Nei tempi contemporanei, e specie in
situazioni sociali come quelle lombarde,
che provengono da mutamenti profondi
sia dimensionalmente che qualitativamente, risulta molto difficile parlare in termini
di popolo con tranquilla coscienza di continuità ed identità.
Si tratta quindi di approfondire le relazioni
che intercorrono tra i viventi ed il paesaggio: la terra, cogliendo legami sottili di memoria e d’identità. In questo senso ha lavorato un personaggio complesso come
Antoine de Saint Exupéry che appunto in
forma letteraria parla della rappresentazione del mondo e del suo io e così scrive:
“Il deserto sono io. Non secerno più saliva, e
non formo nemmeno più le dolci immagini
Paesaggio paesaggio
Quaderni Padani - 13
Sopra
il paesaggio
verso le quali avrei potuto gemere. Il solo ha
disseccato dentro di me la fonte delle lacrime.
E tuttavia, che cosa ho scorto? Un soffio di
speranza è passato su di me come un réfolo
sul mare. Quale segnale ha appena messo
in allerta il mio istinto prima ancora d’imprimersi nella mia coscienza? Nulla è cambiato, e tuttavia é mutato tutto. Questa distesa di sabbia, queste collinette e queste rade chiazza di verzura non compongono più
il paesaggio, ma una scena. Una scena ancora vuota, ma già tutta preparata. Guardo
Prévot. Egli è colpito dal mio stesso stupore,
ma nemmeno lui comprende ciò che egli
prova.
Vi giuro che sta per accadere qualcosa.
Io vi giuro che il deserto si è animato. Vi
giuro che questa assenza, questo silenzio
colpiscono d’improvviso più di un tumulto
sulla pubblica piazza...
Siamo salvi, vi sono delle tracce sulla sabbia...
Ah! Avevamo perduto la pista della specie
umana, eravamo stati tagliati fuori dal resto
della tribù, ci eravamo ritrovati soli al mondo, dimenticati da una migrazione universale, ed ecco che scopriamo, impressi sulla
sabbia, i piedi miracolosi dell’uomo”.
14 - Quaderni Padani
Nella contemporanea visione meccanicista
e utilitaristica del mondo che arriva a considerare l’arte come valore economico e
che allontana lo spirituale, come non misurabile, e quindi privo di significato, sembra che anche il paesaggio non si sottragga a quest’interpretazione cui torme di architetti, geografi, agronomi portano vasi a
Samo desiderosi di intascare prebende per
analisi interpretative (piani paesistici) che
rispondono a ragionamenti di carattere
quantitativo.
Il problema non è solamente relativo ai
presupposti culturali, è anche linguistico,
cioè il lavoro descrittivo si fa in base ad un
linguaggio maturato nel tempo e riferito
ad oggetti ad esperienze codificate di cui la
parola è uno strumento ed un deposito
d’esperienza.
Qui si può anche meglio comprendere che
il paesaggio, lungi dall’essere qualcosa di
definito, si definisce nel tempo in funzione
della percezione ed anche dal punto di vista dell’osservatore interessato.
Ma il vero problema del paesaggio popolare è come gli uomini trasmettono i significati spaziali e di relazione ad altri uomini.
Certamente la contiguità con i luoghi, la loro frequentazione non solo fisica ma miti-
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
ca attraverso feste, racconti, nomi ha
un’importanza fondamentale. Significati
evidenti e forme chiare nelle società contadine (come quella lombarda fino al ‘700),
molto discontinui e poco relazionabili a
forme collettive oggi.
Si può fare eccezione per i grandi stadi, le
piazze, i luoghi dello sport. Ma comunque
il paesaggio e il rapporto con la terra è
delocalizzato e il rapporto frammentato. I
media agiscono come digressore abituale
moltiplicando gli stereotipi di paesaggio . Il
fatto che la più parte della popolazione risieda in zone urbane fa di queste le forme
spaziali più fruite.
Ci troviamo in un campo d’analisi dove
non si possono dimenticare le raccomandazioni di Roland Barthes. I significati degli
oggetti, più che dall’emittente
del messaggio dipendono molto dal percettore dell’oggetto perché l’oggetto è polisemico, cioè si offre facilmente a molte letture di senso, ma non solo da un lettore
all’altro, ma anche, talvolta, per lo stesso
lettore.
E dirà ancora: ”I significati restano, i significati diventano sempre significati di altre cose, la caccia al significato non può essere
che un tentativo provvisorio.”
Un’acuta analisi del rapporto uomo ambiente nella fondazione della disciplina delAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
la geografia umana cui si deve fare riferimento quando si tratti di epifenomeni leggibili nel paesaggio si trova nel libro di
Chiara Zerbi: Paesaggi della Geografia
(Giappichelli Editore - Torino 1993).
E così richiama la posizione di indeterminismo dell’ambiente o possibilismo ambientale puro che non esclude altri determinismi da quello culturale a quello sociale
(Lewth Waite, 1966).
A questo proposito è da tenere presente la
scuola francese e in particolare Vidal del la
Blanche che declina il concetto di “milieu”,
omologo al concetto di amalgama che costituisce una unità (regione) prodotta in
larga misura da circostanze locali.
Scrive appunto la Zerbi: “È stato osservato
come il pieno dispiegamento delle potenzialità proprie della visione vidaliana si realizzi
nel caso di società aventi sia caratteri “locali” che “rurali” (Wrigley, 1967). Ciò implica
che i materiali usati nelle attività della vita
quotidiana (per cibarsi, costruire abitazioni
ed attrezzi) siano fondamentalmente di origine locale e ad un tempo che le persone –
dai contadini che lavorano la terra alla borghesia o alla piccola nobiltà che ne beneficia – siano radicate nel loro contesto così da
conformarsi ad un medesimo modello di vita. Un’attenzione particolare è allora dedicata alla cultura materiale di ogni piccola
Paesaggio
milanese
Quaderni Padani - 15
Paessaggio
“popolare”
(Piazza
Castello
a Milano)
area, come può essere minutamente ricostruita attraverso i documenti etnologici:
dagli attrezzi usati nelle attività di ogni
giorno fino ai tipi di abbigliamento ed ai tipi di costruzioni realizzate. Vidal de la Blanche ha più volte insistito sull’importanza dei
musei etnologici per l’indagine geografica.
Tutti questi elementi di documentazione diventano strumenti essenziali per decifrare,
in modo dettagliato, le caratteristiche fondamentali dell’ambiente in cui si sono sviluppati, per il duplice motivo che sono prodotti con materiali del luogo e che sono persati per superare delle difficoltà o fruire delle opportunità che esso è in grado di offrire.
Per sottolineare la sostanziale continuità nei
modelli di vita locale, Vidal de La Blanche si
serve di un’immagine: quella di un laghetto
a cui la brezza può, di tanto in tanto, increspare la superficie impedendo di vedere i
contorni del fondo. La brezza agisce come i
fatti che sconvolgono il regolare scorrere
della vita (dalle guerre, alle epidemie, alle
carestie) ma al suo acquietarsi il fondo torna ad essere visibile così come riappaiono i
modelli di lungo periodo della vita sociale
(Wrigley, 1967, pag.9).
Una schematizzazione delle relazioni uo-
16 - Quaderni Padani
mo-ambiente, che tenti di riflettere l’impostazione vidaliana, dovrebbe tenere conto
sia della mutazione dei concetti, corrispondenti ai due poli della relazione, che dal
complesso intreccio di influenze che si cambiano tra di loro.
A__SOCIETA’ __________________LUOGO
B__SOCIETA’__GENERE DI VITA __LUOGO
Due possibili versioni sono offerte dalle figure riportate. Mentre la prima è autoesplicativa, la seconda merita un’attenzione ulteriore in quanto vi compare la nozione di
“genere di vita”, una nozione usata da Vidal
e successivamente teorizzata da Lucien Febvre, destinata ad avere una notevole risonanza.
Mai compiutamente definita l’idea fondamentale che vi è contenuta è quella dell’intero complesso di attitudini, di tradizioni, di
finalità, ma anche di tecniche ed istituzioni,
proprie di una società. Ciascun ambiente
presenterebbe infatti delle “possibilità” di cui
i gruppi umani possono avvalersi. La particolare reazione, risposta, adattamento che
tali gruppi mettono in atto si può considerare dipendente dal genere di vita. Quest’ulAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
timo può quindi essere pensato come meccanismo relazionale che “media” fra lo specifico ambiente ed i gruppi umani che vi sono insediati. E’ un ulteriore sottolineatura
del ruolo umano, di un’azione mai puramente meccanica dei fatti naturali sulla vita
degli uomini.” (pagg. 25-26).
Non si può ignorare tutta la scuola della
percezione che si sviluppa negli anni 6070, nel mondo anglosassone, sulla scorta
della psicologia ambientale che da questa
applicazione trova elementi vitali per progredire e definire gli ambiti della percezione e fruizione del paesaggio, fino alle recenti specifiche del paesaggio come risorsa
e come bene consumabile. È questa ulteriore presa di significato dei paesaggi popolari come valori del territorio che porta
ad una relativizzazione, e questo in funzione delle possibilità d’uso nel tempo da
parte dell’uomo.
Si veda ancora Zerbi quando dice:
“per quanto riguarda più direttamente il paesaggio, sembra essere stato
riconosciuto, da parte dei pianificatori, prima il suo valore come scenario
per i turisti e solo successivamente il
suo valore come “quadro di vita” per
gli abitanti. Il miglioramento degli
aspetti visivi e più in generale “sensoriali” dei luoghi – per i residenti – è
divenuto un obiettivo politico solamente negli anni più recenti, con il riconoscimento della qualità ambientale come componente del benessere. Si
possono considerare espressioni di
questa nuova consapevolezza gli interventi di rimodellamento della “scena urbana” (con operazioni di restauro, di risistemazione urbanistica, di
arredo urbano) di riqualificazione
delle periferie, di creazione di parchi
per i cittadini.
Quanto alla condizione che fa passare una risorsa dallo stato “potenziale”
a quello “attuale”, e cioè l’abilità di
“sfruttarla”, è sufficiente – a proposito
del paesaggio – guardare alla varietà
di mezzi con cui se ne può realizzare
la fruizione: dall’osservazione “indiretta” resa possibile dalle immagini
prodotte con tutta la varietà delle tecniche oggi disponibili.
Arrivati a concludere che il paesaggio
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
può, a tutti gli effetti, essere considerato una
risorsa, si affaccia un interrogativo dagli
esiti incerti. Lo status di risorsa riconosciutogli servirà a sottrarre il paesaggio dalla
banalizzazione che cancella i tratti di identificazione dei luoghi, omologando il volto
delle città e delle campagne?”
(pag.138).
Si veda, come nell’ambito lombardo, l’unico modo di promuovere la conservazione
del paesaggio in una regione mossa da
continue evoluzioni sociali ed economiche,
sia quello di radicare fortemente la conoscenza dello stesso nelle popolazioni attraverso l’istruzione, l’analisi storica, la prospettazione di obiettivi ambientali. La qualità della vita va dibattuta culturalmente e
politicamente. Questo processo di identità
non può essere relegato a gruppi di chierici ma fortemente partecipato.
Prodotti
del territorio
Quaderni Padani - 17
Paesaggio
domestico
Una serie di tradizioni e miti possono essere aggiornati secondo una strategia di
futuro legata alla formazione e alla valorizzazione dello spazio, quindi attraverso una
pianificazione e progettazione che rinnova
il solco della tradizione.
Questo naturalmente avviene per incrocio
di interessi spesso legati a gruppi élitari ma
compito di questi è esaltare le situazioni
locali.
Solo l’ancorarsi al territorio di capacità
creativa nei diversi campi, esprime la trama
e l’ordito di questo avanzare con continuità nella produzione di un paesaggio,
che, lungi dall’essere qualcosa di definito
geometricamente, lo è, specie oggi, di tipo
relazionale. La creazione di valori, che se
pur partecipali all’interno di contesti più
ampi, e per certi versi dati (clima), divengono reali nel luogo in cui si incardinano sotto il profilo culturale e fattuale.
In questo senso la definizione “scientifica”
di ambiti e unità di paesaggio sono spesso
solo dichiarazioni di intenti.
Difficilmente, in questo tipo di approcci, si
arriva a comprendere il concetto evolutivo
che sottostà alla forma, e spesso può essere degenerativo riferito ai canoni enunciati.
18 - Quaderni Padani
Comportamenti collettivi devono quindi
essere sottoposti ad indagine multipla e
con competenze disciplinari sempre più
evidenziate. Dal momento che il paesaggio
è opera collettiva ed evolutiva, l’analisi del
passato e dello stesso presente, può spiegare, ma non prefigurare l’assetto successivo.
Illusoria, salvo per specifiche situazioni
musealizzate, è la pretesa di conservare il
paesaggio nelle forme fin qui tramandate.
Si pensi alla evoluzione documentata dal
‘600 - ‘700 ai giorni nostri del paesaggio
rivierasco dei laghi lombardi: da boschi e
pascoli a terrazzi agricoli, poi ville nobili e
borghesi con relativi giardini.
La forza evolutiva si esplica oggi con le infrastrutture e reti, la demografia e il turismo di massa che moltiplica gli spazi a
questo asserviti (costruzioni, parcheggi,
depositi).
Anche l’attuale approfondimento di un turismo sostenibile, a fronte delle risorse
paesaggistico ambientali, corre il rischio di
fare riferimento a fattori ambientali e fisici
che non esauriscono le potenzialità evolutive umane e così degenerative. Certamente, sono stati commessi errori macroscopiAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
ci di non conoscenza di un territorio quindi un’analisi fisionomica è pur sempre essenziale.
L’abbandono dei pascoli e la formazione di
agglomerati urbani rispondono a regole e
ad aspirazioni che sovrastano e spesso
trovano le comunità locali completamente
impreparate a gestire il nuovo.
Nel concetto di popolare non può mancare l’idea di nuovo partecipato su valori che
coinvolgano in larga misura le persone.
Certamente, nella gerarchia delle decisioni
sul paesaggio o ambiente, conta molto la
struttura decisionale, ma anche la partecipazione della gente alla realizzazione e al
mantenimento del paesaggio conseguente.
Senza sviluppo vero della società non può
esserci paesaggio popolare. D’altra parte,
valori come la protezione dell’ambiente
che, attraverso un processo culturale complesso, variegato e lungo, sono diventati
primari in Lombardia, devono anch’essi
promuovere lo sviluppo.
Quindi paesaggio popolare non è un semplice regesto di forme morte o di luoghi
comuni mitici o mediatici e neppure lo
sforzo ricreativo operato da revival stilistici
o comportamentali.
Questo può essere fecondo qui e là come
testimonia Grazzano Visconti o Carimate
con il modello Americano: golf, ville, così il
comprensorio di Monticello come club segregato ed esclusivo.
In generale ci si cimenta sul paesaggio della Brianza, quella della Valtellina, dell’alta
pianura della valle del fiume Olona o del
Lambro o sulle espansioni urbane che costituiscono il paesaggio primario lombardo. Un mix di residenza, produzione, servizi e infrastrutture che costituisce il paesaggio popolare in quanto fruito dalla maggior parte della popolazione.
A questa dimensione ci si deve applicare
costruendo dall’interno la coscienza della
appartenenza e rinnovamento creativo fatto di enne comportamenti e risultati che
impegnano le generazioni che inevitabilmente appartengono alla terra Lombarda.
Questa, pur nelle sue mutazioni temporali
e fisiche, è una sotto il cielo, che quando è
azzurro, tiene cupola dalle Alpi agli Appennini e si riflette nel sistema padano delle
acque.
È soprattutto in un sistema di valori che si
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
incardinano con diversa intensità nei luoghi.
Una pedagogia della conoscenza di questi
e della relazione, sia con le forme che con i
significati, è l’opera popolare, cioè l’azione
di tanti uomini piccoli di fronte a un “Gulliver” ma determinati ad imprigionare la super potenza globale con tanti piccoli sottili
fili ben infissi nelle realtà locali.
GIOVANE NOVIZIO IN UN CONVENTO ZEN
II
Tutto è inganno e illusione,
la verità è inesprimibile:
ma dentellato il monte mi guarda
ed è ben riconoscibile.
Hermann Hesse, Poesie,
Oscar Mondadori (pag.139)
Bibliografia
❐ Andreotti G., Paesaggi Culturali (Milano:
Unicopli, 1996)
❐ Bianchi E. e Felice Perussia, Centro di Milano: percezione e realtà (Milano: Unicopli,
1978)
❐ Bianchi E., Comportamento e percezione
dello spazio ambientale
❐ Brusa C., Evoluzione di un’immagine
geografica. Il Varesotto turistico (Torino:
Giapicchelli, 1979)
❐ Claval P., L’evoluzione storica della geografia umana (Milano: Franco Angeli,
1972)
❐ Cosgrove D., Realtà sociali e paesaggio
simbolico (Milano: Unicopli, 1990)
❐ Dardel E., L’uomo e la terra (Milano:
Unicopli, 1986)
❐ Eliade M., Images et symboles. Essai sur
le symbolisme magico-religieux (Paris: Gallimard, 1952)
❐ Gold J.R., An introducion to behavioural
geography (Oxford: Oxford University
Press, 1980)
❐ Schama S., Le paysage et la memoire
(Paris: Seuil, 1999)
❐ Schmidt di Friedberg P., Gli indicatori
ambientali: valori, metri e strumenti nello
Studio dell’impatto ambientale (Milano:
Franco Angeli, 1986)
❐ Università degli Studi di Milano Istituto
di Geografia Umana (a cura di Corna Pellegrini G. ed Bianchi Elisa), Varietà delle geografie (Milano: Cisalpino, 1992)
❐
Quaderni Padani - 19
LA DOPPIA SFIDA
DI GIANFRANCO MIGLIO
APERTI MA NON PRONI,
RADICATI NON PROVINCIALI
LEO MIGLIO
M
ai come in questi ultimi anni si è
assistito a una dura contrapposizione tra due tendenze emergenti
della società contemporanea: il processo
generale di globalizzazione, imposto dai
potentati economici e dalle nuove tecnologie dell’informazione, da un lato, e il ritorno su scala locale al proprio passato, a
volte nostalgico, a volte erudito, quasi
sempre episodico. Che tale contraddizione
esista veramente e che debba essere vissuta angosciosamente è tutto da dimostrare.
Si può infatti rovesciare i termini della que-
stione e accettare una doppia sfida: lavorare ai massimi livelli di integrazione e competizione mondiale, ma vivere saldamente
radicati sul proprio territorio. Ne sanno
certamente qualcosa le piccole e medie imprese italiane, che non possono rinunciare
a misurarsi ogni giorno con una concorrenza mondiale, i professionisti che devono continuamente adeguarsi a standard
tecnologici pensati altrove. Gli scienziati
europei lo fanno da sempre e sembrano
sopravvivere abbastanza bene.
In effetti, le ultime innovazioni telematiche
Peschiera
del Garda
(VR))
20 - Quaderni Padani
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
permettono già da ora,
almeno per alcune
professioni, di vivere la
vita raccolta di un remoto paesino alpino e
di svolgere la propria
attività giornaliera sulla
piazza di New York,
aprendo magari degli
spazi di riflessione individuale che ora vengono ingoiati da spostamenti inutili e stressanti. Insomma, valga
l’immagine suggestiva
di un recente spot televisivo, in cui un pastore sardo, in compagnia
della propria pecora,
vende il suo formaggio
nel mondo mediante
internet. Infatti, la doppia sfida è anche aprirsi alle nuove suggestioni che ci giungono
da fuori, ma non per
questo rinunciare a sostenere i propri valori,
proporre ad altri i frutti
delle proprie tradizioni.
Ciò significa rispettare
anche quelli degli altri,
specialmente nel loro
contesto: una ricchezza
per tutti. Aperti ma non
proni vuole infine dire
non permettere che
vengano dissipate le
proprie memorie territoriali; tra queste, centrali e di immediata
percezione, quelle delle case, dei villaggi e
del loro ambiente, quelle dei manufatti che
rimandano a consuetudini antiche.
In particolare, se penso all’edilizia minore
come elemento di paesaggio e di identità
territoriale, mi immagino i tipici graffiti sui
muri di Guarda, nell’Engadina, rivedo alcuni paesini nelle vallate del Lario, Livo ad
esempio, labirinti di pietre da cui trasuda la
fatica e la determinazione di chi li ha costruiti. Mi accorgo, allora, di quanto abbiano da raccontarmi della mia terra alpina
questi testimoni immobili. Le forme e la
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
posizione degli edifici mi rivelano la funzione - una stalla, un mulino ad esempio e rimandano all’economia e alla società di
chi li abitava. Ma ci parlano anche delle
condizioni pedoclimatiche, attraverso l’inclinazione di un tetto, lo spessore di un
muro. Inoltre, i materiali e le tecniche costruttive mi indicano la natura geologica
delle montagne che li circondano, gli andamenti stagionali, modulati da virtuali confini culturali, come l’alternanza di legno e
pietra, rispettivamente sul versante settentrionale e meridionale delle Alpi. Infine, le
Rocca Pietore
(BL)
Quaderni Padani - 21
Isola Pescatori
(VB)
stratificazioni storiche e religiose - la foggia del culmine di un campanile, il riquadro
di una finestra - ricordano chi ci ha preceduto e dimostrano come sia velleitario
schematizzare le nostre origini.
Fino a questo punto ci portano le nostre
sensazioni personali, ma come preservare
queste memorie e svilupparle nel contesto
vitale del territorio? Un esempio ci viene da
una delle tante imprese di Gianfranco Miglio, l’ideazione di una collana di libri realizzata negli anni ottanta dalla casa editrice
Jaca Book di Milano, con il contributo del
Credito Valtellinese di Sondrio: Dimore italiane, rurali e civili, di cui sono stati ultimati
purtroppo solo due volumi, Valtellina e
Valchiavenna e Brianza e Lecchese. Il progetto aveva una originale ambizione, che
trascendeva i limiti delle pregevoli ma episodiche realizzazioni fotografiche di cui siamo destinatari ad ogni strenna natalizia. Si
prefiggeva infatti la catalogazione del patrimonio esistente (con lo scopo culturale di
non perdere memoria), l’estrazione dei moduli edilizi ricorrenti, i “Baufibel” come li
chiamano i tedeschi, (con l’intento di essenzializzare il puro profilo architettonico) e la
22 - Quaderni Padani
loro riscrittura in termini di norma paesaggistica (al fine di fornire uno strumento
operativo alle amministrazioni locali).
Questa complessa operazione poggiava su
tre componenti indispensabili: una casa
editrice esperta di volumi d’arte, una banca
locale disposta a sponsorizzare una seria
ricerca di architettura filologica e la mutua
assistenza tra architetti sensibili al territorio
e giovani disponibili a batterlo sistematicamente, alla ricerca di elementi degni di essere presi in considerazione. La debolezza
di questo costrutto stava, forse, proprio
nella improbabile alchimia di sforzi, poco
riproducibile su scala nazionale, difficilmente ripercorribile senza la lucidità e il
carisma di un grande maestro, quale era
Gianfranco Miglio. Tale esperienza rappresenta comunque un suo insegnamento
postumo, pertinente al nostro tema generale: essa è il frutto di una cultura vasta e
cosmopolita, di una grande capacità di vedere in profondità e sulla distanza temporale, di una mentalità imprenditoriale e positiva. Un esempio di come si possa essere
radicati ma non provinciali, appunto.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
SPAESAMENTO, PERDITA
DI LUOGO E RILOCALIZZAZIONE
DELL’IDENTITÀ CULTURALE
LUISA BONESIO
No, tu non mi hai mai tradito, [paesaggio]
su te ho
riversato tutto ciò che tu
infinito assente, infinito accoglimento
non puoi avere […]
Tu mal noto, sempre a te davanti come stralucido schermo,
o dietro sfogliato in milioni di fogli,
mai camminato
quanto pur si desidera, da ben prima del nascere
(A. Zanzotto, Sovrimpressioni)
1. Scompaginazione dei luoghi e perdita
dell’identità
La modernità scardina il senso dei luoghi,
il loro orientamento - spaziale e simbolico
-, perché il suo pensiero dispone e misura
estensioni, senza soffermarsi sugli aspetti
qualitativi; perché l’accelerando è il suo
“tempo” mentre il territorio è tempo lungo,
sedimentazione, tendenziale incompatibilità strutturale con il mutamento troppo rapido; perché l’innovazione è la sua ragion
d’essere mentre niente più di alcuni territori (p. es. la montagna) è strutturalmente
conservatore; perché la massa è l’anonimità sradicata, secolarizzata e cosmopolita
del denaro mentre la cultura tradizionale
dei luoghi è stata soprattutto senso comunitario, avvedutezza, pietas, adesione al genius loci. Retrospettivamente si potrebbe
dire che è stato grazie all’accettazione del
limite del territorio (organico e ciclico naturale) che le culture hanno realizzato la propria specifica interpretazione delle possibilità dei luoghi. Inevitabilmente, quando la
strapotenza della modernità urbana finisce
con il cancellare i tratti millenari delle culture locali, e la progettazione a tavolino
dell’architettura e dell’ingegneria sostituiscono nel ruolo di costruttori gli abitanti,
che avevano plasmato il territorio in un’accorta alleanza secolare con la natura, il riAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
sultato è l’aspazialità, ossia lo slegamento,
reso possibile dalla tecnica, della specificità
dei caratteri del luogo dalla funzione cui
viene destinato in un’ottica di sfruttamento
economico, che ne accentua la dipendenza
dai centri economici, decisionali o politici,
dall’utilizzazione da parte di logiche esogene, dotate di simboli, storia, obiettivi e stili
diversi. La “crisi” del tessuto territoriale altro non è che la “caduta di validità di strutture, di relative capacità di lettura e inserzione nella realtà, nei flessi ciclici di trapasso e scala economica”(1).
Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni fa invocava
Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del
territorio locale, nelle sue interconnessioni
globali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria
(oltre che ecologica) di un modo nuovo (in
realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità
dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizio(1) S. Muratori, Civiltà e territorio, Centro di Studi di
Storia Urbanistica, Roma 1967, p. 59.
Quaderni Padani - 23
nali, memoriali, differenziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di
evitare il degrado, l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria
dimora. “Il territorio è una struttura essenzialmente unitaria, concreta, totale e univoca; che tuttavia, appunto perché è insieme
unitaria, cioè permanente, e concreta, cioè
polivalente, non può che essere stabile e
crescente, cioè conservativa e accumulativa; e che appunto per essere insieme totale, cioè molteplice, e univoca, cioè individuale, non può che essere ciclica e asintotica, cioè integrativa e confermativa di se
stessa all’infinito”(2). Se ogni cultura, finché
è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il nomos dei luoghi per poter
fiorire e mantenersi, la contemporaneità
mercantile e speculativa, con una caratteristica miopia che fa il paio con la sua intrinseca ignoranza, anche in fatto di gusti, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo
misconoscimento dell’idea stessa di “conservazione”, il cui solo suono, alle nostre
orecchie diveniristiche e progressistiche,
appare blasfemo e impronunciabile. Eppure, “conservare” significa tenere presso di
sé (cum-serbare), preservare nella cura,
trattenendolo dalla sparizione, ciò che si
ha a cuore, dunque con un’intensità che
può concernere solo ciò che davvero conta
per noi: tutto il contrario dell’accezione
freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che
presuppone un automatico disinteresse e
una subitanea dimenticanza per quanto,
essendo stato catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si
voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano
esse musei o parchi a tema, oppure “riserve” etnografiche di vario tipo, con tanto di
“mediatori culturali”. Un illusorio trattenere
dalla scomparsa definitiva quei mondi che
lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé ha incessantemente sfigurato e cancellato;
non a causa di un generico processo di
24 - Quaderni Padani
inevitabile entropia (“Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui”(3)) che
dalla perfezione dell’origine porterebbe
ineluttabilmente il mondo alla sua fine(4), al
una disintegrazione concepita in termini
meccanici o energetici, bensì in una precisa
destinalità connessa all’affermazione della
cultura dell’illimite faustiano, che ancora
oggi, in quasi ogni atto o scelta le nostre
società esprimono.
La modernità che svelle con la potenza
tecnica omologante il nomos dei luoghi,
cultura da cosmopoli, di sradicamento e
meticciato, di livellamento ed elementarizzazione, non può generare un’architettura
abitativa che non sia l’edilizia anonima, la
macchina per abitare, la perdita di un nesso significativo con il luogo e la natura, o il
titanismo che attira su di sé il fulmine della
distruzione. Ed è la profonda sconnessione
rispetto alla fisionomia dei luoghi il tratto
che maggiormente caratterizza l’architettura abitativa realizzata negli ultimi decenni
in zone particolarmente “sensibili” per configurazione paesaggistica e culturale (montagna, territori a forte identità estetica e anche turistica): profondamente impensato o forse impensabile per il moderno - è il
senso dell’abitare un luogo, ogni volta singolare e inconfondibile, non solo per i suoi
caratteri “naturali” o “fisici”, ma ancor prima
per i tratti simbolici, culturali e comunitari
che vi sono impressi. È l’identità dei luoghi
a essere misconosciuta e violata: e come
ormai si riconosce da più parti, questi reiterati attacchi alla riconoscibilità delle fisionomie locali inferti da un’edilizia proterva o
sciatta, guidata solo dalla logica del denaro
o della sua esibizione, finiscono col distruggere il senso dell’appartenenza,
(2) Ivi, p. 207.
(3) C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, tr. it. di B. Garufi, Il
Saggiatore, Milano 19693, p. 402.
(4) “Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi
fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco […l l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non
sono può suscettibili di integrazione. Senza dubbio ha
costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si
pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre dell’inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano” (ivi, p. 403).
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
aprendo le porte ad
ogni sorta di ulteriore degrado. È la storia di molti centri
dotati un nobile
passato storico e architettonico, travolti
da un apparentemente inarrestabile
involgarimento delle
forme, della vita, e
dunque da un progressivo deperimento ambientale, che
mostra eloquentemente come può
entrare in possesso
del suo patrimonio
solo chi è capace di
conservazione e di
memoria. Solo coloro che ereditano
consape volmente
potranno accedere
al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è
colui il quale è dotato di più lunga memoria, chi, si potrebbe dire, ha le radici più
profonde e ramificate, saldamente piantate
nel terreno delle sue tradizioni; a differenza
di quanto ha pensato la cultura faustiana
dell’Occidente, non è andando-via, nel nomadismo senza riferimenti né orizzonti,
nella scelta “oceanica” dell’illimitato e immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire, bensì in una rinnovata consapevolezza del proprio orizzonte nella sua ineliminabile embricazione con gli altri orizzonti,
accessibili uno alla volta, nella propria specificità: non quindi nella “grande discarica”
dell’omologazione, dove nel mercato si
trovano i detriti e le caricature di tutte le
culture del mondo.
L’orizzonte negativo in cui di fatto si è
mossa la progettazione contemporanea è
quello oscillante tra le ragioni “oggettive”
del mondo tecnoeconomico e l’irrelatezza
soggettivistica di un’idea residenziale a sua
volta divisa tra legge del numero ed enfatizzazione del proprio status (economico,
estetico), producendo luoghi senza qualità
estetica, senza memoria e dunque senza
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
comunità. È mancata quasi sempre la comprensione del senso del paesaggio, che invece possedevano le comunità tradizionali,
ossia che ogni luogo, anche nei suoi
aspetti “naturali”, nella sua morfologia, nella sua ricchezza estetica e simbolica, non è
un bene di cui appropriarsi, ma una comunità cui appartenere, di cui condividere il
linguaggio(5). Al tentativo dell’assimilazione nei codici di una pianificazione astratta,
e omologante, che azzera le specificità e le
salienze singolari di un luogo nella mera
performatività del rendimento economico
o della realizzazione tecnologica fine a se
stessa, le fisionomie territoriali, immagine
visibile di tradizione e identità culturali,
Torcello (VE)
(5) “Il processo della civiltà è […] un processo di simbiosi tra natura-ambientale ospitante e natura umana
ospitata, pianificato da quest’ultima, la quale si trova
così a fare due parti in commedia: ospita sul piano civile la matura ambientale, ma non per questo cessa di
essere sua ospite, sua amministrata e sua parte integrante in quel piano e in quel cantiere definitivo che è
la realtà” (ivi, p. 31).
Quaderni Padani - 25
vengono cancellate fino all’invisibilità, trasformandosi in lembi di territorio che diventano a tutti gli effetti estensioni periferiche urbane, non solo nella concezione costruttiva, ma soprattutto nella impossibilità
di costituirsi in luoghi per una comunità,
essendo soltanto spazi inerti del transito,
del sonno o della vacanza, aggregazioni
morte di edifici che non potranno mai costituire luogo di un abitare.
Se è forse corretto dubitare dell’ideologia
che proietta in un intatto passato l’ideale
della perfezione, nondimeno, come scriveva un filosofo certo non sospettabile di
passatismo, “fintanto che il progresso
deformato dall’utilitarismo violenta la superficie della terra, non si lascia completamente tacitare, nonostante tutte le dimostrazioni in contrario, la sensazione che ciò
che è al di qua della tendenza di sviluppo e
anteriore ad essa è, nella sua arretratezza,
più umano e migliore”(6): è quel che Adorno chiama, significativamente, “un momento di diritto correttivo”, che, sospendendo
l’adesione al culto del “progresso”, consente di gettare uno sguardo distaccato e consapevole sulla distruttività dell’epoca. Liquidare semplicemente il retaggio del passato perché la sua conservazione sarebbe
reazionaria o patetica di fronte alle adulte
ragioni dell’economico, è nichilistico e autolesionistico. Non è possibile l’abitare in
un mondo accettabile senza continuità di
forme e tradizioni, né, tantomeno, pensare
che esso possa possedere significati estetici, che non siano cosmetizzazione commerciale, in assenza di consapevolezza culturale: “senza memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza”(7), e al massimo la
natura può essere “parco naturale e alibi”(8).
Per farlo, è necessario arrivare a considerare è la “architettura” propria (appropriata)
di un luogo, ossia quella di chi, abitandovi
da tempi immemorabili ne ha distillato una
sapienza estetica consequenziale e un’avvedutezza nell’uso e nel mantenimento
delle risorse, anche simboliche e immateriali. Il rischio è quello di scivolare nella retorica della baita o della casa colonica e di
un’integrità di vita e di armonia con la natura giocata in una troppo facile contrapposizione alla disincantata sventatezza
moderna, o di favorire, per l’appunto, la
26 - Quaderni Padani
museificazione di quanto ancora c’è di vivo
delle tradizioni abitative locali o la loro ulteriore, e magari più sottilmente insidiosa,
commercializzazione(9). “Ma se per tale ragione alla gioia che ci dà ogni vecchio muricciolo, ogni casamento medievale è mescolata una cattiva coscienza, nondimeno
quella gioia sopravvive alla scoperta che la
rende sospetta”(10): quasi un senso di sollievo per ciò che ancora non è andato distrutto, ossia lo stile di costruzione proprio
del luogo, che anche in frammenti diruti,
ne reca l’inconfondibile impronta: non tanto in quanto autoctono e originale, ma in
quanto modello che con una relativa stabilità, con il suo ben definito repertorio di
varianti regionali, è stato il linguaggio condiviso di tutta una cultura oppure di territori molto vasti accomunati da medesime
caratteristiche geografiche e culturali (come
per esempio è accaduto - caso limite - nell’ecumene alpina, relativamente insensibile
a scansioni storiche, a divisioni nazionali o
politiche, mondo omogeneo e trasversale
nel cuore dell’Europa). Le costruzioni di
questo genere di architettura anonima e
spesso comunitaria corrispondevano innanzitutto non a dei “residenti” o turisti, ma
ad abitanti reali, che dal territorio traevano
sostentamento, la cui vita era resa possibile
dall’equilibrio e dalla conservazione del territorio nei suoi tratti propri e specifici; dunque per i quali “abitare” e “costruire” era
tutt’uno che “produrre territorio” o “salvaguardare” il luogo.
2. Memoria e conservazione
Concepire lo spazio come una dimensione
puramente geometrica da riempire con volumetrie arbitrarie significa anche aver lasciato spegnere quella che Ruskin chiama(6) T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di E. De Angelis,
Einaudi, Torino 1975, p. 93.
(7) Ivi, p. 94.
(8) Ivi, p. 99.
(9) “Con la decadenza del romanticismo, il regno di
mezzo del paesaggio opera di coltivazione è degenerato scadendo fino ad articolo di pubblicità per congressi di organisti e per un nuovo senso di sicurezza;
l’urbanesimo dominante risucchia come complemento ideologico ciò che si adatta alla città, però non porta sulla fronte le stimmati della società di mercato” (ivi,
p. 93).
(10) Ibidem.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
va la “lampada della memoria”. Al contrario
del gesto iconoclasta della modernità, il
compito dell’architettura è anche quello di
tramandare, non per un citazionismo eclettico o una patinatura kitsch, ma per la scelta di accogliere consapevolmente un’eredità trasmessaci(11). “Quante pagine di incerte ricostruzioni del passato potremmo
spesso risparmiare in cambio di pochi
massi di pietra rimasti in piedi l’uno sull’altro”, scriveva Ruskin, affidando all’architettura il compito di darsi una dimensione
storica e di “conservare quella delle epoche
passate come la più preziosa delle
eredità”( 12 ). È così che essa “congiunge
epoche dimenticate alle epoche che seguoAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
no, e quasi costituisce l’identità delle nazioni”( 13 ), in modo simile all’operare in
conformità al riconoscimento del fatto che
“la terra l’abbiamo ricevuta in consegna,
non è un nostro possesso”( 14). Il primo
compito che l’architettura dovrebbe darsi è
quello di liberare molti spazi da molti dei
suoi stessi prodotti recenti, decostruire il
proprio orizzonte progressistico, la propria
Quinto
Vercellese
(VC)
(11) Sull’eredità della tradizione, cfr. L. Bonesio, Terra e
identità, “La società degli individui”, 5, 1999.
(12) J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, tr. it.
di R.M. Pivetti, Jaca Book, Milano 1982, p. 211.
(13) Ivi, p. 220.
(14) Ivi, p. 218, af. 29.
Quaderni Padani - 27
tecnolatria, demolendo, letteralmente,
quanto costituisce solo sfregio estetico e
sprezzo dei luoghi. Per accedere a questa
determinazione, occorre dotarsi di uno
sguardo capace di leggere e interpretare il
territorio come un processo storico di cui
siamo diretti eredi e prosecutori, dunque
responsabili. Con meno paradossalità di
Pianura
bolognese
quanto appare, l’etica dell’architettura dovrebbe contemplare una necessaria opera
di pulizia, una preliminare tabula rasa che
restituisca molti luoghi alle loro peculiari
proprietà formali, simboliche e ambientali,
senza aspettare che quest’opera sia attuata
qua e là dalla natura, dal tempo o dalla intrinseca babelicità che attira la distruzione.
Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la
tecnica ha ridotto l’orbe a un paesaggio
fabbrile e a un immenso, disarmonico cantiere, facendo del dissesto perenne la legge
strutturale della sua avanzata, “occorre tener presente che, se vogliamo riferirci al
mondo odierno dell’uomo, cioè a una civiltà per quanto in crisi estesa a tutto il
globo e quindi non più estensibile materialmente, ma solo qualitativamente, si tratta di una costruzione a stadio molto avanzato. L’area assegnata definita, occupata
prima parzialmente da sporadiche e preca-
28 - Quaderni Padani
rie strutture, poi totalmente da più strutture separate, ma stabili e intensive, ha finito
per raggiungere i limiti di sfruttamento”(15).
I rapporti tra aree ad elevata densità e impatto abitativo o industriale devono necessariamente essere controbilanciate da aree
vuote o rade, e non è possibile alterare un
certo equilibrio sia all’interno del territorio
stesso che fra territori diversi: “Negarli è solo futile,
velleitario, dispersivo e alla fine destinato all’insuccesso, al rovesciamento con risultati
opposti, accendendo un processo
depressivo tanto
più grave, quanto
più grave è la manomissione compiuta”(16).
Allora in questo
cantiere che ha
estensione tendenzialmente planetaria ma che esercita
una devastante incidenza in luoghi
sempre specifici, è
giunto il momento
di pensare non più
in termini di ulteriore espansione e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso,
manutenzione, restauro, abbellimento, di
periodico riassetto e di correzione di abusi
ed eccessi. Non si tratta di opzioni di basso
profilo, rinunciatarie, se si pensa che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti intrinseci di ogni costruzione
umana (e del contesto che la rende possibile), che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi(17): “La trasformazione della terra da parte dell’uomo, dapprima per lunghissimo tratto irrilevante, è andata accen(15) S. Muratori, op. cit., p. 204.
(16) Ivi, p. 465.
(17) “Pende così sulla civiltà il pericolo di fare la fine della
torre di Babele, per una perdita di unità di linguaggio,
di significati […], vale a dire di comprensione tra uomo
e uomo e tra l’uomo e la sua opera in quanto reale,
realmente produttiva e utile all’uomo” (ivi, p. 205).
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
tuandosi man
mano che crescevano forze operative della società
umana, giunte a
condizionare la
vita biologica
spesso in modo
devastatorio autolesivo”( 18 ): ci
troviamo su quella linea (o forse
l’abbiamo già oltrepassata) in cui
la Terra richiede
uno sguardo unitario, che non sia
solo quello unilaterale e disponente della tecnica o
quello, ancor più
miope, dell’economia( 19 ); ma
questa consapevolezza globale di
aver raggiunto il
limite dell’equilibrio deve essere
declinata ogni
volta nella specificità delle configurazioni territoriali
e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione. E
ogni tessuto territoriale è un organismo
complesso e delicato, non appiattibile a
semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione; bensì una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità
funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come
strati inerti, ma piuttosto si armonizzano in
una vitale integrazione e collaborazione
resa possibile dalla presenza articolante e
vivificante di una stessa matrice(20) di interpretazione e configurazione spaziale e
simbolica. Così nei nostri territori “convivono e si integrano la centuriazione romana
e i grandi percorsi naturali, gli insediamenti
locali propri delle età iniziali ribaditi intatti
nel Medio Evo e la città comunale, ricalcante quasi costantemente la colonia romana e la polis preromana; il tessuto e la
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
struttura stessa dei campi è un acquisto
sostanzialmente mai perduto, sempre ritrovato, perché intrinseco alla natura dei
luoghi e all’uso che dei luoghi l’uomo può
farne e seguiterà a farne. Questa è la lezione che il tessuto ci dà: ed è, per chi la sa
leggere, una alta lezione al tempo stesso di
realtà e di umanità”(21).
❐
Isola
di Ariano
(BO)
(18) Ivi, pp. 311-312.
(19) Sul tema dell’“inquietudine anteica” della Terra
“provocata” insensatamente dalla tecnica moderna, il
riferimento è a E. Jünger, Al muro del tempo, tr. it. di A.
La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000. Per l’analisi di queste tematiche nell’opera jüngeriana, cfr. L.
Bonesio e C. Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000.
(20) Sull’idea di “matrice” formale, o di ordito che genera i possibili paradigmi di configurazione del territorio, cfr. ivi, passim e L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20002.
(21) Ivi, p. 317.
Quaderni Padani - 29
LA RIAFFERMAZIONE
DELL’IDENTITÀ ATTRAVERSO
LA GESTIONE DELL’AMBIENTE
GILBERTO ONETO
C
hiunque può capire quanto sia importante la gestione dell’ambiente nell’affermazione dell’identità. La costruzione
della propria casa, l’arredamento e i vestiti
che indossiamo sono il risultato di un modo di vivere e di pensare a livello individuale. Lo stesso vale per una comunità: la
costruzione del paesaggio, la forma delle
città, i caratteri degli edifici sono altrettanti
precisi espressioni di cultura identitaria.
Si tratta di una relazione fra identità e ambiente che conoscono però molto meglio i
distruttori di identità che non i difensori di
identità.
Tutti i distruttori hanno da sempre infatti
utilizzato fino in fondo lo strumento della
distruzione dell’ambiente per distruggere
l’identità di un popolo ma non sempre i difensori dell’identità hanno saputo usare lo
stesso strumento al contrario.
La storia è piena di esempi tragicamente
calzanti.
I Romani, erano quelli che per primi scientificamente distruggevano i caratteri più riconoscibili dell’ambiente dei popoli sottomessi. Qui da noi si sono messi a disboscare e a centuriare, a mettere un reticolo
di una grata di prigione sul paesaggio. Gli
Inglesi in Irlanda hanno fatto sparire ogni
traccia di bosco e ogni edificio che non
fosse una umile capanna. Gli Americani
hanno marcato il territorio con un reticolo
del tutto identico a quello della centuriazione: esiste una efficienza geometrica nello sradicamento identitario. I Cinesi hanno
eliminato con una certa sistematicità dal
Tibet ogni segno di lamaismo nelle costruzioni e nelle sistemazioni ambientali. La
guerra santa islamica prevede la distruzione di tutti i segni evidenti delle altre culture:
i Buddha di Bamiyan e la tomba di Giuseppe sono solo gli ultimi episodi di una de-
30 - Quaderni Padani
vastante iconoclastia ideologica. Gli italiani
hanno manifestato il loro patriottismo unificando nel peggio i paesaggi della penisola: le architetture burocratiche pseudorinascimentali dell’inizio del novecento, lo stile
littorio che lo ha seguito, e le banalizzazioni repubblicane hanno devastato le differenze dei modi di costruire e quindi di vivere (modificando l’involucro delle attività)
dei popoli sottomessi. Oggi le periferie urbane sono tutte identicamente squallide in
Lombardia e in Sicilia, gli edifici scolastici
sono tutti brutti, gli uffici pubblici sono
delle terrificanti mostruosità tutte uguali,
ovunque brutte e sporche. Gli edifici pubblici moderni non hanno più neppure la
triste seriosità di quelli ottocenteschi, o la
strampalata retorica del mattone e del travertino di quelli fascisti. Ad aquile, fasci e
mosaici sono subentrati vetri sporchi, cemento a vista pisciato, scatoloni modernisti
o postmoderni senza qualità o funzionalità.
Anche l’omologazione ambientale operata
dal mondialismo merita di essere esaminata. È un dettaglio del processo cui si fa poco caso, ma nelle università si studiano le
stesse tecniche costruttive, imperversa il
cosiddetto movimento moderno (non a
caso chiamato anche internazionale), si vedono gli stessi parametri costruiti su un
uomo ideale che non esiste e che dovrebbe avere le stesse misure ergonomiche e le
stesse esigenze dappertutto. Il Modulor
elaborato da Le Corbusier, il più grande
nemico della tradizione ambientale e dell’ambiente tout-court, l’inventore di un genere sciagurato che ha fatto milioni di infelici e che ha devastato interi paesaggi identitari, vuole andare bene dappertutto e come tutte queste cose finisce per non andare bene da nessuna parte. Viene ancora
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
oggi insegnato nelle università come il
massimo dell’architettura moderna.
Fino a qui, quelli che vogliono distruggere
l’identità mediante la distruzione ambientale.
Ma sull’altro versante cosa succede?
Ci sono casi di movimenti autonomisti dove la gestione dell’ambiente diventa fondamentale ma purtroppo per una gran parte
di essi il problema non viene colto con la
dovuta importanza.
Paradossalmente il legame diretto appare
più spesso nei movimenti identitari terzomondisti: Indios, Pigmei o aborigeni che
combattono per la difesa del loro paesaggio perchè vi scorgono il legame – per loro
diretto – fra sopravvivenza di una situazione ambientale e loro sopravvivenza fisica.
Esemplare, ma isolato, resta il caso del Lama che aveva fatto costruire un tempio
prima di fuggire perché i suoi avessero per
sempre negli occhi e
nel cuore l’immagine
dell’architettura della
loro terra e quindi della
loro identità. Una nota
merita anche Israele
che si è riappropriato
simbolicamente del
suo territorio piantando alberi.
In Europa, è interessante l’atteggiamento
dei Corsi che combattono l’invasione delle
architetture turistiche
coloniali francesi, dei Baschi e dei Catalani
che hanno risvolti ecologisti. Interessante è
anche la posizione sia fortemente identitaria che ambientalista di movimenti come
quello Haideriano. Ad esso molto simile è
anche l’atteggiamento di una buona parte
degli autonomisti sudtirolesi che giustamente vedono nella difesa dell’aspetto fisico dei loro paesi un forte segno di affermazione di differenza e di libertà locale.
Per il resto, soprattutto da noi, il panorama
è piuttosto desolante. Chi sembra fare
scuola è l’autonomismo valdostano che ha
interpretato la propria ampia autonomia
come una licenza di distruggere in proprio
il suo territorio: non conservazione contro
distruzione ma distruzione fatta dai locali
contro distruzione fatta da foresti. Lo stesso succede in molte parti del nostro terriAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
torio dove la richiesta di autonomia viene
interpretata da molti come una richiesta di
autonomia di devastare. Non hanno fatto
eccezione purtroppo molti amministratori
leghisti e sedicenti padanisti che non hanno per nulla compreso il valore dell’equazione qualità ambientale e identità. Troppi
si sono lanciati in spericolate operazioni di
“autonomismo sciistico”, in interpretazioni
della gestione del territorio che di localistico avevano solo i destinatari dei vantaggi
economici.
Non li ha aiutati il movimento che su questi temi è sempre stato molto reticente: il
risultato è stato che quasi tutte le amministrazioni leghiste che sono cadute lo hanno fatto per questioni di Piani Regolatori.
Qui oggi trattiamo del valore della trasposizione della cultura identitaria nell’architettura e nella gestione del paesaggio. Noi
viviamo in un paese che ha una lunga, ricca e rigogliosa tradizione espressiva in
questo campo. Noi siamo anche l’unico
paese al mondo in cui si può prendere una
laurea in architettura senza avere mai fatto
un’ora di storia dell’arte, del paesaggio o di
ecologia. Addirittura non esistono corsi di
storia dell’architettura popolare. Ancora
oggi le espressioni popolari dell’architettura e della gestione del paesaggio sono
considerate un elemento subalterno, di
sottocultura, un triste retaggio del passato,
il relitto di tempi e di modi di vita che devono essere cancellati.
Non è però un atteggiamento che deriva
(come spesso si sente dire) dall’ignoranza
della gente, dal rifiuto di un passato di miseria da parte di chi ha raggiunto un po’ di
benessere, di figli e di nipoti di contadini
Da Asterix e il
falcetto d’oro
(Milano:
Mondadori,
1969)
Quaderni Padani - 31
che vogliono chiudere con un passato di
pellagra e di fame e che vogliono lasciare
le vecchie case per costruirsi villette o infilarsi in condomini con l’antenna centralizzata.
Questi sono le vittime. Sono vittime e strumenti di una cultura che viene imposta
dall’alto mediante le scuole, le università, le
figure dei professionisti, le leggi (fatte apposta per fare tutto brutto, tutto uguale), il
sistema fiscale, le USL e, soprattutto, la
creazione di immagini di riviste specializzate, ma anche di film e televisione. Si è mai
visto sullo schermo qualcuno di successo
abitare in cascina? Nelle più melense soap
opera di regime tutti vivono in villette o in
San Salvatore
di Lavagna
(GE)
appartamenti dal dodicesimo piano in su:
sono la versione tricolore delle ville di Dallas. In altre parole: chi vive in una casa
senza il box cottura, in un edificio vecchio
o in un paesino si deve vergognare proprio come chi parla dialetto, non ha il motorino o il telefonino della marca giusta.
Cioè come chi non è del tutto identico da
Caracas a Busto Arsizio, da Singapore a
Pordenone. Cioè come chi insiste nel manifestare qualche segno di personalità o di
identità.
Un movimento autonomista deve invece
affermare con forza la difesa di taluni segni
che sono marcatori di differenza identitaria. E la stessa difesa va fatta per le architetture e per il paesaggio: deve essere un
32 - Quaderni Padani
tema di lotta identitaria e politica.
Si tratta oltre a tutto di una battaglia vincente perché una larga fetta dei nostri concittadini (lasciamo stare gli ultronei che
non hanno più precisi riferimenti) non vede l’ora di tornare a vivere in una casa vecchia ristrutturata o in una casa costruita
come si deve, che sembri a una casa.
La difesa dell’architettura e del paesaggio
tradizionale come strumento di lotta politica dunque.
Come farlo senza che diventi un passaggio
passatista (il languore per il buon tempo
andato), un velletarismo romantico o una
palude ideologica?
Innanzitutto con la conoscenza del patrimonio culturale, poi con la forte associazione con le istanze identitarie, con la liberazione da complessi di inferiorità culturale
(un inglese che abita in un cottage col tetto
di paglia ne è molto orgoglioso e se ne
strafotte dei presunti vantaggi tecnologici
delle tegole in cemento) e con proposte
operative adeguate e percorribili.
Una conferma della bontà della nostra
battaglia ci è venuta dal pensiero di Miglio.
Sapevamo del suo interesse per questo argomento ma talune delle sue pagine sono
state una illuminante scoperta e un forte
stimolo.
In tutto questo ragionamento sui legami
fra qualità ambientale e identità si pone
con perfetta coerenza l’indagine del rapporto fra la città e la campagna, sia in termini fisici di spazi di vita che nel senso di
idea, di concezione culturale.
Massimo Fini si è spesso soffermato sul
rapporto localismo-mondialismo ma – più
in particolare – scrivendo su questo specifico tema pagine che sono estremamente
interessanti. Più di una volta ha infatti parlato di “ritorno alla campagna”, non certo
nel senso della cultura inglese del cottage
garden, neanche dell’idea molto borghese
della villeggiatura o consumistica della seconda casa, che non è una alternativa alla
città ma è di fatto una espansione della
città. Ha descritto la ricostruzione di un
preciso e intimo rapporto con la terra come di uno dei principali strumenti di lotta
contro l’omologazione mondialista.
Mi voglio soffermare su un particolare
aspetto della contrapposizione localismo –
mondialismo che è quella di campagna e
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città. Sarebbe meglio dire di non città e
città, oppure di piccoli agglomerati e megalopoli. Si tratta di una contrapposizione
che scatena da sempre dibattiti accesi e interessanti: per anni alcuni dei migliori intellettuali si sono affrontati su “strapaese e
stracittà”.
Non è neppure rimasto solo un dibattito sterile ma
ha generato qualche effetto
pratico. L’Articolo primo
della legge Urbanistica del
1942 (coerente prodotto
della cultura fascista e ancora oggi, pur spesso
emendato, strumento base
di tutta la nostra urbanistica) diceva (anzi dice, perché è tuttora in vigore): “Il
Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento
ed ampliamento della città,
il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare
la tendenza all’urbanesimo”. È un testo poco chiaro
e molto mediterraneo, con
implicazioni psicanalitiche:
assicura l’ampliamento ma
favorisce il disurbanamento. Certo ha funzionato poco.
Che la città, intesa come
megalopoli, sia lo strumento principe della distruzione delle identità
locali e del mondialismo è un fatto chiarissimo. Nella città si perde il contatto con la
terra e con le origini, con la natura e con la
storia. Nella città convergono genti diverse
che hanno abbandonato la propria lingua
e la propria identità e si buttano in un melting pot che non genera un’altra cultura
identitaria ma la negazione di ogni identità.
È un fatto di dimensioni, di ingredienti
troppo diversi ma evidentemente anche di
intenzioni precise.
Sui vantaggi dello sradicamento delle genti
e del loro ricollocamento (lo spaesamento
di cui ha spesso parlato Luisa Bonesio) si
sono trovate d’accordo tutte le più devastanti ideologie moderne, dal comunismo,
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al capitalismo, al mondialismo. Tolti dai loro luoghi di origine e allontanati dalla loro
identità i popoli diventano massa, e sono
pronti a votare per chi gli viene detto, a fare qualsiasi lavoro, a consumare qualsiasi
cosa, a diventare quello che gli si dice di
essere.
Lo stesso può essere fatto anche nelle
campagne, nei centri minori e nelle città a
dimensione più umana ma è infinitamente
più difficile e faticoso. Dove si parla una
lingua locale (o anche solo il toscano con
lo stesso accento), dove si cammina nella
storia e nei riferimenti identitari, dove la
natura si tocca ed è una presenza viva e
non museale, dove c’è la memoria di chi ci
ha preceduto, dove il potere politico ha
nomi, cognomi e indirizzi è più facile sentirsi comunità.
È un principio che è anche oggi pienamente valido e funzionante: basta guardare la
mappa del voto dei movimenti autonomisti. Questo cresce non solo con l’altitudine
(come qualche critico poco originale ci rac-
Vignola (MO)
Quaderni Padani - 33
conta) ma con la distanza dalle megalopoli
e con la dimensione degli aggregati urbani.
C’è anche una vecchia consuetudine storica: i nostri antenati Liguri, Veneti, Celti e
Longobardi non amavano vivere in luoghi
troppo affollati e il loro era un paesaggio
di insediamenti sparsi e di piccoli centri. La
città è una invenzione mediorientale e mediterranea. Da noi è arrivata con le legioni
romane e ha conservato le connotazioni
negative dell’accampamento militare, del
centro di un sistema oppressivo.
Si è semmai formata la robusta cultura della comunità rappresentata “anche” da un
centro urbano.
Quando Cattaneo parla delle città come
“principio ideale delle istorie italiane” (intendendo padane e toscane), si riferisce ai
Comuni medievali che erano si città (nel
senso che vi risiedeva il potere politico e
religioso, vi si teneva il mercato ed erano
espressione di totale autonomia) ma erano
la perfetta connessione fra spazio urbano
e campagna. Quando si diceva, ad esempio, il Comune di Lodi non si intendeva il
territorio odierno ma semmai l’odierna
provincia: era la città di Lodi e tutta la sua
campagna.
E lo spazio edificato stesso era di dimensioni molto limitate: tutti si conoscevano o
quasi. Le più grandi città del nostro passato avevano le dimensioni di medie cittadine
dell’interland milanese di oggi. Venezia, che
è stata per secoli il centro più popoloso,
non ha mai superato gli abitanti che oggi
hanno Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo, ed era poco più grande di Moncalieri e di Cologno Monzese, ed era un caso
unico in tutti i sensi: è sempre stata ad
esempio la sola città in cui non sono esistiti quartieri di ricchi e di poveri, tutti abitavano nelle stesse vie. Era in senso moderno una non città.
L’idea di città-megalopoli ricompare da noi
con i giacobini (essi stessi frutto dello sradicamento identitario generato nella megalopoli parigina) e non è un caso che si
usi fino alla paranoia il termine “cittadino”.
E neppure che la più eroica resistenza contro di loro sia venuta da insorgenti che vivevano in campagna o in piccoli centri: si è
ribellato Binasco, non Milano.
Se vogliamo difendere libertà e identità
dobbiamo riprenderci il controllo dell’am34 - Quaderni Padani
biente ma dobbiamo anche impedire che le
megalopoli continuino a essere foruncoli
infetti che producono putredine e infezione
mondialista.
L’affermazione delle nostre libertà va al
passo con la ferma difesa delle nostre
identità, con la salvaguardia del nostro territorio e con il riequilibrio della distribuzione della popolazione, che oggi è in Padania troppo numerosa: i posti lasciati responsabilmente liberi dai Padani che vorrebbero vivere un po’ più larghi viene preso da foresti prolifici e prepotenti e l’operazione di inserimento avviene attraverso il
melting pot antiidentitario delle grandi città.
Senza immigrazione, Milano si sarebbe
oggi autoridotta della metà rispetto agli
anni 60. Non serve descrivere i vantaggi
che ne avremmo tutti avuto.
Oggi è prioritario fermare l’invasione e
sgonfiare le città. Non servono sistemi alla
Pol Pot (che non hanno neppure funzionato) ma si possono trarre tutti i vantaggi
dall’evoluzione dei sistemi di produzione
dei beni. L’evoluzione tecnologica non rende più necessaria la concentrazione fisica
di grandi masse di lavoratori e favorisce
quindi la dispersione della popolazione sul
territorio e anche il ritorno verso aree collinari e di montagna che sono state abbandonate.
Dei vantaggi economici ed ecologici parleremo un’altra volta: limitiamoci per finire a
sottolineare i grandi vantaggi in termini di
difesa identitaria e di riacquisizione di libertà individuali e comunitarie.
La Bibbia ci dice che la prima città è stata
fondata da Caino e che il primo giardino –
l’Eden in cui si viveva “larghi” e in simbiosi
con la natura – sia stato creato dal Buon
Dio a coronamento della sua opera. L’immagine si pone come forte richiamo simbolico a una contrapposizione di due spazi
fisici, di due mondi, di due concezioni esistenziali, che possono anche essere ricondotte a mondialismo e localismo.
Resta il fatto che il mondialismo si combatte non con un mondialismo uguale e contrario (come stanno invece facendo i peggiori mondialisti di città) ma con il contrario del mondialismo e cioè col localismo.
Il localismo è la sola vera difesa delle nostre identità. L’identità è la sola vera garan❐
zia di libertà
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Presentazione*
di Gianfranco Miglio
N
el patetico, generale riflusso verso l’“antico” – che,
specialmente a partire dal secondo Dopoguerra, si
è manifestato, come reazione all’accelerata trasformazione degli stili di vita – emerge anche l’affettuosa rievocazione delle forme abitative legate all’esistenza
delle generazioni passate. Questa rivalutazione – che si
lega al desiderio di proteggere e di ripristinare un mitico “ambiente” originale - ha investito in primo luogo le
case rurali: ma poi anche le modeste dimore civili in cui
si svolgeva la vita “di provincia”. Tale atteggiamento si è
tradotto in una quantità di pubblicazioni, e di raccolte
fotografiche, dedicate appunto ad illustrare l’architettura, così detta “spontanea”, di questa o di quella regione
o vallata: libri disparati per impianto, carattere e serietà,
talvolta validi, spesso ingenui e superficiali. Al punto
cui è giunta questa letteratura disordinata (e talvolta
fuorviante), si imponeva, anche in questo paese, la necessità di una iniziativa editoriale la quale mirasse ad
esplorare, descrivere, analizzare e classificare – con il
metodo rigoroso della cognizione obiettiva – l’immenso
patrimonio di edilizia rurale e civile minore disperso
nelle diverse regioni d’Italia. Il carattere scientifico di
questa “doppia” collana – Dimore italiane, rurali e civili
– si esprime in due cànoni principali: 1) la ricognizione
sistematica del patrimonio edilizio esistente (mediante
un’esplorazione meticolosa del territorio) e la conseguente registrazione di una imponente moltitudine di
singoli edifici; 2) la individuazione delle “regolarità” alle
quali obbediscono la funzione, la forma, la collocazione
e le reciproche relazioni delle costruzioni censite. Essendo ovvio che la validità della seconda operazione dipende dal rigore con il quale è stata condotta quella
precedente.
Mentre a soddisfare la prima esigenza provvedono
l’impegno, la passione e la competenza professionale di
gruppi locali di ricercatori specialisti, a realizzare il secondo obiettivo concorrono la direzione unitaria dell’iniziativa, e il modello di impianto tecnico per il volume
tipo: un modello lungamente studiato e discusso, e definito anche sulla base delle iniziative analoghe, perfezionate o in corso fuori d’Italia. Tale impianto – frutto
dunque di meditata esperienza – non verrà più modificato durante lo sviluppo della collana, se non per minori adattamenti ed eventuali realtà particolari.
Se l’individuazione della “dimora rurale” (ed ovviamente delle sue pertinenze funzionali, o soltanto abituali) non pone problemi rilevanti, più complesso è il
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discorso quando si vogliono definire i confini dell’edilizia “civile minore”. Ai fini di questa collana sono stati
innanzi tutto considerati soltanto i “borghi”: cioè le piccole e medie cittadine, tralasciandosi i più vasti aggregati urbani. Poi, per quanto concerne gli edifici, sono
state escluse dal novero le grandi dimore signorili, i palazzi pubblici monumentali, i castelli, le fortificazioni
più cospicue, le chiese e le cattedrali: tutte quelle costruzioni, insomma, alle quali bene si addice invece
l’aggettivo di “maggiori”.
Il taglio delle aree geografiche alle quali si riferiscono
le singole coppie di volumi, viene man mano determinato avendo riguardo in primo luogo alla peculiarità (ed
omogeneità) del modo di costruire: e soltanto in subordine prendendo in considerazione l’unità delle convivenze. Pertanto gli attuali e formali confini di Provincia, di
Regione, ed anche di Stato, saranno normalmente disattesi come criteri per stabilire la partizione del territorio.
Mentre indici rigorosi, repertori bibliografici, e lessici
della terminologia tecnica locale, confermano la natura
scientifica dell’iniziativa, è sembrata compatibile con tale natura la disposizione a favorire l’uso delle cognizioni
e delle conclusioni raggiunte anche sul piano operativo
della gestione del territorio. Risponde a tale intento il
prospetto dei “moduli edilizi” (il Baufibel dei tedeschi)
che si trova alla fine di ogni volume: cioè la sinossi delle
regolarità accertate nella stratificazione storica dell’architettura “spontanea” del territorio al quale il volume si
riferisce. Tali “regolarità” dovrebbero essere tenute presenti ai fini della conservazione, del riutilizzo e del restauro del patrimonio edilizio amico, specialmente nei
nuclei e nelle zone esteticamente rilevanti.
La Jaca Book, impegnandosi nell’impresa (ovviamente ardua e protesa nel tempo) di questa nuova doppia
collana, confida che essa possa non solo rinverdire i
meriti della serie (pur tanto diversa negli intenti e nel
carattere) fondata da Biasutti, ma, alla fine, prendere
degnamente posto accanto alle grandi consorelle pubblicate da Orell-Füssli, da Wasmuch e da Berger-Levrault. E costituire anzi, dal punto di vista tecnico, un
consistente passo innanzi rispetto a quelle.
* Presentazione al libro di Aurelio e Dario Benetti, Valtellina
e Valchiavenna. Dimore rurali, pubblicato dalla Jaca Book
nel 1977, quale primo volume della serie Dimore italiane,
rurali e civili, del cui progetto editoriale Gianfranco Miglio
era direttore.
Quaderni Padani - 35
Premessa*
di Gianfranco Miglio
H
o riunito e pubblicato insieme i tre Rapporti che seguono, non solo perchè essi
sono stati stesi a distanza appena di qualche mese l’uno dall’altro, ma anche perchè riguardano, sia pure da tre punti di vista diversi,
sempre il medesimo tema: quello indicato appunto nel sottotitolo della silloge. E proprio il
carattere organico della discussione mi ha indotto a disporre i tre scritti nell’ordine logico,
piuttosto che in quello meramente cronologico.
Agli occhi di più d’un mio collega questo volumetto sembrerà probabilmente un tipico
“uovo fuori del paniere”.
Prima di tutto perchè, se il mio interesse per
i problemi del governo del territorio è noto,
non lo è altrettanto quello per la storia dell’architettura rurale in genere, e degli insediamenti alpini in particolare.
E poi perchè nelle pagine che seguono non si
fa un discorso freddamente “cognitivo” (scientifico) ma si presuppone, accettandolo, un “valore” (la conservazione dell’ambiente storico
montano) e si ragiona all’”interno” di esso. E
per uno studioso il quale ha sempre negato
l’oggettività (e quindi la “verità”) di qualsiasi
scelta operativa, il peccato di incoerenza può
sembrare rilevante.
Confesso che, a più riprese, mentre scrivevo,
sono stato tentato di ricercare non già come si
potrebbe “salvare” la civiltà montana, ma perchè (cioè in forza di quali “regolarità”) la mia
generazione è ossessionata dal desiderio di “recuperare”, conservare e “rivivere” il passato,
specialmente quello più semplice, primitivo e
spontaneo.
È lo stesso sorvegliato auto-controllo che
specialmente quando mi entusiasmo dinanzi al
disegno di una dimora alpina originale, o alla
ricostruzione del suo autentico arredamento ironico e sottile mi esorta a noti dimenticare
mai l’irriducibile soggettività di quel giudizio
di valore.
Probabilmente un tale rispetto per l’”oggettività”, affiora qua e là (per esempio in due o tre
passaggi del primo Rapporto, nella chiusa del
36 - Quaderni Padani
secondo, nell’esordio del terzo e nella Nota finale). Tuttavia desidero sia chiaro che non considero queste pagine una “produzione scientifica”, essendo esse troppo spesso “inquinate da
valori”.
Ciò potrà forse sconcertare chi le troverà magari abbastanza persuasive: ma mi ritengo
troppo impegnato a dimostrare quanto diverse
siano - nel campo dei comportamenti umani le “vere” (e rarissime) analisi “cognitive”
(scientifiche) dai semplici “ragionamenti”, per
non approfittare anche di questa occasione. E
così (per restare nella metafora) si scoprirà che
l’”uovo” non poi tanto “fuori del paniere”.
Il titolo della silloge è tratto dalle pagine finali del terzo Rapporto: quello in cui la “scelta
di valore” è più evidente. Legato alla Valtellina
(ed anche alla sua storia religiosa) per ricorrenti, secolari tradizioni di famiglia, mi sono sempre sentito e considerato un “Retico”.
Tuttavia non credo che questo “spirito di appartenenza” mi faccia troppo velo quando affermo che nel patrimonio etico della gente alpina
sopravvive in misura evidente un’attitudine al
cui recupero la sgangherata società del nostro
tempo dovrà presto o tardi piegarsi: il realismo,
e quindi il rifiuto dell’utopia.
Le note a piede di pagina sono state stese per
questa edizione: esse contengono argomenti
che avevo sviluppato a voce, oppure costituiscono, in certo modo, un aggiornamento del
testo. La Nota finale sulla “struttura megalopoli” contiene considerazioni che probabilmente
meriterebbero una sede di maggior rilievo: ma
l’abitudine di relegare i pensieri meno futili
nelle postille ai miei scritti, è un vizio da cui
probabilmente non guarirò mai.
* Premessa al libro Ricominciare dalla montagna (Milano:
Giuffrè Editore, 1978). Il volume, parte della Collana della
Banca Piccolo Credito Valtellinese, raccoglie tre rapporti sul
governo dell’area alpina nell’avanzata età industriale redatti
da Gianfranco Miglio e presentati a tre diversi Convegni. Di
seguito vengono riportati due di tali rapporti. Il terzo, “La
Valtellina: un modello possibile di integrazione economica e
sociale” era stato presentato a Sondrio il 19 gennaio 1978.
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Le trasformazioni dell’edilizia alpina*
di Gianfranco Miglio
Non credo che si possano fare considerazioni e
previsioni serie sulle trasformazioni attuali degli
insediamenti alpini, se non si accettano le seguenti
proposizioni elementari :
1) Le popolazioni indigene tendono ad abbandonare
le montagne e ad emigrare in pianura, attratte dalla
più intensa vita economica e sociale che si svolge nelle città.
2) Le popolazioni urbane tendono a risalire le montagne e a soggiornarvi per periodi più o meno lunghi,
attratte ivi proprio dall’assenza degli aspetti più negativi dell’intensa vita delle città.
3) Là dove il secondo fenomeno raggiunge dimensioni e stabilità determinate, il primo fenomeno si arresta.
4) Al di là di una certa intensità, il secondo fenomeno
modifica l’ambiente montano fino a distruggerne l’appetibilità, e quindi ad annullare gli obiettivi per i quali
il fenomeno stesso si è prodotto.
A monte di queste quattro proposizioni ne esiste
un’altra, assai più generale, che bisogna egualmente
considerare:
5) La “marcia verso le montagne” è soltanto un aspetto parziale di un fenomeno molto più ampio, prodotto
dallo sviluppo della civiltà industriale. Quest’ultima
infatti implica necessariamente la non-salubrità o, almeno, la scarsa salubrità degli insediamenti produttivi; e costringe quindi gli uomini a trascorrere una
parte della loro esistenza (della loro giornata, della loro settimana, o addirittura della loro vita) lontano dal
luogo di lavoro o di produzione, in un ambiente che
si suole definire “salubre”, “incontaminato”, “vergine”, eccetera, ma che sarebbe meglio chiamare semplicemente pre-industriale, e cioè caratterizzato dalle
forme più arcaiche di sopravvivenza - l’agricola e la
silvo-pastorale - delle quali il fisico umano (per lunga
assuefazione) non può ancora fare a meno.
1
Il misconoscimento delle proposizioni sopra
esposte conduce ecologi ed amministratori a
commettere errori grossolani.
Sbagliano, per esempio, coloro i quali sognano una
montagna che, conservata scrupolosamente nel selvaggio stato originario, la gente di pianura dovrebbe
limitarsi a visitare, come si visitano con compunzione
i “parchi naturali”. E ciò perchè, specialmente la ge-
2
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
nerazione dei montanari più giovani, non accetta ormai la solitaria esistenza dell’economia silvo-pastorale
di un tempo; e poi perchè, per mantenere quest’ultima nella integrità originale, occorrono opere le quali
non possono essere autofinanziate, e quindi esigono
risorse cavate dalla più ricca economia di pianura.
Sbagliano coloro i quali pensano che le vallate alpine possano e debbano essere sacrificate, senza limiti
oggettivi, alle esigenze residenziali della gente di pianura: perché l’addensamento abitativo è in contraddizione strutturale con l’ecologia montana. Da millenni
gli uomini salgono le montagne per “stare in pochi”.
Il problema che sta alla base di ogni “politica della
montagna”, consiste appunto nel trovare un equilibrio fra vecchi e nuovi insediamenti, in modo da ripopolare le vallate alpine senza modificarne sostanzialmente la struttura ecologica.
Errano ancora coloro i quali si immaginano che l’adozione di opportune misure tecniche potrebbe rendere salubre l’esistenza nei moderni impianti industriali, e nelle loro immediate vicinanze, cosi da prolungare il modello ecologico antico che vedeva l’abitazione contigua al luogo di lavoro. Le aree industriali
saranno sempre più quelle in cui si risiede per il tempo strettamente indispensabile, fruendo di aria ed acqua solo artificialmente “pure”. Soltanto un certo tasso di “mitridatizzazione”, e sopra tutto il periodico
soggiorno in aree pre-industriali, consentiranno
all’”uomo industriale” di sopravvivere ai veleni che
l’evoluzione della specie lo costringe a produrre.
Sbagliano di conseguenza anche coloro i quali (e a
questo gruppo apparteniamo un po’ tutti) considerano ovvia l’idea che in ogni unità territoriale dovrebbero aversi le stesse componenti: industriali, agricole,
artigianali, terziarie ed abitative. Lo stadio ‘industriale’ della nostra specie renderà invece sempre più attuale il principio della complementarità delle varie
parti della superficie terrestre. Al limite ci saranno
delle aree (probabilmente una buona parte dell’attuale “terzo mondo”, ancora non toccata dallo “sviluppo”
industriale, ma certamente tutte o quasi le zone mon* Rapporto presentato, per la partecipazione della Regione
Lombardia, al Symposium Bauen im Alpenraum, organizzato dalla “Arbeitsgemeinschaft Alpenländer” (ARGEALP) in
Badgastein (Land Salzburg) dal 6 all’8 ottobre 1977.
Quaderni Padani - 37
tane dell’Occidente) destinate soltanto al “tempo libero” ed alla “decontaminazione”, perchè compatibili
unicamente con certe attività agricole, silvo-pastorali
o artigianali. E non è il caso di sgomentarsi dinanzi
agli spostamenti periodici di masse che questa prospettiva preannuncia: i nostri lontani antenati del Paleolitico, fruivano di una mobilità per frequenze e distanze oggi inimmaginabile. Commettono infine un
errore marchiano coloro i quali considerano l’aspirazione alla “seconda casa” costantemente una manifestazione deplorevole di ozioso “consumismo”. La “seconda casa” - e quindi anche la casa per le vacanze in
montagna - è invece, sempre più frequentemente, un
corollario strettamente inevitabile del modo di produrre “industriale”. Non è assurdo immaginare che,
in una società futura, probabilmente ancora più “pianificata” di quella odierna, sarà la stessa pubblica amministrazione a condurre una politica promozionale
della “seconda casa”, naturalmente intesa ed utilizzata nel modo che ho chiarito.
Probabilmente il rapporto più tipico ed esemplare fra pianura industrializzata e montagna è
quello che si sta creando sul versante meridionale
della catena alpina e prealpina, lungo la valle del Po.
Nel Talweg padano infatti si vanno sempre più addensando gli insediamenti urbani ed industriali, fino
quasi a costituire una lunga, ininterrotta città orizzontale: forse una futura “megalopoli”.(1) In questo
esteso bacino industriale vive una popolazione produttiva che, in misura crescente - e con moto “pendolare” - si sforza di tornare alla sera (o almeno di trascorrere una parte della settimana) in abitazioni arroccate ai piedi delle prealpi o nelle prime vallate di
queste. In vista di tale movimento, la fascia prealpina
ed alpina si qualifica sempre più come la complementare area residenziale ordinaria (non più dunque meramente “turistica”) dell’area industriale padana.
(Un’analoga funzione forse potrebbero in seguito assumere anche le pendici settentrionali dell’Appennino
ligure-emíliano).
Gli attuali imponenti spostamenti di fine-settimana
- con i gravi problemi di viabilità, di traffico e di economia dei trasporti che tutti conoscono - lasciano
prevedere che la dinamica dei rapporti ecologici nella
Valle del Po, una volta ridotta ad assetto razionale, dovrebbe essere la seguente:
gli individui in età produttiva risiedono, durante la
parte lavorativa della settimana, in una abitazione urbana abbastanza prossima al luogo di impiego, raggiungono, nei giorni settimanali di riposo (e durante
le ferie), la “seconda” casa nella fascia “salubre” prealpina dove già abitualmente risiedono i membri più
giovani e più Quando, nella rotazione generazionale,
3
38 - Quaderni Padani
essi stessi diventeranno “i vecchi”. cederanno l’alloggio urbano anziani (pensionati) della famiglia. ai figli,
diventati “produttivi” e si dedicheranno a loro volta
all’allevamento dei nipoti.
Un sistema adeguato di mezzi pubblici di trasporto,
dagli insediamenti urbani industriali ai piedi delle
prealpi - integrato dai mezzi privati per l’inoltro nelle
vallate - potrebbe consentire l’ordinato svolgersi del
movimento “pendolare” settimanale (ed in parte anche giornaliero). La stabile residenza della popolazione cittadina più giovane e più anziana nelle località
montane, implicherebbe la creazione di rapporti economici e di infrastrutture, suscettibili di “ancorare”
sul posto la popolazione propriamente “alpina”, frenando la sua tendenza ad emigrare al piano. Non è un
mistero per nessuno che le più floride e salde società
montane si sono organizzate là dove si è normalizzato
un consistente e costante afflusso stagionale (o bi-stagionale) di residenti-turisti.
Nella quarta delle proposizioni enunciate in
principio, è reso esplicito ciò che differenzia un
insediamento montano da un insediamento in pianura: e cioè l’intrinseco limite dimensionale.
Mentre in pianura è possibile qualsiasi assetto razionale degli sviluppi abitativi, in montagna i nuclei
residenziali (a parte il limite strutturale ricordato più
sopra) incontrano ostacoli severi, imposti sia dalla
struttura del terreno, sia dalla modestia delle aree utilizzabili.
Se si comincia a considerare il problema delle costruzioni in aperta campagna. si deve rilevare che il
4
(1) La prospettiva di una ‘megalopoli padana’ è stata recentissimamente analizzata ex professo (e confermata) - sopra
tutto da Jean Gottmann e da Cesare Saibene - nella raccolta
di studi Megalopoli mediterranea pubblicata da Calogero
Muscarà (Milano 1978, Franco Angeli). Ma il mio accenno si
riferiva ai risultati di una ricerca (tuttora inedita) da me
stesso progettata, e diretta dal collega Innocenzo Gasparini
nel 1975, su “L’unità economico-sociale della Padania”, cioè
sul grado di integrazione economica delle regioni settentrionali, comparato con quello rilevabile nell’Italia centrale, meridionale ed insulare. Sul tema della “Padania” e della sua
naturale individualità rispetto al resto del paese (illustrato in
due miei articoli pubblicati dal Corriere della sera il 28 dicembre 1975 e il 20 marzo 1976) ebbi un’aspra polemica con
i professori Francesco Compagna e Giuseppe Galasso (Nord
e Sud gennaio 1976, e La Stampa 31 marzo 1976). Ora ho
constatato (senza troppa meraviglia) che il Compagna, proprio nella “Conclusione” della silloge curata da Muscarà, accetta pianamente (e non si vede come potrebbe fare altrimenti) l’idea dell’unità geo-economica della “Padania”, addirittura contrapponendo a questa una ipotetica ‘megalopoli’
del Sud. Per una persona che appena qualche mese prima
aveva scritto: “Della Padania non si discute: la si combatte
anche nel nome” non c’è male. Comunque meglio tardi che
mai. Sul tema della “megalopoli” torno nella Nota finale.
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carattere “sparso” delle abitazioni è stato imposto per
il passato dalle esigenze dell’economia agricola e
silvo-pastorale. Tipico è il “maso” (Hof) tirolese, circondato dalla poca terra arabile, dai pascoli e dai boschi dipendenti.
Considerato che lo sfruttamento economico del
suolo montano ha già raggiunto da tempo la sua massima estensione possibile, è difficile pensare che questo tipo di unità agricolo-abitativa possa espandersi
ulteriormente. Se mai si impone il problema del mantenimento e del restauro degli edifici esistenti (e della
struttura economica a cui dovrebbero continuare a
servire). Ma di questo si parlerà più avanti.
Se nelle prealpi e nelle zone collinari lombarde e
venete la viticoltura e la frutticoltura verranno sviluppate in modo sistematico, si avrà qui la possibilità di
alcuni nuovi insediamenti “sparsi”, legati appunto ancora una volta a precise esigenze produttive.
Tuttavia è chiaro che oggi la tendenza a creare nuove case montane in “aperta campagna” ha una radice
del tutto diversa si tratta di residenze per le vacanze,
da godere in proprietà o in affitto. E costruttori sono
pertanto o cittadini, o montanari che affiancano all’attività silvopastorale quella alberghiera, o della locazione di alloggi estivi o invernali.
Se si confrontano le due tendenze, quella antica e
quella odierna, si nota in primo luogo che mentre la
relazione tra le fattorie e le aree agricole dipendenti
rendeva le prime abbastanza distanziate nel paesaggio, le unità abitative per il “tempo libero” possono
moltiplicarsi e addensarsi fino a creare con il paesaggio un rapporto distruttivo del carattere originario
dello stesso. È legittimo il desiderio che ognuno alimenta di poter vivere in montagna sufficientemente
isolato: ma l’affollamento di certe famose “conche” alpine ha dimostrato che, al di là di un certo indice di
addensamento, nessuno gode più nonchè l’isolamento, neppure il paesaggio montano.
In secondo luogo, mentre le infrastrutture ed i servizi di cui, fino ai primi decenni di questo secolo, abbisognava una fattoria alpina, erano assai modesti, le
esigenze di una moderna unità abitativa sono radicalmente maggiori: si pensi soltanto alle strade carrozzabili ed ai parcheggi. agli acquedotti ed ai servizi igienici.
In linea generale (e a parte il caso di restauro di edifici sparsi già esistenti) si dovrebbe quindi scoraggiare
ed ostacolare in tutto il territorio alpino la creazione
di unità residenziali veramente “isolate”, e favorire invece il loro raggruppamento in nuclei la cui ubicazione, estensione e densità sia stata accuratamente programmata, in modo da non turbare i tratti essenziali
del paesaggio. Anche perchè, considerata l’elevata vulnerabilità dell’ambiente montano, non è pensabile
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che ognuno sia autorizzato a costruire la propria casa
dove gli accomoda, senza tener conto del danno che
tale attività edificatoria può arrecare appunto al paesaggio da tutti goduto.
Queste considerazioni introducono all’altro tema: quello cioè dell’utilizzazione, ed eventualmente dell’espansione, dei centri abitati montani esistenti. Ogni nucleo edilizio, dovunque e comunque
sia sorto e si sia sviluppato, ha una sua forma complessiva che entra a far parte dell’ambiente circostante. Ma è chiaro che il profilo di un villaggio alpino –
anche per la lentezza con cui gli insediamenti montani si estendono – costituisce un elemento storico
decisivo ed assolutamente peculiare del relativo paesaggio.
Nelle prealpi e nelle alpi lombarde si è già visto purtroppo a più riprese come bastino poche case-scatolone, pochi “grattacieli”, per distruggere irrimediabilmente la peculiarità ed il fascino di un villaggio alpino
e del paesaggio circostante. Ma per conservare l’ambiente qui non sono necessari soltanto limiti di altezza, di volumetria e di addensamento dei singoli edifici: a parte la disciplina delle forme architettoniche (di
cui si parlerà più avanti) bisogna riconoscere che,
mentre una città o un borgo di pianura possono
estendersi senza perdere gran che della loro identità,
un villaggio montano non può allargarsi oltre una
certa dimensione senza cessare di essere quello che è,
e che si vorrebbe continuasse ad essere. È quindi indispensabile stabilire, per ogni nucleo abitato alpino, un
limite dimensionale accuratamente dedotto dalla sua
stessa forma, dal suo profilo cosi come si è storicamente determinato. Anzichè aggiungere nuove unità
abitative, al di là di quel limite, si dovranno fondare
nuove frazioni, studiandone con cura l’ubicazione,
estensione ed il rapporto spaziale con il capoluogo.
In generale si dovrebbe cercare di ripercorrere e ripetere le scelte effettuate dagli spontanei creatori del
villaggio originale: non “copiare”, ma “rivivere” il passato. Comunque bisogna accettare senza tentennamenti questo principio fondamentale: l’area alpina ha
una capacità di ricezione degli insediamenti abitativi
strutturalmente limitata. Al di là di un certo livello di
addensamento, bisogna prevedere che nelle Alpi non s
i costruiscano più nuove case.
5
Se i vincoli sulla quantità, sulla densità e sulla
ubicazione delle nuove costruzioni, costituiscono un problema delicato, ancora più complesse sono
le questioni relative a) alle forme architettoniche da
rispettare nella progettazione dei nuovi edifici, e b) ai
materiali da impiegare nelle costruzioni stesse.
Si presentano innanzi tutto i problemi del restauro.
6
Quaderni Padani - 39
Sia nel caso delle costruzioni sparse, sia all’interno
di un villaggio - ed anche di un grosso borgo montano - è pacifico che il ripristino degli edifici del passato (e cioè non recentissimi, ed anonimi) debba vedere strettamente subordinate le ragioni del nuovo uso
alla conservazione delle forme e delle dimensioni
preesistenti. Al limite, bisognerà cercare utilizzazioni compatibili con tale regola imperativa. Contrastando, per esempio, certe “ristrutturazioni” dei vecchi cascinali in abitazioni per le vacanze, che senza
ragione alcuna (fuorchè quelle del cattivo gusto e
dell’uso economico comune) troppo concedono alle
banalità dell’edilizia da sobborgo urbano.
Lo stesso rigore deve essere osservato per quanto
concerne i materiali: essenze lignee, minerali vari,
metalli, malte, eccetera devono essere reintegrati e
replicati con identificazioni scrupolose, senza cedere alla tentazione di impiegare sostanze e risorse attuali. In fondo non si tratta mai, o quasi mai, di difficoltà insuperabili.
Un caso particolare mi sembra costituito dall’aggiunta di impianti tecnici moderni alle fattorie agricole. Penso, in modo speciale, all’effetto deturpante
che hanno i silos per foraggi, cilindrici ed in metallo
lucente, annessi, con le loro condutture in lamiera
zincata, alle antiche case coloniche della Svizzera tedesca e del Tirolo. Se non le forme, le dimensioni ed
i materiali, almeno i colori dovrebbero avvicinare
queste indispensabili strutture agli edifici preesistenti.
Un altro caso, abbastanza generale, è forse costituito dalle trasformazioni in atto per quanto concerne le strutture ed i materiali dei tetti. Per esempio,
nelle costruzioni agricole della Valtellina, anche
molto antiche e pregevoli, i vecchi tetti in scandole
di legno e di pietra sono stati rapidamente e diffusamente sostituiti, per ragioni economiche, da squallide lamiere di ferro zincato ed ondulato. Con effetti
distruttivi dal punto di vista estetico e della conservazione dell’ambiente storico. Anche in questo caso
norme tecniche accuratamente predisposte, ed opportuni incentivi economici, dovrebbero rendere
convenienti soluzioni più consone.
Ma è certo nei confronti delle costruzioni interamente nuove che l’adozione di moduli e di
forme architettoniche predeterminate si presenta insieme - come indispensabile, non agevole, e delicata anche dal punto di vista giuridico. Si può cominciare con una osservazione di carattere generale:
mai come oggi, nel progettare una seconda casa i
“per le vacanze” (e talvolta anche una “prima casa”
si sono visti committenti ed architetti ispirarsi a modelli “rustici” od “alpini”: o almeno a ciò che essi ri-
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40 - Quaderni Padani
tengono (ahimè!) essere il modello “rustico” ed “alpino”.
Questa moda (che si radica nel profondo desiderio
di una “più semplice” e “genuina” vita primitiva, e
quindi costituisce una ulteriore manifestazione del
fenomeno rilevato in principio con la seconda proposizione) ha generato un vero e proprio falso “stile
rurale” e un falso “stile montano”, i cui esempi, ormai dilaganti, stanno deturpando, come un nuovo
Kitch, non solo i paesaggi alpini, ma anche i sobborghi residenziali di molte città europee.
Tuttavia bisogna anche riconoscere che mai come
oggi, per contro, si è sviluppato lo studio rigoroso
della cosi detta “architettura minore” civile e rurale,
e quindi anche “montana”.
Per la verità è dal primo decennio di questo secolo
che si è cominciata a raccogliere una documentazione rigorosa di questa parte speciale dell’arte e della
tecnica edilizia. Nel 1903 esce infatti il primo volume della monumentale Bauernhaus in Deutschland,
Oesterreich und der Schweiz (und Kroatien), compilato dalle rispettive “Architekten - und Ingenieur
–Vereine”; nel 1910 esce il primo tomo dell’altrettanto monumentale Bürgerhaus in der Schweiz
(che tanto contribuì alla conoscenza storica dell’edilizia alpina); nel 1908 Aristide Baragiola pubblica il
suo famoso libro sulla Casa villereccia delle colonie
tedesche veneto-tridentine.
In Italia fu nel primo Dopoguerra che, per merito
di Renato Biasutti, nel 1926, venne progettata quella
serie di Ricerche sulle dimore rurali in Italia, poi
snodatasi, nella sua esecuzione, fino ai giorni nostri.
Ed il secondo Dopoguerra ha visto uscire in Germania, a partire dal 1959, la splendida collana Das
deutsche Bürgerhaus (anch’essa promossa dalla
“Deutsche Architekten - und Ingenieur –Verband”),
e in Spagna, dal 1973, le sterminate ricerche sulla
Arquitectura popular espaòola di Carlos Flores. Tutte collane ed opere che hanno contribuito ad allargare la conoscenza dell’architettura montana.
Una bibliografia completa delle monografie e delle
collane dedicate nei diversi paesi europei a questo
ramo della ricerca storico-artistica, riempirebbe, per
sé stessa, più di un grosso volume. E non si tratta
soltanto di studi estetici ed esteriormente descrittivi:
perchè anche le particolarità tecnico-costruttive sono state spesso esplorate con rigore e diligenza. Scegliendo a caso in quest’altra folla di libri, posso ricordare le indagini sulla carpenteria che ruotano attorno alla grande Alemannische Holzbaukunst di
Hermann Phleps, e che hanno trovato recente, nuova rigorosa espressione nella Deutsche Fachwerkbau
di Binding-Mainzer-Wiedenau; le ricerche in Francia
di Doyon ed Hubrecht, e quelle di Roger Fischer che
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
tanto ha contributo ad isolare e colpire gli errori di
certe “ristrutturazioni”; gli studi in Italia del compianto architetto Mario Cereghini il quale, se fosse
stato vivo, sarebbe sicuramente oggi fra noi.
Certo i paesi di lingua tedesca (e non soltanto qui
oggi a Badgastein!) hanno sempre fatto la parte del
leone nello studio dell’architettura rurale e montana. Non è quindi per caso se i più ricchi e numerosi
musei etnico-folkloristici, ed i più suggestivi e preziosi “Musei all’aperto”, si trovano nell’Europa centrale e settentrionale. Tale documentazione - si pensi
agli ‘interni’ alpini accuratamente ricostruiti, ed ai
veri e propri villaggi assemblati e riedificati - fornisce un imponente materiale di studio, forse altrettanto decisivo di quello prodotto dalle collane e dalle
monografie a stampa.
Un altro punto di merito va tuttavia riconosciuto
in questo campo alla cultura germanica. Alludo al
costante interesse per la documentata conoscenza
della forma dei borghi e delle città. Il paese che ha
dato i natali all’instancabile, magico topografo
Mathaeus Merian, ne ha continuato poi fedelmente
la tradizione, fino a quella mirabile collana Die alte
deutsche Stadt fondata da Friedrich Bachman, e
purtroppo rimasta incompiuta. Quando più sopra
accennavo alla necessità di fissare e tutelare i “profili” dei borghi e dei villaggi alpini, pensavo appunto
alla possibilità di utilizzare documentazioni come
queste (e come quelle delle Quatre cents vues des
villages d’Artois en 1605-1610 pubblicate da Berger
e Dubois nel 1960).
Ma vorrei tornare ora alla contraddizione già
rilevata. Come si può spiegare il contrasto fra
tanti rigorosi, particolareggiati, e raffinati studi,
compiuti negli ultimi ottant’anni sull’architettura
montana, e le scoraggianti, rozze falsificazioni a cui
si abbandonano committenti ed architetti in tante
plaghe delle Alpi?
A mio parere esiste una evidente frattura culturale, per la quale i risultati della ricerca storico-architettonica vengono ignorati, non solo dalla più vasta
pubblica opinione, ma perfino dagli operatori tecnici
(architetti e costruttori) e dai pubblici amministratori. Se la gente comune non avesse alcun interesse
a “rivivere” (e quindi a conservare ed a replicare) le
forme culturali dell’abitazione alpina, si potrebbe
freddamente giudicare il patrimonio documentale
raccolto da generazioni di appassionati dell’edilizia
montana, come il prodotto di una pur tenace mania
collezionistica e nostalgica: come il “divertimento”
raffinato di pochi strambi intellettuali.
In fondo, sappiamo tutti che non è assolutamente
possibile dare un fondamento oggettivo alla tesi per
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Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
la quale ciò che è rimasto dell’architettura del passato “deve” essere conservato (o ripristinato) così come era prima delle più recenti trasformazioni dell’età industriale.
Infatti, cosa dire delle mutazioni e delle irreparabili distruzioni avvenute nel passato? E di quelle che
inevitabilmente si produrranno nel futuro? Se la
specie umana ha veramente ancora un considerevole
percorso di vita davanti a sé (cosa peraltro di cui autorevoli biologhi, come è noto, cominciano a dubitare) non è difficile prevedere che le muraglie di muto
cemento, oggi tanto vituperate, fra cento o duecento
anni verranno conservate e protette anch’esse come
preziosa testimonianza del passato.
Il punto fermo è comunque questo: quelle che appena una generazione fa erano considerate le inclinazioni sofisticate di rari “passatisti”, oggi sono diventate le esigenze diffuse di strati sociali sempre
più vasti. Diffuse, ma anche confuse e prive di punti
di riferimento oggettivi. Cosi che il compito ora incombente sta proprio nel rendere accessibile, a tutti
i livelli culturali, il multiforme patrimonio delle autentiche particolarità storiche accertate, e, sopra tutto, i modelli e le regole generali che, ricavati da
quelle particolarità, consentono di perpetuarne la
tradizione in modo genuino.
È tempo infatti di reagire contro lo sciocco pregiudizio di chi, ossessionato dal timore del “falso”,
vorrebbe che, nelle nuove costruzioni e nelle “ristrutturazioni” non si usassero i moduli e gli accorgimenti tecnici del passato. Quando si è riusciti veramente a penetrare e rivivere il gusto di un’epoca (e
si dispone degli stessi materiali) si possono realizzare architetture che, ancorchè tenute rigorosamente
distinte dalle originali, producano le stesse emozioni
e gli stessi effetti sul paesaggio.
Non si tratta del resto di operare “contro-corrente”: tutti sanno quanti libri, albi e guide divulgative
ormai si vendano sull’architettura alpina, e quanta
sia la gente, anche di umile livello culturale, capace
di commuoversi dinanzi ad una vecchia bàita, scovata in mezzo ai boschi o fra i pascoli, e disposta ad indignarsi per la sua distruzione.
Ma prima di indicare le vie per le quali si dovrà
venire incontro a questo spontaneo amore per
il passato - e proprio anche per misurare la portata
di una tale operazione - è indispensabile affrontare
gli aspetti legali ed amministrativi di una coerente
“difesa della residenzialità alpina”.
È infatti evidente, da tutto quanto detto fin qui,
che soltanto l’adozione e l’osservanza di norme molto estese, articolate ed affinate potrà consentire di
sfruttare le capacità residenziali delle vallate alpine
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Quaderni Padani - 41
senza modificarne irreparabilmente gli aspetti ecologici fondamentali.
La domanda che si pone è: come si deve costruire
in montagna, e chi lo deve stabilire?
Comincio dal secondo interrogativo. È da escludere che i legislatori più appropriati siano costituiti
dalle comunità indigene: la spinta a un’edilizia abitativa indiscriminata, da sfruttare con la locazione per
le vacanze, viene spesso proprio dalla popolazione
locale; mentre, quando l’efficienza economica
silvo-pastorale si abbassa otre un certo livello, sono
gli antichi utenti i primi a sacrificare, senza batter
ciglio, boschi e pascoli alla nuova forma di sfruttamento. D’altronde il principio “la montagna ai montanari” - a parte la sua incongruenza con una gestione globale delle risorse ecologiche - potrebbe essere
sostenuto solo se l’economia alpina fosse in grado di
sussistere senza l’ausilio delle risorse finanziarie
prodotte altrove.
Naturalmente, nemmeno le popolazioni dei centri
urbani che aspirano ad abitare le montagne comprese nel territorio del proprio Stato, o della propria Regione, sono le più disposte ad accettare, e ad
auto-imporsi, norme limitative severe: perchè proprio esse sono le protagoniste dell’”assalto” alle Alpi.
Le autorità legislative ed amministrative, anche in
questo campo, saranno perciò costrette a non dare
troppo ascolto alla cosi detta “volontà popolare”: almeno - qui sta il punto - finchè questa non sia sufficientemente informata e quindi ogni singolo utente
possa toccare con mano che se tutti “fanno i propri
comodi”, anche soltanto nella scelta delle forme stilistiche, il paesaggio viene distrutto per tutti.
Anche in Italia sono passati i tempi in cui il fondatore dell’Unità nazionale, Camillo di Cavour, chiedeva ed otteneva (1861) l’abolizione, per le cosi dette
“Commissioni di ornato”, di ogni ingerenza nell’edilizia privata.
Certo se si pensa che quegli organi avevano fino
ad allora consentito alla vecchia nobiltà di impedire,
con la scusa dell’estetica, alla nascente borghesia cioè ai nuovi ricchi - di costruirsi case più belle e comode di quelle dell’aristocrazia, sorge il dubbio sottile se per caso anche l’attuale tendenza a tutelare
gelosamente il paesaggio, le montagne, i boschi, i laghi ed i fiumi, non rappresenti un ennesimo esempio di sopraffazione degli interessi (magari rozzi) di
estesi strati popolari, da parte di una esigua aristocrazia elitario-culturale.
E se si considera il modo con cui talvolta negli organi, sorti al posto delle antiche “Commissioni di ornato”, le vedute, le ubbie personali (e magari anche
le scarse dotazioni culturali) di questo o di quell’architetto finiscono per diventare norma cogente ap-
42 - Quaderni Padani
plicata a tutti (o quasi) i cittadini, il dubbio si rafforza ancor più.
Ma, fortunatamente, le leggi ed i regolamenti, anche nel campo dell’edilizia alpina, possono essere
sottratti al pericolo della soggettività e dell’arbitrio.
Poichè qui non si tratta di scegliere tra interessi, o
tra valori diversi, ma di accertare quali sono le regole alle quali, spontaneamente, ha obbedito l’edilizia
alpina (almeno fino a quando non sono cominciate
le deformazioni dell’età industriale) e di trasformare
queste regole in norme non più spontanee, ma esplicite e cogenti, l’intera operazione è oggettiva, e
quindi può essere compiuta.
Il punto è questo: bisogna che, a regolare la
edilizia alpina, provveda la vecchia attraverso il prolungamento imperativo delle sue regole un tempo
spontanee.
L’operazione, più che intellettuale, è ormai addirittura scientifica. Debbo ancora una volta far riferimento ad una esperienza dei paesi di lingua tedesca,
e ricordare come, per alcuni Länder in Germania,
esistano già dei preziosi Baufibeln in cui i moduli
edificatori per le case rurali e civili (da costruire ex
novo, o da restaurare) e per i relativi particolari e
materiali, sono stati, da pazienti specialisti, scrupolosamente ricavati dalle testimonianze del passato,
anche statisticamente classificate e misurate.
Se si pensa all’imponente complesso già esistente
di ricerche specialistiche sulla storia dell’edilizia alpina, più sopra ricordato, e agli studi e alle esplorazioni che si stanno sempre più moltiplicando, non è
per nulla azzardato affermare che le autorità legislative ed amministrative. solo che lo volessero, potrebbero, per ogni unità storico-territoriale della catena
alpina, dettare norme urbanistiche ed edilizie, che
non fossero l’opinione personale (magari molto autorevole) di questo o di quel personaggio, di questo o
di quel “Comitato tecnico”, ma il risultato di rilevazioni e di misurazioni compiute in sede storico-tecnico-scientifica, documentate e, sopra tutto, esposte,
attraverso la pubblicazione e la divulgazione, alla conoscenza ed alla critica non solo degli specialisti, ma
anche di tutti gli amministrati.
E con ciò si torna a riconoscere la necessità
di una azione organica, e a largo raggio, per
far si che i risultati delle ricerche sulla storia dell’edilizia alpina, delle sue tecniche e della sua estetica,
siano portate alla conoscenza degli amministratori
pubblici, degli organi tecnico-normativi, e del grande pubblico.
In sostanza è indispensabile:
a) incoraggiare con ogni mezzo lo sviluppo delle ricerche predette rendendolo quanto più possibile si-
10
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
stematico; incoraggiare la raccolta e la divulgazione
della documentazione relativa, con opportune iniziative editoriali;
b) favorire lo scambio delle informazioni e la conoscenza delle attività fra i diversi “fronti” locali in cui
le ricerche si articolano e si svolgono, allo scopo anche di colmarne eventuali lacune documentali, con
testimonianze analogiche;
c) elaborare metodologie comuni, non solo per la ricerca e per la trasmissione dei suoi risultati, ma anche per la trasformazione di questi ultimi in testi
normativi.
Per conseguire questi risultati sarà probabilmente
necessario costituire. a livello europeo, qualcosa come un “Istituto per la storia dell’edilizia alpina”.
Dal 1973, del resto, il Consiglio d’Europa sta svolgendo un’azione costante allo scopo di conservare e
proteggere il patrimonio architettonico europeo: il
Colloquio di Bologna del 1974 sul recupero di quel
centro storico, il Colloquio dí Krems del 1975 sulla
“rivitalizzazione” di una città media austriaca, il
Congresso di Amsterdam dello stesso anno e la proclamazione della “Carta europea del patrimonio architettonico”, il Colloquio di Berlino del 1976 sulle
vestigia del passato nelle metropoli europee.
Ora si apprende che, proprio fra qualche giorno, a
Granada, verranno affrontati i problemi dell’edilizia
storica rurale e della sua conservazione.(2)
Mi sembra dunque che i tempi siano maturi perché - ad opera e nel quadro della “Fondazione Europea” suggerita dal “Rapporto Tindemans”(3) - venga
creata una solida e permanente struttura internazionale, incaricata di suscitare, incoraggiare, e sopra
tutto coordinare, nelle varie regioni della Comunità,
lo studio e la conservazione del passato.
Tale organismo dovrebbe distintamente occuparsi
tante dell’edilizia minore “civile”, quanto di quella
“rurale”. ed, entro questo secondo settore, dovrebbe
appunto ospitare un, centro votato allo studio storico dell’architettura alpina.
Questo “centro” o “istituto” dovrebbe articolarsi
in Sezioni, corrispondenti alle Regioni (non agli Stati) che comprendono nel loro territorio una parte
dell’area alpina; ogni Sezione dovrebbe raggruppare
le istituzioni che, nel suo territorio, operano nel
campo della ricerca della storia dell’edilizia alpina:
ove queste istituzioni non esistano dovrebbe promuoverne la creazione. Singole istituzioni già affermate, che operino per unità territoriale ben delimitata ed autonoma, dovrebbero poter far capo direttamente all’Istituto europeo.
Compiti dell’Istituto europeo dovrebbero essere
quelli sopra indicati sotto le lett. a), b) e c). In generale l’Istituto dovrebbe agire come centro di raccolta
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
e di distribuzione delle informazioni di ogni genere,
concernenti lo studio dell’edilizia alpina. Dovrebbe
tenere un albo aggiornato di tutte le istituzioni, i
musei folkloristici, i gruppi, e i singoli studiosi che
si occupano dell’argomento. Dovrebbe organizzare
ricerche, pubblicazioni e manifestazioni comuni a
tutte le Sezioni o a gruppi di esse, compresi percorsi
di visita ai “musei all’aperto”, eccetera
È evidente che lo studio storico dell’edilizia alpina, cosi come l’elaborazione della normativa derivata, è un fatto essenzialmente locale: quasi ogni vallata, ogni distretto presenta caratteristiche e problemi
conoscitivi diversi da quelli degli altri. Tuttavia esistono, nel modo di costruire e di abitare in montagna, delle caratteristiche costanti e comuni che travalicano le singole particolarità. Fra le esperienze
più toccanti che confesso di avere fatto nella mia ormai lunga attività di cultore della storia dell’architettura rurale, c’è proprio questa: la scoperta dei legami tecnici e formali che accomunano l’architettura spontanea contadina di paesi lontanissimi.
Se veramente si intende suscitare nei popoli europei una coscienza unitaria, senza peraltro disperdere
il patrimonio delle rispettive individualità, un tale
difficile compito non può non presupporre la conoscenza diffusa di ciò che rende “particolari” ed insieme “tipiche” e comuni le forme elementari di vita
ereditate dal passato.
E se io non provo alcun imbarazzo a, parlare di
iniziative della Comunità Europea in un Simposio
come questo. dove sono robustamente presenti due
Paesi i quali della Comunità non fanno ancora parte,
ciò accade proprio perchè sul terreno della tradizione, e più precisamente della storia della civiltà contadina ed alpina, riconoscersi e sentirsi europei è un
fatto che va ben oltre gli angusti limiti delle istituzioni.
(2) Il Convegno si è effettivamente tenuto dal 26 al 29 ottobre 1977, ed è terminato con il lancio di un appello (detto
“Appello di Granada”) alle popolazioni europee perchè non
lascino scomparire l’architettura rurale ed il suo paesaggio.
Nell’ottobre del 1978, a Vienna, le “strategie e le funzioni
delle regioni rurali in Europa” verranno studiate dalla Conferenza dei Ministri europei competenti per la programmazione del territorio. Al Convegno di Granada si è insistito
sull’urgenza di un inventario sistematico delle località e degli edifici storici rurali.
(3) La Relazione presentata dalla Commissione di Bruxelles
al Consiglio dei Nove sulla istituzione di questa “Fondazione”, ai punti 21, 22 e 23, prevede esplicitamente (e con
espressioni molto efficaci) che, nell’attività dell’Istituto, avrà
un ruolo addirittura centrale la promozione della conoscenza di quanto, nella storia dell’arte, rende peculiari ed inconfondibili, ma anche affratella, le civiltà nazionali dei singoli paesi europei.
Quaderni Padani - 43
La tutela della civiltà alpina
nell’uso razionale
della montagna*
di Gianfranco Miglio
Non è un fatto puramente casuale se il tema
1
ed il titolo del Rapporto che mi è stato affidato non fanno esplicito riferimento (come accade invece per gli altri) alla tutela dell’ambiente e
del paesaggio specificamente alpini. Questa attività, infatti, non solo costituisce una parte integrante della protezione delle bellezze naturali in
genere, ma, considerato che appena ora si stanno
progettando, qui in Italia, le norme organiche e
le istituzioni regionali e nazionali destinate appunto a regolare la gestione del patrimonio ambientale in generale,(1) è logico che l’attenzione
si rivolga dapprima a tali problemi, e soltanto subordinatamente alle questioni ed alle prospettive
emergenti nelle aree montane.
Come ormai tutti sanno, il D.P.R. 24 luglio
1977, in. 616 - in attuazione della Legge 22 luglio 1975, n. 382, e in base al secondo comma
dell’articolo 118 della Costituzione - all’articolo
82 (intitolato ai “Beni ambientali”) ha delegato
alle Regioni le funzioni amministrative che fino
a quel momento spettavano agli organi centrali
e periferici dello Stato, in ordine a) alla individuazione, e b) alla tutela, con e) le relative sanzioni, delle “bellezze naturali”. All’articolo 83 ha
trasferito altresì alle Regioni le funzioni amministrative relative alla protezione della natura, le
riserve ed i parchi naturali.(2)
Lo stesso D.P.R. n. 616 - dopo aver stabilito,
all’articolo 47, la competenza regionale in materia di funzioni amministrative relative all’esistenza, la conservazione, il funzionamento, il
pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, delle raccolte di interesse artistico, eccetera - con
l’articolo 48 ha invece rinviato ad una futura
“Legge sulla tutela dei beni culturali, da emanare entro il 31 dicembre 1979”, la definizione delle funzioni amministrative riservate alle Regioni
e agli enti locali in materia di 14 tutela e valorizzazione del patrimonio artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologico; e (all’articolo 83) ha egualmente
44 - Quaderni Padani
rinviato a futura legge nazionale la ripartizione
dei ruoli fra Stato ed enti locali in materia di
“parchi nazionali e riserve naturali dello Stato”.
Spiegherò più avanti perchè ho creduto di dover coinvolgere nel mio discorso anche questo
ordine di competenze.
Il predetto articolo 82 del D.P.R. n. 616 non
specifica quali siano da ritenere i “beni ambientali” e le “bellezze naturali”. Ma, poiché fa esplicito riferimento (diretto e indiretto, attraverso
l’articolo 31 del D.P.R. 3 dicembre 1975, n. 805)
agli articoli 1 e 2 della Legge 29 giugno 1939, n.
1497, è da ritenere che, almeno in prima approssimazione, i beni in questione siano quelli
elencati appunto nel citato articolo 1 della Legge n. 1497, e cioè:
1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri
di bellezza naturale o di singolarità geologica;
* Rapporto presentato con il titolo: Criteri di tutela ambientale e paesaggistica nella gestione delle competenze regionali al II Congresso internazionale Stadtgestalt und Stadtgestaltung im Alpenraum, organizzato dalla Regione Veneto e
dall’Internationale Gesellschaft für Stadtgestaltung, a Venezia e Cortina d’Ampezzo dal 14 al 17 marzo 1978.
(1) Il lavoro più recente sulla disciplina giuridica dei beni
“culturali” ed “ambientali” (che reca anche indicata la letteratura precedente e muove dalle acute ricognizioni concettuali di Massimo Severo Giannini) è: Tomaso Alibrandi e
Piergiorgio Ferri, I beni culturali e ambientali (Milano:
Giuffrè, 1978). L’anno precedente era stato pubblicato, in
due volumi, un poderoso ed utilissimo Codice dell’ambiente
(Milano: Giuffrè, 1977) ed era uscito un articolo di Domenico Resta, “I beni culturali nella Costituzione e nella legislazione ordinaria”, in Amministrare. Rassegna internazionale
di pubblica amministrazione, n. 3 (1977), pagg. 427-455.
Ancora due anni prima erano stati pubblicati: Antonio Brancasi, Alfredo Corfaci e Carlo Maviglia, Intervento pubblico
per la tutela dell’ambiente: ricognizione delle funzioni dello
Stato e delle Regioni a statuto ordinario (Milano: Giuffrè,
1975), e Giovanni Cannata, Materiali per un corso di politica
dell’ambiente (Milano: Giuffrè, 1975).
(2) Sui parchi regionali si può vedere ora: Francesco Ciro
Rampulla, “Il governo dei parchi regionali: la tutela della flora e della fauna”, in Amministrare, op.cit., n. 3 (1977), pagg.
457-471.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;
3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;
4) le bellezze panoramiche considerate come
quadri naturali e cosi pure quei punti di vista o
di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si
goda lo spettacolo di quelle bellezze.
Questo elenco vale - ho detto - come “prima approssimazione”, perchè mi sembra chiaro che il
termine “individuazione”, usato dal D.P.R. 616
per definire la prima competenza delegata alla
Regione, vada inteso non nel solo senso ristretto
di determinazione delle singole e concrete “bellezze naturali” da proteggere, ma anche in quello,
più lato, di specificazione (e scoperta) delle categorie di oggetti che quelle bellezze costituiscono.
Ciò discende dal fatto - a tutti accessibile che, nel tempo, la categoria ed il concetto di
“bellezza naturale” non sono assolutamente rimasti gli stessi (basti ricordare l’orrore che il Rinascimento nutrì per le montagne, e l’ammirazione che per esse provò invece il Romanticismo), e che l’una e l’altro, attualmente almeno,
sembra inclinino ad estendersi.
Tuttavia, l’elenco prodotto dall’articolo 1 della
Legge n. 1497 (forse in conseguenza del notevole livello mantenuto allora dalla tecnica legislativa) può essere considerato abbastanza illuminante: chi lo legge ha subito un’idea chiara di
che cosa sono le “bellezze naturali”. Queste consistono, non solo della “natura” in senso stretto
(suolo, vegetazione, acque, eccetera) nel suo
aspetto più o meno spontaneo - e quindi “panorami”, e “punti di vista” dai quali i panorami si
scorgono - ma anche, e contestualmente, delle
opere dell’uomo durevoli (“cose immobili” dice
la Legge) che di quella “natura” e di quei “panorami” fanno insostituibile parte: manufatti singoli o riuniti in “complessi” intenzionali o casuali: e dunque abitazioni civili e rurali, ville,
parchi e giardini, edifici funzionali (stalle, fienili, magazzini, mulini, eccetera) costruzioni pubbliche, fortificazioni, chiese, sacelli, ponti, strade, fontane, pozzi, recinzioni, eccetera.
Tutte queste “cose immobili” devono però essere “belle”: ed è sempre la Legge 1497 che si industria di rendere meno vago un tale concetto,
dal quale soltanto dipende l’attribuzione, a quelle “cose” stesse, di un “notevole interesse pubblico”. Infatti il solito articolo 1, dopo aver diAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
stinto tali “cose immobili” da quelle esplicitamente già tutelate dalla Legge 1 giugno 1939, n.
1089, perchè “d’interesse artistico o storico”, dice che esse devono almeno presentare “cospicui
caratteri di bellezza naturale o di singolarità
geologica”, una “non comune bellezza”, un “valore estetico e tradizionale”, devono essere considerate “come quadri naturali”.
Se il D.P.R. n. 616 - come si è visto - è avaro di
lumi circa la sostanza concreta dei “beni ambientali”, almeno due recenti leggi regionali si
sono invece cimentate nell’impresa.
Alludo, in primo luogo, al Testo coordinato
delle Leggi della Provincia Autonoma di
Bolzano-SudTirol 25 luglio 1970, n. 16, e 19 settembre 1973, n. 37, “sulla tutela del paesaggio” (
aggiornato al 30 aprile 1976). Il Testo coordinato, all’articolo 1 (“oggetto della tutela del paesaggio”) recita infatti:
“Per la tutela della bellezza e del carattere dei
paesaggi e siti si intende la conservazione e, dove possibile, il restauro dell’aspetto dei paesaggi
e siti, naturali, rurali ed urbani, che presentano
un interesse culturale od estetico o costituiscono un ambiente naturale tipico.
A tale scopo possono essere individuati, accanto alla tutela generica del paesaggio estesa a
tutto il territorio Dei limiti di cui all’articolo 10:
a) i monumenti naturali, consistenti in elementi o parti limitate della natura, che abbiano un
valore preminente dal punto di vista scientifico,
estetico, etnologico o tradizionale, con le relative zone di rispetto, che debbano essere tutelate
per assicurare il migliore godimento dei monumenti stessi;
b) le zone corografiche costituenti paesaggi naturali o trasformati ad opera dell’uomo, comprese le strutture insediative, che presentino,
singolarmente o come complesso, valore di testimonianza di civiltà;
c) gli elementi naturali del paesaggio (biotopi),
anche se dovuti all’opera dell’uomo, aventi una
speciale funzione ecologica sull’ambiente antropizzato circostante.
d) i parchi e le riserve naturali, ancora integre
nell’equilibrio ecologico o che presentino particolare interesse scientifico, destinati alla ricerca, all’educazione ed eventualmente alla ricreazione della popolazione;
e) i giardini ed i parchi che si distinguono per la
loro bellezza o per la rilevanza della flora o fauna ivi stanziate”.
In secondo luogo credo di dover ricordare la
Legge Regionale Lombarda 20 giugno 1975, n.
Quaderni Padani - 45
96, dedicata all’Inventario dei nuclei urbani ed
edilizi di antica formazione, Questa Legge nacque per la verità dall’intento di utilizzare l’”usato” edilizio per trarne abitazioni a carattere popolare (o quasi); ma, lungo la sua gestazione
non potè non recepire anche il concetto, ben diverso, del recupero e della tutela di quell’”usato”, inteso come patrimonio storico.
L’ambiguità, non razionalmente ed esplicitamente risolta del doppio e contrastante fine, ha
fatto si che questa legge non abbia finora avuto
neppure un principio di attuazione. Comunque,
ai fini qui considerati, dall’analisi dell’articolo 1
del provvedimento, si evince che esso mira in
primo luogo a tutelare e conservare gli edifici
antichi che rivestano valore di testimonianza
storica dai seguenti punti di vista: a) artistico, b)
ambientale, e) socio-economico; tali edifici dovrebbero trovarsi (progredendo dal generale al
più specifico): 1) nei nuclei edilizi di antica formazione, 2) nei nuclei urbani, 3) nei cosi detti
“centri storici”.
Il secondo scopo è invece quello di realizzare
la predetta conservazione come parte di un più
generale “risanamento del patrimonio edilizio
esistente”: cioè degli stabili che siano semplicemente “non recenti” ed “usati”. Conservazione e
risanamento sono quindi intesi non come fine a
sè stessi, ma come presupposti di una riutilizzazione (ove possibile) degli edifici, nel contesto
vivo degli insediamenti: sia come abitazioni. sia
per l’esercizio di attività artigianali, mercantili e
in genere terziarie (uffici e studi professionali,
eccetera) sia infine per l’esplicazione di pubbliche funzioni. Ed appunto a questo fine si fa giustamente richiamo alla “pianificazione territoriale, locale e regionale” e agli “obiettivi del
censimento biennale dei fabbisogni abitativi del
Paese” (articolo 1, primo comma, e punto a)).
Premessa necessaria all’attuazione degli scopi
della Legge è ovviamente la “realizzazione dell’inventario” degli edifici considerati come oggetto della prima finalità. E la Legge (articolo 2,
primo comma) prescrive che, entro 180 giorni
dall’entrata in vigore della stessa, la Giunta regionale predisponga “il programma attuativo”
dell’inventario predetto.
Dalla documentazione fin qui analizzata, mi
sembra si possa dedurre che, sia la Legge nazionale del 1939, sia il D.P.R. 616 ed entrambe le
Leggi regionali ricordate, presentano due chiari
difetti dal punto di vista della logica legislativa:
1) non considerano esplicitamente la tutela dei
“beni ambientali” per quello che è, cioè come
46 - Quaderni Padani
una parte organica della programmazione e destinazione del territorio, ma (a parte l’“inventario” previsto dalla Legge lombarda n. 96) la intendono piuttosto come attività episodica, da
esplicarsi ogni volta che un certo “bene”, emerge nell’attenzione degli amministratori e dell’opinione pubblica; 2) non compiono alcuno sforzo apprezzabile per “oggettivare” i criteri di valutazione in base ai quali una cosa dovrebbe essere considerata un “bene” o addirittura una
“bellezza”, agganciando tali giudizi a procedure
sufficientemente spersonalizzate.
Da queste non soddisfatte esigenze di fondo si
può muovere per individuare le istituzioni e le
norme che dovrebbero, secondo un disegno ottimale, realizzare la futura amministrazione regionale dei “beni ambientali” e delle “bellezze
naturali”.
Nessuno, credo, vorrà negare che l’ambiente
2
ed il paesaggio non abbiano affatto ovunque
lo stesso valore. Le cosi dette “bellezze naturali”
si trovano certo dappertutto: ma mentre emergono frequenti e diverse l’una dall’altra dove il suolo
è movimentato per la presenza di colline, valli e
montagne, cedono invece il passo alla ripetizione
ed alla monotonia là dove il terreno si stende pianeggiante e senza particolari mutazioni.
Non è stato ancora notato (mi sembra) che,
nel linguaggio amministrativo dell’età barocca
(ma ancora oggi talvolta), quando si voleva contrapporre, con un tono leggermente svalutativo,
la campagna alla città, si chiamava la prima:
Platte Land, Flachland, Plat pays: dunque la
“campagna” indifferenziata era, per definizione,
la “pianura”. Può darsi che la contrapposizione
si legasse al contrasto fra la dimensione verticale dell’edilizia urbana e lo sviluppo orizzontale
delle dimesse dimore contadine. Ma è certo che
la città non si contrapponeva al Bergland, al territorio montuoso.
Da queste considerazioni non intendo affatto
trarre la conclusione che le “bellezze naturali” si
trovano soltanto in montagna: ma più semplicemente che esse acquistano rilievo in determinati
territori, e diventano insignificanti o quasi in altri. Certo ci sarà sempre qualcuno disposto a
giurare, per esempio, sulla suprema bellezza di
un’arida distesa di stoppie: ma, nel giudizio dei
più (che è quello che conta qui), certe parti del
territorio possono essere tranquillamente coperte di edifici e di fabbriche, senza che l’umanità
perda qualche cosa, ma anzi guadagni.
Tuttavia, anche se, per ipotesi assurda, ogni cosa
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meritasse in astratto di essere conservata cosi come si trova. sarebbe pur necessario decidersi a sacrificare una parte dell’”esistente” e del “passato”
per assicurare ai viventi un minimo di avvenire.
Bisogna dunque ‘scegliere’: la “programmazione” - economica prima, e poi, conseguentemente,
del territorio - ha proprio questo contenuto: è (o
dovrebbe essere) una successione razionale di
“decisioni” in ordine a valori. Da questa definizione trarrà poi alcuni importanti corollari.
Naturalmente si impone subito l’interrogativo
cruciale che tormenta da secoli la “scienza dell’amministrazione” europea: chi deve scegliere,
come deve scegliere, e fra quali cose deve scegliere? E la domanda si trasforma nella questione, prima di tutto, del “livello” a cui spetta “programmare”.
Almeno per una parte qui la risposta è già stata data, perchè gli articoli 11, 79 e 80 del D.P.R.
n. 616 riservano alla Regione la determinazione
del programma regionale di sviluppo, e la conseguente disciplina dell’uso del territorio regionale (ovviamente in armonia con gli obiettivi e le
linee fondamentali - articolo 81 - stabiliti, a livello nazionale, dagli organi statali).
Ma la questione è ancora aperta per quanto
concerne i livelli sottostanti a quello regionale.
L’articolo 11 infatti prescrive che la Regione
debba determinare il suo programma di sviluppo con il concorso degli enti locali territoriali,
secondo le modalità previste dal proprio Statuto,
e che gli interventi di competenza regionale in
tale programma debbano essere coordinati con
quelli di competenza degli enti territoriali locali.
Invece, per quanto riguarda l’”assetto e l’utilizzazione del territorio” (Titolo V del D.P.R.), non
sembra che si facciano riserve particolari a favore di enti locali diversi dalla Regione; a carico
della quale resterebbe quindi soltanto l’obbligo,
sancito dall’articolo 118, terzo comma, della Costituzione, di “esercitare normalmente le sue
funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali”.
Evidentemente la definizione di un “piano regionale di utilizzazione del territorio” è impresa
che può essere compiuta in modo efficace soltanto se affidata ad un potere decisionale unitario, libero di “scegliere” - a tutti i livelli - fra interessi da sacrificare e interessi da esaltare. Tuttavia un tale modello operativo è escluso in un
sistema elettivo-rappresentativo (quale è quello
vigente oggi in questo paese), considerata la
possibilità che hanno, quanti si ritengano danneggiati ingiustamente, di raggrupparsi e di
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contestare con successo, a livello politico, le
scelte legislative ed amministrative fatte in sede
di programmazione.
Già duecento anni fa, quando il metodo elettivo-rappresentativo non si era ancora affermato,
giuristi insigni sostenevano che la determinazione del “pubblico interesse” poteva uscire soltanto dalla cooperazione fra il potere politico e
le esistenti organizzazioni economico-sociali-territoriali (Land-Stände).
È altamente improbabile che un “piano regionale di utilizzazione del territorio”, possa diventare realtà operativa, senza godere dell’appoggio,
o almeno della tolleranza, dei gruppi di interesse e di pressione, istituzionali o “di fatto”, più o
meno organizzati a livello locale.
Il discorso rimbalza allora sul punto delle
competenze da riconoscere - in tema di “uso del
territorio” e quindi di “beni ambientali” - agli
enti locali infra-regionali; e tocca la bruciante
questione del rapporto fra le corporazioni territoriali riconosciute e garantite dalla Costituzione - Province e Comuni - e quegli “enti amministrativi dipendenti dalla Regione” il cui ordinamento è riservato appunto alla Regione stessa
dal secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione. È il problema (tanto per esser chiari)
delle nuove circoscrizioni amministrative - i
Comprensori - create per esempio dalla Regione
Lombardia, e che hanno (o almeno dovrebbero
avere) reso ancora più urgente il riassetto dell’ordinamento “locale” italiano (impropriamente
presentato come “riforma della Legge Comunale
e Provinciale”).
Fra le responsabilità che di buon grado ammetto mi spettino, come studioso della costituzione e dell’amministrazione italiane, c’è quella
di avere vigorosamente affermato, dal 1943 in
poi, l’opportunità di un ordinamento “regionale” (dal momento che l’ottimo, cioè una struttura schiettamente “federale”, non sembrava possibile). A questa responsabilità mi appello per ricordare di avere sempre pensato - e apertamente
sostenuto - che lo Stato “regionale” postula la
presenza di almeno due peculiarità istituzionali:
una sostanziale autonomia (e quindi diversificazione) degli enti locali interni alla Regione, e
l’uso sistematico dei sondaggi d’opinione (“referendum cognitivi”) come mezzo di autoregolazione dell’attività legislativa ed amministrativa.
Entrambe queste particolarità istituzionali si
rivelano, essenziali ad una corretta gestione del
territorio e dei “beni ambientali”.
La prima esigenza - quella cioè di un ordinaQuaderni Padani - 47
mento locale differenziato per le diverse parti
del paese - è sempre stata ostacolata dal persistere, nella tradizione amministrativa italiana,
del pregiudizio razional-illuministico (filtrato
attraverso il modello organizzativo franco-belga) per cui l’uniformità sarebbe la conseguenza
obbligata dell’eguaglianza dei cittadini, ma anche il presupposto dell’efficienza.
A suo tempo io ho addirittura sostenuto che
l’ordinamento regionale non andava necessariamente esteso a tutto il territorio nazionale, e
che un paese profondamente diversificato - dal
clima, dalla geologia e dalla geografia., dalla storia politica, economica e sociale - aveva bisogno
di istituzioni locali altrettanto sostanzialmente
difformi. proprio perchè l’amministrazione potesse meglio aderire alla realtà delle popolazioni.
Si consideri - e ormai non solo per esemplificare il tema di cui si occupa questo Congresso, e
si tenga fermo che nessuna pianificazione del
territorio, nessuna decisione è possibile senza
coinvolgere il consenso attivo delle diverse convivenze in cui la popolazione si articola sul territorio stesso (o meglio: delle rispettive classi dirigenti che creano la cosiddetta “pubblica opinione”): si può davvero far leva, tanto in pianura
che in montagna, sulle stesse omogenee circoscrizioni: Comuni, o Comprensori, eppure Province? 0 non e più onesto riconoscere che,
quando si tratta di decidere (e per le generazioni
a venire!) se una certa porzione del territorio
dovrà essere destinata all’insediamento industriale, oppure al turismo ed all’insediamento
abitativo, le frazioni di popolazione da coinvolgere hanno la dimensione più varia. e quasi mai
coincidono con gli enti amministrativi esistenti?
In Lombardia si discute attualmente se gli organismi intermedi fra la Regione ed i Comuni (i
Comprensori) debbano corrispondere alle vecchie nove Province, oppure debbano essere molto più piccoli e superare la trentina, o se infine
la dimensione della circoscrizione ideale stia a
metà strada fra la Provincia ed il micro-comprensorio (derivando da un opportuno raggruppamento dei micro-comprensori medesimi: le
cosi dette “vaste aree”).
Domando: dove sta scritto che l’ottimo ente locale deve essere lo stesso, per superficie e popolazione, nella “bassa” padana e nelle vallate alpine?
Sarà benissimo che la Valtellina è una “regione autonoma” mancata per ragioni storico-politiche magari banali: ma dal momento che nessuna amministrazione regionale sensata potrebbe imporre dall’alto a quei montanari un “piano
48 - Quaderni Padani
di sviluppo del territorio”, come non vedere che
questo “piano” (con tutte le implicazioni conseguenti) deve essere deciso dai Valtellinesi, indipendentemente dal fatto che il territorio da loro
occupato corrisponda a quello di una Provincia,
di due Comunità montane, o di diversi micro-comprensori? E il caso della Valtellina si ritrova (e si ritroverà), anche se non cosi macroscopico, altrove nell’arco alpino.
Quando parlavo prima di “sondaggi d’opinione” e di “referendum conoscitivi”, alludevo ad
un aspetto soltanto di un modo di governare - e
sopra tutto di programmare - che, entro certi limiti, prescinda dal letto di Procuste di un rigido
“quadro” di poteri locali formalizzati, e di mandati rappresentativi.(3)
Naturalmente tutto ciò non significa che la
Regione debba diventare una semplice “stanza
di compensazione” di programmazioni indipendenti e settoriali. Lo scorso ottobre, al Symposium Bauen im Alpenraum organizzato a Badgastein dalla “Arbeitgemeinschaft Alpenländer”,
ho illustrato una ipotesi. di sviluppo dei rapporti
fra pianura industrializzata e montagna, che
non sarebbe addirittura pensabile senza organismi come le Regioni Veneto, Lombardia e Piemonte (ed ho constatato che una prospettiva
analoga si profila anche in Baviera).
A mio parere, infatti, l’addensarsi degli impianti industriali nel Talweg padano (una concentrazione irreversibile per ragioni tecnico-economiche) rende sempre meno “abitabili” i
relativi centri urbani e le loro periferie. In quelle
aree si potranno certo combattere efficace. mente le forme più venefiche di inquinamento: ma
l’aria e l’acqua pulite saranno sempre più un
prodotto artificiale. Si spiega cosi la tendenza, di
chi lavora ed opera nei grandi centri industriali,
ad abitarvi soltanto il tempo strettamente necessario, e a raggiungere invece (a sera, o almeno a
fine settimana) una residenza situata nella più
salubre area ai piedi delle Alpi, o addirittura nelle prime vallate pre-alpine.
(3) Alla riunione di studio italo-svizzera su “Esperienze di pianificazione nell’area montana” organizzata dalla Regione
Lombardia e dalla “Fondazione per i problemi montani dell’arco alpino” presso la sede milanese della Banca Piccolo
Credito Valtellinese il 28 aprile 1978, il professor J. Vallat dell’Ecole polytechnique fédérale di Zurigo, ha sostenuto che la
gestione economica del territorio alpino, anzichè tradursi in
misure generalizzate ed uniformi, deve necessariamente
prender l’aspetto di un “lavoro su misura” riferito ad aree anche molto piccole. Gli Atti della riunione citata verranno pubblicati nella stessa Collana in cui appare il presente volume.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Quello che, con orribile vocabolo, si è convenuto di chiamare “pendolarismo”, al di là delle
sue cause occasionali (per esempio il costo elevato delle abitazioni urbane) mi sembra abbia
tutta l’aria di diventare un fenomeno ordinario
delle aree (e delle civiltà) industriali.
Questa mia previsione suscitò a Badgastein
accese discussioni, sopra tutto perchè tecnici ed
amministratori di alcune regioni ad alta utilizzazione turistica (Südtirol) vi scorsero l’annuncio di una nuova imponente estensione delle
“seconde case”. Sebbene il dibattito svoltosi allora abbia già consentito di chiarire l’equivoco,
desidero qui precisare che quella abitata dal
“pendolare” nell’area prealpina o collinare-subalpina, è in realtà non una “seconda”, ma la vera “prima” casa: “seconda” ed occasionale tende
se mai invece a diventare la dimora urbana.
Man mano anzi, che nelle aree residenziali pedemontane si moltiplicheranno le infrastrutture
necessarie, è da prevedere che nell’abitazione ivi
situata vivano stabilmente la generazione più
giovane e quella più anziana.
Comprendo benissimo la scarsa simpatia con
la quale gli amministratori delle località alpine
considerano le vere “seconde case”, destinate alle vacanze, chiuse ed inutilizzate per molti mesi
all’anno. E non esiterei a proporre una tassazione suppletiva (da imporsi e godersi dai Comuni)
come alternativa all’uso o all’affittanza.
Ma, alla mia tesi circa il rapporto fra pianura
industriale e montagna, vorrei aggiungere ora
una ulteriore considerazione. Tutti sanno che,
qui in Italia, uno degli ostacoli maggiori ad una
corretta gestione dell’economia industriale, è costituito dalla scarsa propensione della popolazione per la mobilità. Se un lavoratore si è abituato
a trovare impiego nella stessa località in cui abita, o addirittura a breve distanza dalla sua casa,
considera una tragedia doversi poi spostare per
guadagnare un reddito. E questa “inamovibilità”
contrasta con la disponibilità invece a trasferire
invece la propria residenza di centinaia di chilometri, magari anche due o tre volte nella vita,
che caratterizza, per esempio, la popolazione di
grandi paesi industriali come gli Stati Uniti.
L’estendersi del “pendolarismo” e della vera
“prima casa” ad una certa distanza dal luogo di
lavoro, lungi dal costituire un fattore negativo,
potrebbe - almeno nella Valle Padana - rendere
praticamente indifferente per un prestatore d’opera, mutare il luogo di impiego. Mentre l’abitazione urbana (o comunque occasionale) potrebbe diventare minima ed interscambiabile (un veAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
ro pied-à-terre), con i vantaggi per la gestione
economica del patrimonio e dell’attività edilizia
che si possono facilmente intuire.
Ad ogni modo mi sembra evidente che la regolazione di questa ampia e permanente osmosi
fra pianura e montagna, costituisca un tipico
compito di grandi unità territoriali le quali, come le Regioni padane, abbracciano tutte, appunto, entrambe le aree coinvolte.
Prima di chiudere il discorso sulla program3
mazione del territorio in generale, e passare
quindi alla subordinata gestione dei “beni ambientali”, credo indispensabile considerare un
problema di tecnica amministrativa che sta ingigantendo a vista d’occhio, e creando un’area conflittuale proprio fra programmazione economica
e tutela delle “bellezze naturali”: alludo alla sempre più difficile conciliabilità fra sviluppo degli investimenti industriali e conservazione dell’ambiente. Quanti amministratori, e quanti imprenditori pubblici o privati, non hanno già sperimentato come sia difficile metter d’accordo la provvista di risorse energetiche, o l’aumento dell’occupazione industriale, con il rispetto delle esigenze
dell’agricoltura, della pesca, del turismo, o anche
soltanto con la tutela del paesaggio?
Qui siamo evidentemente dinanzi a collisioni
di interessi, tanto radicali da trasformarsi in veri
e propri “conflitti di valori”, e da postulare scelte
duramente alternative. Tali scelte vengono attualmente raggiunte, caso per caso, attraverso
un congegno artigianale di “persuasioni” estemporanee, e di pressioni clientelari, il quale lascia
necessariamente chi “sceglie” (e decide), anche
se in piena buona fede, sempre esposto ai contraccolpi politici e giudiziari di eventuali aspettative deluse e di danni non previsti.
Mi sembra sia giunto il momento di pensare
seriamente a costruire una procedura amministrativa, la quale - muovendo dal riconoscimento
ufficiale della presenza di un conflitto di interessi
- stabilisca un preciso meccanismo di perizie, di
rilevazioni statistiche, di consultazioni e di sondaggi d’opinione, eccetera, attraverso i quali decidere se (non potendosi fare altrimenti) debba
essere per esempio sacrificato un paesaggio o una
fabbrica. Intendiamoci bene: trattandosi qui, come ho già detto, di “valori”, non penso affatto che
il meccanismo auspicato consenta di raggiungere
delle “verità oggettive” (che nel mondo dei “valori” non esistono): nella dinamica dell’amministrazione, inoppugnabile è soltanto ciò
che, per convenzione, esce da una procedura, staQuaderni Padani - 49
bilita “a priori” e poi rispettata. Se le istituzioni di
questo paese non fossero degradate al livello che
tutti conosciamo, un tale procedimento sarebbe
già stato adottato da tempo, magari come parte
della tanto invocata, ma ancora fantomatica, legge generale sulle procedure amministrative. Nelle
condizioni presenti, almeno lo studio di quel
meccanismo potrebbe tuttavia essere avviato da
qualche amministrazione regionale o da qualche
impresa pubblica di buona volontà.
Una corretta e razionale gestione dei “beni
ambientali” e delle “bellezze naturali” è dunque
possibile soltanto come parte subordinata della
programmazione del territorio.(4) Perchè è evidente che, a quelle “cose”, si dovranno applicare
gradi diversi di protezione a seconda se si trovino in aree la cui utilizzazione economica (secondo la relativa programmazione) è favorita
oppure ostacolata dalla loro presenza. Mentre,
per converso, è evidente che l’ubicazione di una
nuova zona industriale o abitativa, o il tracciato
di una nuova arteria di comunicazione, non potranno essere decisi prescindendo dal grado di
intensità e di rilevanza dei “beni ambientali” che
dovrebbero essere sacrificati.
La Legge per la tutela del paesaggio vigente
nella Provincia Autonoma di Bolzano-SudTirol
(che ho già citato) stabilisce, per esempio, che i
vincoli paesaggistici non compatibili con le previsioni delle zone residenziali e produttive determinate dai successivi piani urbanistici, decadono; mentre viceversa, nel rimanente territorio
(non residenziale e neppure produttivo) il piano
urbanistico deve recepire le prescrizioni derivanti dai vincoli paesaggistici.
Nè la gestione dei “beni ambientali” è in stretto rapporto con il solo settore dell’urbanistica,
perchè entrambi coinvolgono poi direttamente
anche il settore dell’agricoltura. L’anno scorso,
per esempio, l’Assessorato per l’Urbanistica della
Regione Lombardia aveva iniziato gli studi preparatori di una normativa che - nel quadro della
Legge Regionale 15 aprile 1975, n. 51 - disciplinasse lo sviluppo dell’edilizia turistico-residenziale nelle aree collinari e prealpine favorevoli
alla viticoltura ed alla frutticoltura: e non per
sacrificare l’una o l’altra attività, ma per consentire alla prima di godere, senza distruggerlo, il
“bene ambientale” costituito dalle seconde.
L’interdipendenza or ora constatata si ritrova
anche, per necessità, fra le diverse categorie di
“beni ambientali”, tuttora invece tenute separate dal D.P.R. n. 616. Come potranno Regioni e
Comuni redigere programmi particolareggiati di
50 - Quaderni Padani
utilizzazione dei rispettivi territori, finchè non
saranno definite le loro precise competenze, relative, oltre che alle “bellezze naturali” in senso
stretto, anche alla materia dei “parchi nazionali
e delle riserve naturali dello Stato”, del patrimonio artistico, archeologico, monumentale,
paleo-etnologico ed etno-antropologico ?
Si pensi soltanto, per fare un esempio, al rilievo
che hanno i musei etnologici, del folklore, della
vita e dell’architettura rurale, come necessario
supporto, non solo di un’attiva individuazione e
protezione dei “beni ambientali” prodotti dalla civiltà agricola, ma anche di una sistematica educazione della pubblica opinione a comprendere il
valore di tali beni. Sarà benissimo che le raccolte
del genere sono in Italia ancora poche e mal note:
tuttavia basta aprire il recente Handbuch der europäischen Freilichtmuseen di Adelhard Zippelius, per constatare quale dimensione imponente
tali istituzioni abbiano ormai raggiunto, non solo
nell’Europa centro-settentrionale, ma anche nella vicina penisola balcanica.
Sempre in tema di interdipendenza e di coordinamento, una Legge regionale sui “beni ambientali” che si voglia ben fatta, non potrà non unificare, nella visione di un solo programma (e quindi di una sola procedura di esame e decisione),
tutte le varie esigenze di “protezione” che hanno
finora dato luogo a normative particolari e separate: da quelle concernenti i vincoli idro-geologici e paesistici, alle altre relative alle aree da destinare a parchi, a “biotopi” e a “geotopi”.
Infine, un ultimo essenziale livello di razionale armonizzazione dovrà essere raggiunto attraverso la cooperazione inter-regionale. L’articolo
8 del D.P.R. n. 616 (bontà sua!) ammette a questo proposito anche “forme consortili”; ed è da
(4) Fra le legislazioni straniere che hanno disciplinato in
modo organico ed unitario tutta questa materia, credo si
possa utilmente segnalare quella della Repubblica Socialista
Romena dove, alla Legge sullo sviluppo del territorio e delle
località urbane e rurali del 1 novembre 1974, n. 58, si riallacciano la Legge sulla protezione dell’ambiente del 23 giugno 1973, n. 9, e la Legge sulla protezione del patrimonio
culturale nazionale del 2 novembre 1974, n. 63. La legislazione romena è interessante dal punto di vista italiano anche
perchè cerca di contemperare la tutela dei beni ambientali e
culturali con le esigenze della massima utilizzazione economica del territorio: mi sembra evidente infatti che se gli Italiani decidessero di conservare tutte le bellezze naturali e
tutti gli immobili, interessanti dal punto di vista artistico o
storico, che si addensano sul loro territorio, non solo rischierebbero di non potersi più muovere, ma forse dovrebbero dedicare la maggior parte del reddito nazionale al restauro ed al mantenimento di quei beni.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
prevedere che le paure implicite nel sospettoso
secondo comma dell’articolo predetto, non riusciranno a frenare una collaborazione, dalla
quale soltanto potrà nascere una programmazione efficace del territorio, ed una uniforme tutela delle “bellezze naturali”.
Ho già rilevato in principio come - accanto
4
alla necessità di una visione unitaria della
progettazione e della normativa - la seconda esigenza che si imponga sia quella di uno sforzo sistematico per “oggettivare” i criteri mediante i
quali a) una “cosa” dovrebbe essere riconosciuta
come un “bene ambientale” o una “bellezza naturale”, e b) dovrebbe poi essere conservata, protetta ed eventualmente utilizzata.
Tanto la Legge nazionale del 1939, quanto
quella della Provincia Autonoma di Bolzano-SudTirol del 1976, fanno, in modo chiaro, assegnamento sulla “competenza” di organi collegiali (“Commissioni Provinciali”) composti da
tecnici, e da “specialisti” in ragione di ufficio o di
perizia professionale. Entrambe peraltro fanno
anche un passo innanzi e, superando il metodo
del “caso per caso”, prevedono la compilazione di
“elenchi” preventivi e sistematici: due (articolo
2) per la Legge nazionale del 1939 (“delle cose” e
“delle località”), uno per la Legge di Bolzano
(che, all’articolo 3, prescrive alla “Prima Commissione provinciale per la tutela del paesaggio”
di “individuare i beni o complessi di beni - elencati al già citato articolo 1 - che devono essere
assoggettati a tutela specifica”).
Ma nè l’una nè l’altra Legge prescrivono alcunchè circa il metodo con cui i “saggi” componenti le Commissioni dovranno svolgere il loro
compito. La Legge di Bolzano (articolo 1), prevedendo nuovi insediamenti nelle zone soggette
a tutela specifica, dice - con commovente ingenuità - che “il disegno degli edifici deve rispettare le esigenze estetiche riferite agli edifici stessi,
e, pur evitando una facile imitazione di forme
tradizionali e pittoresche, deve essere in armonia con l’ambiente naturale che si intende salvaguardare”. Dove è facile chiedere subito come
si stabiliscano le “esigenze estetiche”, e come si
distingua una “facile imitazione” da un disegno
“in armonia con l’ambiente”.
Forse più avanzato è in proposito il testo della
inattuata Legge lombarda sui “centri storici” del
1975, il quale antepone alla compilazione
dell’”inventario” dei medesimi, la predisposizione di un “programma attuativo contenente gli
elementi metodologici, i criteri, le fasi, gli enti
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operatori e le procedure per l’organizzazione
dell’inventario” stesso.
Ma anche qui (limitando la prescrizione all’atto di renderli espliciti) si danno in fondo come
già disponibili e preesistenti i criteri di metodo:
e preesistenti - naturalmente - nella cultura, nel
sapere, nell’esperienza dei “tecnici”.
Ora, la storia dell’architettura (perchè di questo si tratta in primo luogo) è stata ed è coltivata
anche in Italia: ma l’attenzione degli studiosi è
sempre apparsa pressoché rivolta esclusivamente alla grande edilizia, ecclesiastica, pubblica e
signorile. Già il fatto che l’edilizia “civile” e “rurale” si denomini in questo paese “minore” indica la posizione mentale in cui si colloca (o per lo
meno si è collocata finora) la cultura ufficiale.
Nel mio Rapporto al Symposium di Badgastein, già ricordato, ho cercato di dare un’idea
dell’immensa mole di ricerche e di studi che,
negli ultimi settanta-ottanta anni, sono stati
prodotti nei principali paesi europei (ed anche
in Italia) sulla storia, la tecnica e la tipologia
dell’architettura civile e rurale in genere, e particolarmente montana. Non mi starò pertanto a
ripetere qui: mi limiterò a sostenere nuovamente che, proseguendo in modo sistematico quelle
ricerche, si può agevolmente arrivare a stabilire,
anche in Italia. una serie organica di “norme
tecniche” oggettive, di “moduli” (e non di puri e
semplici “giudizi di valore” - che sono sempre
pre-giudizi!), su cui basare, impersonalmente e
preventivamente, ogni successiva decisione,
ogni scelta, in ordine ai “beni ambientali”, alla
loro individuazione e conservazione.
Premesso che una tale operazione non può essere sostanzialmente diversa, sia che riguardi i
“centri storici” degli aggregati urbani e dei borghi della pianura, sia che consideri la parte antica delle cittadine, dei villaggi e dei paeselli delle
vallate alpine, io credo che il lavoro da compiere
sia il seguente:
1) individuare tutti i rilevanti edifici e manufatti
storici “minori” esistenti nella Regione, ed il relativo impianto urbanistico;
2) accertarne le caratteristiche e le strutture, insieme con lo stato di conservazione, le successive stratificazioni, le possibilità di ripristino;
3) stabilire quali, di tali edifici, devono essere
conservati, ripristinati ed eventualmente riutilizzati, e quali invece (essendo, ad un tempo, del
tutto comuni ed in stato di deperimento irreversibile) - previ accurati rilievi grafici e fotografici
-possano essere distrutti o abbandonati a libere
trasformazioni;
Quaderni Padani - 51
4) premesso che l’edilizia “minore” - anche in
virtù della sua spontaneità - assume forme tipiche abbastanza autonome e caratteristiche in
aree talvolta assai ristrette (vallate, riviere, eccetera) non coincidenti con determinate unità
amministrative: determinare - con studi, e comparazioni appropriate - quali siano le forme tipiche (strutture, rapporti, misure, eccetera) nonché i materiali costruttivi, relativi appunto ad
ognuna delle aree predette;
5) determinare in stretta conseguenza - sempre
per ognuna delle aree predette, entro la Regione - le norme generali (relative alle volumetrie,
alle altezze, alle aperture, ed a tutte le possibili
particolarità architettoniche, nonchè ai materiali originali impiegati nel passato o impiegabili per analogia nel presente) che potranno essere utilmente stabilite, non solo ai fini del restauro degli edifici antichi, ma anche e sopra
tutto per le nuove attività edificatorie, da sviluppare entro le aree stesse o nelle eventuali zone circostanti di transizione, in modo che i
nuovi edifici non contraddicano e deturpino
l’armonia dell’ambiente.
È facile rilevare subito l’importanza operativa
degli obiettivi 4) e 5). Essi infatti dovrebbero
consentire di avviare - per la conservazione dell’ambiente dal punto di vista edilizio - una normativa generale, e sopra tutto obbiettivamente
fondata, da far valere al momento della confezione e dell’approvazione degli strumenti urbanistici ed edilizi di ogni tipo e grado.
La difesa del paesaggio e del tradizionale as5
setto ambientale dalle accelerate e distruttive modificazioni pro dotte dall’accrescimento demografico e dalla civiltà industriale, ha, come
tutti sanno, un suo punto cruciale nel controllo
dell’attività edificatoria. Tale controllo si traduce
generalmente, qui in Italia, in una serie di norme
relative alla volumetria, alle altezze ed alla densità degli edifici. Prescrizioni relative all’estetica
dei fabbricati ed ai materiali di costruzione, vengono adottate soltanto quando si intendono conservare e non alterare determinati ambienti, molto rilevanti sotto il profilo storico o artistico
Considerato il numero relativamente modesto
di questi ultimi casi, il sistema vigente si palesa
ovunque del tutto insufficiente a tutelare l’integrità del paesaggio. Infatti lo spiccato individualismo che caratterizza l’Italiano, induce proprietari e costruttori ad edificare senza alcun riguardo per le tradizioni locali: masserie normanne
sui Laghi, case mediterranee nelle vallate alpine,
52 - Quaderni Padani
baite tirolesi sulla riva del mare. Con il risultato
di assurdi accostamenti, il cui stridore è reso più
acuto dall’uso di materiali e di colori, i quali
nulla hanno a che vedere con le consuetudini
del posto.
Il fenomeno è rilevabile in tutta la sua serietà
se appena si confronta, per esempio, un borgo
della “bassa” padana con uno della Landa di Luneburgo, un villaggio delle nostre Prealpi con
uno delle montagne bavaresi: qui da noi il nuovo quasi sempre fa a pugni con l’antico e distrugge l’armonia del paesaggio; là -salva qualche rara eccezione - i nuovi edifici ripetono, sia
pure con materiali e funzionalità aggiornate, gli
schemi formali del passato, cosi che, senza nulla
sacrificare in materia di comodità e di economicità, si riesce a salvaguardare la continuità e
l’integrità di una estetica secolare.
Queste profonde differenze - che contrappongono in sostanza i paesi di lunga tradizione civile, e socialmente equilibrati, a quelli “in via di
sviluppo” - dipendono (a parte la disciplina legislativa) da un diverso grado di maturità culturale, e di sensibilità per la tradizione, nella parte
più attiva e decisiva della popolazione. A loro
volta, quella maturità e questa sensibilità non
potrebbero sussistere se non si appoggiassero ad
un paziente lavoro - precedente e concomitante
- di documentazione e di ricerca.
Non è per caso che i paesi, in cui più evidente
è lo spontaneo rispetto della tradizione, sono
anche quelli in cui per tempo ci si è dedicati a
rilevare in modo sistematico le forme architettoniche ed urbanistiche della cosi detta “edilizia
minore”, civile e rurale.
Questa rilevazione consente infatti di oggettivare e di spersonalizzare la normativa da adottare, non solo per i cosiddetti “centri storici”, ma
per tutta l’attività costruttiva in genere. Una
normativa la cui necessità e la cui delicatezza
vengono esaltate dalla crescente importanza che
il “prefabbricato”, sta assumendo, sopra tutto
nell’edilizia residenziale e nella costruzione delle infrastrutture più comuni.
È evidente infatti (e il fenomeno mi sembra
abbia già preoccupato il Consiglio d’Europa) che
se, per ragioni economiche, le componenti standardizzate degli edifici sono destinate a prevalere nell’attività edilizia, cresce anche a dismisura
il rischio di avere case, borgate e città tutte monotonamente eguali: una prospettiva allucinante, che si può solo allontanare adottando moduli
di prefabbricazione diversificati a seconda delle
varie unità territoriali.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Questo sviluppo, mentre da una parte ridurrà
drasticamente lo sfrenato individualismo, esibizionistico (e di cattivo gusto), di cui si è parlato
più sopra, solleverà dall’altra il grave problema
della legittimità di scelte estetiche - da adottarsi
nella grande produzione di serie tanto più delicate in quanto destinate ad essere poi estesamente generalizzate, senza alternative apprezzabili per i singoli utenti.
I centri abitativi del futuro torneranno molto
probabilmente ad essere (e ancora una volta per
ragioni economiche!) uniformi come nel passato: ma chi deciderà le forme tipiche da tradurre
nella produzione standardizzata (tanto più incisive perchè moltiplicate in numeri imponenti),
non potrà trovare altra giustificazione alle sue
scelte se non nei “moduli” tradizionali, oggettivamente accertati e rigorosamente documentati.
Non è pensabile, infatti, che tali normative
siano stabilite da questo o da quell’architetto, da
questo o da quell’amministratore, sia pure coltissimo ed illuminato.
Gli “esperti” sono certamente indispensabili:
ma essenzialmente come produttori, come depositari, e come “distributori” delle conoscenze
oggettive di cui ho parlato fin qui.
La Legge della Provincia Autonoma di Bolzano-SudTirol, prescrive che le Commissioni edilizie comunali non possano deliberare validamente, circa autorizzazioni di lavori pertinenti ad
immobili già protetti nel quadro della tutela del
paesaggio. se non è presente un esperto rappresentante provinciale. Io andrei anche più in là:
alla confezione dei piani e dei programmi territoriali locali, dovrebbero collaborare ordinariamente rappresentanti degli organi tecnici regionali. L’esperienza insegna che respingere, e far
correggere, un elaborato urbanistico è molto
più faticoso e dispersivo che non assistere ed
informare chi lo stende, mentre lo stende, inoltre, per questa via, è più agevole ottenere l’uniformità dei criteri e delle scelte,
Del resto due delle più chiare “raccomandazioni”, formulate dal Symposium dell’ARGEALP
dell’autunno scorso - moralmente vincolanti per
gli amministratori delle Regioni delle Alpi centro-orientali - riguardano appunto questo argomento. In primo luogo, considerata la modestia
delle risorse umane ed economiche di molti Comuni montani, si suggerisce che essi possano,
opportunamente ma volontariamente raggruppati, fruire di esperti, documentati non solo circa la tecnica della pianificazione territoriale,
ma, anche e prima di tutto, a proposito delle tiAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
pologie formali e dell’architettura storica di quei
Comuni stessi.
In secondo luogo, si raccomanda che non solo
questi consulenti, ma tutte le strutture scolastiche, ad ogni livello (in primo luogo quelle in cui
si formano architetti, geometra e funzionari del
ramo), si facciano carico di attuare la più larga
diffusione possibile delle conoscenze relative alla storia ed alla tecnologia dell’autentica architettura alpina, ed alla cultura ed alla vita di chi
abita in montagna.
Una tale opera educativa costituirà indubbiamente il mezzo più idoneo per facilitare la spontanea accettazione e l’osservanza delle norme
protettive della civiltà alpina e dei “beni ambientali” in cui questa si traduce.
Farei torto ai miei preminenti interessi di
6
politologo e di storico se non chiudessi
questo mio Rapporto con due considerazioni.
Come avrete constatato, la tutela dei “beni
ambientali” e delle “bellezze naturali”, qui in
Italia, è impresa cui si attende da almeno un
quarantennio: è cominciata alla vigilia della Seconda guerra mondiale, sotto la Dittatura, ed ha
fatto passi decisivi in questi ultimi tempi, in regime rappresentativo, ma in un clima anch’esso
gravido di altre preoccupazioni. Ciò significa
che si tratta di un compito la cui esecuzione
prescinde dalle vicende politiche, e scavalca perfino le guerre: ebbene, sono proprio gli sviluppi
più importanti e durevoli dell’amministrazione
pubblica quelli che sl. presentano con un tale
carattere.
Seconda considerazione: proprio gli ultimi
quaranta anni hanno registrato sul piano scientifico - nei campi della biologia, della paleontologia, della zoologia e dell’antropologia - sviluppi di eccezionale portata: indagando sulle sue
origini e sul suo più lontano passato, nonchè
sulle regolarità che dominano la sua struttura
neuro-psichica, l’uomo, non solo ha scoperto di
non costituire affatto il centro dell’universo, ma
ogni giorno più si sente dominato da forze naturali le quali possono da lui essere i soltanto a
inala pena conosciute, non certo modificate.
C’è probabilmente un nesso fra questa dura
lezione di umiltà che la scienza ci impartisce, e
la trepida attenzione con cui, da qualche decennio, andiamo tentando, dovunque, di ripiegarci
sul nostro passato, di recuperarne anche le più
modeste vestigia, di arrestare o almeno rallentare la inesorabile dissoluzione del mondo materiale in cui sono vissuti i nostri avi.
Quaderni Padani - 53
Edilizia moderna e paesaggio
europeo: la situazione attuale*
di Hans Sedlmayr
G
li anni sessanta hanno mutato completamente
la situazione edilizia in due cose. Innanzitutto
le critiche degli architetti progressisti contro
le cosiddette costruzioni “moderne” hanno assunto
un’asprezza impensabile ancora poco tempo fa; in
questa insoddisfazione si annuncia qualcosa di nuovo. In secondo luogo, appena ora l’Europa si è resa
conto di essere in procinto di perdere una delle cose
più preziose che possieda: il suo paesaggio culturale,
i cui punti più eccelsi si trovano là, dove delle città
ben conservate si accomunano ad un paesaggio ben
conservato.
Queste due svolte sono collegate tra di loro ed entrambe sono collegate ad un terzo movimento che,
sempre negli anni sessanta, ha toccato tutto il mondo: il movimento per la protezione dei nostro ambiente. In questo senso l’anno 1962 ha avuto una posizione-chiave: in quell’anno l’esplosivo raccolto venne, per così dire, fatto esplodere. Nel 1968 poi, si ebbe l’apice della prima ondata. Ritengo che non sia
possibile comprendere la nostra situazione attuale
nell’edilizia, senza tener conto di questi due movimenti, cosa che ora mi accingo a fare. Leggendo i titoli delle relazioni previste, non mi sono affatto meravigliato di notare che la maggior parte di esse si
concentrava su questi due poli.
L’edilizia moderna (astratta)
Le parole di critica che ora citerò provengono tutte
ed esclusivamente da architetti progressisti, che
stanno con entrambe le gambe solidamente piantate
nei nostri giorni. Tutte e tre le critiche sono del
1971.
Il noto architetto ed urbanista greco Kostantin
Doxiadis, che una volta navigava sulla scia di Le Corbusier, ha riconosciuto nel corso di un simposio organizzato ad Atene - nella città dunque che ha dato il
proprio nome alla famosa Carte d’Athènes della CIAM
- che “noi tutti commettiamo dei delitti architettonici”.
Dinanzi ai delegati di undici paesi egli si è definito
uno dei criminali che distruggono la città umana e
costruiscono abitazioni e città indegne dell’uomo.
Egli ha chiesto norme internazionali che vietino la
54 - Quaderni Padani
costruzione di edifici dei genere, come ad esempio i
casermoni d’abitazione. Le mostruosità di questo genere già esistenti dovrebbero venir demolite(!) Questi
edifici criminosi sparirebbero come i dinosauri; è
compito degli architetti provvedere alla loro estinzione. Anche classificando il tutto una illusione, si sente comunque da questa richiesta una volontà veemente di abbandonare un dogma della “nuova edilizia”.
Lo stesso nostra culpa si è sentito, benchè in tono
più tranquillo, ma non per questo meno energico, in
occasione dei congresso annuale dei BSA (associazione degli architetti svizzeri), tenuto nel giugno 1971 a
Spiez. Nel comunicato rilasciato c’è scritto che anche
l’edilizia può essere un inquinamento dell’ambiente(!) Per combattere la storpiatura della natura e del
paesaggio, tutti coloro che si occupano di edilizia dovrebbero cambiare modo di pensare: “Devono fare in
modo - è detto testualmente - che le preoccupazioni
economiche e la sfrenata necessità di espansione si
ritirino compattamente dietro alle necessità di un
ambiente sano”. Finora non si è riusciti a dare alle
città un aspetto soddisfacente. Le antiche città sono
state trascurate ed alle nuove manca un carattere individuale. La maggior parte di esse, crescendo, si
deformano fino a diventare degli agglomerati privi di
un’anima. Nemici, terrorizzanti o semplicemente
privi di vita sono, in tutto il mondo, la maggior parte
dei quartieri nuovi. Anche di fronte alle imprese di
costruzione più potenti, l’architetto si deve rifiutare
di progettare e costruire dei blocchi che deformano
la natura e svalutano il paesaggio cittadino.
Nell’agosto 1971, nel corso di una conferenza a Salisburgo, il geniale progettista di costruzioni leggere,
Frei Otto, che quest’anno ha diretto il seminario di
cultura urbanistica ai Corsi Estivi Internazionali, ha
definito come segue la situazione attuale: L’edilizia
ha raggiunto uno dei suoi momenti più bassi.
L’imitazione stereotipata di poche invenzioni avanguardistiche degli anni venti ha portato ad una mo*
Intervento al Convegno Architettura e società nella Mitteleuropa, tenuto al Palazzo Athens di Gorizia il 27-30 novembre 1971.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
notonia mai vista e ad una specie di “uniforme”. Prodotto di tutto ciò è il caos: il caos della mancanza dì
caratteristiche ambientali e della noia. L’edilizia è andata a finire per propria colpa in un vicolo cieco, alla
fine dei quale c’è l’irresolutezza degli architetti e
l’importanza inesistente delle loro opere. Tuttavia,
già nel 1962 lo stesso Frei Otto scriveva: “L’architettura attuale non possiede una direzione comune, dato che è quasi ferma. La situazione assomiglia ad
una sfera, rotolata in una buccia, e per la quale è faticoso continuare a muoversi in una determinata direzione. Gli architetti dei mondo attuale non adempiono più al compito loro affidato dalla comunità”.
Tutte e tre queste critiche - quella dei greco, dello
svizzero e dei tedesco sono dirette contro la moderna
edilizia in genere e l’urbanistica soprattutto, e precisamente contro quella caratteristica dell’edilizia moderna, che già nel 1928, al primo apice della “nuova
edilizia”, il satirico inglese Evely Waugh aveva individuato con acutezza e respinto con sarcasmo. Egli attribuisce ad un giovane professore di architettura,
che significativamente immagina tedesco, le seguenti
frasi: “The problem of architecture as I see it, is the
problem of all art - the elimination of the human
element from the consideration of form. The only
perfect building must be the factory, because that is
built to house machines not man”.
L’eliminazione dell’elemento umano dalla considerazione della forma come funzione, è precisamente il
punto contro il quale si rivoltano i tre ultimi critici
citati più sopra. Però Waugh ha visto ancora qualcos’altro, che cioè nell’edilizia d’avanguardia, dagli anni
venti in poi, ogni costruzione si orienta sugli edifici
costruiti allora per assolvere alle funzioni fondamentali dei sistema industriale: la fabbrica (produzione),
la casa per uffici (amministrazione) e l’esposizione
(propaganda). Alla base della nuova edilizia ci sono,
come modelli, una fabbrica di Gropius del 1911 ad
Alfeld, una casa per uffici ed un padiglione da esposizione, entrambi di Mies van der Rohe, 1922 e 1929.
Ed anche la nuova cellula abitativa di Le Corbusier,
dei 1925, è nata ad una mostra.
Hegel e Marx, l’uno agli albori dell’era industriale,
l’altro in considerazione dei livello di sviluppo raggiunto intorno al 1850, ambedue però anticipando di
gran lunga il futuro, hanno riconosciuto come tratto
fondamentale dei sistema industriale l’astrazione una categoria, che se intesa esattamente, è, molto
importante ed incisiva.
Ambedue intendevano inizialmente, che il lavoro
umano, qualora venga industrializzato, vale a dire,
venga eseguito con l’impiego di macchine e con un
sistema basato su una ben spiccata suddivisione dei
lavoro, si riduce a qualche cosa di uniforme, a maniAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
polazioni di natura puramente ripetitiva, che conservano un rapporto molto distante dal prodotto finale e
perciò risultano “astratte”. Ma la categoria “astrazione” è molto più vasta e profonda e può essere applicata al sistema industriale in un senso molto più lato
(citazione secondo Hans Freyer). Nel senso più stretto
però essa può essere applicata alle costruzioni moderne, che si sono orientate secondo il sistema industriale, adeguandovisi. L’edilizia moderna con il suo ideale,
la casa della macchina, non tien conto nè della vita,
nè dei luogo, nè della tradizione, nè della storia.
Summa summarum: non tien conto dell’elemento
umano. Proprio questo attira la più recente ed aspra
critica dell’edilizia moderna, per la quale il nome più
appropriato sarebbe: “edilizia astratta”.
Questa edilizia astratta è dunque l’espressione perfetta per il sistema industriale predominante, che a
sua volta viene dominato dalla categoria “astrazione”.
Ma confermandovisi, gli architetti dell’avanguardia
dei 1920 ed anche i loro innumerevoli seguaci hanno
rinunciato alla millenaria funzione dei l’architettura,
quella cioè, di costituire “un collegamento tra l’astratto mondo della matematica e quello vivo degli
uomini” (Frei Otto) accontentandosi di svolgere semplicemente la funzione di costruttori oppure, ancora
più spesso, di semplici disegnatori di “carrozzerie”.
Dal punto di vista estetico ciò può essere affascinante, proprio nelle sue qualità dominanti di purezza
geometrica, di rigidezza e di freddezza cristallina. Ma
dal punto di vista umano non può soddisfare.
Se ora l’avanguardia dei 1970 si accinge a riprendere questa funzione, il punto centrale dei loro sforzi
sarà l’umanizzazione della casa e della città. L’edilizia
non può attendere, ma non è neppure necessario che
attenda fintanto che una società migliore le fornisca
delle nuove basi. Già nel 1950 l’editore di una rivista
per architetti, diffusa in tutto il mondo Architectural
Review, Richards, constatò: “Architecture as well as
made by circumstances makes them”. Una buona architettura di per sè può dare un contributo, e non
uno piccolo, affinchè l’ordine venga fatto in questo
nostro mondo.
Quello che significa “buona architettura” Frei Otto
lo disse chiaramente con un’unica frase: “l’essere
“buona” è in primo luogo un riferimento all’effetto
che le costruzioni esercitano sull’uomo, e solo in seconda linea è un riferimento ad altre qualità, come
l’estetica. la funzionalità, la tecnica costruttiva”.
Ritorno ancora una volta al concetto di astrazione.
Esso caratterizza anche le trasformazioni che il paesaggio ha subito in seguito al l’industrializzazione.
Come il processo tecnico con ogni progresso si stacca sempre più dal paesaggio e diviene puramente fine
a sè stesso, così anche l’edilizia, conformata a sistemi
Quaderni Padani - 55
industriali, non tiene più alcun conto dei paesaggio,
considerato puramente come elemento locale.
Tali strutture si pongono da estranee e senza alcun
riferimento in un paesaggio, nel caso più favorevole
lo disturbano solo, nel caso peggiore lo distruggono.
In nessuna altra cultura il conflitto tra edilizia e paesaggio è stato forte come nella nostra, e le catastrofiche conseguenze divengono ogni giorno più evidenti.
Ancora una volta riprendo il discorso di Frei Otto:
“Non dovremmo vergognarci, se dobbiamo osservare, come un’intera generazione di architetti sta inerte a guardare la distruzione di un antichissimo paesaggio culturale operata da un’edilizia senza scrupoli? Non ci si dovrebbe vergognare se una generazione
di architetti non trova il coraggio di scatenare una
tempesta, di adoperarsi con tutte le forze per evitare
la catastrofe? Non ci si dovrebbe vergognare se una
generazione di architetti non si rende neppure conto
della rovina provocata, e contribuisce ancora ad aumentarla?
Se ci fosse solo un po’ di buon senso, occhi ed
orecchi aperti, sensi vigili, il paesaggio europeo non
andrebbe distrutto!”.
Orbene: gli architetti hanno dato il segnale di battaglia! Sarà molto interessante sentire in questa sede
dai partecipanti al convegno provenienti da sei stati
quale è attualmente la situazione nei loro paesi.
Paesaggio europeo
Parlando di paesaggio culturale oggi giorno non si
intende più solo la terra coltivata, divenuta tale attraverso numerosi processi storici succedutisi gli uni
agli altri, ma anche la città, l’antico centro storico.
Proprio negli anni sessanta, quando gli architetti
più illustri si sono resi conto -dell’inumanità dell’edilizia astratta il paesaggio culturale europeo ha acquistato enormemente in stima ed in valore. Dopo il diluvio di nuove costruzioni, dopo la seconda guerra
mondiale, ci si è accorti con orrore che l’Europa, anzi, il mondo intero erano in procinto di perdere il più
prezioso patrimonio culturale, che esiste ancora realmente, più che nei tesori dei musei o nei singoli edifici di pregio o nelle sensazioni paesaggistiche, ove le
antiche opere architettoniche ed il paesaggio adattato
dall’uomo si integra nella maniera più perfetta. Hans
Freyer dice: “Nei paesi di antica cultura ci sono dei
punti nei quali il fascino della natura coadiuvato dai
lavoro umano si avvicina veramente ad un miracolo
creativo”. Queste sono le vette supreme dei nostro
paesaggio culturale. Non occorre che siano proprio
quelle spettacolari simbiosi di città e natura, come
Napoli, Costantinopoli o Venezia. Anche un semplice
villaggio nel mezzo di un paesaggio modesto può
raggiungere il fascino della perfezione.
56 - Quaderni Padani
Il modo nuovo di giudicare i valori si rivela in modo molto evidente in tre elementi. Innanzitutto in
una nuova legislazione, che protegge il centro storico
ed il paesaggio in modo dei tutto nuovo e con nuovi
obiettivi. In secondo luogo nel fatto che ora i più alti
organi europei si sono assunti il compito di proteggere i centri storici ed il paesaggio. Per ultimo infine
negli enormi mezzi che vengono investiti nella conservazione e nel rinnovo di centro storico e di paesaggio.
Ritorniamo al primo punto. E veramente stupefacente, quanto tempo ci è voluto a porre sotto tutela
giuridica interi complessi urbani e paesaggistici. Per
un lunghissimo periodo si provvide a tutelare solo
singoli “monumenti” artisticamente o storicamente
importanti, ma presi isolatamente dall’intero patrimonio immobile. Il fatto che tali costruzioni nella legislazione vennero definite “monumenti” dimostra
chiaramente che in essi si vedevano solo degli elementi privi di vita, ricordi dei passato, che non avevano alcuna rilevanza per il presente e per il progresso,
che andavano protetti in onore della divinità borghese chiamata “cultura” - nella quale si fingeva di credere. Questa “tutela parziale dei monumenti” era ed
è tutt’oggi in continuo regresso. L’opinione pubblica
accetta con naturalezza il fatto che al “progresso” (o
a quello che con tale definizione si intende) di anno
in anno e con una certa regolarità numerosi monumenti vadano sacrificati. Nel campo della tutela dei
paesaggio invece si riconobbe relativamente presto
ciò che nel campo della tutela dell’arte non esisteva
ancora: interi complessi naturali vennero dichiarati
intangibili, divennero “parchi naturali”, “riserve della
natura”. Stranamente però si proteggono solamente i
paesaggi vergini, non toccati dalla mano dell’uomo, o
al massimo qualche celebre parco o castello.
Un mutamento di rotta si delineò già con la legge
francese “sur les sites” del 1930, che integrò il concetto tradizionale di monumento con quello di “zona
monumentale” (site).
Ma solo con la legge del 1962 si ebbe il cambiamento decisivo. Essa è nata con il nome di “Loi Malraux”
ed, è divenuta un modello per motti paesi, un’avanguardia sotto molti aspetti. Da una parte per l’enorme
aumento dei valori da proteggere, dall’altra per il passaggio dalla protezione passiva (o puramente da museo) alla tutela attiva dei patrimonio culturale.
In base alle due leggi citate oggi in Francia si possono porre sotto tutela legale non solo singoli edifici,
ma anche le loro parti accessorie, il loro immediato
circondario, gruppi di edifici, piazze, interi centri
storici, persino intere città o località che costituiscono un “complesso” artistico o storico. Oggi ben 40
centri storici vengono tutelati in Francia, e di tale tuAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
tela possono godere anche dei rioni che di per sè non
hanno alcun edificio monumentale di valore rilevante, ed il cui valore consiste solo in un effetto d’insieme. La tutela può essere estesa alla campagna che
si estende dinanzi alla città o attorno ad essa qualora
essa formi un elemento integrale dei paesaggio urbano. Possono essere tutelati interi territori naturali,
isolati o facenti parte di un vasto complesso. La protezione è concessa soprattutto ai cosiddetti “sites
mixtes”, vale a dire a quei complessi formati da elementi architettonici e paesaggistici, che sono i più
preziosi.
Laddove un territorio urbano o rurale viene dichiarato “zona da tutelare” le autorità locali sono obbligate a rivedere i progetti preparati tenendo conto del
territorio protetto.
Molti paesi hanno seguito, con varianti individuali,
l’esempio della Francia. A questo proposito avremo
occasione di apprendere parecchie cose dalle conferenze tenute in occasione di questo convegno.
Questo particolare aspetto della Loi Malraux non
significa in fondo nient’altro che un cambiamento
enorme della sfera di competenza dei musei. Ora ha
ottenuto base giuridica quello che Ernst Jünger vide
e descrisse già nel 1938: “la competenza dei musei
costituisce nella protezione della natura e dei monumenti un gigantesco tabù. Oggigiorno esistono fiorì,
alberi, foreste, paludi, case, villaggi, città e persone
che vengono comprese in tali tabù. In tale prospettiva si manifestano le affinità esistenti tra il nostro regno dei musei ed i grandi culti dei morti e delle tombe”. Accanto all’inanimatezza dell’edilizia astratta si
pone l’inanimatezza dei l’architettura e dei paesaggio
conservati come degli elementi da museo. Considerato sotto questa prospettiva il “progresso” apportato
dalla Loi Malraux sarebbe ben discutibile.
Estremamente positivo, soprattutto in considerazione dei futuro, è invece l’altro aspetto della Loi
Malraux: il passaggio dalla conservazione tipo museo
all’integrazione dei valori da tutelare nella vita dei
nostri giorni, dalla tutela passiva a quella attiva. Anche in questo la Francia diede il buon esempio, altri
paesi l’hanno subito seguito, e chi non l’ha ancora
fatto oggi è. in ritardo. il riuscito rinnovamento e la
valorizzazione dei distretto parigino del Marais fu la
prima realizzazione di tale concetto. L’esperimento è
riuscito, La frattura tra la vita tramandata e quella attuale inizia a chiudersi.
Per i singoli edifici, di cui si è conservato l’esterno
ed il cui interno è ormai. privo di vita, bisogna trovare ora non un impiego qualunque bensì qualcosa che
corrisponda appieno alla sua forma ed alla sua “atmosfera”. Per gli antichi centri storici delle città e
per gli antichi villaggi bisogna ritrovare una nuova
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
vita, bisogna “rivitalizzarli” oppure, come si dice più
spesso: “riabilitarli”. Ciò però non è più compito
esclusivo della tutela dei monumenti, bensì di esperti
di molte discipline.
La conferenza dei Dr. Wildeman tenuta in questa
sede l’anno scorso ci dimostrò chiaramente in che
modo bisogna procedere. Anche nella tutela del paesaggio (che deve essere considerata parte integrante
della protezione dell’ambiente) non si tratta, come la
espressione “protezione della natura” induce spesso a
pensare, di conservare in modo simile ai musei la natura non toccata dall’uomo, bensì di armonizzare gli
elementi più preziosi dei paesaggio culturale europeo
con la pianificazione industriale. Bisogna “pensare
con una logica doppia o triplice” come dice molto
propriatamente Freyer.
Secondo punto: Questo movimento attivo di protezione artistica degli anni trenta manifesta uno slancio nuovo poichè si sa di agire sulla base di principi
giusti e già sperimentati. Ciò è dimostrato soprattutto dal fatto che l’azione si è trasferita dal piano nazionale a quello internazionale. L’impulso è derivato
senz’altro da Malraux e dalla sua legge. L’azione del
Consiglio d’Europa, che ne fu la conseguenza è dei
tutto compenetrata dallo spirito di tale legge, ma l’iniziativa spetta al CCC (Comitato Culturale dell’Assemblea Consultiva), in particolare - come rilevo con
piacere - al suo portavoce, l’austriaco Ludwig Weiss.
Il primo successo fu la riunione, tenutasi nell’autunno dei 1969 a Bruxelles, alla quale parteciparono i
ministri di 14 paesi europei, ministri dei dicasteri
competenti per la tutela dei patrimonio culturale.
Anche l’UNESCO pose la conservazione e la riabilitazione di zone storiche a tema della sua assemblea generale. Il suo rappresentante italiano si trova presente fra noi. L’ ICOMOS (International Council of Monuments and Sites) organizzò una serie di convegni
sugli stessi problemi con esperti di molti paesi. Alla
fine il Consiglio d’Europa decise un Piano Quinquennale per il periodo 1971-1975 con l’obbiettivo principale di tutelare l’ambiente europeo nel suo complesso, di integrarlo e di diffondere tale principio nella
società contemporanea. In uno speciale Statuto debbono essere stabiliti i principi generali della tutela
dell’ambiente, e tale Statuto dovrà essere sviluppato e
diventare Convenzione internazionale che dovrà essere ratificata anche da quegli stati che non appartengono ancora al Consiglio d’Europa. H movimento
non è solo europeo, ma abbraccia paesi di tutto il
mondo. L’ultimo passo concreto in tale direzione è
stato compiuto dal Consiglio d’Europa per mezzo
della costituzione di una Commissione per la protezione dell’ambiente naturale, che prevede anche la
tutela dei paesaggio.
Quaderni Padani - 57
Terzo punto: Poichè nel nostro mondo saturo tutto
viene misurato con il metro venale bisogna rendersi
conto di aver iniziato a investire in questo campo
delle somme gigantesche, che certamente cresceranno ancora. Solo la riabilitazione di Venezia è un progetto da un miliardo di dollari (ed è chiaro che tali
somme potrebbero avere un benefico effetto per diverse altre branche dell’economia). È passato il tempo, in cui la cura dei patrimonio culturale immobile
veniva considerata solo come un peso morto.
Che l’edilizia “astratta” come esponente dei sistema industriale avesse sin dall’origine la tendenza a
compromettere il patrimonio culturale europeo è rimasto un fatto sconosciuto per parecchio tempo, vale
a dire sin tanto che il nuovo movimento costituì solo
un’avanguardia e fu composto da una minoranza. Il
fascino delle prime opere astratte quando si posero
accanto, leggere e candide, come cadute da un pianeta sconosciuto, alle facciate sovraccariche dei 19’1 secolo o agli eccessi decorativi dell’Art Nouveau può essere veramente capito solo da coloro che sono stati
giovani durante gli anni venti. Allora molti le interpretarono come una proclamazione liberatrice di purismo architettonico, come quadri costruttivistici
che avessero acquistato la terza dimensione, in bianco e nero. L’elemento estetico venne valutato di gran
lunga più di quello funzionale, di cui si parlava tanto.
Gli antesignani di questa avanguardia erano costruttori di estetica raffinata e di sobria eleganza. Essi
hanno creato i loro capolavori nelle case dei milionari degli anni venti, capolavori che purtroppo celavano
il difetto congenito di invecchiare in modo stranamente rapido e sgradevole. Che questo livello standard si sia potuto mantenere lo dimostra in maniera
spaventosa, l’enorme boom dell’edilizia dopo il 1945
quando le costruzioni “astratte” comparvero in massa e nella massima parte come rozze varianti degli
stessi schemi, come stormi di cavallette che divorarono completamente interi paesaggi.
Non si potè fare a meno di riconoscere, che l’edilizia astratta non armonizzava nè con l’architettura
delle antiche città europee, nè con il paesaggio europeo, bensì che lo turba, lo divora e lo distrugge. L’edilizia astratta ha anche creato un terzo elemento tra
città e campagna, un elemento sconosciuto alle culture dei passato: rioni che non sono nè città nè campagna, bensì mucchi informi di case monofamigliari
e di blocchi enormi di cemento. Tale inguaribile processo rovina non solo il paesaggio primitivo ma anche la vita urbana e lo spirito urbano della popolazione.
In una pubblicazione della Conferenza dei Ministri
dei paesi europei, dal titolo Past and future edita nel
1969 si garantiva che: “we must not see the conflict
58 - Quaderni Padani
between the ancient concept and the modern concept; in reality they are cornplementary”. Ma purtroppo ciò non è vero. Infatti in reality oggi non c’è
altro che un modus vivendi tra il concetto antico e
quello moderno, l’edilizia viva e quella astratta, la divisione tra due “sfere di influenza”.
Il conflitto non è ancora superato.
Verrà superato, solo quando l’edilizia dei futuro si
staccherà dallo spirito dei sistema industriale - dallo
spirito, dico io, perchè la prassi edile anche in futuro
dovrà fare i conti con la produzione industriale. li
senso della più recente critica rivolta all’edilizia,
com’è stata sino ad oggi, è la migliore garanzia che
non rimarrà protesta verbale, ma si realizzerà nelle
opere. Quali saranno le caratteristiche dei l’architettura futura lo sì può già dedurre, anche se solo grosso modo. L’aspetto dei singoli edifici invece non può
essere previsto da nessun futurologo, solo gli architetti d’avanguardia dei momento attuale lo possono
fare.
Si può dire tuttavia, che ad essere rifiutati saranno
soprattutto la monotonia, la rigidezza e l’inanimatezza, e l’edilizia dei domani dovrà essere varia, poichè
aumenta il numero delle funzioni da assolvere ed
ogni singola funzione subisce continue trasformazioni. Si stanno anche sviluppando numerosi sistemi
.nuovi di costruzioni, soprattutto di quelle leggere, le
cui possibilità non si sono ancora esaurite; l’architettura si sta ancora sforzando di seguire un po’? a fatica
le tecniche migliori.
Ma non è solo una la via che porta verso il futuro,
bensì tante, e questo futuro si aprirà alle costruzioni
che sapranno adattarvisi. Le migliori capacità di
adattamento sono state rivelate sino ad oggi dall’urbanistica, e non solo in teoria, ma anche nella migliore prassi. L’edilizia capace di adattamento sarà in
grado meglio di quella rigida ed astratta, di risparmiare il paesaggio e l’architettura antica.
Sarà interessante sentire quali e quanti spunti ci
verranno in tale senso dagli esponenti dei diversi paesi qui presenti. Soprattutto possiamo sperare che gli
architetti riassumeranno il loro antico ruolo di mediatori tra l’astratto mondo della matematica e quello
vivo e concreto e che la frattura ancora esistente fra
queste sfere verrà colmata ponendo così una fine alla
distruzione delle città e dei paesaggi europei.
Agli inizi degli anni settanta l’edilizia si trova ancora una volta, come 50 anni fa in una fase iniziale, in
cui la fantasia e l’inventiva hanno un campo vastissimo ma anche più reale che in passato. Chi segue con
attenzione, troverà l’impulso ad uscire dalle ristrettezze dell’”edilizia astratta” e dai metodi rigidi sia in
occidente che ad oriente. Si deve avere coraggio: “Allez en avant et la foi vous viendra!”.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
L’uomo in un ambiente
inanimato*
di Hans Sedlmayr
Uno dei risultati storici più sicuri è l’aver
1
notato nella storia della umanità l’esistenza
di due cesure - o soglie - di due gruppi di avvenimenti di grandissima importanza: il passaggio
allo stanziamento e il passaggio al sistema industriale. Ognuno di questi passaggi “determina in
grandi parti di umanità un nuovo sistema di vita (un milieu naturel, come si esprime André
Varagnac, cultore francese di preistoria) e ad esso l’uomo reagisce con mutamenti che non si
rivelano in modo percettibile nel suo aspetto fisico”. Sono parole di Hans Freyer, lo studioso
che tali passaggi ha descritto con grande acutezza. La sua constatazione non è ancora superata e
oggi concordano col Freyer - chi più chi meno tutti gli storici o i filosofi che, qualunque possano essere le loro ideologie, considerano la storia
dell’umanità nel suo complesso.
Ma definire questo come “avvenimento che
2
dà inizio ad un’epoca” significa che si è trovato in esso un Novum o piuttosto un complesso di Nova: unico fatto questo che possa legittimare la definizione di “soglia della storia dell’umanità. Che cosa è dunque il Novum o che cosa
sono i Nova dell’epoca industriale, che ha avuto
il suo inizio solo due secoli fa? Il carattere che li
distingue si nota per lo più in un nuovo tipo di
tecnica che, assieme all’industria, ha determinato l’unificazione del nostro pianeta: l’“era dell’alta tecnica”.
Ernst Jünger ha riconosciuto il centro della
civilizzazione industriale nella figura dell’operaio, Hans Freyer ha visto il suo carattere centrale nell’”astrazione”. Si possono tuttavia trovare caratteri completamente nuovi su altri piani,
per esempio su quello storico-filosofico. Cosi lo
storico dell’arte Ludwig Coellen già negli anni
venti ha definito (ed, io penso, in maniera esatta
e profonda) i nostri tempi come “era dell’immanenza”, sebbene la medesima situazione potrebbe essere definita ancor più esattamente “sbarramento verso la transcendenza”.
Dal punto di vista storico-spirituale, un NoAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
vum può essere riconosciuto in una coscienza
del tutto nuova del nostro luogo storico dalla
quale derivano innumerevoli diagnosi sulla nostra epoca, diagnosi che, soltanto nella mia modesta biblioteca, occupano lo spazio di numerosi
scaffali. Io però cerco di proposito il Novum sul
piano ecologico e ve lo trovo quando mi accorgo
che negli ultimi duecento anni e specialmente
nel secolo scorso, l’uomo si è trasferito sempre
più, e addirittura in progressione geometrica, in
un mondo da lui stesso creato nel quale non
aveva vissuto prima di allora, in un ambiente,
cioè, prevalentemente inorganico e inanimato.
Stranamente, poco si è parlato fino ad oggi
3
di questo argomento; solo il Varagnac nel
suo libro dal titolo La preistoria nel mondo moderno (Parigi, 1954) ne ha trattato più ampiamente; all’occasione esso viene solo sfiorato, come ad esempio in Arnold Gehlen, L’anima nell’era della tecnica (1957). Dal 1948 in poi l’osservazione di questo ambiente inanimato appare
come un filo rosso che attraversa i miei scritti.
Ma come può accadere che uno storico dell’arte ponga al centro del suo interesse un argomento ecologico? Egli ne viene sospinto dalle
osservazioni che fa sulla civiltà industriale, soprattutto sull’architettura che, in un mondo teso sempre più verso concentrazioni urbane, determina essenzialmente il nuovo ambiente dell’uomo.
Occorre quindi dimostrare innanzi tutto
4
questo fenomeno e convalidarlo. Ma se non
ci si contenta di constatarlo e lo si vuole giudicare, occorre usare come unità di misura un sistema di riferimento. E io trovo quest’ultimo in
un altro dato di fatto non meno assodato, quello
per cui la realtà del mondo fu costruita per gradi: la parte inanimata, poi quella vivente, lo spi* Testo della conferenza tenuta il 25 giugno 1975 da. Hans
Sedlmayr presso la Facoltà di Ingegneria di Roma, Istituto di
Architettura, Edilizia e Tecnica Urbanistica
Quaderni Padani - 59
rito, l’intelletto e infine la persona. Il maggiore
vantaggio di tale sistema di riferimento si dimostra oltremodo indipendente dalle ideologie degli studiosi. Il numero dei gradi, la loro speciale
qualità e il loro reciproco condizionamento possono - è vero - essere valutati diversamente, ma
che tale realtà sia, nel suo insieme, costruita per
gradi è indiscutibile. Questa gradazione ontologica costituisce al tempo stesso una successione
storica: la mancanza di vita esisteva prima della
vita stessa, questa ultima esisteva prima dello
spirito ecc. Tuttavia questo fenomeno si manifesta a ondate più ampie di quanto non sia avvenuto nel corso delle tre grandi epoche dell’umanità, divise dalle due soglie. Dal punto di vista
ecologico è importante constatare che l’uomo
appartiene col suo corpo al regno della vita, col
suo spirito, col suo pensiero e la sua opera, al
mondo spirituale; esso non appartiene affatto al
mondo inanimato: neppure nel suo scheletro
manca la vita. Trasferire un essere simile quasi
improvvisamente in un mondo in cui domini
l’elemento inanimato, non può non scatenare
imprevedibili crisi. E queste non sono mancate.
L’inorganicità aumenta
Per comprendere chiaramente questa enor1
me trasformazione è sufficiente riflettere
che oggi forse in un solo anno si estraggono materiali inorganici dalla terra in quantità maggiore di quanto non avvenisse, prima, in un secolo.
E questa materia, nascosta un tempo nelle
profondità del suolo, ci circonda in mille forme.
Con sempre maggiore frequenza, cose costruite
con materiale vivo sono state espulse dal nostro
ambiente e sostituite con cose di metallo o sintetiche o usando materiale originariamente organico reso, in precedenza, amorfo e quasi inorganico. Ciò vale per il settore dell’abbigliamento, per attrezzi di ogni specie, per reti ferroviarie
e viarie, per condotte, e, a fortiori, per le macchine e in genere per tutta la produzione industriale. Perfino l’alimentazione non ne resta immune.Oggi l’inorganicità in molti luoghi è già
dominante; l’elemento vivo è in regresso; il dato
di fatto “ambiente inanimato dominante” non
può più essere discusso.
Questo moto verso il mondo inanimato si
2
manifesta in due direzioni principali: il materiale cresciuto organicamente viene sostituito
da materiale artificiale, la forza organica da forze inorganiche (Gehlen). Con la macchina a va60 - Quaderni Padani
pore e il motore a combustione, la civiltà è
quindi passata alle riserve di carbone e petrolio
immaganizzate nella terra. Questi sono è vero resti di una vita organica estinta da un tempo
ormai remoto, ma vengono inseriti adesso nel
sistema inorganico. L’inizio dell’utilizzazione
dell’energia atomica indica che le forze più potenti provengono dalla materia inorganica.
Ancora una volta si può scorgere il medesi3
mo fenomeno quando, lo si consideri, non
dal lato dei materiali e delle forze, ma dal lato
dell’uomo di oggi, dell’Homo faber industrialis.
Se ci si volge indietro verso l’era già trascorsa
delle civiltà contadine e verso le civiltà aristocratiche-sacerdotali che si sovrapposero ad esse,
esistevano ovunque piccoli gruppi di uomini che
durante la vita ebbero a che fare con natura
inorganica e solamente con essa. Erano per lo
più minatori e maniscalchi, ambedue figure inquietanti per ]’ambiente in cui vivevano e intorno alle quali aleggiava il mistero: persone spesso
minorate, zoppi, monocoli o emarginati che si
erano stabilite fuori della comunità. (Ricordo
ancora come ai tempi della mia infanzia fosse
per me un avvenimento angoscioso entrare nell’officina del fuligginoso Ciclope, nella quale divampava il fuoco, dove i metalli erano arroventati e sprizzavano scintille, dove l’ambiente risuonava di ogni sorta di rumori aspri e strani).
Contro questa osservazione si potrebbe subito
obiettare che anche i vasai lavoravano nella stessa sfera inorganica. A queste arti tecniche tuttavia il mondo inorganico procurava solo il materiale, ma la forma che lo foggiava si era formata
in uno spirito che si librava al di sopra del mondo inorganico. Anche nei grandi centri urbani
del vecchio mondo la vita non scorreva in un
ambiente inanimato. Questo dimostra che il fenomeno dell’inorganicità non deve essere affrontato basandosi unicamente sul materiale,
ma che lo spirito inorganico deve anch’esso essere preso in considerazione: un concetto provvisorio, questo, nel quale si nasconde ancora
qualche problema insoluto che però può condurre a importanti conclusioni.
Il gigantesco fenomeno di un ambiente di4
venuto sempre più inanimato compare come colmo, come vero caso limite, nei centri della grande industria che Ernst Jünger chiama in
genere, e non a torto, “fucine”. Qui si concentrano materiali e forze, dai quali vengono espulsi in enormi quantità gli ultimi residui di vita.
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
Da queste centrali dell’inorganicità si irradia il
Novum in ogni direzione, in ampi settori, addirittura su tutta la terra. Una rete inorganica sovrasta già tutto il mondo e non solo il mondo
del lavoro, ma anche il mondo del tempo libero.
Dove miri questa tendenza risulta chiaramente nel caso limite delle utopie più recenti: gli automi in condizione di -esercitare un lavoro indipendente, di “autoalimentarsi”, di completarsi,
di organizzarsi, di programmarsi e di riprodursi;
questi automi che sono le creature superiori
dello spirito inorganico potrebbero divenire, sviluppandosi ulteriormente, del tutto autonome
ed essere in grado di sganciarsi dall’uomo e di
renderlo superfluo. Il regnum hominis potrebbe
essere affrancato da un regnum automatorum.
Certamente questa prospettiva ha carattere di
visione utopistica tuttavia il suo orientamento
dimostra che da un ambiente inanimato dell’uomo potrebbe derivare un mondo senza uomini
con la propria vita inanimata. E le linee che :indicano questo orientamento sono disegnate in
modo chiaro nella civiltà industriale.
termediari fra il mondo matematico astratto e
quello umano vivo”. Per essi la geometria era soltanto un elemento regolatore, nei progetti degli
architetti francesi della Rivoluzione e dei loro
successori, nel secolo ventesimo, essa diviene elemento sostanziale. L’architettura viene ridotta
pragrammaticamente a forme elementari geometriche e cessa appunto di essere architettura, cioè
una forza ordinatrice per le altre arti. Architettura e natura viva divengono gli estremi contrari;
una conciliazione, come ad esempio fu creata nel
giardino francese, viene considerata repellente.
La mancanza di vita appare chiaramente nel
carattere rigido e freddo che ha seguitato a dominare anche nella seconda rivoluzione architettonica (prima del 1917) la quale ha determinato l’architettura fino ai nostri giorni. Questa
rigidezza e questa freddezza penetrano anche
nel colore delle costruzioni e nella luce che si
vuole ottenere; nella luce al neon delle nostre
città l’illuminazione fredda è divenuta ovunque
dominante. Ma “freddo” è una prerogativa del
carattere inanimato ed equivale a “rigido”.
Architettura inanimata
Il diciannovesimo secolo aggiunge nuovi
2
materiali inanimati che prima di allora non
erano mai esistiti come materiali destinati alla
Esponente dell’architettura inanimata è di1
venuta la cosiddetta “Nuova architettura”,
che dagli anni venti in poi ha conquistato tutto
il mondo; e lo ha tappezzato con miriadi di blocchi di cemento levigati.
Le forme inanimate sono comparse prima dei
nuovi materiali inanimati da costruzione. “Noi
dimentichiamo che - fatta eccezione per pochi
esempi - l’architettura del passato era molto più
viva di quella di oggi”. (Frei Otto).
Il carattere inanimato comincia già a manifestarsi con i progetti degli architetti della Rivoluzione francese, cioè intorno al 1780-1790. Le
poche eccezioni dell’architettura del passato, alle quali accenna Frei Otto, erano edifici, la cui
rigida mancanza di vita simboleggiava il loro
contenuto spirituale: essi sono, ad esempio, le
costruzioni funerarie e i tempi funerari dell’antico, Regno in Egitto. Il carattere inanimato dei
progetti francesi di Ledoux, Boullée e dei loro
adepti è però il programma di una rivoluzione
interiore dell’architettura. Tutte le forme quasiorganiche vengono espulse: il rigonfiarsi organico della colonna, i profili delle porte e delle finestre, i cornicioni e le travature foggiate in forme
plastiche vive.
Gli architetti delle antiche civiltà erano - secondo un’appropriata espressione di Frei Otto – “inAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
costruzione; dapprima la ghisa, poi il vetro (fece
epoca quel gigantesco padiglione della prima
esposizione universale allestita a Londra nel
1851 nel cui nome “palazzo di cristallo” si
esplicò simbolicamente il nuovo pathos dell’elemento inanimato). Segue poi l’acciaio, infine il
cemento, il cemento armato e tutta una serie di
altri materiali da costruzione artificiali.
Ciò che qui viene chiamato “inanimato” è
chiaro: tutte queste materie sono amorfe e plasmabili quasi a piacere, tutte sono rigide e fredde secondo il loro carattere, t evidente che la
pietra, che si forma naturalmente, ha invece una
struttura quasi organica che non si lascia elaborare a piacere e neppure in senso contrario alla
sua naturale stratificazione. Per non parlare del
legno come materiale da costruzione. L’unico
antico materiale amorfo era l’argilla che forma il
mattone, la monoforma del mattone oppone resistenze molto maggiori della pietra e del legno
per potersi considerare plasticamente vivo; tanto più sorprendente è ciò che è stato fatto con
questa materia, per esempio nelle terrecotte del
periodo gotico. Invece, nel cemento armato, la
malta (come Ernst Jünger aveva acutamente
previsto) da un mezzo connettivo è divenuta la
sostanza della costruzione. Fino ad oggi non è
Quaderni Padani - 61
stato possibile renderla viva, ma non esiste neppure un ardente desiderio di farlo.
Si aggiungono infine i procedimenti inani3
mati per progettare e costruire. Già il fatto
di disegnare i progetti con la riga e col compasso, cioè con una precisione intenzionale cui l’esecuzione degli antichi progetti non aveva mai
aspirato (per lo meno in una siffatta misura)
prepara il carattere ultimo dell’inorganicità. Cadono le piccole irregolarità che determinano la
vita nei muri e negli intonaci fatti a mano libera. Frei Otto dice perciò, con ragione: “Vista nel
suo insieme, l’architettura non ha mai usato
metodi cosi rigidi come oggi”. Nessuna meraviglia quindi che i suoi prodotti vadano cosi poco
d’accordo con la natura viva.
In tutto questo si rivela uno spirito inani4
mato, lo spirito dell’astrazione. Astrazione
significa non considerare il luogo, la storia, tutte le forme vive dell’antica arte, i loro elementi
semantici e simbolici, tutte le funzioni che vanno al di là di quelle materiali.
La “Nuova architettura” è programmaticamente senza vita, senza luogo, senza storia, senza volto. Nati da uno spirito inanimato, i suoi
prodotti mostrano tutti i caratteri dell’inorganicità: rigidezza, freddezza. Come caso limite dell’azione combinata di forme inanimate, di materie inanimate, di procedimenti inanimati si erge
:al nostro sguardo il glaciale mondo di cristallo
di un Mies van der Rohe. Esso mostra - portati
alla esasperazione - tutti quei caratteri che sono
inerenti alla “Nuova architettura” perché ne formano la parte essenziale. Il loro fascino estetico
può essere grande, l’esecuzione magistrale. La
differenza fra “inanimato” e “vivo” non ha nulla
a che fare con diversità estetiche di “qualità”.
Essa designa piuttosto la contrapposizione fra
tutte le architetture antiche da una parte e tutta
la “Nuova architettura” dall’altra. Proprio alcuni
capolavori moderni mostrano fino all’ultimo limite il loro carattere inanimato.
Modello dell’architettura inanimata furono, in
modo particolare, quelle costruzioni degli anni
intorno al 1910-1920 nelle quali, è significativo,
albergano le funzioni principali del sistema industriale: fabbrica (la produzione), ufficio (l’amministrazione), esposizione (la propaganda). Esse
attraggono tutti gli altri temi architettonici - la
casa di abitazione, l’edificio di rappresentanza, la
chiesa - nell’orbita del loro carattere inanimato.
Le loro forme esasperate si possono notare nel62 - Quaderni Padani
l’architettura delle città moderne. Le costruzioni
in massa moltiplicano la rigidezza e la freddezza.
La Charta di Atene (1933) un tempo famosa,
oggi famigerata, ripartisce astrattamente con
una divisione per spazi: abitazione, tempo libero,
traffico; e crea cosi la squallida monotonia dei
quartieri urbani moderni. Qui il carattere inanimato assume forme addirittura patologiche.
“Si confronti attentamente il vecchio centro
di una qualsiasi città tedesca con la sua periferia moderna, o anche quella vergogna civile che
penetra nella campagna divorandola rapidamente, con quei luoghi che essa non ha ancora
attaccati. :Si confronti poi un’immagine istologica di un normale tessuto corporeo con quella
di un tumore maligno: vi si troveranno sorprendenti analogie”.
Le analogie che saltano agli occhi, paragonando l’immagine della cerchia urbana e quella del
tumore, consistono nel fatto che in questo come
in quella erano presenti, nello spazio ancora sano, le costruzioni che dovevano la loro sapiente
armonia ad un’informazione accumulata durante un lungo sviluppo storico, mentre nel caso
del tumore o della zona devastata dalla tecnologia moderna, solo pochi tipi di costruzioni, semplificate al massimo, dominano il quadro. L’immagine istologica delle cellule tumorali completamente uniformi, strutturalmente povere, presenta una penosa analogia con una veduta aerea
di “una città moderna, con le sue case unitarie
progettate da architetti poveri di cultura, senza
molta riflessione e presentate affrettatamente a
concorsi” (Konrad Lorenz).
Fino a quando queste costruzioni inanimate
comparvero singolarmente ed erano fatte con
intendimenti altamente estetici, furono considerate affascinanti, come una interessante contrapposizione alla tradizione; fino a quando erano una minoranza, esse erano sopportabili; da
quando esse sono divenute una maggioranza una massa, banali e a buon mercato - sono una
peste. Sono le grandi distruttrici delle città e
delle campagne.
Solo nel 1971 un architetto svizzero (Rolf Keller) ha denunciato con decisione questa verità.
Il titolo del suo libro L’architettura distruttrice
dell’ambiente. Immagini allarmanti di una
pseudo architettura del futuro, uscito nel 1973
con le sue impressionanti illustrazioni e i suoi
testi lapidari, ci dice tutto. Contemporaneamente la lega degli architetti svizzeri ha fatto presente al Consiglio federale che l’architettura un’attività con la quale si collega involontariaAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
mente l’idea di qualche cosa di produttivo - è divenuta recentemente una dimensione della distruzione ambientale, che a poco a poco non è
stata più notata.
Spirito inorganico
La tendenza di sostituire il mondo organico
1
con un mondo inorganico è dovuta, in ultima analisi, a una legge piuttosto misteriosa.
La natura inorganica è infatti, per dirla in breve, più conoscibile di quella organica, uno stato
di cose su cui H. Bergson ha energicamente richiamato l’attenzione. “Il vigore razionale del
nostro pensiero, i modelli astratti ch’esso crea e
i suoi concetti matematici, giungono nella natura inorganica con sorprendente capacità di
mira, mentre intorno a ciò che propriamente è
vita, nonostante tutti i progressi della chimica
organica, siamo informati poco più di quanto
non lo fossero i primi filosofi dell’antichità greca”. Secondo il Bergson alla nostra razionalità
deve parzialmente sfuggire ciò che di fluido la
realtà nasconde e deve poi del tutto sfuggire ciò
che di vivo è insito nella vera vita.
Sempre secondo il Gehlen, il nostro intelletto,
cosi come esso viene dalle mani della natura, ha
per oggetto definitivo la fissità inorganica.
E il Gehlen così prosegue: “L’evidente spostamento dell’organicità che si nota nello sviluppo
della tecnica per mezzo di materiali e forze
inorganiche, dipende dal fatto che il campo della natura inorganica è il più facilmente accessibile a una conoscenza metodologica, razionale
e strettamente analitica e ad una pratica sperimentale corrispondente. Il campo biologico e
intellettuale (e io aggiungo, spirituale e della
persona) sono di gran lunga più irrazionali. E’
concepibile una certa propensione da parte di
molti tecnici e biologi ad orientare la loro ideologia a quella razionalità che nel campo dell’inorganicità ha dato frutti cosi importanti facendo del tecnico il maestro e il padrone della
natura inanimata”.
Ma a me sembra errato limitare la razionalità
alla conoscenza del settore inorganico. Sarebbe
più giusto dire che ogni grado contingente della
realtà possiede un’altra specie di intelligibilità
che però non è inintelligibile o irrazionale e che
essa richiede perciò modelli e concetti propri. Si
deve però ammettere che lo sviluppo delle idee,
che sono all’altezza dei più alti gradi della realtà,
zoppica a grande distanza dietro la razionalità
inorganica (se così ci si può esprimere). Là dove
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
la realtà richieda da noi l’esprit de finesse al posto dell’esprit de géometrie molte epoche più
antiche ci sono superiori.
Credo inoltre che occorre cercare più in
2
profondità l’inclinazione verso l’inorganicità. È come se nell’uomo (l’ho già scritto nel
1948) si fossero sviluppati improvvisamente organi e cognizioni che lo pongono in un rapporto
addirittura magico con la natura inorganica e
fondano su di essa il suo dominio. Con forza
magnetica una simpatia primaria attrae lo spirito umano verso gli “elementi” - il metallo, il
fuoco, l’aria, l’elettricità, (non però la terra) tendenza, anche questa, visibile direttamente nelle
creazioni dell’arte moderna. Su questo magico
rapporto si basano, in ultima analisi, i colossali
trionfi di tutta la scienza della natura inanimata,
i capolavori dello spirito moderno: fisica atomica e fisica cosmica.
La simpatia primaria per l’inorganico com3
pare, con stupefacente risolutezza, in
espressioni di pensatori e artisti, E più precisamente in due forme: una dichiarata ostilità verso la natura e un cupo estraneamento da essa.
I sansimonisti, i positivisti e Marx hanno agito
in comune perché intorno al 1848 sorgesse la
chimera di un’anti-natura. L’espressione stessa
di anti-natura proviene dal Comte. Nella corrispondenza tra Marx e Engels si trova l’espressione Antiphysis (J.P. Sartre). Di qui nasce l’antinaturalismo e prende sempre più piede. Secondo
Marx l’uomo non deve stabilirsi nella natura, ma
nell’arte umana della tecnica, ciò è a dire, in sostanza, nell’inorganicità. Nella tecnica sarebbe la
vera sostanza dell’uomo. Nel rifiuto della natura
concorda con Marx, per motivi del tutto diversi il
suo coetaneo Kierkegard, come i suoi figli e nipoti, gli stessi esistenzialisti. Mai una filosofia si è
cosi poco curata della natura come la filosofia
dell’esistenzialismo, per la quale essa non ha
mantenuto alcuna dignità (Hans Jonas). Ma anche un Max Bense saluta ai nostri giorni, con
freddo entusiasmo, la “denaturizzazione”.
Molto più evidenti ancora si dimostrano le
simpatie e le antipatie nelle espressioni degli artisti. Per Baudelaire gli oggetti della natura (e
ciò che egli chiama natura è sempre la vita) sono completamente insignificanti. Come uomo di
città egli ama le cose geometriche che sono sottoposte alla razionalizzazione. Lo Schaunard
informa che egli diceva: “Non posso sopportare
l’acqua non imbrigliata, la voglio vedere impriQuaderni Padani - 63
gionata in un collare di ferro, nei muri di un argine”. E nel mondo che lo circondava hanno
trovato onore ai suoi occhi specialmente le severe forme dei minerali. Nei suoi piccoli componimenti in prosa egli scrive: “Questa città si trova
sul mare; si dice che sia tutta costruita in marmo. E si dice che gli abitanti nutrano un cosi
grande odio per le piante al punto di abbattere
tutti gli alberi. Questo sarebbe un paesaggio di
mio gusto: un paesaggio fatto di luce e di minerali” (Sartre). In certe zone di alcune grandi
città moderne questo ideale è realizzato, ma non
in marmo bensì in cemento. Tuttavia il rifiuto
per la natura continua: Franz Marc: ha sentito
forse per primo la “bruttezza” della natura, la
sua mancanza di purezza, e si è rifugiato nell’astrazione. Infine Mondrian sogna la metropoli,
la città della perfetta tecnica, della perfetta
anti-natura.
Conseguenze
In un inondo ove domina l’inorganicità,
1
l’uomo può ben vivere, si può adattare ad
esso cosi come egli può vivere in condizioni artiche. Ma vi può vivere solo in maniera ridotta.
Il freddo che questo mondo sprigiona ha innegabili conseguenze per la salute dell’uomo. Dove
la mancanza di vita lo circonda in forma concentratata, come nei quartieri urbani dei centri
industriali, compaiono le conseguenze: l’uomo
diviene triste, soffre, cade nella malinconia, nelle psicosi. Questa è la ribellione dello spirito che
mostra la sua presenza. Queste malinconie e
psicosi non sono sintomi di malattia, ma di salute (Max Picard); esse mostrano che l’uomo reagisce ancora in maniera giusta. La malattia esisterebbe se si trovasse tutto “bello” e in ordine.
La vita in un ambiente inanimato e il con2
tinuo contatto con cose inanimate determina conseguenze morali. Secondo il Freyer è
decisivo il fatto che di fronte alla natura inorganica, cioè al carbone, all’elettricità, alla energia
atomica non esiste alcun atteggiamento etico,
che quindi l’idea di una limitazione dei mezzi
consentiti non si forma né al momento della
produzione né in seguito. Di fronte alla natura
inorganica, alla sua conoscenza e alla sua utilizzazione non esistono, sin dall’inizio, limiti etici
ma solo tecnici. La nostra etica è stata formata
in relazione ai nostri simili e agli esseri con i
quali viviamo. Noi siamo padroni del mondo
inorganico in un senso completamente diverso
64 - Quaderni Padani
di come siamo padroni degli animali domestici
che appartengono a noi, anche lasciando da parte ogni sentimentalismo (Tutto questo secondo
il Freyer). Appunto come lo spirito inorganico
crea un ambiente :,inorganico, questo, per una
sorta di processo inverso incide sulla formazione dello spirito. Il continuo occuparsi del mondo inanimato genera forme mentali e comportamenti affini a questo mondo fatto di surrogati.
Non ci si deve meravigliare quindi che gli uomini cresciuti in tale ambiente restino estranei alla
natura viva.
Il Promoteo tecnico, signore assoluto del3
l’ambiente inanimato, non può, nel suo abbagliamento, vedere le diversità della natura organica. Egli confida ciecamente che i metodi
che gli hanno dato successi cosi straordinari nel
campo dell’inorganicità, debbano in ogni modo
avere successo anche in tutti gli altri campi. Ma
in questo caso si inganna. Egli non è più all’altezza della natura viva; quando viene a contatto
con essa egli la disturba, la turba, la distrugge.
Immensi sacrifici di magnifici paesaggi, di benedette zone selvagge, di una vita animale e vegetale, hanno per conseguenza una terra ;letteralmente divenuta deserta, un’acqua ed un’aria avvelenate. Errati, giganteschi investimenti che
devono essere corretti con spese ancora maggiori, un immenso spreco, sono il prezzo che occorre pagare per le soverchierie dello spirito
;inorganico nel campo della vita.
L’uomo turba non solo la natura viva, quella
esistente intorno a lui, ma anche quella che esiste in lui. Parlando in senso metaforico le acque
dell’anima sono state spillate con la medesima
imprudenza delle acque sotterranee dei fiumi e
le conseguenze non sono meno devastatrici.
Le conseguenze fisiche di tali interventi sono
divenute di recente infinite. Sulle conseguenze
spirituali ed etiche non è stata prestata ancora la
dovuta attenzione. Nella peggiore delle ipotesi,
però, l’“era dell’acciaio”, affascinata dalle nuove
possibilità di azione, ha completamente dimenticato il vero e proprio sfondo dell’esistenza.
L’incompatibilità del mondo inorganico per
4
quello organico è enorme, anche per il fatto
che i rifiuti della natura entrano in circolo e subiscono una trasformazione. Mentre la natura non
riesce a smaltire i rifiuti e i residui del mondo tecnico ed inorganico. Il processo tecnico non si
chiude in un cerchio analogo a quello della natura. Questo è un problema (qui soltanto accennato)
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
le cui conseguenze per l’industria non sono state
abbastanza ponderate. t un ulteriore indizio che
dimostra l’assoluta differenza che esiste tra l’ambiente inanimato e inorganico e la natura viva.
Contestazione e risposta
Col votarsi dell’uomo al mondo inanimato
1
ha avuto inizio un processo che, stranamente, sembra essere irreversibile (oppure anche reversibile, ma solo parzialmente in determinati campi). Il mondo inanimato cresce letteralmente di giorno in giorno, si allarga, diviene
sempre più denso. E’ difficile poterlo limitare.
Qua e là si possono sottrarre zone intatte di natura ancora selvaggia, escluderle dall’utilizzazione; al momento stesso in cui si fanno di esse dei
musei naturali, anche queste assumono un particolare carattere inanimato. Senza contare che
anche su tali zone naturali protette, gli aerei
stabiliscono le loro rotte e ai loro margini si
affollano le automobili degli “amanti della natura” come davanti al recinto di una esposizione. A
questa situazione si può reagire in vari modi.
Si può raccomandare o anche esigere che
2
l’uomo riconosca come autonomo e indipendente, come una seconda natura, il mondo
tecnico da lui stesso creato e si conformi a questa “realtà che è una delle più dure” (Max Bense), sacrificando tutto ciò che non si conformi al
mondo della tecnica, e più presto ciò avviene
meglio sarà. Già è stato proposto seriamente, e
alcuni tentativi sono in corso, di creare, per
mezzo di mutamenti generici artificiali, specie
di uomini che meglio si adattino alla tecnica.
Questa esigenza, apparentemente saggia e apparentemente realistica, è però assurda ed inaccettabile perché essa pretende nientemeno che
l’uomo si assoggetti alle sue proprie creature,
alla proiezione di una parte delle sue capacità e
neppure a quelle più alte, ma a quelle di più pratico rendimento.
In alternativa a questa eventualità ci sono i
3
vari palliativi: i giardinetti familiari alla periferia della città, i mini-giardini giapponesi sui
balconi delle case dei grandi centri urbani, i piccoli animali domestici, le passeggiate domenicali in campagna, le pseudo, approssimative forme
di Yoga o Zen, i mobili antichi o i sogni: all’LSD.
Un vigoroso palliativo, non ancora usato, sarebbe un’architettura più viva, più umanamente
calda. Oggi viene auspicata nella maniera più
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
energica proprio dai gruppi progressisti. “Già il
desiderio di costruire in questa maniera, che
cioè la costruzione appaia più viva, è un segno
di malcontento” (Frei Otto).
Ma, naturalmente, un’architettura più viva
non può essere conseguita facilmente con la volontà; essa verrà gratuitamente aggiunta ad un
atteggiamento più giusto verso la realtà e verso
la vita, anche senza tornare a certe forme del
passato.
L’unica panacea di cui si potrebbe discute4
re, dovrebbe essere tratta dalla constatazione che l’uomo non deve conformarsi al sistema
industriale, non a un mondo creato da lui stesso, ma a tutta la realtà del mondo nella sua successione per gradi che dal regno animato salga,
attraverso la natura viva, al regno della persona,
oggi come sempre è avvenuto su questa terra da
quando esiste l’uomo nel pieno delle sue facoltà.
Questa realtà invita l’uomo a sviluppare tutte le
forze dello spirito che corrispondono ai livelli
più elevati e a non lasciare indurire il suo giudizio e le sue azioni sul gradino più basso.
Sembra che nell’era, già iniziata, di una nuova
coscienza, compito dell’uomo sia quello di conquistarsi grado a grado, coscientemente, la propria umanità. Si dovrebbe quindi ripetere il processo cosmogonico che il mondo, nella sua costruzione per gradi ha creato. Solo cosi, l’unificazione tecnica del pianeta al di là del tempo e
dello spazio - opera questa dell’era della tecnica riceverebbe il suo vero e proprio contenuto umano e al tempo stesso la parola priva di valore
“progresso” nella quale si sono concentrate tante
speranze, acquisterebbe il suo vero significato.
Tale esigenza, formulata qui solo genericamente, non è irreale; già oggi la natura, nella quale
l’uomo vive, comincia ad esigere un pensiero e
un’azione meglio adeguata alla sfera della vita.
Conclusione
L’esigenza divenuta tanto evidente non può più
essere messa da parte; la coscienza di essa è divenuta irrevocabile. Tale esigenza comincia col ricordare all’uomo che per lui ci potrebbe essere
un clima più adatto alla sua natura umana, migliore di quell’ambiente inanimato nel quale egli
stesso si è isolato e che non è superiore alle sue
forze creare una vita più umana di quella odierna. Mettere da parte il sistema industriale è
un’utopia. Trasformarlo per l’uomo è un imperativo e una speranza reale. Il suo ambiente non
deve restare cosi inanimato come è oggi.
Quaderni Padani - 65
Tecnica e Natura*
di Hans Sedlmayr
Q
uando si cerca di caratterizzare il nostro tempo si sottolinea normalmente troppo poco che
è subentrato un rapporto totalmente nuovo
con la natura. La massima attenzione della ricerca
umana, della produzione umana del lavoro e della
vita umana si è spostata sempre più verso il campo
della natura inorganica. Questo è un fatto a cui si da
troppo poco peso e che non si tiene nella dovuta
considerazione.
Dando uno sguardo indietro all’era delle grandi
civiltà, si noterà come dovunque e sempre fossero
solo piccoli gruppi di uomini che per tutta la durata
della loro vita si occupavano della natura inorganica. In prevalenza erano solo fabbri e montanari che
svolgevano la loro attività esclusivamente in questo
settore. Inizialmente potremmo aggiungere anche i
muratori, gli scalpellini e i vasai. Ma se osserviamo
la loro opera ci rendiamo conto che in quasi tutte le
epoche del passato il loro lavoro consisteva nel dare
alla materia inanimata una vita plastica, nell’elevarla a un livello più alto, quasi organico. Il mondo
inorganico forniva a queste arti tecniche solo la materia, la forma; invece la struttura era data da una
spiritualità che stava sopra il mondo inorganico.
Ciò è mutato radicalmente. La nostra era si è inoltrata fin dai primordi, e in modo senza precedenti
nella storia del mondo, in campi estranei all’uomo,
che sono quelli dell’inorganico. Per riuscire almeno
ad afferrare questo veramente incredibile processo
basta immaginare quanta materia l’uomo abbia
estratto dalla terra negli ultimi 200 anni, quanta
energia egli abbia strappato agli elementi, agli atomi. Probabilmente viene estratto oggi in un solo anno più materiale inorganico che non prima in secoli. Sempre più nel nostro mondo sono stati sostituiti oggetti prima fatti di materiale “vivente” con oggetti di metallo, di materiali sintetici e inorganici, o
anche di materiali in origine organici resi però
amorfi e perciò quasi inorganici. Ciò che noi intendiamo per tecnica “moderna” è principalmente “tecnica dell’inorganico”.
Ma non è questo aspetto materiale quello decisivo,
ma bensì il fenomeno che, negli ultimi 200 anni, ha
visto uno spirito impadronirsi del “potere-forme di
pensiero”, della sperimentazione e dell’organizzazione e dello sviluppo tecnico imparentato - a livello di
scelte - all’immane campo dell’inorganico e alleato a
66 - Quaderni Padani
questo mondo elementare. In questo caso il termine
“inorganico” deve essere considerato in un contesto
più ampio del consueto significato, e cioè, comprendente solo il regno della natura inanimata. In questa zona è situato uno dei punti di partenza di questo movimento, che ha alla fine acquisito un potere
cosmogonico. È come se nell’uomo si fossero sviluppati organi e capacità conoscitive atte a porlo in
un rapporto quasi magico con la natura inanimata e
a consolidare il suo governo su di essa. Con forza
magnetica lo spirito umano è attratto in questa
nuova era verso il mondo inorganico. Sulla ricerca
razionale (che ha però radici irrazionali) si fondano
in ultima analisi gli enormi trionfi dell’intera scienza della natura inanimata, i capolavori del genio
moderno: la fisica nucleare e cosmica. Da questo
genio nascono la scienza applicata della tecnica moderna e le relazioni con lo spirito del moderno capitalismo e - con il riconoscimento del lavoro e per
mezzo di esso - la moderna industria; nasce il tipo
del “lavoratore” la cui Gestalt è intesa in senso lato
come, secondo la definizione di Ernst Jünger, la sottomissione dell’uomo a questa nuova sfera di vita
inorganica, prodotta dall’inorganico come per incantesimo, nel proprio essere e in tutte le forme di
espressione, che finalmente rende l’uomo stesso
sempre più inorganico e amorfo, schiavo della propria creazione, di uno spirito rivolto con tutta la
propria fibra verso l’inorganico.
“Milioni di uomini metropolitani non calpestano
per intere settimane terra vera, ma camminano solo
su asfalto, linoleum, pietra artificiale e vetro temperato. Avere un prato, una roccia oppure anche solo
un campo concimato sotto i piedi è già una “gita”.
Com’è commovente pensare che si fuggirebbe da
questo mondo se si bevesse della Coca-Cola sotto
acacie polverose”, dice Hans Freyer. Non è certamente più esagerato sostenere che la tecnica ha “snaturato” l’ambiente trasformandolo in qualcosa in cui nessuno aveva finora vissuto: cioè, un ambiente dominantemente inanimato. Si è addirittura creata una
seconda natura, in maggioranza nata da materia
*
Capitolo tratto dal libro Gefahr und Hoffnung des Technischen Zeitalters (“Pericolo e speranza dell’era tecnologica”,
Salzburg: Otto Müller Verlag, 1970). Traduzione di Rossella
Ghezzi
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inorganica in uno spirito inorganico. L’uomo incontra in questo nuovo ambiente, per così dire, solo un
aspetto della propria umanità, un aspetto, cioè, che
ha “simpatia” per il mondo dell’inanimato. Questo
non può non avere delle conseguenze per la sua vita.
E infatti le ha.
Dove lo spirito inorganico trova la fine del cammino (o meglio, lo ha percorso verso l’inizio e ha
acquisito la fabbricazione sintetica delle sostanze
degli elementi, della materia) diviene insensata ogni
altra concezione tecnica, e il quesito “cos’altro si
potrebbe ricavare e attraverso quali metodi?” resta
l’unico vigente. Non esiste uso sacrilego della bauxite, come esiste degli alberi. Non esiste una tortura
molecolare simile a quella degli animali. L’uomo si
è spinto in questo mondo (o è capitato in esso), lasciando via libera alla fattibilità delle cose. Ciò deve
avere conseguenze anche per lui. La nostra etica è
stata formata sul nostro prossimo e sui nostri simili. Conta sulle domande (anche se mute) che essi
pongono e sulle risposte (anche se mute) che essi
danno.
“Il Fare non è però un gioco di domande e risposte ed è un incontro solo in senso molto lato. Siamo
padroni del mondo inorganico in maniera ben diversa che non degli animali domestici, che ci appartengono, anche senza alcun sentimentalismo”.
(Hans Freyer)
Questo spirito inorganico - mi permetto di abbreviare l’espressione, dietro a cui si nascondono alcuni problemi irrisolti - è divenuto così imponente su
questa terra, che rappresenta un fattore geologico.(
H. Haeusler) Fiero delle proprie prestazioni, esso è
passato su altri campi, sicuro di se e in modo “imperialistico”. Da qui inizia il fallimento. Non è all’altezza della natura vivente: toccandola, la disturba e
la distrugge.
Anche nell’epoca delle grandi civiltà del passato,
l’uomo aveva distrutto fin troppo spesso la natura viva, il paesaggio vivo a causa di opportunismo e imprevidenza. Oggi però la distruzione deriva da ben altri motivi. Un motivo è la sopravvalutazione della forza della natura e la sottovalutazione della forza tecnica o dei processi tecnicamente delimitati. Non si può
o non si vuole credere, che un lago immenso non
può sopportare i rifiuti industriali che vi vengono riversati. E chi pensa a questo modo, sembra avere per
lungo tempo ragione. Non si può o non si vuole credere, che l’abbattere qualche siepe, che ostacola la
razionalizzazione di una coltura o di un raccolto,
possa seriamente cambiare il clima di un territorio e
possa provocare una catastrofe per il terreno bisognoso di nutrimento. Non si può o non si vuole credere che i gas di scarico o il rumore degli automezzi
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in città, a partire da un certo grado, potrebbero seriamente ledere l’organismo naturale dell’uomo. In
questa sconsideratezza vi è ancora un certo rispetto
per la natura, ma nessuno per la tradizione. Oggi
dobbiamo dovunque pagare la conseguenze di questa
mentalità incosciente e insieme già priva di legami e
senza tradizione.
Una distruzione ben più attiva della natura deriva
però da un motivo completamente differente e acuisce il conflitto fra tecnica e natura a tal punto da
non avere eguali nella storia. L’uomo dallo spirito
inorganico si affida ciecamente al fatto, che quegli
stessi metodi “scientifici” che lo hanno reso maitre
indiscusso e possesseur della natura inorganica, addirittura demiurgo, dovranno adattarsi anche alla
natura organica. Ma qui si sbaglia. Quando, nella sua
superbia, egli perde di vista il salto che divide la natura vivente da quella morta, la sua “produttività” diventa distruzione. Immensi sacrifici di meraviglioso
paesaggio, di vita animale e vegetale, di distruzione
della terra sono le conseguenze di questo conflitto;
lo sono anche immensi sprechi di mezzi, di investimenti errati in provvedimenti e costruzioni tecniche
che si dimostreranno sbagliati e quasi irrimediabili o
solo con costi addirittura superiori agli stessi investimenti sbagliati.
“Non vi è dubbio che la tecnica, in cui si riuniscono con grande forza di spinta anche le altre forze
trainanti del XIX secolo, scienze naturali, economia
e specializzazione, si impossessi in misura incalcolabile di ciò che è calcolabile e misurabile nell’insieme della natura e che col suo aiuto abbia costruito
qualcosa di eccezionale. L’errore di questa tecnica e
di quella che ancora oggi lavora nello spirito di ieri,
è stato solo quello di porre una parte al posto del
tutto, di non considerare l’incalcolabile e l’incommensurabile, e di considerare invece la natura come
una collezione casuale di cose le più differenti, tra
cui essa ha creduto di poter agire come meglio riteneva. La natura, al contrario, è fatta da un pugno di
terra-madre viva e, partendo da una macchia di
prato fino all’universo, è dovunque ci sia un organismo vivente, in cui ogni più piccolo membro è in relazione con ogni altro e ogni cambiamento di una
parte influisce su tutto il resto. Tutta la vita su questa terra esiste solo sulla base di una armonia indistruttibile dell’insieme della natura. Ove una concezione solo tecnica viene a distruggere ciò e pone
lo scibile matematico-scientifico al suo posto, la
conseguenza è l’annientamento”. (A. Seifert)
La natura organica si contrappone a questo spirito. Lo contrasta nel piccolo, quando fa crescere su
un pezzo di terra trattato in modo errato solo erbaccia e cardi. Lo contrasta nel grande con catastrofi di
Quaderni Padani - 67
portata cosmica. Non è difficile fare degli esempi:
uno dei più tremendi potrà bastare. Al centro degli
Stati Uniti, quello che era uno dei più ricchi territori per la coltivazione del frumento, grande come la
Germania e la Francia assieme, è divenuto un vero e
proprio deserto. Incredibili tempeste di polvere hanno soffiato via quello che era stato fertile terreno
agricolo. C’erano voluti 4000 anni alla natura per
formarlo: in un solo giorno, l’11 maggio 1934, se
ne volarono via 300 milioni di tonnellate. “Il governo americano vuole piantare con l’impiego di
650.000 uomini miliardi di alberi per fermare in
questo modo il continuo ritirarsi verso est del limite coltivabile. Fallirà, se anche questi provvedimenti di emergenza verranno affrontati in maniera puramente meccanica”. (A. Seifert) Ma il processo di
distruzione continua. “Alla erosione del terreno seguirà l’erosione dell’essere umano stesso”. (H.
Haeusler)
Se su molte città del mondo l’aria è appestata, se
molti territori, laghi e fiumi sono inquinati, se molte parti della terra sono inaridite, se l’acqua del sottosuolo è esaurita, allora l’errore di questa prima fase inorganica sarà inevitabile. E queste sono solo le
conseguenze più visibili di un processo di distruzione ben più vasto. Ci si renderà conto molto più di
adesso, che questo processo non può limitarsi all’ambiente che circonda l’uomo, ma che si svolgerà
anche in quella “natura” che sta dentro, che è l’uomo stesso. Per esempio, si è attinto anche alle acque
freatiche (parlando metaforicamente) dell’anima
con la stessa sconsideratezza e con l’identica superbia scientifica di quelle del terreno, e le conseguenze non sono meno devastanti.
Vi sono ancora molti altri paralleli. Sarà ormai
chiaro, che il termine “natura” di cui stiamo parlando, non significa quello sentimentale del viandante,
ma che si riferisce molto semplicemente agli alimenti primi e più semplici, all’uomo stesso, fino a
che egli è “natura”. La richiesta è così semplice, così
genericamente umana, così indiscutibilmente giustificata e giusta, che nessuno vi si può sottrarre. In
questo modo però si affianca al problema sociale, irrisolto nella maggior parte del mondo, uno probabilmente più grande: quello vitale (A. Ruestow). Il
primo problema vitale è senz’altro la sufficiente nutrizione di tutti gli uomini su questa terra, e finchè
questo maggiore problema non è risolto, resta una
pressione a lungo andare insopportabile sulla coscienza di quelli che hanno sufficiente nutrimento.
Questo è oggi il più pressante di tutti i problemi vitali. Ma il problema vitale ha anche altri lati ben diversi. L’uomo, che ha monetizzato il proprio ricavato sicuro, e che però non si può comprare con tutti
68 - Quaderni Padani
i soldi che possiede aria respirabile, acqua ancora
pura, pane che sazi e piaccia, alimenti chimicamente incontaminati e neppure una abitazione non rumorosa, è vitalmente povero, più povero di molti
dei più poveri mendicanti delle antiche civiltà. Più
vengono soddisfatte le esigenze sociali, maggiormente verrà sentita questa povertà vitale, specialmente dalle parti più sane della popolazione che
giustamente cominceranno a gridare aiuto con la
stessa forza della povertà sociale del XIX secolo.
Se per la prima fase della trasformazione storica,
in cui viviamo, è caratteristico lo spirito inorganico,
così sarà conseguenza inevitabile un conflitto mai
esistito prima fra tecnica e natura. La tragedia di
questa prima fase sta racchiusa nel fatto che questo
conflitto ha visto dall’angolo di visuale storica un
qualcosa di inevitabile. L’unificazione tecnica del
pianeta non potrebbe scaturire che da una evoluzione di tecnica all’inorganico portata all’estremo. Lo
spirito, che potè creare questa tecnica, fu per forza
di ben diversa natura di quello adatto ai campi del
vivente. Questo spirito non può come un titano cieco, per la sua stessa origine, vedere la diversità della
natura organica. Ciecamente si affida ai metodi che
gli hanno dato risultati così visibili ed immensi.
Crede che chi lo ha a suo tempo messo in guardia
sulle conseguenze distruttive gli racconti frottole e
di poterlo eliminare come un patetico romantico.
Gli sarà donata la capacità di vedere solo attraverso
sconfitte distruttive. E queste catastrofi non possono mancare.
L’eliminazione di questo conflitto inizia laddove
le distruzioni diventano insopportabili. La terra
stessa, di cui l’uomo vive, obbliga al ripensamento e
porta “il nostro tempo” a una visione superiore. Ciò
è stato dimostrato chiaramente nell’economia forestale e nella gestione dei fiumi, poi dalla costruzione di strade, ma anche nell’agricoltura; ma anche
nella medicina si infiltra lentamente uno spirito,
che ha compreso la necessità di creare per il vivente
modi di pensare completamente nuovi.
L’essenza dei campi della natura, l’essenza del bosco, dell’acqua obbligano a una svolta di 180 gradi,
causata da esperienza e riflessioni puramente obiettive. E da qui comincia il bisogno storico di percorrere vie totalmente differenti da quelle della tecnica
inorganica. Si cerca di trattare i problemi posti dalla
natura vivente e di risolverli come quelli della tecnica inorganica, ma si pongono e vedono i problemi
in un nuovo spirito più vicino alla natura. Qui si fa
strada innegabilmente, almeno saltuariamente, un
avvicinamento tra lo spirito del nuovo e lo spirito
del vecchio mondo, con cui la fase inorganica
(inorganica anche in rapporto con la tradizione)
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
credette di poter iniziare. Questa svolta di 180 gradi, questo nuovo riavvicinamento tra tecnica e natura è però un segno che la trasformazione storica è
entrata nella seconda fase. Questo non significa che
la prima fase sia già conclusa. La scoperta della forza nucleare la ha dato il via ad una terza fase della
tecnica inorganica, che ha già causato nuovi conflitti tra tecnica e natura. Ma parallelamente è sorto
inequivocabilmente un movimento di carattere ben
diverso.
Soprattutto sorge ora con maggiore forza il problema vitale (Ruestow).
Sono solo in pochi ad aver preso coscienza con
chiarezza del problema, ma sotto la pressione degli
eventi il loro numero aumenta di giorno in giorno.
“Siamo preoccupati del fatto, che i nostri fiumi si
inquinano, che la loro regolazione possa abbassare
troppo il livello idrico dei campi, che l’aria che respiriamo venga appestata, che il rumore possa nuocere alle nostre orecchie, che troppa luce abbagli,
che le nostre città soffochino nel traffico, le nostre
abitazioni siano rumorose, il nostro cibo sia rovinato dagli additivi chimici, che nei nostri ospedali i
bacilli si rafforzino, che la forza delle macchine,
che allevia il nostro lavoro, abbia, in fin dei conti,
fatto perdere il senso di quale sia il limite del lavoro
che è indispensabile alla vita della società e dell’individuo.
Ci preoccupiamo che la casa non sia più casa,
che il fiume non sia più fiume, il bosco non sia più
bosco e che su tutta la superficie terrestre presto
non ci sarà più paesaggio. Contemporaneamente
siamo consci del fatto, che da ognuna di queste
preoccupazioni storiche è nato un impulso al lavoro, che alla fine la dirigerà. Noi vediamo nuovi
compiti secolari”. (W. Braunfels)
Già 30 anni prima del 1936 “silvicoltori accorti,
in netto contrasto con l’opinione scolastica dominante hanno cercato vie più vicine alla coltura boschiva, attaccati e scherniti dall’intero mondo forestale, che si dava importanza. Dopo una generazione di impavida resistenza, il successo gli ha dato
ragione”. (A. Seifert)
Seguì la costruzione di strade e vie d’acqua, e anche in questo caso, i pionieri dello “spirito organico” sono riusciti a chiudere di nuovo il baratro, che
un secolo di confusione tra natura e tecnica aveva
aperto. “In questo modo si è mostrato per esempio
nella costruzione di centrali, che sfruttano come
fonte di energia le acque dei fiumi, che è tecnicamente possibile ed economicamente adeguato armonizzare il problema tecnico-inorganico dello
sfruttamento di energia con il problema tecnico-organico del miglioramento di terreni e dei letti fluAnno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002
viali. Può essere addirittura un complemento e un
aiuto ai provvedimenti di economia forestale l’uso
economico-energetico di un fiume”. (H. Haeusler)
Si sarebbe ancora in tempo per l’inserimento di
uno spirito più vicino alla natura ed insieme più
umano nella costruzione di città, di case, particolarmente anche nel settore metropolitano, che, per via
di una estrema modernità, è rimasto invischiato ancora del tutto nella fase inorganica. Mentre gli basterebbe solo seguire i dettami sotto cui aveva fatto
i primi passi: la “nuova oggettività”.
Se si ammettesse che dovunque il riavvicinamento fra tecnica e natura è l’unico traguardo, allora
potrebbe sembrare che da queste domande irrisolte
siano toccate solo alcune discipline tecniche, come
la costruzione di strade e vie d’acqua, case, eccetera.
Io credo, invece, che in questo nuovo settore della
seconda fase inorganica della nostra rivoluzione i
tecnici, a qualsiasi cosa essi lavorino, si dovranno
porre i compiti in termini nuovi.
“Una lotta uguale per raggiungere maggiore attinenza alla natura, compiutezza, per fermare l’avanzare di una meccanicizzazione e tecnicizzazione esasperate, per sostituire il numero con
il vivente, viene oggi, silenziosamente o apertamente combattuta su tutti i campi della scienza”. (A.
Seifert).
E non si tratta di processi che possono essere favoriti intenzionalmente o arbitrariamente, ma attraverso trasformazioni che seguono determinate
regolamentazioni. Ma ancora oggi queste evoluzioni
sono ostacolate sulla via di una oggettività più alta,
più naturale ed umana da grosse difficoltà.
Il maggior ostacolo è la sempre crescente disponibilità degli uomini di considerare il progresso delle
forze tecnologiche come l’unico processo determinante, il credere a una puntualizzazione dell’essere
che garantisca i processi tecnici e l’accrescimento
produttivo; ma è soprattutto la difficoltà di immaginare il futuro sociale, il corso della storia non all’insegna di quella ferrea legge di evoluzione determinata soprattutto dalla tecnica, in cui soccombe
qualsiasi altra concezione di progresso. L’uomo del
futuro sarebbe in questo senso capace di adattarsi,
addomesticato in senso socio-industriale, nel suo
comportamento come essere produttivo e come
consumatore. Gioca, inoltre, la tendenza, chiara a
pochi, di interpretare il presente come “situazione
non dialettica” oppure, per dirla in altro modo, la
mancanza di fantasia dell’uomo, il quale non può
immaginarsi, che la evoluzione imminente potrebbe correre verso una differente direzione da quella
che aveva intrapreso nella prima fase. L’evoluzione
dovrebbe bloccarsi al primo stadio. Non ci si deve
Quaderni Padani - 69
meravigliare, se opponendosi a questo tentativo
ideologico di trasformare l’uomo in un “perno” del
progresso tecnico, la rivolta della incoscienza prevedibile può scoppiare causando enorme caos.
Ma non ci si libera in questo modo della tecnica.
Non ci si libera bestemmiandola, ma evolvendola
nello spirito di una più profonda oggettività. “Si dice che l’anima non abbia potuto seguire la tecnica,
non l’abbia ancora raggiunta. L’uomo si riduce a
reagire possibilmente con velocità e destrezza alla
tecnica, così viene egli stesso ridotto a semplice apparecchiatura tecnica. Essa (l’anima) è solitaria
nell’uomo tecnologico. L’uomo diventa triste, soffre, si immalinconisce, cade in psicosi: questa è la
ribellione dell’anima, mostra di essere presente.
Queste malinconie e psicosi non sono sintomi di
malattia, bensì di salute”. (Max Picard) Accanto a
questa ideologia, che vuole cancellare la natura per
poter inserire meglio l’uomo nel mondo tecnologico, appare una ben più palese ostilità nei confronti
della natura. Si è rimproverato spesso al “buio” medioevo, di essere stato ostile alla natura, perchè ha
ridotto le spinte selvagge della natura, talvolta esageratamente. Questa “ostilità alla natura” è stata solo una cura eccessiva nei suoi confronti. L’inimicizia
moderna contro la natura ha ben altri motivi spirituali. All’uomo che si proclama totalmente autonomo deve sembrare insopportabile di incontrare
creature che (ovviamente) non sono sue creazioni.
È un sogno prometeico e in fondo narcisistico,
quello di costruirsi con la tecnica un’arte staccata
dalla natura, un ambiente umano, in cui non si incontra niente o nessuno che non siano creazioni
della mente umana. Perciò, la tecnica viene accolta
addirittura come riparo dalla natura; essa deve aiutare l’uomo autonomo a disfarsi di natura e storia
vivente (e attraverso le due, anche di Dio). Una tecnica usata per questo scopo non è però più neutrale
(A. Mingler).
Come proseguirà l’evoluzione non si può sapere;
il seguito - non si può prevedere - potrebbe anche
essere un “progresso verso la fine”. Si può dire, però
- per ripeterlo - che tratti del nostro tempo, che si
sono visti erroneamente come caratteristiche inalterabili di tutto il mondo futuro, potrebbero essere
stati solo i primi, immancabilmente unilaterali e
grezzi, tratti della fase iniziale di questa epoca e che
comunque l’innesto di una seconda fase con ben altri tratti più umani potrebbe obiettivamente essere
preso in considerazione.
Se la svolta di pensiero è iniziata in primo luogo
nel campo biologico, ci si può aspettare, che si evolverà in maniera più profonda se si comincia a trattare i più alti settori dell’essere nello stesso modo
70 - Quaderni Padani
oggettivo, più profondamente, in modo scientifico: i
campi dell’anima e dello spirito. Questi ragionamenti creano la base per l’estrapolazione della storia del nostro tempo. Siccome nel mondo campi
contingenti si sovrappongono in modo scalare (i
mondi della natura inanimata, della natura vivente,
l’anima, lo spirito e la persona), il compito dello spirito umano potrebbe consistere in questa epoca già
iniziata di nuova coscienza, nel rendersi conto di
questi livelli e nell’impossessarsene con la stessa intensità di spirito, con cui già si è impossessato della
natura inorganica e in cui ha trovato energie e possibilità impensate. Ci si potrebbe aspettare quindi
dopo la prima fase inorganica, la seconda organica,
ancora una terza fase psichica e una quarta, spirituale e personale; solo allora si concluderebbe l’immane rivoluzione e sarebbe raggiunto un nuovo
equilibrio. Questo non è un vuoto vagheggiamento
mentale, perchè un “progresso” di questo tipo è richiesto dal mondo nella totale realtà in cui l’uomo
si è introdotto; l’uomo possiede in sè potenzialmente tutti questi aspetti del mondo, non si può limitare a lungo andare a un livello largamente inferiore a
lui. Sembra, quindi, che il nuovo compito dell’uomo nel “nostro tempo” sia di riconquistare gradino
per gradino la propria completezza di umanità. Per
mezzo di ciò la nuova era acquisterebbe il proprio
contenuto, pienamente e veramente umano. E inoltre l’espressione “progresso” riacquisterebbe il proprio significato pieno, di cui era stato privato.
Per finire ancora una parola pro domo mea. Come arriva uno storico dell’arte a parlare di queste
questioni? Viene spinto a ciò, perché il carattere di
un epoca si manifesta come in sovraesposizione per
mezzo delle opere artistiche; nel nostro tempo, per
esempio, nel trasporto verso il mondo inorganico e
l’avversione per la natura vivente, perchè nell’arte
risalta spesso con imprevista verità e vividezza tutto
ciò che resta invisibile al raziocinio come forza
traente, individuale e collettiva, che è già operante.
(Revesz)
Il compito del nostro tempo sarebbe, quindi, di ripetere il processo che ha mostrato il mondo nella
sua struttura scalare, a livello spirituale fino al punto, ove la comprensione umana finisce e la più alta
coscienza si trasforma in una nuova immediatezza.
Nessuno può prevedere se l’umano progresso si
evolverà nella direzione che si è fino a qui descritta.
L’impegno, però, che si è chiarito, non si può mettere da parte; la sua coscienza è inattaccabile. L’analisi
del “nostro tempo” e del suo rapporto con natura e
tecnica non vuole essere una profezia vestita scientificamente. Il suo traguardo è più modesto: “L’uomo si ricordi di se stesso”. (Jaspers)
Anno VllI, N. 39 - Gennaio-Febbraio 2002