Leggi tutto - de iustitia

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ISSN 2421-5414
Nota a sentenza, Corte di Cassazione, Sezione I civile , sentenza 30
settembre 2016 n. 19599.
di Luigi Lalla*
Mater semper certa est ? Alla domanda di un figlio “mai nato” per la legge
italiana e delle sue due madri biologiche la Corte risponde con una pronuncia
articolata, densa di implicazioni giuridiche e valoriali in ordine alla procreazione
medicalmente assistita ed alle coppie cd. same sex.
La fattispecie all’esame della Corte ha riguardato il caso di due donne che
hanno contratto matrimonio in Spagna, dal rapporto tra le quali, come meglio
si dirà, è nato un bambino, cittadino spagnolo. Entrambe le donne hanno
congiuntamente richiesto la trascrizione dell’atto di nascita in Italia, rifiutata
dall’ufficiale dello stato civile di Torino per motivi di ordine pubblico.
All’esame della Corte di Cassazione si pone la questione consistente nello
stabilire se la trascrizione in Italia dell’atto di nascita, formato in Spagna e
valido per il diritto spagnolo, di un bambino che risulti figlio di due donne
coniugate in quel paese – una spagnola e una italiana – sia consentita oppure
contrasti con l’ordine pubblico.
La pronuncia affronta tematiche di diritto internazionale privato ed il limite del
rispetto dell’ordine pubblico: non trovano ingresso in Italia leggi straniere
richiamate dal diritto internazionale privato, né sentenze od altri provvedimenti
stranieri che si pongano in contrasto con l’ordine pubblico1.
Si registra sul punto un’evoluzione interpretativa da una logica interna ad una
connotazione internazionale. L’art. 31 delle preleggi richiamava il limite dell’
“ordine pubblico” e del “buon costume”, espressioni di un concetto interno,
teso a impedire l’applicazione in Italia della disposizione straniera non
conforme a quelle norme di diritto interno che dal giudice fossero ritenute
rappresentative di uno stabile assetto normativo nazionale.
L’ordine pubblico oggi previsto dagli artt. 16, 64 e 65 della legge n. 218 del
1995 è il cd. ordine pubblico internazionale, che secondo la giurisprudenza
*
Avvocato, specializzato in professioni legali presso l’Università degli studi di Napoli “Federico
II”.
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Articoli 16, 64 e 65 della legge n. 218 del 1995.
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della Cassazione va rinvenuto sia nei principi fondamentali dell’ordinamento
italiano, sia nei principi di derivazione comunitaria ed internazionale, inclusa la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea2.
Nella sentenza de qua la Corte ha chiarito che sul versante interno i principi
di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi della
nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere
sovvertiti dal legislatore ordinario. Ciò significa che un contrasto con l’ordine
pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme
contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il
parametro di riferimento non è costituito dalle norme legislative ordinarie, ma
esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore
ordinario.
Il giudice dovrà negare il contrasto in presenza di una mera incompatibilità
della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa
rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del
legislatore italiano in un determinato momento storico. Viceversa sarà rilevato
il contrasto nel caso in cui il giudice possa motivatamente ritenere che al
legislatore ordinario sarebbe ipoteticamente precluso di introdurre,
nell’ordinamento interno, una norma analoga a quella straniera, in quanto
incompatibile con valori costituzionali primari. Si tratterebbe di un giudizio
simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale.
Le esposte considerazioni sono state avvalorate dal richiamo al principio
espresso dalla Corte federale di giustizia tedesca pronunciatasi riguardo la
valutazione dell’interesse del minore alla conservazione dello status di filiazione
legittimamente acquisito all’estero: “i giudici tedeschi si devono adeguare non
all’ordine pubblico nazionale, ma al più liberale principio dell’ordine pubblico
internazionale, con il quale una sentenza straniera non è incompatibile solo
perché il giudice, giudicando sulla base delle norme imperative tedesche,
sarebbe giunto a un risultato diverso, essendo invece determinante che il
risultato dell’applicazione del diritto straniero non sia in contraddizione radicale
con i principi fondamentali di giustizia”.
Decisivo ai fini del giudizio è stato il supremo interesse del minore, ovvero una
delle più incantevoli costellazioni nella galassia giuridica, tracciata da linee che
uniscono norme nazionali, comunitarie ed internazionali.
Il bambino di cui al caso in esame è figlio, in Spagna, di entrambe le donne e
cittadino spagnolo perché nato da una cittadina di quel paese (la madre che lo
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Corte di Cassazione, sentenza n. 4545 del 22.02.2013.
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ha partorito). Si pone tuttavia un problema di “doppia cittadinanza” in quanto
sarebbe altresì cittadino italiano se si considerasse figlio anche di una cittadina
italiana (la madre che ha offerto i suoi ovuli - madre genetica) in base ad un
atto valido per il diritto spagnolo e quindi trascrivibile in Italia. L’atto di nascita
spagnolo certifica che i genitori sono entrambe le donne. La cittadinanza
italiana del bambino presuppone un rapporto di filiazione valido anche per il
diritto italiano che, richiamando la legge nazionale del figlio per la
determinazione di tale status, rinvia alla stessa norma spagnola talché
quest’ultima sarà applicata, salvo il limite dell’ordine pubblico.
I valori giuridici che si contrappongono sono l’ordine pubblico internazionale e
l’interesse del minore.
In ipotesi l’interesse del bambino si sostanzia nella conservazione dello status
filiationis, ovvero egli ha interesse a che nessuno metta in discussione il suo
rapporto di filiazione, contrariamente a quanto è accaduto dinanzi all’ufficio
dello stato civile di Torino il quale ha, in soldoni, negato che sua madre (per il
diritto spagnolo) fosse sua madre (per il diritto italiano).
Ma come detto in precedenza, la costellazione del fanciullo è bella e lucente:
-gli artt. 13 comma 3, 33 commi 1 e 2 della legge 218 del 1995 sono pervasi
dal favor filiationis;
-la Convenzione di New York all’art. 8 par. 1 tutela il diritto del fanciullo a
preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le
sue relazioni familiari;
-la Corte costituzionale (da ultimo sentenza n. 31 del 2012) afferma da tempo
il diritto del minore all’integrazione nella famiglia di origine fin dalla nascita e
alla continuità dei rapporti con i suoi familiari;
-la Corte EDU da tempo ha evidenziato la relazione diretta tra il diritto alla vita
privata e quello all’identità, non solo fisica, ma anche sociale del minore
essendo la filiazione un aspetto essenziale dell’identità delle persone (Sentenza
Mennesson c. Francia del 2014);
Nella specie, la nazionalità dipende dalla sussistenza del rapporto di filiazione,
il cui mancato riconoscimento produrrebbe una compromissione del diritto
all’identità personale del figlio.
Questo “dilemma esistenziale” tra “l’essere o non essere” figlio di quella madre,
determina una incertezza giuridica ovvero una situazione giuridica claudicante
che incide negativamente sulla definizione dell’identità personale del minore,
correlati alla mancata acquisizione: della cittadinanza italiana; dei diritti
ereditari; del diritto di circolare liberamente in Italia; del diritto di essere
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rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane (al pari degli
altri bambini e anche di coloro che, nati all’estero, abbiano ottenuto il
riconoscimento negato al piccolo).
Emergono prepotenti i punti di frizione tra questa vicenda e l’ordinamento
italiano.
Non è lontana l’approvazione della Legge Cirinnà 3 che, tra le altre cose, ha
introdotto le “unioni civili” tra le coppie same sex. L’iter legislativo è stato
travagliato e l’Italia è apparsa ancora divisa su una questione che è di principi.
L’idea che tali coppie possano generare o adottare un figlio registra ancor più
acceso dibattito ed ancor meno condivisione.
Altro attrito si registra rispetto alla legislazione sulla procreazione
medicalmente assistita.
Dal punto di vista scientifico si tratta di diversi fenomeni di intervento artificiale
nella riproduzione umana:
- fecondazione intracorporea (introduzione del seme maschile nelle vie genitali
della donna senza unione sessuale) e si distingue in:
o inseminazione artificiale omologa (il seme del marito viene
introdotto nelle vie genitali della moglie);
o inseminazione artificiale eterologa (che utilizza il seme o l’ovulo
di un donatore);
-fecondazione extracorporea, anch’essa omologa o eterologa (incontro dei
gameti in vitro cui segue impianto nell’utero).
La legge n.40 del 2004 consente il ricorso alla sola procreazione di tipo
omologo e solo a condizione che vi sia:
 accertata sterilità o infertilità della coppia;
 non esistano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le relative
cause.
La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge n.
40 del 2004 nella parte in cui non consente il ricorso alla fecondazione
eterologa nei casi di infertilità assoluta4 ovvero alle coppie fertili portatrici di
gravi malattie trasmissibili.5
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Legge n.76 del 20 maggio 2016.
Corte costituzionale, sentenza n. 162 del 2014, sulla illegittimità costituzionale dell’art. 4
comma 3 della legge n. 40 del 2004.
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Corte costituzionale, sentenza n. 96 del 2015, sulla illegittimità costituzionale degli artt. 1,
commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004.
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Questo sintetico schema permette di scorgere il muro che si frappone al
riconoscimento in Italia dell’atto di nascita di cui alla vicenda.
All’attenzione della Corte si è presentata la fattispecie di una coppia cd. same
sex che, attraverso una tecnica di inseminazione peculiare, dà vita ad un
bambino. Entrambe le donne possiedono l’inestricabile legame biologicogenetico con il bambino, avendo l’una donato i propri ovuli, l’altra il proprio
utero: due sono le madri, in uno stretto rapporto biologico, genetico ed
affettivo (ciò mostra una certa assonanza con la fecondazione omologa ma è
anche eterologa in quanto utilizza il seme di un uomo terzo).
Da un lato la scienza, che freddamente consente di addivenire a risultati
impensabili secondo natura, dall’altro il rapporto, intenso, di affetto tra chi dà
la vita e chi la riceve in dono.
La scelta, profonda ed ineludibilmente valoriale, sulla legittimità di un tale
percorso di procreazione è rimessa alla legge quale massima espressione della
volontà popolare.
L’ordinamento spagnolo consente e riconosce validità a tale rapporto.
In Italia invece non sarebbe possibile, in tal maniera, dare la vita.
Ma il caso, si è osservato, riguarda rapporti di diritto internazionale privato per
il quale occorre riconoscere i valori giuridici stranieri nella misura in cui siano
compatibili con i limiti posti dal fondamentale assetto ordinamentale italiano.
Giova tenere a mente che a ricorrere per Cassazione, accanto al Procuratore
generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino, è il Ministero
dell’interno espressione del Governo italiano, depositario e rappresentante
della volontà del popolo. L’Italia, istituzionalmente intesa, insiste: non si può
fare!
I ricorrenti osservano che la Corte EDU riconosce un ampio margine di
apprezzamento agli Stati nelle materie eticamente sensibili, al fine, non solo, di
autorizzare o no le pratiche di fecondazione assistita e di riconoscere o no un
legame di filiazione nei confronti dei minori concepiti all’estero, ma anche di
scoraggiare i loro cittadini dall’accedere all’estero alle pratiche di fecondazione
assistita vietate nel loro territorio.
Quindi la scelta, etica prima che giuridica, è demandata ai Parlamenti nazionali.
Tuttavia la Corte di Cassazione giunge ad un risultato diverso, valorizzando la
giurisprudenza della Corte EDU per la quale quando sono in gioco aspetti
importanti dell’esistenza o dell’identità degli individui, il margine di
apprezzamento degli Stati è di norma ristretto. Secondo la Corte il baluardo
dell’ordine pubblico non può vincere sempre ed in assoluto, bensì cede rispetto
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ad esigenze superiori e tale ritiene l’interesse del minore indipendentemente
dalla natura del legame genitoriale, genetico o di altro tipo.
Sostanzierebbe, perciò, inammissibile discriminazione per il bambino vedersi
disconosciuto il legittimo status di figlio a causa della scelta di coloro che lo
hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non
consentita in Italia.
Il principio dell’interesse del minore, anche se primario, va bilanciato con altri
valori e principi di pari rango.
La legge n. 40 del 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita, onora
ed onera della qualifica di “madre” solo colei che partorisce il bambino.
La legge n. 76 del 2016 (legge Cirinnà) non attribuisce alle coppie same sex il
diritto di generare ed allevare figli.
Possono tali principi dirsi di ordine pubblico e, in quanto tali, irrinunciabili ed
essenziali? Secondo la Corte no, essendo solo espressione di opzioni legislative
in ambiti materiali nei quali non esistono rime costituzionali obbligate.
La difformità della legge spagnola rispetto a quella italiana non è causa di per
sé sola, di violazione dell’ordine pubblico, a meno che non si dimostri che la
legge n. 40 del 2004 contenga principi fondamentali e costituzionalmente
obbligati e che, quindi, non sarebbe consentito al legislatore italiano porre una
disciplina analoga o assimilabile a quella spagnola. Questa evenienza è da
escludere trattandosi di materia in cui è ampio il potere regolatorio e, quindi, lo
spettro delle scelte possibili da parte del legislatore ordinario.
La Corte deduce dall’ampia discrezionalità rimessa al legislatore l’inesistenza di
un vincolo costituzionale, e conclude che allora non si può opporre l’ordine
pubblico per impedire l’ingresso nell’ordinamento interno dell’atto di nascita
solo perché formato all’estero secondo norme non conformi a quelle italiane,
seppure imperative, ma astrattamente modificabili dal legislatore futuro.
[Invero questa parte della sentenza, da una parte, sembra sovrapporre il
giudizio di costituzionalità (limite autonomo all’applicazione delle norme di
diritto internazionale private) a quello di compatibilità con l’ordine pubblico,
dall’altro, ancorando il giudizio alla presenza o meno di vincoli costituzionali in
siffatta materia non tiene in debita considerazione la circostanza che agli occhi,
seppur lungimiranti, dei costituenti non si prospettavano di certo tali
tematiche.]
La costituzione non vincola la legislazione in materia, il legislatore sarebbe
libero in futuro di permettere ciò che oggi vieta, dunque non si può ritenere
che questa regola integri principi di ordine pubblico.
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[Ma non è forse la relatività (spaziale e temporale) una delle caratteristiche
principali dell’ordine pubblico?]
Per sconfessare le argomentazioni dei ricorrenti la Corte ha distinto la
fattispecie de qua dalla diversa ipotesi di maternità surrogata, volgarmente
detta anche “utero in affitto”.
La maternità surrogata consiste nell’assunzione da parte di una donna
dell’obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona
o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro.
La legge n.40 del 2004 vieta il ricorso a tale tecnica.
La Cassazione medesima con sentenza n. 24001 del 2014 ha chiuso le porte a
tale pratica chiarendo che:
a) si tratta di un divieto di ordine pubblico;
b) l’interesse del minore meglio si tutela riconoscendo la maternità alla
partoriente ed affidando all’istituto dell’adozione la realizzazione di una
genitorialità disgiunta dal legame biologico (presidiata l’adozione da
maggiori garanzie rispetto al mero accordo tra privati);
c) trattasi di una valutazione insindacabile del legislatore che non lascia ai
giudici discrezionalità alcuna.
Invece, nel caso in analisi, la donna ha partorito per sé, sulla base di un
progetto di vita della coppia costituita con la sua partner femminile. Anche
l’altra donna (la compagna) ha partecipato alla procreazione con i propri ovuli
(patrimonio genetico).
La tecnica utilizzata è simile per certi versi ad una fecondazione eterologa per
altri alla fecondazione omologa, perché da un lato necessariamente serve il
seme di un terzo estraneo, dall’altro vi è contributo genetico dato da un
partner all’altro nell’ambito della stessa coppia. La Corte ritiene – audacemente
- che la situazione della coppia same sex sia in fondo assimilabile a quella di
una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o
infertilità assoluta e irreversibile.
L’accaduto ricorda la vicenda dell’ormai insussistente divieto di
riconoscimento dei figli incestuosi, travolto dalla pronuncia di incostituzionalità
dalla sentenza n. 494 del 2002 della Corte Costituzionale.
In quella sede fu chiarito che imporre una capitis deminutio perpetua e
irrimediabile ai figli come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi
soggetti, costituirebbe una evidente violazione del diritto a uno status
filiationis, riconducibile all’art. 2 della Costituzione, e del principio costituzionale
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di eguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di
differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.
Vicenda correttamente richiamata dalla Cassazione per valorizzare il superiore
interesse del minore al quale non può opporsi il principio per il quale
nell’ordinamento italiano è madre solo colei che partorisce (art. 269, comma 3
c.c.) e non potrebbe esserlo anche colei che ha donato l’ovulo.
Contro le argomentazioni dei ricorrenti - secondo i quali tale principio è di
diritto naturale e, comunque, fondamentale dell’ordinamento nazionale e,
come tale rilevante sotto il profilo dell’ordine pubblico – la Corte replica
chiarendo che “mater semper certa est” (ex art. 269, comma 3 c.c.) è principio
millenario, ma vetusta espressione della finora ritenuta piena coincidenza in
una sola donna di colei che partorisce e colei che trasmette il patrimonio
genetico; e deve ritenersi non più attuale, in quanto tale coincidenza non
sarebbe più imprescindibile grazie all’evoluzione scientifica e tecnologica.
Il problema che si porrebbe è se questa disposizione esprima un principio che
trovi un diretto fondamento nella nostra Costituzione, al punto di non
consentire al legislatore ordinario di modificarla per adeguarla ai tempi e al
mutato contesto sociale: perché solo in tal caso essa potrebbe assurgere al
rango di ordine pubblico, idoneo quindi ad impedire, nella specie, il
riconoscimento in Italia di un atto di nascita spagnolo difforme, che riconosca
la qualità di madre anche alla donna che ha donato l’ovulo alla propria partner,
in attuazione di un progetto genitoriale comune.
In conclusione dietro ogni punto della sentenza vi è il condivisibile proposito di
definire (e quindi tutelare) la posizione della creatura partorita da questa
tecnica, ammessa in Spagna ma non in Italia.
[ci si potrebbe chiedere se tale delicata scelta non fosse prerogativa del
legislatore]
Secondo la Corte non è possibile sostenere l’esistenza di un principio
costituzionale fondamentale idoneo ad impedire l’ingresso in Italia dell’atto di
nascita in questione in ragione di una asserita preclusione ontologica per le
coppie formate da persone dello stesso sesso di accogliere, di allevare e anche
di generare figli. La contraria scelta manifestata in tale senso dalla legislazione
vigente – ispirata all’idea di fondo che l’unica comunità nella quale sarebbe
possibile generare figli sia quella formata da persone di sesso diverso, sul
presupposto che le altre unioni beneficerebbero della, in tesi, più limitata tutela
prevista dall’art. 2 Cost. – non sarebbe un opzione costituzionalmente
obbligata.
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[ma proprio quella idea di fondo cui la legislazione si ispira potrebbe
pretendere maggior considerazione]
Non si può ammettere l’esistenza, a livello costituzionale, di un divieto per le
coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli, perché
diventare genitori è una strada per la realizzazione della personalità ed
espressione della libertà di autodeterminazione della persona stessa.
Conclusioni molto forti confortate dall’ evoluzione stessa del concetto di
famiglia, sempre più intesa come comunità di affetti, incentrata sui rapporti
concreti che si instaurano tra i suoi componenti: al diritto spetta di tutelare
proprio tali rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di contemperare gli
interessi eventualmente in conflitto, avendo sempre come riferimento, ove
ricorra, il prevalente interesse dei minori.
“Tutto è bene quel che finisce bene!” – questo di certo sarà il pensiero del
piccolo bambino, la cui storia avrà così lieto fine.
Si può chiosare apprezzando il condivisibile risultato garante degli interessi del
minore, ma si deve tuttavia osservare che, forse, alcune affermazioni di
principio non sono ancora così scontate nel panorama giuridico né in quello
sociale italiano.
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