organismi di diritto pubblico e societa` in house

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organismi di diritto pubblico e societa` in house
“ORGANISMI DI DIRITTO
PUBBLICO E SOCIETA’ IN
HOUSE ”
PROF. GIOVANNI SABBATO
Università Telematica Pegaso
Organismi di diritto pubblico e societa’ in house
Indice
1
NOZIONE DI ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO -------------------------------------------------------------- 3
2
IL RILIEVO APPLICATIVO DELLA NOZIONE DI ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO:
L’ASSOGGETTABILITÀ ALLA DISCIPLINA DI EVIDENZA, IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE,
L’ACCESSO AGLI ATTI ANCHE DOPO LA RIFORMA DELLA L. N. 241/1990, L’APPLICABILITÀ
DELLO STATUTO PENALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -------------------------------------------- 11
3
ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO E AFFIDAMENTO IN HOUSE -------------------------------------- 14
4
IL PROBLEMA RELATIVO ALLE SOCIETÀ MISTE ------------------------------------------------------------- 16
5
LA DISCIPLINA DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI --------------------------------------------------- 17
5.1.
5.2.
5.3.
6
SEGUE: SOCIETÀ MISTA ORIGINARIA E SOPRAVVENUTA --------------------------------------------------------------- 19
SEGUE : IN HOUSE E COMPETENZA GESTIONALE DEL C.D.A. ---------------------------------------------------------- 19
SEGUE : LA TESI DEL CONTROLLO STRUTTURALE----------------------------------------------------------------------- 21
ULTIMI INTERVENTI: IN PARTICOLARE, SENTENZA DELL’11 MAGGIO 2006, N. C-340/04 ------ 22
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Organismi di diritto pubblico e societa’ in house
1 Nozione di organismo di diritto
pubblico
La nozione di organismo di diritto pubblico è di origine comunitaria, introdotta al fine di
delimitare l’ambito soggettivo di applicazione delle direttive CE in materia di appalti pubblici di
lavori, forniture e servizi, confermata e ripresa dalle leggi interne di attuazione.
Si tratta delle direttive 2004/17/Ce (concernente le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici) e 2004/18/CE (relativa a particolari settori caratterizzati dal maggior intervento pubblico).
A livello interno, il processo di evoluzione della normativanazionale, che ha visto negli anni il
susseguirsi di disposizioni generali e settoriali più volte integrate e modificate, si è perfezionato con
l’adozione del d.lgs. n.163/2006, con il quale sono state recepite le due direttive del 2004 .
Realizzando una vera e propria svolta culturale nella produzione normativa degli ultimi anni, è stato
creato un corpo organico comprensivo di tutte le disposizioni in materia di appalti di lavori, servizi
e forniture.
Il decreto in commento, nel delimitare sul versante soggettivo l’ambito della sua operatività,
ribadisce il riferimento alla nozione di organismo di diritto pubblico (art. 3, comma 25).
Si tratta di figura che, nata nel diritto comunitario e poi recepita nell’ordinamento interno, è
da tempo al centro di un articolato dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
Secondo la definizione fornita, le amministrazioni aggiudicatrici sono le amministrazioni
dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici, gli organismi di diritto
pubblico, le associazioni, le unioni, i consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.
L’organismo di diritto pubblico è definito dall’art 3, comma 26, e si intende qualsiasi
organismo, anche in forma societaria, che:
sia istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non
industriale o commerciale;
sia dotato di personalità giuridica;
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la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri
organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta al controllo di questi ultimi,
oppure i cui organi di amministrazione, direzione o vigilanza sono costituiti da membri più della
metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali oda organismi di diritto pubblico.
Prima di procedere all’analisi degli elementi strutturali e funzionali di tali figure, occorre
accennare alle ragioni che hanno indotto il legislatore comunitario ad introdurle nell’ambito della
materia degli appalti pubblici.
Tali ragioni si rinvengono nell’esigenza di garantire, in siffatto settore, il rispetto dei principi
della libertà di accesso e della parità di trattamento, evitando soprattutto che gli Stati membri
possano favorire le imprese nazionali a scapito di quelle straniere .
Di qui il ricorso, nell’individuazione dei soggetti tenuti all’osservanza dei procedimenti
comunitari di selezione e scelta del contraente, ad un concetto unitario di “amministrazione
aggiudicatrice”, che, puntando più sulla sostanza che sulla forma, fosse in grado di abbracciare non
solo le persone giuridiche formalmente riconosciute come pubbliche, ma anche quelle che, pur
evidenziando in apparenza una soggettività di diritto privato, di fatto presentassero sostanziali
connotati pubblici desumibili da indici di riconoscibilità estrapolati, in via preventiva, da dati
giurisprudenziali o di prassi, al fine di scongiurare, attraverso mascheramenti, l’elusione della
normativa comunitaria .
Il nostro codice non ha modificato la nozione di organismo di diritto pubblico finora vigente,
limitandosi ad aggiungere espressamente che l’organismo può avere anche veste societaria,
recependo un orientamento giurisprudenziale consolidato .
Inoltre è importante sottolineare che la nozione comunitaria di organismo di diritto pubblico
viene estesa dal codice anche agli appalti sotto la soglia comunitaria. Siffatta estensione, prima del
codice, operava solo per i lavori e non anche per le forniture.
Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza comunitaria, i tre elementi costitutivi
dell’organismo di diritto pubblico devono essere compresenti , sicchè in assenza di una sola di tali
tre condizioni, un organismo non può essere considerato di diritto pubblico, e dunque
amministrazione aggiudicatrice .
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La nozione di organismo di diritto pubblico deve essere “estensivamente intesa” e il
carattere di diritto privato di un organismo non è di per sé solo idoneo ad escludere la natura di
diritto pubblico .
In relazione al primo elemento costitutivo (esigenze di carattere generale), la Corte di
giustizia ha osservato che le direttive comunitarie operano una distinzione tra i bisogni di interesse
generale aventi carattere non industriale o commerciale, da un lato, e i bisogni di interesse generale
aventi carattere commerciale o industriale, dall’altro .
I bisogni non aventi carattere commerciale o industriale sono quelli che sono soddisfatti in
modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato, e sono quei bisogni che lo Stato preferisce
soddisfare o direttamente o attraverso altri soggetti nei confronti dei quali intende mantenere
un’influenza dominante.
Nel procedere ad una verifica in ordine alla sussistenza o meno del requisito in esame,
occorre prima verificare se l’attività dell’ente soddisfi effettivamente bisogni di interesse generale, e
successivamente determinare se tali bisogni abbiano o meno carattere commerciale o industriale.
Viene considerato bisogno di interesse generale quello riferibile a una collettività di soggetti
di ampiezza e contenuti tali da giustificare che il medesimo sia soddisfatto mediante la creazione di
un organismo soggetto all’influenza dominante dell’ autorità pubblica .
Per valutare se il bisogno sia o meno di interesse generale, e se abbia o meno carattere
industriale o commerciale, secondo la Corte possono essere utilizzati una pluralità di parametri
aventi carattere indiziario.
Anzitutto l’esistenza di un regime di concorrenza può essere un indizio del carattere
industriale o commerciale del bisogno .
Per converso, l’assenza di un mercato di beni e servizi, in relazione a compiti di ordine
pubblico assunti dallo Stato, fa escludere il carattere commerciale o industriale .
Inoltre, al fine di qualificare un ente come organismo di diritto pubblico, non è necessario
che l’ente abbia in via esclusiva o prevalente lo scopo di soddisfare bisogni di interesse non aventi
carattere commerciale o industriale, ben potendo perseguire, oltre che tale scopo, anche (se del caso
in via prevalente) quello di soddisfare interessi con carattere commerciale o industriale; secondo la
Corte, infatti, una volta acclarata la qualifica dell’ente come organismo di diritto pubblico, deve
ritenersi dovuto il rispetto della normativa comunitaria in tema di appalti, non solo per le attività
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volte a soddisfare un bisogno generale di carattere non commerciale o industriale, ma anche per le
ulteriori attività propriamente commerciali o industriali. Tanto sia in base al tenore letterale delle
direttive appalti, che non sembrano operare alcuna distinzione al riguardo, sia in base al principio di
certezza del diritto, che esige che una normativa comunitaria sia chiara e che la sua applicazione sia
prevedibile per tutti gli interessati .
Ne consegue che un ente va qualificato come organismo di diritto pubblico, con conseguente
soggezione al diritto comunitario degli appalti, anche se svolge attività promiscue e molteplici, vale
a dire sia attività volte a soddisfare un bisogno di interesse generale di carattere non commerciale o
industriale, sia attività con tale carattere.
La giurisprudenza nazionale ha più volte fatto applicazione dei principi innanzi esposti, al
fine di individuare i soggetti obbligati a seguire le procedure di evidenza pubblica, e
conseguentemente il giudice avente giurisdizione sui relativi appalti.
Le principali tematiche all’attenzione della giurisprudenza nazionale hanno avuto riguardo:
alla possibilità di qualificare come organismo di diritto pubblico enti in forma societaria, a
partecipazione pubblica totalitaria o parziale;
alla possibilità di configurare come organismo di diritto pubblico enti che svolgono sia
attività tipiche dell’organismo di diritto pubblico, sia attività privatistiche.
Quanto al primo punto, la questione è stata risolta nel senso che anche la veste di società per
azioni a partecipazione pubblica può determinare l’esistenza di un organismo di diritto pubblico,
atteso che la veste societaria è neutrale . In tal modo è stata riconosciuta la suddetta natura in capo
a una società per azioni a partecipazione pubblica totalitaria (l’Interporto Toscano s.p.a.) in sede di
gara indetta per l’affidamento di lavori.
Secondo una concezione finalistica, si è ritenuto che ai fini della configurazione
dell’organismo rilevi l’individuazione di un interesse generale della collettività (la costruzione e
gestione degli interporti si concreta in un servizio pubblico inteso al soddisfacimento dei bisogni
generali della collettività territoriale servita e beneficiata dallo sviluppo di un nodo integrato di
trasporti), mentre risultano neutre la forma giuridica del soggetto e le modalità gestionali suscettibili
di assumere connotazioni anche di tipo economico e commerciale .
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La seconda questione è stata risolta secondo il criterio fornito dalla Corte di Giustizia CE, in
base al quale se un ente per certe attività è organismo, mantiene tale qualifica anche per tutte le sue
altre attività, non essendo possibile una nozione di organismo in parte qua.
Tanto è stato affermato nel caso Sogei (società di gestione del sistema informativo del
Ministero delle finanze). Tale società, nonostante la sua natura privatistica, deve essere qualificata
come organismo di diritto pubblico per tutte le attività oggetto della convenzione di concessione, in
virtù della particolare natura dell’atto concessorio che devolve compiti attinenti a scopi non
esclusivamente commerciali o industriali. La giurisprudenza ha affermato che detta società è,
pertanto, tenuta ad adottare le procedure concorsuali di interesse pubblico previste dalla legge per
gli affidamenti a terzi consentiti dalla convenzione .
Analogo ragionamento è stato seguito in relazione a Poste italiane s.p.a., da includere nel
novero degli organismi di diritto pubblico e soggetta come tale al rispetto delle procedure di
evidenza pubblica nella scelta del contraente, per la totalità dei propri appalti.
Fino a qualche tempo fa si è ritenuto che la qualifica di organismo andasse attribuita anche
alle fondazioni bancarie, se in concreto possedessero i tre requisiti richiesti dalla normativa
comunitaria, senza che la loro veste privata potesse ostacolare tale qualificazione . Di recente,
tuttavia, con d.l. 162/2008 conv. in l. 201/2008, le fondazioni bancarie sono state escluse dal novero
degli organismi di diritto pubblico, sotto la condizione di non usufruire di finanziamenti pubblici o
altri ausili pubblici di carattere finanziario.
E’ importante sottolineare che non è comunque consentito desumere dalla definizione
normativa di organismo di diritto pubblico, cosí come fornita dalle diverse direttive in tema di
appalti pubblici ed ora dal citato art. 1, co. 9, della direttiva unificata n. 18/2004, una concezione
comunitaria organica, cioè unitaria, di ente pubblico.
Ed invero, a differenza di quanto verificatosi nel nostro ordinamento interno, nel quale,
nonostante la intrinseca varietà e multiformità tipologica dei diversi organismi qualificati come enti
pubblici, si è tradizionalmente tentato di elaborare una concezione tendenzialmente unitaria di
soggetto pubblico, in particolare attraverso quel faticoso, incerto ed oscillante percorso
giurisprudenziale volto all'individuazione dei c.d. indici di riconoscibilità del carattere pubblico
della persona giuridica, a livello comunitario, invece, la nozione di soggetto pubblico non è intesa
come categoria unitaria, ma è elaborata, tanto sul piano normativo, quanto nell'interpretazione
giurisprudenziale, settore per settore, adattandola, quindi, sí da estenderne o ridurne caso per caso
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l'ampiezza, alle esigenze sottese alla normativa delle singole materie nelle quali il riferimento al
soggetto pubblico è necessario e obbligato.
Chiarito, pertanto, che manca a livello comunitario una nozione unitaria di soggetto
pubblico, essendo state normativamente previste e in giurisprudenza elaborate nozioni differenti in
funzione dei diversi obiettivi che nei singoli settori di incidenza della disciplina europea si è inteso
perseguire, si deve tuttavia osservare che ciò che accomuna tale molteplicità di accezioni è
l’approccio di tipo sostanziale: alla individuazione dei soggetti pubblici. Infatti, non si procede,
tanto sul piano normativo, quanto su quello giurisprudenziale, alla stregua di criteri formali di
definizione, bensì sulla base di parametri di tipo sostanziale.
Siffatto approccio sostanziale si traduce nella difficoltà di identificare una volta per tutte uno
o più dati formali al cui riscontro subordinare la qualificazione del singolo ente in termini di
organismo di diritto pubblico; è necessario piuttosto valutare, caso per caso, le condizioni ed il
contesto in cui l’ente espleta la sua attività, sì da verificare se sia o meno effettivamente
assoggettato alla regole proprie della competizione economica. Solo la sostanziale indifferenza alle
leggi del mercato e della competizione economica può innescare quel sospetto che l’ente possa
preferire in sede di affidamento delle prestazioni di cui necessita le imprese nazionali discriminando
quelle degli altri Stati membri: sospetto sotteso all’ imposizione legislativa di precisi metodi di
scelta dell’appaltatore .
Quanto all'ultima delle tre condizioni richieste, le direttive comunitarie prevedono che l'
«influenza dominante degli enti politici» possa desumersi da una serie di fattori indicati in forma
alternativa e sostanzialmente coincidenti con gli indici di riconoscimento della pubblicità degli enti
già elaborati, sia pure per altri fini, dagli ordinamenti dei singoli Stati membri, quali quelli del fine
pubblico, delle sovvenzioni pubbliche aventi carattere maggioritario, del controllo pubblico,
dell'ingerenza dello Stato o di altro ente pubblico nella nomina di un quorum qualificato di
componenti degli organi di amministrazione, direzione o vigilanza degli organismi in questione:
sennonché, tali parametri sintomatici della natura pubblica comunitaria sono utilizzabili, per cosí
dire, disgiuntamente, nel senso che, se si prescinde dal fine pubblico, il cui perseguimento da parte
del singolo organismo è sempre necessario perché lo stesso debba considerarsi sottoposto alla
normativa in tema di appalti, la verifica della sussistenza di uno solo di essi è sufficiente perché il
soggetto avente personalità giuridica possa e debba essere qualificato come organismo di diritto
pubblico.
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Tornando al requisito della influenza pubblica dominante, ed in particolare al primo dei tre
fattori alternativi indizianti della sua sussistenza, costituito come si è detto nel finanziamento
maggioritario dell’attività ad opera di un soggetto pubblico, la Corte di Giustizia, nel caso
University of Cambridge, ha correttamente osservato che per “finanziamento” rilevante occorre
intendere le sole erogazioni concesse da un’amministrazione aggiudicatrice senza alcun vincolo di
sinallagmaticità rispetto ad una controprestazione posta a carico del soggetto ricevente.
L’indirizzo interpretativo così espresso appare del tutto in linea con le ragioni sottese
all’intervento normativo comunitario nel settore degli appalti, se solo si considera che solo il
versamento svincolato da una corrispondente prestazione posta a carico del ricevente risultano
idonee a generare o rinforzare quel legame di stretta dipendenza tra percettore e amministrazione
pubblica, da cui può nascere il rischio che il primo sia condizionata dalle indicazioni fornite dalla
seconda nella scelta di eventuali appaltatori.
La Corte di giustizia, nella stessa vicenda processuale citata, ha ritenuto che vada applicato
un canone di tipo meramente quantitativo, sostenendo che “in modo maggioritario” debba essere
inteso di “più della metà”: occorre tenere conto, quindi, della globalità delle entrate di cui il
soggetto “finanziato” si avvale, comprese quelle eventualmente derivanti dall’espletamento
dell’attività commerciale, applicando quindi, a valle di tale ricognizione, il suddetto criterio
percentuale a connotazione esclusivamente quantitativa.
Con riferimento, invece, al secondo elemento indiziante la sussistenza dell’influenza
pubblica dominante, costituito dal “controllo della gestione”, si è sostenuto che a provare la
dominanza pubblica è sufficiente il possesso da parte di soggetti pubblici della maggioranza delle
quote azionarie dell’organismo societario. Si è pure escluso che il controllo cui si riferiscono le
norme comunitarie e che consente, come si è detto, di individuare la sussistenza di una dominanza
pubblica sull’organismo soggetto al controllo qualificandolo quale organismo di diritto pubblico,
sarebbe esclusivamente quello esercitatile da parte di Enti pubblici con modi e forme diversi dalla
partecipazione maggioritaria ed incentrati su controlli amministrativi sull’organizzazione e
sull’attività della società. Ed invero, “nessun elemento testuale depone in tal senso e, semmai, la
dizione ampia ed onnicomprensiva utilizzata per individuare il controllo sulla gestione nella norma
qui in esame implica necessariamente che la forma più conosciuta ed applicata nell’ordinamento
societario per assumere il controllo di una Società di capitali (quella appunto di acquisirne il
pacchetto di maggioranza o comunque una quota di capitale sociale idonea ad assicurarne in
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concreto il controllo) fosse ben presente al legislatore comunitario. Del resto la funzione della
disposizione in esame, di consentire a tutti gli operatori del settore idonei dal punto di vista morale,
tecnico e finanziario, di accedere ai flussi finanziari pubblici (o attivati da Enti pubblici o ad essi
equiparati) in condizioni di parità e secondo le regole della concorrenza, sarebbe vanificata se fosse
consentito agli Enti pubblici di costituire Società con proprie partecipazioni maggioritarie non
soggette all’obbligo di contrattare con procedure ad evidenza pubblica. Né si può trascurare la
considerazione che la quota maggioritaria nella partecipazione societaria da parte di soggetti
pubblici influenzi in modo decisivo sia il finanziamento delle attività che la costituzione degli
organi di vigilanza e direzione della Società stessa” .
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2 Il rilievo applicativo della nozione di organismo di
diritto pubblico: l’assoggettabilità alla disciplina
di evidenza, il riparto di giurisdizione, l’accesso
agli atti anche dopo la riforma della l. n.
241/1990, l’applicabilità dello statuto penale della
pubblica amministrazione
Come abbiamo più volte accennato su un primo e principale versante, la nozione assume
rilievo in sede di delimitazione dell’ambito soggettivo di operatività della disciplina comunitaria (e
nazionale di recepimento) relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti c.d. sopra soglia: la
qualificazione del singolo ente in termini di organismo di diritto pubblico comporta quindi, in primo
luogo, il doveroso rispetto delle direttive comunitarie in tema di appalti.
A tale prima conseguenza di tipo sostanziale è strettamente connessa quella, di diritto
interno, a connotazione squisitamente processuale.
Dalla qualificazione della stazione appaltante in termini di organismo di diritto pubblico,
come tale tenuta ad osservare la disciplina comunitaria per l’affidamento dell’appalto, deriva infatti
il radicarsi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quanto al contenzioso non
afferente alla fase dello svolgersi del rapporto contrattuale.
L’art. 6, l. n. 205/2000, infatti, prevede la giurisdizione esclusiva ancorandola a nozioni di
diritto amministrativo sostanziale, sia di carattere oggettivo che di carattere soggettivo.
La giurisdizione esclusiva si radica in particolare allorché cumulativamente:
- vi sia una procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture, o di scelta del socio;
- la procedura di affidamento o di scelta del socio sia posta in essere da soggetti comunque
tenuti, nella scelta del contraente o del socio, al rispetto del diritto comunitario, o delle procedure di
evidenza pubblica delineate dal diritto interno, nazionale o regionale.
In definitiva, la giurisdizione esclusiva si presenta mobile, in quanto destinata ad espandersi
od a restringersi, in parallelo con le scelte del legislatore relative alla individuazione dei soggetti
tenuti a seguire la normativa di evidenza pubblica.
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Esclusivo presupposto fondante la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è
quello della sottoposizione del soggetto alle norme, di fonte comunitaria, nazionale o regionale, che
impongono l’osservanza di procedure concorsuali per l’affidamento dell’appalto.
La norma processuale dell’art. 6, l. n. 205/2000 opera, pertanto, un rinvio alla disciplina
sostanziale che regola l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina dei pubblici appalti. In
particolare l’ art. 6 radicando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sull’esclusivo
presupposto del prescritto assoggettamento della stazione appaltante all’osservanza di procedure
regolamentate dalla normativa europea, nazionale o regionale, pare quindi superare l’orientamento,
espresso dalla decisione Cons. Stato, VI, n. 1478/19982 , che invece pretendeva, in linea con le
coordinate tracciate dall’art. 103 Cost., la natura pubblica del soggetto aggiudicatore.
Proseguendo in questa sommaria indicazione dell’implicazioni operative derivanti dalla
verifica della effettiva estensione della nozione in esame, deve aversi riguardo al settore
dell’accesso agli atti di gara.
Il riscritto art. 22, della l. 241/90, nel delimitare l’ambito di operatività della disciplina in
tema di accesso, fornisce la nozione di “pubblica amministrazione” cui riconduce «tutti i soggetti di
diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario»: se ne inferisce, allora, che anche gli organismi di
diritto pubblico, limitatamente all’attività che espletano in tale qualità, in specie quella di stazioni
appaltanti, dovranno assoggettarsi alla disciplina in tema di ostensione.
Può, pertanto, concludersi nel senso che anche gli organismi di diritto pubblico, ancorché
formalmente privati per il diritto nazionale, debbano soggiacere alla normativa in tema di accesso.
Del resto, non vi è motivo per dubitare che, qualora un determinato settore rinvenga nel diritto
comunitario, anziché in quello interno, la sua fonte di disciplina, la delimitazione dell'ambito
soggettivo di efficacia della normativa nazionale in tema di accesso debba essere effettuata tenendo
conto della nozioni di amministrazione elaborate, con riferimento a quello specifico settore, dallo
stesso ordinamento europeo, sicché deve ritenersi che tra «tutte le pubbliche amministrazioni»
rientrino a pieno titolo i soggetti cui le norme di fonte europea prescrivono, presupponendone la
connotazione pubblicistica, l'osservanza delle procedure concorsuali, ivi compresi, pertanto, gli
organismi di diritto pubblico e le imprese pubbliche .
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Infine, il ripetuto recepimento dell’istituto in esame nella disciplina nazionale e la estensione
che ne è conseguita dei confini tradizionalmente propri della nozione interna di pubblica
amministrazione dovrebbero indurre invero ad interrogarsi sulle possibili implicazioni penalistiche.
Il problema è, in particolare, quello relativo alla assoggettabilità allo statuto penale della
pubblica amministrazione dei soggetti operanti in strutture che, pur avendo veste societaria e quindi
tendenzialmente privatistica alla stregua dei tradizionali (ma non certo indiscussi) criteri di
identificazione di diritto interno, siano tuttavia qualificabili come organismi di diritto pubblico,
come tali tenuti ad espletare attività procedimentalizzata ed oggettivamente pubblicistica in sede di
individuazione dei soggetti cui affidare l’esecuzione di appalti.
Si consideri, al riguardo, che, ai sensi dell’art. 357 c.p., sono pubblici ufficiali, come tali
perseguibili ai sensi degli artt. 317 ss., i soggetti abilitati a formare o manifestare la volontà della
pubblica amministrazione.
La contestabilità dei reati contro la pubblica amministrazione a soggetti operanti all’interno
di enti destinati ad essere pubblici solo in quanto qualificabili come organismi di diritto pubblico va
naturalmente circoscritta sul piano oggettivo alla sola attività che l’ente espleta nella veste suddetta,
ossia quella di stazione appaltante che indice e gestisce la procedura di gara; al di fuori di tale
segmento di attività, l’ente torna ad essere soggetto privato, non riconducibile certo alla nozione di
pubblica amministrazione.
I maggiori ostacoli, tuttavia, si rinvengono nel principio della riserva di legge statale in
ambito penale, e dunque l’acquisizione in tale ambito di una nozione squisitamente di derivazione
comunitaria .
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3 Organismo di diritto pubblico e
affidamento in house
L’istituto dell’affidamento in house (o dell’in house providing, come tale contrapposto al
contracting out o outsoucing), prima del suo sostanziale recepimento nella disciplina italiana in
tema di servizi pubblici , è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla celebre
sentenza resa nel caso Teckal , nella quale sono stati individuati i due criteri cumulativi, la cui
contemporanea sussistenza consente di sottrarre alle procedure di aggiudicazione previste per gli
appalti pubblici tutti quei rapporti intercorrenti tra una pubblica amministrazione ed un ente
soggetto all’influenza dominante di quest’ultima.
L’in house providing si configurerebbe tutte le volte in cui un ente pubblico decida di
affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna
che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una sua longa manus .
Integrando gli estremi di una deroga ai principi di concorrenza, non discriminazione e
trasparenza, tale istituto è stato ritenuto ammissibile solo nel rispetto di alcune rigorose condizioni,
individuate dalla giurisprudenza comunitaria .
Tali condizioni vanno individuate nel :
c.d. controllo analogo a quello svolto sui propri servizi, necessariamente esercitato dall’ente
pubblico nei confronti dell’impresa affidataria;
rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell’impresa in house e le esigenze pubbliche
che l’ente controllante è chiamato a soddisfare.
La giurisprudenza ha affermato che l’in house providing è consentito solo quando si
configuri tra l’amministrazione affidante e l’affidatario una delegazione interorganica, perché
questo significa che l’appalto rimane nel recinto della stessa amministrazione, appunto in house.
Questo accade, si è detto da parte dei giudici comunitari, quando si configura un rapporto di
delegazione interorganica, in assenza del quale si dovrà far ricorso all’outsourcing .
Ma è con la “sentenza Teckal” che la Corte chiarisce i limiti entro i quali si può configurare
l’in house, che rappresenta una soluzione di tipo organizzativo con cui la p.a. unilateralmente
esercita la propria autonomia organizzativa e provvede all’espletamento di un servizio, di un’opera,
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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o di una fornitura in una logica di autoproduzione ed autosoddisfacimento. La cd. sentenza Teckal
del 18 novembre 1999, come anticipato, ai fini dell’affidamento diretto, richiede infatti che quando
un contratto sia stipulato tra una pubblica amministrazione ed una persona giuridica (formalmente)
distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa solo quando ricorrano
contemporaneamente i requisiti di cui innanzi.
Ne consegue che la deroga all’applicazione della normativa comunitaria sulla pubblica gara
va valutata sulla base della compresenza dei seguenti elementi :
dipendenza formale
dipendenza economica
dipendenza amministrativa
destinatario del servizio.
La giurisprudenza ha chiarito che, ai fini della sussistenza del requisito del controllo
analogo, la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria ma non sufficiente, servendo maggiori
strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. In particolare è
stato affermato
che il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri
gestionali e all’ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare maggiori poteri rispetto
a quelli del diritto societario.
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4 Il problema relativo alle società miste
La questione ha riguardato particolarmente le cc.dd. società miste.
Il problema non è di facile soluzione, non potendosi accedere ad una posizione decisamente
negativa, in quanto, de jure condito, l’ordinamento, come visto, ammette l’affidamento in house, sia
pure limitatamente alle società a partecipazione pubblica totalitaria.
L’affidamento in house, in un’accezione più lata, rimane ammissibile anche per le società
miste, siano esse a partecipazione pubblica maggioritaria o minoritaria, nei limiti in cui il socio
privato sia stato scelto a mezzo gara, e questo ad onta di quanto possa ritenere la Corte di Giustizia
. Quest’ultima, infatti, dopo la famosa sentenza Teckal, ha espresso sempre maggiori perplessità nei
riguardi dello strumento dell’affidamento in house, lamentando non solo l’emersione di interessi
privati di natura imprenditoriale, invece che pubblici in senso stretto, ma addirittura
l’incompatibilità del modello societario rispetto alla valorizzata necessità del controllo analogo,
inteso nelle forme anzidette, in quanto il carattere autonomistico della società, che si impernia
sull’organo costituito dal consiglio di amministrazione, si pone in ineluttabile contrasto con il
requisito della delegazione interorganica .
Di recente anche il Consiglio di Stato sembra essersi allineato a quest’impostazione, avendo
escluso in più occasioni che il modello della società mista sia in alcun modo riconducibile all’in
house .
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5 La disciplina del Codice dei contratti
pubblici
Alla luce dell’impostazione assunta dalla giurisprudenza comunitaria, si comprendono le
perplessità sollevate dalla disposizione contenuta al 3° comma dell’art 32 del codice degli appalti
(d.lgs 2006/163) secondo cui: “Le società di cui al comma 1, lettera c) (cioè anche quelle a
partecipazione pubblica minoritaria o maggioritaria) non sono tenute ad applicare le disposizioni del
presente codice limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i
quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le seguenti condizioni:
la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica;
2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla
prestazione per cui la società è stata costituita;
3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura
superiore al 70% del relativo importo”.
Coordinando la disposizione testè citata con le altre norme nonché con i precipitati
giurisprudenziali, possiamo affermare che allo stato dell’attuale assetto normativo, posta la
distinzione tra società in house, cioè a partecipazione pubblica totalitaria, e società mista,
minoritaria o maggioritaria, l’affidamento diretto è innanzitutto possibile nel primo caso, purché si
configuri il controllo analogo; nel secondo invece è sì possibile, ma nei limiti in cui la scelta del
socio sia avvenuta a mezzo gara, e comunque nel rispetto di quanto stabilito dal TUEL. La
disposizione in esame deve essere coordinata con l’art 13, d.l. n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani,
convertito in legge n. 248/2006), nell’ambito di una norma che però espressamente esclude dal suo
ambito applicativo i servizi pubblici locali – e che ha inteso sostituire al requisito della “prevalente”
attività in favore dell’affidante quello, più rigoroso, della “esclusiva” attività in favore dello stesso;
modifica che appunto è stata salutata dalla dottrina
come il tentativo di recuperare un residuo
ambito applicativo all’in house providing secondo i restrittivi dettami della Corte di Giustizia.
Invero, l’art. 13 del citato d.l. statuisce che “le società, a capitale interamente pubblico o misto,
costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi
strumentali all'attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento
esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con
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gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o
privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti”.
Alla norma parte della dottrina ha assegnato particolare rilievo, ritenendo che il legislatore
abbia implicitamente escluso la cd. extraterritorialità della società mista. Ma si tratta di una tesi
fortemente discutibile, tant’è che la giurisprudenza opina in senso contrario, affermando che “una
volta ammesso a livello statutario che la suddetta società possa operare in diretta concorrenza con
altre imprese nel settore della gestione dei servizi pubblici locali, il ritenere necessario la
menzionata valutazione di compatibilità costituisce una forma di penalizzazione dell’impresa e
risulta essere in stridente contrasto con le disposizioni statutarie che la legittima allo svolgimento
dell’attività de qua in regime di concorrenza” .
Sul punto è intervenuta una pronuncia del Consiglio di Stato
le cui argomentazioni
consentono di ritenere ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso
in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un "affidamento diretto", ma la modalità
organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al "socio
operativo" della società.
A tal fine, occorre non solo che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per
l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, ma anche un rinnovo della
procedura di selezione "alla scadenza del periodo di affidamento", evitando così che il socio
divenga "socio stabile" della società mista.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla
società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una
procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi
compiti operativi.
L’Adunanza Plenaria è quindi intervenuta sulla questione con la nota decisione n. 1 del 3
marzo 2008, secondo cui non sono concretamente realizzabili in una società a capitale misto
pubblico-privato i presupposti integranti un’ipotesi di in house providing
La dottrina che per prima si è soffermata sull’esaminato dictum giurisprudenziale, osserva
che l’affidamento in house providing non va confuso con il più ampio fenomeno del partenariato
pubblico-privato, all’interno del quale ha quindi ancora modo di esprimersi, con mille varianti, il
modello societario misto. In sostanza la dottrina non vuole escludere la possibilità di far confluire
tale fenomeno nell’in house, a differenza della giurisprudenza del Consiglio di Stato che sembra
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escludere la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello dell’in house,
ritenendosi peraltro ininfluente il fatto che, nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio , sia
stata esperita una procedura concorrenziale in funzione dell’individuazione dei partner cui conferire
le quote di capitale privato della società designata ai fini dell’affidamento diretto.
5.1. Segue: società mista originaria e sopravvenuta
Peraltro occorre soggiungere che a medesime conclusioni dovrebbe pervenirsi anche nel
caso in cui lo Statuto della società, costituita con capitale interamente pubblico, contempli la
possibilità di entrare a far parte della società anche da parte di imprese, singole o società di capitali,
pure private, con partecipazione fino al 49 % del capitale sociale. Il Consiglio di Stato ha infatti
osservato che il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni perde tale qualità se lo
statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi.
A nulla rileva, aggiunge la Corte, che al momento dell’affidamento di cui si discute, non era
intervenuta alcuna cessione di capitale a favore di soggetti terzi, in quanto elemento discriminante,
ad avviso della Corte europea, è rappresentato dal fatto stesso della cedibilità, ancorché solo
minoritaria, di parte del capitale sociale a beneficio di soggetti privati .
5.2. Segue : in house e competenza gestionale del c.d.a.
La giurisprudenza più recente
ha valorizzato il carattere ostativo all’ammissibilità dell’in
house providing assunto dal ruolo gestionale del c.d.a. in seno alla società affidataria, in ordine ad
un giudizio incardinato avverso le delibere con cui un Comune della regione pugliese ha disposto
l’affidamento in house providing della gestione in esclusiva del servizio parcheggi nella città, per
una durata quinquennale, a favore di una società interamente partecipata dall’Ente locale stesso. Il
Collegio si è soffermato, in particolare, su una clausola per così dire standard, piuttosto ricorrente
negli statuti delle società di capitali a prevalente o totale partecipazione pubblica, che traccia
l’identikit dell’organo esecutivo nei seguenti termini: ”Il Consiglio di Amministrazione esercita,
nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi strategici individuati dal Comune, i poteri di
amministrazione sia ordinaria che straordinaria, salvo quanto espressamente riservato dalla legge e
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dal presente Statuto all’Assemblea dei soci”. Ebbene, il TAR ha osservato che, pur trattandosi di
società a totale partecipazione pubblica, occorre, affinchè si possa ammettere l’affidamento diretto,
quanto segue:
1)
il Consiglio di Amministrazione della S.p.A. in house non deve avere rilevanti poteri
gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto
societario riconosce alla maggioranza sociale (in questo senso A.P. n. 1/2008);
2)
l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il
controllo” dell’ente pubblico;
3)
le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente
affidante (in questo senso, la pronuncia del Consiglio di Stato, sezione V, 8 gennaio 2007 n. 5).
E’ questo un argomento particolarmente complesso, che attiene ai rapporti tra l’ente locale e
la società a partecipazione pubblica, quindi alla cd. governance della società mista.
Orbene, in un recente passato si è affermato che la natura societaria dell’ente affidatario non
esclude il controllo analogo. Così il TAR Campania, nella sentenza n. 2784 del 30/3/2005, ha
focalizzato la sua indagine sull’esame dell’atto costitutivo e dello statuto della società a capitale
pubblico, ritenendo sufficiente:
1)
l’esistenza di attività che, in quanto rientranti nei compiti istituzionali propri
dell’Ente pubblico, non possono che essere rivolte esclusivamente a vantaggio di quest’ultimo;
2)
un penetrante controllo economico e gestionale dell’Ente, in considerazione della
composizione e nomina degli organi sociali.
Infatti, l’Ente, essendo l’assemblea della società - cui spetta il potere di approvare il bilancio
e la nota integrativa nonchè di decidere sulla destinazione degli utili sociali - costituita dal solo
socio pubblico, il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale composti in maggioranza da
membri nominati dall’Amministrazione, può controllare interamente la gestione societaria. Ma la
giurisprudenza maggioritaria è stata di opinione contraria, ritenendo che “il controllo analogo va
parametrato rispetto a quello effettuato sugli organi delle pubbliche amministrazioni ricavabile dal
d.lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego), oltre che dal d.lgs. 267/2000 (TUEL)”.
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5.3. Segue : la tesi del controllo strutturale
Secondo una posizione assunta più di recente dalla giurisprudenza amministrativa
il
controllo analogo va inteso come “controllo strutturale”, che cioè non consista unicamente in aspetti
formali, relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario,
ma che invece si sostanzi in : “a) il possesso dell’intero capitale azionario (che tuttavia da solo è
condizione necessaria, ma non sufficiente a determinare il controllo analogo come ritiene C. d. S. .
V 22-12-05 n. 7345, vedi oltre): b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della
amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del
controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema
di strategie e politiche aziendali”.
Se siano più enti pubblici a partecipare al soggetto affidatario, la giurisprudenza
afferma
che il controllo analogo presuppone: il “riconoscimento a ciascun ente locale di un ruolo propulsivo
nei confronti dell’organo amministrativo consistente in proposte di iniziative attuative del controllo
di servizio; diritto di veto sulle deliberazioni assunte in modo difforme dal contenuto delle proposte;
riserva all’assemblea ordinaria di trattazione di argomenti inerenti a pretese o diritti delle società
sugli enti locali nascenti dal contratto di servizio e corrispondente diritto di veto di ciascun ente
locale interessato sulle relative determinazioni; diritto di recesso dalla società (con conseguente
revoca dell’affidamento del servizio) nei casi in cui il Comune ha diritto a far valere la risoluzione o
comunque lo scioglimento del contratto di servizio ed altresì nel caso di violazione di competenza
assembleare allorquando l’organo di amministrazione assuma iniziative rientranti nella competenza
dell’assemblea, senza autorizzazione di quest’ultima. Tali diritti sono attribuiti a ciascun ente locale
indipendentemente dalla quota posseduta[…]”.
Si può dire quindi, in generale, che non assume rilievo ostativo la circostanza che a detenere
il pacchetto azionario siano più enti pubblici, riferendosi il controllo analogo all’insieme degli
azionisti. E’, questa, riflessione di non poco momento, atteso che ripercorre l’argomentazione
formulata in sede pretoria che conduce al concreto riconoscimento dei presupposti dell’in house
providing in ordine ai Consorzi intercomunali per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
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6 Ultimi interventi: in particolare, sentenza
dell’11 maggio 2006, n. C-340/04
Recentemente, i giudici comunitari sono ritornati sul tema dell’affidamento diretto dei
servizi pubblici.
La Corte di Giustizia, evidentemente mossa dal bisogno di fissare dei paletti in materia di in
house providing, in linea con quanto già stabilito nelle sentenze “Stadt Halle” e “Parking Brixen”
(C-458/03 del 13/10/2005), nella sentenza n. C-410/04 del 6 aprile 2006 ha espresso l’avviso che le
condizioni per l’affidamento diretto devono essere interpretate in modo restrittivo. I giudici, con la
decisione in questione, non si discostano dal solco della propria consolidata giurisprudenza.
La Corte, con la successiva sentenza dell’11 maggio 2006, n. C-340/04, torna a ricondurre la
nozione di controllo alla possibilità da parte dell’amministrazione affidante di esercitare una
influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società
partecipata, considerando elemento non sufficiente e decisivo la detenzione in mano pubblica
dell’intero capitale sociale. In sostanza, il controllo dell’ente pubblico - proprio perché circoscritto
all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza
alcuna previsione aggiuntiva a beneficio della pubblica amministrazione - non garantisce al
soggetto affidante alcuna significativa influenza, anche in ragione dell’ampiezza dei poteri attribuiti
al consiglio di amministrazione della società.
In particolare, a tenore della sentenza in parola, il fatto che l'amministrazione eserciti la sua
influenza sulla società affidataria per il tramite di una società holding può incidere negativamente
sulla sussistenza del controllo analogo ai fini della legittimità di un affidamento in house.
Trattandosi di un controllo esercitato in via indiretta, nessuna influenza significativa può essere
esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti
dell’affidataria.
In definitiva gli strumenti del diritto privato, essendo basati su una sostanziale autonomia
gestionale del management, da soli non assicurano quella rispondenza dell’operato del Consiglio
d’amministrazione all’interesse del socio che è invece necessaria perché si possa ritenere che questa
società non abbia nessuna autonomia sostanziale, restando soltanto una propaggine organizzativa
non distinguibile dell’ente pubblico.
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Il controllo analogo evocato dalla Corte di giustizia va quindi parametrato rispetto a quello
effettuato sugli organi delle pubbliche amministrazioni ricavabile dal d.lgs. 165/2001 (T.U. sul
pubblico impiego), oltre che dal d.lgs. 267/2000 (TUEL). Con la privatizzazione è stato
ridimensionato il vincolo di subordinazione gerarchica tra gli organi di indirizzo politico e gli
organi di gestione amministrativa, per cui è stato eliminato il potere di ordine così come quello di
revoca, di avocazione e di decisione dei ricorsi gerarchici. Sono stati invece mantenuti poteri
compatibili con una relazione di indirizzo e di coordinamento e permane in via residuale il potere di
annullamento degli atti per vizi di legittimità così come un potere di sostituzione in ipotesi
delimitate.
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