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commentary «Q Commentary, 7 gennaio 2016 INDIA E GIAPPONE SI STUDIANO NEL CAOS DEL MONDO ASIATICO ANTONIO ARMELLINI ©ISPI2016 L ’equazione geostrategica in Asia si risolverà intorno ai quattro fattori di Cina, India, Giappone e Australia. Russia e Stati Uniti continueranno ad avere – in forme e con intensità diverse – rispettivamente una funzione di testimone autorevole e di garante fondamentale. Nel lungo periodo - e in presenza di fattori per ora difficilmente prevedibili, come la soluzione del nodo coreano o quello della collocazione di Taiwan – il ruolo delle superpotenze (lo è ancora anche la Russia) potrebbe gradualmente ridursi in parallelo con l’emergere di un autonomo sistema di sicurezza regionale. La galassia degli attori intermedi continuerà a ricercare i margini di crescita consentiti all’interno di questo scenario. Vietnam e Indonesia seguono con apprensione l’espansionismo di Pechino e vedono nell’India un partner sino a poco fa invisibile, o quasi. Analogamente fanno le Filippine, mentre ciò che resta delle “tigri asiatiche” di sbiadita memoria si industria per trovare spazio, facendo anche leva su un sistema di organizzazioni regionali in parte modellate sull’esperienza europea, ma nell’insieme meno riuscito. Il punto focale è naturalmente rappresentato dalla Cina: non sono in molti a dare credito alla tesi secondo cui l’espansionismo di Pechino potrebbe non tradursi in pretese di tipo territoriale (anche se stando alla storia una simile lettura sarebbe possibile), bensì nell’affermazione di una suzeraineté fondata su una incontestabile superiorità economica. Quella con il Vietnam è una rivalità antica e le mosse di Pechino – insieme al tentativo di ridefinire i confini della carta geografica intorno al Mar della Cina – vengono seguite con preoccupazione non solo ad Hanoi, ma un po’ ovunque nell’area a partire da Manila. La Cina sta integrando un formidabile dispositivo militare terrestre con una capacità navale bluewater che rappresenta, essa sì, una novità nella sua concezione strategica e rispetto alla quale gli altri cercano di attrezzarsi. L’India ha intrapreso una strada analoga, con pari celerità e con mezzi solo in parte minori, e punta a dare alla sua Marina una capacità di proiezione di potenza ben aldilà della tradizionale funzione di containment anti-pakistano. Il Giappone di Abe ha preso atto, non senza qualche residua difficoltà interna, che essere una potenza di prima grandezza senza denti militari non funziona e ha promosso un’interpretazione dei suoi vincoli costituzionali che gli consentono di dare corpo a un riarmo effettivo. Con molta cautela, per non provocare troppe reazioni da Antonio Armellini, già ambasciatore in India e Nepal 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. commentary ©ISPI2016 parte di quanti dell’imperialismo nipponico conservano memorie non sopite, ma con un’indicazione programmatica chiara. L’Australia ha ormai compreso che i legami tradizionali con il resto del mondo anglosassone hanno un fondamento storico e culturale fortissimo, ma non sono lo strumento più idoneo a promuovere gli interessi di una potenza che ha preso definitivamente coscienza di essere asiatica: le manovre militari congiunte cui Canberra ha cominciato a partecipare – e la revisione dei rapporti con Pechino – sono un indicatore spesso sottovalutato di come la mappa geostrategica asiatica conti su un nuovo attore di peso. La Marina Usa è ancora la forza dominante e rappresenta per tutti una garanzia fondamentale; non è più la sola tuttavia e gli altri, come si vede, stanno mettendo in essere propri strumenti: per integrarla oggi, e per essere in grado di far fronte, domani, a una sua riduzione, vuoi per considerazioni politiche generali, vuoi per una evoluzione degli assetti, ad esempio, nei confronti della Cina. una girandola di intese commerciali per miliardi di dollari, non si sa bene quanto virtuali). L’uno e l’altro sanno bene che alla fine la partita dell’egemonia in Asia si giocherà fra loro due, ma ambedue concordano che non è ancora il momento e che è importante, nel frattempo, continuare a crescere per poter giocare meglio le proprie carte. Modi ha proseguito riallacciando – e talvolta creando – una rete di relazioni con l’insieme dei paesi del Sud-est asiatico, a partire proprio da quel Vietnam che rappresenta una spina nel fianco della politica cinese, e proseguendo poi con Thailandia, Indonesia e così via. Egli ha presentato un’India nuova, che si è proposta come un interlocutore affidabile e autorevole; non un’alternativa immediata alla Cina, ma una possibilità da tenere a mente nell’immaginare il proprio futuro a più lungo termine. Questo quadro è importante per capire l’evoluzione dei rapporti indo-giapponesi. Essi sono rimasti a lungo marginali, se non proprio ostili: la decisione indiana i dotarsi di un’arma nucleare in violazione del Tnp aveva toccato una corda particolarmente sensibile in Giappone – che l’intesa raggiunta con gli Usa nel 2005-06 ha modificato solo in parte – e costituito un ostacolo formidabile alla creazione di rapporti più stretti. L’India neutralista e terzomondista e il Giappone alleato privilegiato dell’Occidente, attento a non discostarsi dalla linea statunitense, avevano ben poco da dirsi anche sul piano dell’analisi politica internazionale. L’infinita complessità del mercato indiano, il suo statalismo, la sua burocrazia elefantiaca e corrotta, facevano a pugni con il capitalismo giapponese, statalista anch’esso ma in chiave per così dire simmetrica, e avevano fatto cadere nel nulla i tentativi, che pure ogni tanto vi erano stati, di promuovere investimenti giapponesi nelle infrastrutture e nel manifatturiero in India, di fatto privandola di un importante volano di sviluppo. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha dato alla politica estera indiana una scossa come non si vedeva da decenni, se non proprio dai tempi del protagonismo nehruviano nel movimento dei non allineati. Dopo avere rilanciato i rapporti con tutti i paesi confinanti – con la grande maggioranza dei quali Delhi aveva una tradizione di forte conflittualità – ha dato una nuova spinta alla look east policy lanciata con clamore alla fine degli anni Novanta – e da allora finita in un limbo sonnolento – sulla base del convincimento che l’ambizione di fare dell’India una potenza a livello globale non potrà avere successo, se non partirà da un radicamento forte nell’area di suo diretto riferimento. Egli ha iniziato riconfigurando la dinamica dei rapporti con la Cina. L’alternativa fra una convivenza basata sulla reciproca interdipendenza e un confronto dalla possibile deriva armata rimane sullo sfondo: la Cina è l’unico paese con cui l’India, dopo la sconfitta subita nel 1961, non ha firmato un trattato di pace. Uno scambio di visite a Delhi e Pechino nell’ultimo anno ha permesso a Modi e Xi Jinping di ribadire un quadro di cooperazione né fraterno né conflittuale, ma eminentemente pragmatico (con il consueto corollario di Appariva chiaro a Modi come per recuperare un ruolo di primo piano in Asia il passaggio attraverso il Giappone fosse indispensabile. Analogamente, non sfuggiva ad Abe che per la sua politica di nuova assertività nei confronti di Pechino non sarebbe bastato il solo appoggio americano, ma sarebbe servito anche un riferimento 2 commentary ©ISPI2016 asiatico di peso, quale quello dell’India. Alla quale, al tempo stesso, un perno che permettesse di arricchire le modalità della sua “convivenza competitiva” con la Cina avrebbe potuto fare comodo. A quasi dieci anni dalla firma dell’intesa con gli Stati Uniti, l’“eccezione” indiana in materia nucleare è andata perdendo di peso, man mano che paesi i quali avevano espresso forti perplessità sulla lesione apportata all’impianto del Tnp – come l’Italia – finivano per accettare il fatto compiuto; la decisione australiana di sospendere l’embargo sulle forniture nucleari al Giappone – adottato a suo tempo per motivi simili a quelli giapponesi – ha costituito un altro incentivo per Tokyo di dare prova di maggiore flessibilità. Il mercato indiano, nel frattempo, è andato sviluppandosi forse non con la rapidità attesa, ma comunque in maniera tale da offrire molte opportunità interessanti per investitori solidi come le multinazionali giapponesi. Da parte indiana, il desiderio di cercare altre vie di cooperazione oltre a quella cinese – e le perplessità dinanzi all’ipotesi di legarsi troppo le mani con l’industria americana – rendono interessante l’idea di una più forte presenza giapponese. Per ambedue la Cina rappresenta al tempo stesso il maggiore partner commerciale e un problema fondamentale di sicurezza: l’evoluzione delle rispettive analisi politiche – e delle rispettive strategie militari – apre aldilà di differenze pur significative il campo a una collaborazione reciprocamente vantaggiosa. parlano da almeno un decennio: si era cominciato con un collegamento Bombay-Delhi che, più volte annunciato, è finito nel nulla come tante cose in India. Chissà se stavolta andrà meglio…). La cooperazione in materia nucleare è di grande importanza, aldilà del suo contenuto tecnico, perché mette la parola fine a una distanza che sino a poco fa era sembrata non colmabile: non è chiaro quanto l’opinione pubblica giapponese abbia compreso questo fatto, ma politicamente la questione è superata. Così come di rilievo sono le prime, timide aperture in materia di difesa, terreno questa volta minato più per Tokyo che per Delhi. Parlare da tutto ciò di una nuova alleanza significherebbe non capire il modus operandi indiano, che della vecchia eredità terzomondista ha conservato l’idiosincrasia per qualsiasi vincolo formale di alleanza: solo che allora questo era motivato dalla solidarietà internazionalista, mentre adesso la sua base risiede in un nazionalismo non privo di hubris. Entrambi sanno di potersi essere reciprocamente utili e questo basta. Cosa intendano gli indiani per alleanza gli Usa – che dopo l’intesa sul nucleare ritenevano di avere la strada spianata – hanno avuto modo di rendersi conto in più occasioni. Ad esempio per la vicenda dell’aereo F-35, soffiato a una Lockheed incredula dai francesi del Raphale. Dopo il Giappone e i trionfi delle sue visite americane ed europee (in cui, per evidenti ragioni marò, non c’è stato un passaggio in Italia), Narendra Modi ha firmato a Mosca insieme a Putin (con il quale, come da copione, ha stabilito rapporti personali di grande amicizia) intese che riaprono all’industria della difesa russa le porte di un mercato in cui era stata egemone in passato, nel quale si era rassegnata a un ruolo marginale che ora, invece, è stato ribaltato, Un mercato su cui contavano molto gli americani come era stato ribadito in occasione dei colloqui con Obama (c’è bisogno di dirlo? Un altro grande amico personale del premier indiano). Chi vuole capire, capisca… Narendra Modi sa essere, quando vuole, un affabulatore convincente. Il rapporto di grande cordialità personale da lui stabilito con Abe ha oliato efficacemente la macchina di un’intesa fondata su una percezione dell’interesse comune priva di ideologismi o sentimentalismi, che è andata oltre le aspettative. Non solo sul piano economico: l’accordo per la costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità verso Ahmedabad (la città di Modi) è significativo anche perché il contratto era sembrato sino all’ultimo saldamente nelle mani della concorrenza cinese (per la verità, di treni ad alta velocità con i giapponesi gli indiani 3