mercoledì 12 settembre 2001
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mercoledì 12 settembre 2001
IL FOGLIO REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE: LARGO CORSIA DEI SERVI 3 - 20122 - MILANO ANNO VI NUMERO 251 Parla Berlusconi “La libertà occidentale deve essere protetta: Italia al fianco degli Usa” Il premier giudica il grande disordine mondiale dopo gli attacchi al cuore del mondo libero. Pena per le vittime “Vi racconto l’ansia di Bush” Roma. Silvio Berlusconi ieri nel primo pomeriggio non riusciva a staccare gli occhi dalla Cnn, ad Arcore, e martoriava il telefono in contatto con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con la Difesa e con alcune delle maggiori cancellerie europee, ma poi è salito su quell’aereo che aspettava in pista e ha raggiunto Roma: “Provo una grande pena per le vittime innocenti di New York e di Washington, per i passeggeri degli aerei-bomba, per le paure e le umiliazioni inferte dal terrorismo più spietato a tutti noi, uomini liberi e pacifici. Il World Trade Center è il simbolo della libertà internazionale dei commerci, una bandiera sulla linea d’orizzonte di una delle città più libere e operose del mondo: essere stati costretti ad assistere al crollo delle Torri Gemelle è tremendo, una battaglia perduta la cui eco rimbomberà per una o due generazioni. Lo stesso vale per il Pentagono, l’edificio in cui è custodita gran parte della nostra sicurezza, un architrave necessario all’ordine e all’equilibrio del mondo. Ma in questa guerra per la pace e per l’ordine internazionale, e vorrei che questo fosse chiaro a tutti in Italia, noi siamo e restiamo i più forti. La libertà occidentale deve essere e sarà protetta con il più assoluto rigore, con una fermezza che non potrà mai dimenticare e perdonare: l’Italia è al fianco degli Stati Uniti e del presidente George W. Bush nella caccia ai colSILVIO BERLUSCONI pevoli di questo immane disastro, nell’identificazione delle responsabilità a qualunque livello esse si collochino”. Berlusconi sa essere freddo, ma non nasconde le emozioni sotto la maschera della razionalità. Dice che “l’amministrazione americana vive da tempo sotto la cappa di piombo di una strana inquietudine per l’attività degli Stati-canaglia, i rough-States, e il presidente Bush, con parole ferme e severe, trasmetteva quest’ansia agli alleati e a noi stessi, nelle riunioni del G8 e nel successivo, caloroso incontro di Roma. Sotto l’ottimismo americano, questa straordinaria manifestazione della coscienza civile di quella grande società, fermentava una preoccupazione, evidentemente suffragata dalle istituzioni preposte all’informazione e alla sicurezza. Non è affatto un caso se, a partire dalla campagna elettorale repubblicana per finire con i primi cento giorni della presidenza eletta, l’obiettivo dichiarato è stato lo ‘scudo’, l’approntamento di un sistema di tutela collettiva contro la proliferazione terroristica di armamenti e altri mezzi e piani di offesa. Negli ultimi dieci anni, quelli che ci separano dal crollo del muro di Berlino, tutto è cambiato, e la grande questione globale che abbiamo di fronte sta nel come difendersi in un’epoca in cui l’equilibrio mondiale non è più fondato sul bilanciamento bipolare della guerra fredda; come garantire la sicurezza dell’Occidente, che è poi la premessa della pace e del massimo livello realizzabile di giustizia nel mondo intero”. “Anche i sordi ora devono ascoltare” Berlusconi conosce le resistenze e le inerzie burocratiche frapposte a una piena assunzione di responsabilità in Occidente. Non desidera alimentare alcuna polemica, ma dice con l’aria di chi fa sul serio: “Ora che si è visto quali ferite può aprire nel corpo della grande democrazia americana, e dunque nel cuore del mondo libero, il terrorismo sponsorizzato dagli Stati-canaglia, anche i sordi cominceranno a intendere, anche i ciechi a vedere. Almeno lo spero, e non risparmierò alcuno sforzo, con Renato Ruggiero e Antonio Martino, perché l’Europa faccia suo fino in fondo l’impegno comune a difendere a ogni costo la sicurezza dei cittadini. Questa sicurezza è impossibile in un mondo in cui la pace non sia protetta dall’intelligenza degli uomini e dalla forza dei giusti: questo è il vero problema”. Si coglie nel paese un forte disorientamento. La gente sa che è difficile difendersi dalla combinazione del terrorismo di Stato e del fanatismo fondamentalista, dall’uso infernale del dottrinarismo religioso. Ma che i kamikaze potessero osare fino a quel punto era imprevedibile, era fino a ieri pura fantascienza. “E’ così - ci dice Berlusconi - tuttavia sarebbe assurdo disperare, bisogna sapere che ce la faremo, come ha detto il presidente Ciampi. L’America ieri è sembrata come non mai fragile, vulnerabile, ma chi la conosce bene sa quali siano le risorse civili, di unità e solidarietà politica, che la tengono insieme da oltre due secoli. Sappiamo che alla lunga il coraggio dei giusti, la ricchezza intellettuale e scientifica racchiusa nelle teconologie, e una giusta politica di rigore contro il terrorismo, avrà partita vinta. Voglio che gli italiani questo lo tengano a mente, nel loro intimo”. quotidiano TEL 02/771295.1 - SPED. ABB. POST. - 45% - ART. 2 COMMA 20/b LEGGE 662/96 - FIL. MILANO DIRETTORE GIULIANO FERRARA La Giornata * * * In Italia * * * Nel mondo CIAMPI AGLI STATI UNITI: “L’ITALIA IN LUTTO E’ AL VOSTRO FIANCO”. Il presidente della Repubblica ha invitato la “comunità internazionale a rispondere compatta a questi atti esecrandi”. Silvio Berlusconi a Bush: “Sono sconvolto, dobbiamo lottare contro questi mostruosi criminali, che hanno dimostrato uno spregio vile e brutale della vita umana”. Il Parlamento ha sospeso i lavori, al ministero dell’Interno si è riunito il Comitato nazionale per l’ordine pubblico, mentre la Farnesina ha allertato l’unità di crisi. Ieri è stato convocato il Consiglio dei ministri, oggi il governo riferirà alla Camera. Francesco Rutelli: “L’Ulivo esprime solidarietà e amicizia verso il popolo e la democrazia degli Stati Uniti”. Renato Ruggiero, ministro degli Esteri: “E’ una grande tragedia, una pagina della storia del mondo che cambia”. Il ministro della Difesa, Antonio Martino: “Adotteremo misure per garantire la sicurezza dei cittadini delle sedi diplomatiche e delle infrastrutture militari”. Il vicepremier Gianfranco Fini: “C’è un codice d’allarme intermedio negli obiettivi sensibili che potrebbero essere sottoposti ad attacchi in Italia”. Giorgio La Malfa, segretario del Pri: “Una dichiarazione di guerra”. I Ds hanno annullato il confronto tra i candidati per organizzare un corteo contro il terrorismo. Stato di allerta nelle basi Nato e negli aeroporti: l’Alitalia ha deciso di far rientrare i voli in partenza per gli Usa, mentre quattro aerei sono stati fatti atterrare in Canada. Eurocontrol, la struttura che da Bruxelles coordina il traffico aereo in Europa, ha vietato il decollo di tutti i voli in partenza per gli Stati Uniti. Rafforzate le misure di sicurezza nell’ambasciata americana a Roma e nel consolato a Milano. Giuliano Amato dice: “A tanto non arriverebbe neppure la fantasia del cinema”. ATTACCO TERRORISTICO AGLI USA: DISTRUTTO IL WORLD TRADE CENTER, colpito il Pentagono. La polizia di New York: “Migliaia di morti”. Ieri mattina, alle 9, un Boeing 767 delle American Airlines dirottato a Boston si è schiantato contro una delle Torri Gemelle. Dopo 18 minuti, un secondo aereo, sempre dirottato a Boston, ha centrato l’altra. Un’esplosione ha fatto crollare prima un grattacielo e poi l’altro. A Washington, intanto, un terzo aereo si è schiantato su una pista di atterraggio del Pentagono: distrutto un centro logistico dell’esercito. Più tardi un quarto aereo, partito da Newark e diretto a San Francisco, è precipitato a Pittsburgh, in Pennsylvania. Panico in tutti gli Stati Uniti: evacuata Manhattan, sgomberati la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, tutti i palazzi governativi e decine di grattacieli. Bloccato il traffico aereo e ferroviario. Chiuse le frontiere con Canada e Messico. Ieri sera mancava ancora una stima attendibile sul numero dei morti e dei feriti: nel World Trade Center lavorano più di 50 mila persone, sui primi due aerei dirottati c’erano a bordo 165 passeggeri. Rudolf Giuliani, sindaco di New York: “Il numero delle vittime è enorme”. Migliaia di persone ricoverate negli ospedali di New York. “Manca sangue”, dicono i medici. * * * Unicredit: “No a Commerzbank”. La banca italiana si è ritirata dalle trattative per la fusione: “Investimento troppo rischioso”. Giulio Tremonti, ministro dell’Economia: “Sono contro la Tobin Tax”. * * * Il sindaco di Pozzuoli: “Non siamo pronti al vertice Nato, l’organizzazione è a zero per colpa del governo che ci ha avvisati troppo tardi”. Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli: “Non me la sento di parlare del vertice dopo quello che è successo in Usa”. * * * G8, interrogato il carabiniere che sparò a Carlo Giuliani. “Ho agito per difendere la mia vita e quella del mio commilitone” ha detto Mario Placanica dopo il colloquio con il pm Silvio Franz. Donato Bruno, presidente del comitato d’indagine parlamentare: “Il capo della polizia non ha responsabilità”. * * * Si dimette Lorenzo Pellicioli, presidente del Cda di Seat Pagine Gialle. La7 come la Cnn: diventerà la prima rete italiana interamente dedicata alle notizie. * * * * * * George Bush: “E’ una tragedia nazionale”. Il presidente degli Stati Uniti, ieri mattina in Florida, ha parlato in televisione pochi minuti dopo l’attacco al World Trade Center. Poi ha preso l’Air Force One diretto in Louisiana. Più tardi ha detto: “Prenderemo i responsabili”. Colin Powell, in visita a Lima, è immediatamente ripartito per Washington: “Lo spirito della democrazia non morirà mai, i terroristi non distruggeranno le nostre convinzioni”. Il generale Wesley Clark: “Solo Bin Laden è capace di organizzare un attacco simile”. George Robertson, segretario della Nato: “Serve un fronte mondiale contro il terrorismo”. Vladimir Putin: “Piena solidarietà agli Stati Uniti”. Romano Prodi: “Sono inorridito”. Giovanni Paolo II: “Un attacco inumano”. * * * I talebani: “Osama Bin Laden non c’entra, condanniamo gli attentati”. Lo ha detto l’ambasciatore degli integralisti islamici in Pakistan, Abdul Salam Zaif. Poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle, una televisione di Abu Dhabi ha annunciato una rivendicazione del Fronte democratico per la liberazione della Palestina. “Non è vero, non siamo stati noi”, ha smentito l’organizzazione palestinese. Yasser Arafat: “Sono scioccato, condanno fermamente gli attentati”. La Jihad: “Washington paga il prezzo della sua politica in Medio Oriente”. Migliaia di palestinesi in festa a Ramallah e Gerusalemme est: “A morte gli Stati Uniti”. La Giordania: “Un vile attacco, una tragedia inaudita”. Eli Camon, esperto israeliano di terrorismo: “C’è stata una grande falla nel lavoro dei servizi segreti americani”. * * * Sirchia: “Esami per i medici ogni cinque o dieci anni”. Secondo la proposta del ministro della Salute, “chi non si aggiorna non potrà più lavorare”. Crollano le borse europee. Milano e Parigi hanno perso oltre il 7 per cento, Francoforte più del 6, Londra oltre il 5. Chiusa Wall Street. Su il prezzo del petrolio. La Giornata è realizzata in collaborazione con Chilometri Questo numero è stato chiuso in redazione alle 19,45 Le parole di Barney Con gli occhi sbarrati e pervasi da doloroso stupore di fronte alle immagini del World Trade Center e del Pentagono, non possiamo tuttavia non chiederci, per scorrettezza, cosa ne avrebbe pensato il povero Barney. Bene. Il povero Barney, sarà stato il Mac Callan, avrebbe forse pensato: a quel pecoraio di Bin Laden, in mezzo alle sue montagne, mai e poi mai sarebbe venuto in mente di combinare un simile casino se qualche Totally unnecessary production del cazzo non l’avesse menata e rimenata, una settimana sì e quell’altra pure, sui grattacieli messi a fuoco, frantumati e fatti esplodere da coglioni del genere di Bruce Willis. L’idea gli dev’essere venuta così. Adesso, e senza con ciò voler dare per forza ragione a quelle cassandre di Baget Bozzo e di Guzzanti, una cosa va detta. Che se quelli della Cia acchiappano Bin il pecoraio col suo gruppazzo di amici e li portano una mezz’oretta nella caserma di Bolzaneto, certo che neanche questo andrebbe mai fatto, ma bisognerebbe anche ammettere che un po’ se la sono andata a cercare. S come Sacco: “Ho un sacco da fare”. (p. 260) S come Sempre, come Scherzare: “Sempre a scherzare”. (p. 56) S come Solo: “Solo non è la parola”. (p. 322) S come Smettere: “Se proprio non riesci a smettere vai almeno a fumare”. (p. 174) S come Sempre, come Sono, S come Stato, S come Spaventosa: “ Sono sempre stato una spaventosa testa di cazzo”. (p. 324) S come Set: “Risultato, crisi di pianto e fuga dal set”. (p. 379) S come Sparì: “Un pomeriggio sparì per tre ore”. (p. 168) S come Se, come Settantun: “Se fosse vivo… avrebbe settantun anni”. (p. 134) S come Soldo: “Paga tu il conto, non ho un soldo”. (p. 122) S come Svolgono, come Supposta: “Le interviste si svolgono in una supposta biblioteca”. (p. 303) S come Seduta, come Sfilata: “Si è seduta sul bordo del letto e si è sfilata le mutandine”. (p. 209) S come Solo, come Sbattermi: “Vorresti solo sbattermi fuori a calci”. (p. 85) S come Sera: “Una sera di queste”. (p. 91) MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001 - L.1500 Foggy Bottom Attacco all’America La Jihad dei cieli Sconcerto e prima analisi dell’intelligence americana (e israeliana) sugli attentati Cnn, NY One e Fox news raccontano in diretta tv un giorno sotto assedio Il piano aereo di Bin Laden e le (deboli) smentite dei talebani Come cresce una rete terrorista A Foggy Bottom hanno visto alla Cnn il primo aereo finire contro la prima delle torri gemelle di New York. Poi hanno udito un botto dalle parti del Pentagono: un terzo aereo. Infine un’esplosione sotto il palazzo del Dipartimento di Stato. Morti, feriti, fumo a New York e a Washington. Anche Casa Bianca e Tesoro evacuati. La gente scappava dagli uffici. Qualcuno nella sala operativa nei sotterranei di Foggy Bottom ha detto: “Questa è la Pearl Harbor del 2000”. Il sottosegretario Armitage ha informato nei dettagli il generale Colin Powell, in viaggio in Sud America. La prima accusa, inevitabile, convincente, logica, è stata rivolta dall’intelligence contro Osama Bin Laden e i suoi. Da mesi i servizi segreti sapevano che il superterrorista si riorganizzava, soprattutto in Libano e in Palestina. Ma nessuno alla Cia, alla Dia, al Pentagono immaginava un’azione così criminale e perfetta nella sua tecnica. L’intelligence americana, e occidentale, ha fallito in pieno. Solo il Mossad, nelle settimane scorse, avvertiva della possibile esportazione in Occidente del terrorismo medioorientale. Secondo i calcoli degli esperti di intelligence almeno 200 persone addestrate hanno partecipato all’operazione militare contro gli Stati Uniti. Come sono sfuggiti ai controlli? Questo è l’interrogativo che George W. Bush ha posto a George Tenet della Cia e ai generali del Pentagono. L’America si interroga sulle responsabilità della mancata prevenzione. “Ma come dopo Pearl Harbor l’America si riorganizzerà e vincerà”, dicono i commentatori militari alla tv. In serata il Pentagono ha attivato i piani di intervento contro l’Afghanistan per colpire Bin Laden. Ma chissà quando l’azione sarà decisa. Arrivano le prime dettagliate analisi da Israele. Si accenna al coinvolgimento di una potenza straniera, protettrice del terrorismo islamico, alla complicità di ambasciate a Washington e New York, di kamikaze addestrati alla guida di aerei civili. New York. America under attack, ci mette un po’ anche la Cnn a decidere di piazzare uno dei suoi famosi occhielli, ma come vuoi chiamarlo se non così quel che ti passa davanti agli occhi. L’aereo si butta sul tetto della Torre di nord, sono le otto e quarantadue minuti, sono entrati già quasi tutti negli uffici. Nessuno capisce niente. Alle nove arriva il secondo aereo, e si infila nel mezzo della Torre di sud, come un coltello nella torta. Il fumo comincia ad allargarsi a fungo, erano già partiti i primi ascensori per il piano 107, piattaforma di osservazione, la vista più bella della città. America sotto attacco, nessuno ha più dubbi, quando la Cnn inquadra il Pentagono a Washington, un buco al centro, fumo che esce anche da lì. La confusione sotto le Torri è terribile, soffocano i vigili del fuoco, poi la macchina dei soccorsi parte, ma lentamente. Cinquantamila persone almeno stanno dentro e le vedi da lontano, macchie che sventolano vestiti come richiesta di aiuto. Il giornalista della Cnn riesce a fare una telefonata in uno dei cinquecento uffici, non si capisce il nome, e quello dall’altra parte risponde “stiamo morendo”. Le torri crollano, prima una, mezz’ora dopo l’altra. Si sfarinano, si fumano come una sigaretta, non sembra terribile, quando fanno esplodere vecchi edifici fa lo stesso effetto. Non ci sono più, le due torri che si vedevano quasi da qualunque parte di Manhattan, di Brooklyn, del New Jersey, belle e sfrontate, le più alte anche quando furono superate dal grattacielo Sears di Chicago. C’è una libreria Rizzoli, le palme nella caffetteria, il parcheggio e la fermata del metrò che furono colpiti nell’altro attentato, quello del ’93. Se sei in grana vai al Windows on the world, finestre sul mondo, ristorante, e soprattutto buon cocktail bar, sempre al piano 107. Vengono i parenti, imprechi un po’, poi ce li porti. Non ce li porti più. George Bush era a parlare in una scuola in Florida, dice due parole, sembra un attacco terroristico, risponderemo, e parte. Tutti dicono che va a New York, e la cronista di Cnn ogni tanto dice che dovrebbe atterrare da un momento all’altro, ma non è così. Chiudono gli aeroporti, i ponti e i tunnel che portano in città, staccano le comunicazioni telefoniche con l’estero, il Bellevue Hospital, poco lontano, diventa il quartier generale di soccorso. Il dottor Steven Stern sta invece al St. Vincent Hospital nel Village, dice che “stanno arrivando centinaia di persone bruciate dalla testa ai piedi”. Un altro testimone, cronista della Reuter, spiega che tutta lower Manhattan è ricoperta di polvere fumosa, due centimetri almeno. Non si riesce a capire quanta gente riesce a uscire viva e con i suoi piedi, quanta esce in barella, a quante persone i soccorsi sono riusciti ad arrivare. Poche, dice l’inviata di NY One, la televisione locale, non possono entrare, dopo il crollo il pericolo vero, per i vivi, è diventata la fuga di gas. Si sa che un aereo è un 767 delle American Airlines, in viaggio da Boston a Los Angeles, l’altro un United, era partito da Washington e doveva andare a Los Angeles, sono le due compagnie più importanti del paese. Un altro American Airlines è caduto sul Pentagono, cominciano ad arrivare notizie confuse di altri aerei scomparsi dal controllo delle città di partenza e arrivo. Cinque, sei, uno di sicuro si schianta in un bosco vicino a Pittsburgh, andava da Newark a San Francisco, tutti dicono che è stato il pilota a ribellarsi, ai sequestratori, che è riuscito a schiantarsi lì invece che su qualche obiettivo. Altri dicono che sono stati caccia ad abbatterlo. Milano. Uno degli innumerevoli piani che i Servizi segreti di mezzo mondo hanno negli ultimi mesi attribuito a Osama bin Laden, lo sceicco terrorista che opera nascosto nell’Afghanistan dei talebani, prevedeva il dirottamento di sette aerei passeggeri da far precipitare come bombe devastanti sulle città americane. Ieri quella che a molti poteva sembrare solo una leggenda nera, una folle teoria, è diventata realtà con la spaventosa offensiva terroristica lanciata contro gli Stati Uniti. Il primo obiettivo colpito dai kamikaze islamici (qualunque sia la loro sigla) sono state le Torri Gemelle di New York. Un gesto di alto significato simbolico, tanto più che nel 1993 i due grattacieli erano stati colpiti da un altro grave attentato, che segnò l’inizio della nuova stagione terroristica islamica dopo la fine della Guerra fredda. La cellula di fanatici responsabile dell’attentato di allora fu presto scoperta. Tra i condannati all’ergastolo c’è lo sceicco cieco Omar Abdel Rahman. Da tempo residente a New York, Rahman era il faro spirituale della Jamaa Islamjia, l’organizzazione terroristica egiziana che insidia il regime del presidente Hosni Mubarak. Nel 1995 venne poi arrestato in Pakistan il vero capo operativo dell’attentato al World Trade Center, Ramzi Yousef, condannato a 240 anni di carcere. Yousef, di origini palestinesi, si è fatto le ossa in Afghanistan durante la lotta dei mujaheddin contro l’invasore sovietico negli anni Ottanta. In quegli anni i volontari della Jihad erano coordinati da Osama bin Laden, allora un semisconosciuto saudita, devoto ad Allah e ricco di famiglia. Fu proprio Bin Laden a colpire i primi obiettivi statunitensi nei paesi del Golfo durante l’intervento Onu in Somalia. Non è chiaro se la sua organizzazione Al Qaida (la rete) fosOSAMA BIN LADEN se già coinvolta nell’attacco alle Torri Gemelle del ’93. Ma, intervistato, Bin Laden ha sempre difeso Yousef, considerandolo un mujahed, un combattente per la libertà. L’unica cosa certa è che Bin Laden in quegli anni aveva stretti legami con la galassia del fondamentalismo che cova nelle università del Cairo. Il suo braccio destro, con cui ha fondato il Fronte islamico contro gli ebrei e i crociati (i cristiani), si chiama Ayman Al Zawahiri ed è stato condannato a morte nel suo paese in quanto esponente terrorista. Dall’Afghanistan all’Egitto. Il salto di qualità Bin Laden lo compie con gli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nell’estate del 1998. Quattro islamici, accusati di far parte di al Qaida e di aver partecipato agli attentati, verranno in seguito arrestati in diversi paesi, processati e condannati recentemente all’ergastolo. Al Pentagono, ieri “colpito”, da giorni studiano “la guerra selettiva” d’Israele contro i terroristi di al-Fatha, Fplp, Jihad e Hamas. Più di 30 terroristi sono stati uccisi dalle forze di difesa israeliane. Ma la lista compilata dallo Shin Bet è lunga. L’elenco è stato perfezionato con la collaborazione degli “informatori palestinesi”. A Gaza, tra quelli di Hamas, è sotto tiro Omar Salah Shkhadeh, residente a Bet Hanon responsabile delle piccole cellule terroristiche. C’è poi Yusef Abuttin, ingegnere chimico e fabbricatore di bombe, Adnan Abu Roul, specialista del tritolo, e Saad Obeid, comandante dell’ala militare di Hamas. Nella West Bank c’è Ayman Khalawa, responsabile di Hamas a Nablus e uomo di contatto con i nuclei terroristi araboisraeliani, Qays Adwan, capo dei terroristi di Tul Karem e Qalqilya, Omar Sada, Khald Tagesh, Naji Abayat e Hisham Sharabati operativi a Betlemme. Gli uomini più importanti della Jihad individuati sono Thabet Mardawi, Mohammad Twalbah nella West Bank, e Mohammad al-Hindi, Muhammad Zatinci e Hishan Abu Dib a Gaza. L’elenco dei terroristi qualche settimana fa è stato presentato a Arafat perché li arrestasse. Ma il leader palestinese li protegge nei bunker di Gaza a di Ramallah e li attiva quando gli fa comodo. Arrivano a Foggy Bottom conferme continue sulla “carta siriana” di Yasser Arafat. In un meeting con autorevoli membri dell’Autorità palestinese, Arafat, dopo l’incontro del 4 settembre scorso con Hosni Mubarak al Cairo, ha confidato che la “carta siriana” aveva avuto effetto sull’Egitto. Gli egiziani sono preoccupati per le mosse dell’Anp verso Damasco e hanno promesso più “sostegno” alla causa palestinese. L’ atteggiamento di Mubarak, ha convinto Arafat dell’utilità di appoggiarsi alla Siria per impaurire i paesi arabi moderati. Il viaggio odierno di Arafat a Damasco è stato preparato, dicono a Foggy Bottom, con cura. Due senior official dell’Anp sono andati in date diverse nella capitale siriana. Prima Abu Mazen, dal 6 all’8 agosto, poi Nabil Sha’hjh, a Damasco dal 10 settembre. Abu Mazen ha incontrato Liwa Asef Shawkat, cognato e confidente di Bashar Assad e capo della Sicurezza, il vice presidente Khaddam e il ministro degli Esteri Farouk al-Shara. Il presidente siriano è soddisfatto dei messaggi di Arafat. Nelle discussioni in Siria, secondo l’agenda di cui Foggy Bottom è venuto a conoscenza, Arafat si accorderà per continuare l’Intifada e il terrore. Damasco s’impegnerà a sostenere contro Israele l’escalation sul fronte nord appoggiando gli hezbollah se si accentuasse la pressione militare sui palestinesi. I siriani daranno il ruolo di ambasciata alla rappresentanza dell’Anp a Damasco. Il problema per Arafat sarà tornare a casa da Damasco. Gli israeliani potrebbero ritardargli parecchio il permesso di transito. Rudy Giuliani fa il bilancio dei morti Arriva Rudy Giuliani, sindaco durissimo con il terrorismo, uno che Arafat, invitato per l’Assemblea dell’Onu, non lo aveva fatto sedere a teatro, perché il sindaco di New York non invita un terrorista. Lo inquadrano, dice che il bilancio dei morti è enorme, tremendo, che bisogna affrettare l’opera di soccorso. Ci lavorano adesso diecimila uomini. Dagli ospedali arriva la richiesta di sangue, tutte le emittenti lasciano l’appello sullo schermo, che scorra. Da NY One chiedono alla popolazione di star calma, non c’è pericolo, inutile fuggire da una zona all’altra della città, complicando trasporti e soccorsi. Le Nazioni Unite vengono evacuate, c’è un minuto di paura per la scuola che sta lì accanto. Ma i bambini e i ragazzi sono tutti già fuori. La scena è tutta su New York, un aereo che si avvicinava alla residenza presidenziale di Camp David sarebbe stato abbattuto. Ci sono morti nell’edificio del Pentagono, non si sa quanti. Per New York, Fox news azzarda il numero: diecimila. Ma il bilancio è parziale, potrebbe essere approssimato per difetto. La Casa Bianca e tutti gli edifici federali di Washington sono stati evacuati, anche a Boston, Chicago, Los Angeles chiudono tutto. Si capisce che Bush non torna nella capitale, è scattato l’allarme rosso, lo portano alla fine nella base aerea militare della Louisiana. Parla all’una del pomeriggio, sono passate già quattro ore, parla pochissimo, e che deve dire per una cosa che non era mai successa, che nessuno pensava potesse succedere. E’ stata attaccata la libertà, dice, la libertà verrà protetta. Chiusi tutti gli spazi aerei, chiusa la frontiera con il Canada e con il Messico. Altro che cinema, inferni di cristallo, attacchi da Marte, abbiamo visto il nostro inferno. Le Twin Towers e la svolta degli anni Novanta Negli anni Novanta l’al Qaida ha stretto legami con le frange terroristiche islamiche di mezzo mondo dall’Algeria alle Filippine, passando per il Kashmir, il Libano e la Palestina. Con l’avvento al potere a Kabul dei fondamentalisti talebani le reclute di queste formazioni hanno trovato ospitalità e addestramento in Afghanistan. Oggi sono almeno 12 mila i volontari musulmani provenienti da varie parti del mondo che combattono al fianco dei talebani. Di questi, almeno duemila sono arabi e direttamente dipendenti da Bin Laden. Un serbatoio eccezionale per qualsiasi operazione terroristica, se si tiene conto che Bin Laden è sempre stato accusato di amare i piani devastanti e straordinari. Una cellula di algerini collegata alla sua organizzazione è stata scoperta in Germania e Inghilterra, poco prima di un probabile attacco al Parlamento europeo a Strasburgo e alla metropolitana di Londra. Lo scorso anno, all’inizio dell’Intifada, un’altra cellula di Bin Laden era riuscita quasi a colare a picco una nave da guerra americana nel golfo di Aden. Da valutare è anche l’infuenza crescente di Bin Laden nel conflitto israelo-palestinese. Nei campi profughi in Libano comandano gli ex colonnelli di Arafat oramai fuori controllo e sospettati di aver stretto un patto d’acciaio con lo sceicco saudita. Il quale preferisce stringere alleanze con i gruppi palestinesi meno importanti e quindi maggiormente controllabili. Anche se non si escludono suoi contatti con Hamas, la Jihad islamica e i Fronti di liberazione, l’ala sinistra del movimento palestinese, ultimamente molto attivi militarmente contro gli israeliani. Il cerchio si chiude con lo sceicco cieco, condannato all’ergastolo negli Usa. I suoi familiari hanno scritto ai talebani suggerendo uno scambio fra l’anziano leader spirituale e gli otto occidentali, fra cui due americane, arrestati a Kabul per proselitismo. Il ministro degli Esteri afghano Wakil Ahmed Muttawakil non ha escluso che se ne possa parlare. Ma solo alla fine del processo contro gli infedeli. Ieri i talebani, per bocca dell’ambasciatore in Pakistan, hanno condannato gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti, mentre un esponente di Kabul ha dichiarato che “Bin Laden non può essere sospettato”, perché “non avrebbe le capacità di realizzare una simile azione”. Prese di distanza che, al momento, appaiono una mossa tattica in attesa della reazione americana. ANNO VI NUMERO 251 - PAG 2 Minima immoralia Dopo ottant’anni quella del Pci-Pds-Ds è ancora una questione sardo-piemontese Agira. Due piemontesi e un sardo. Come al solito. Fatta eccezione per Massimo D’Alema che comunque ha sangue genovese, fatta eccezione per il borghese romano Walter Veltroni che però è di suo un’eccezione, ancora una volta sardo-piemontese è il destino della segreteria di quello che fu il Pci-Pds o Ds che dir si voglia. Il malinconico Piero Fassino, il pulcista Giovanni Berlinguer e il fichissimo Enrico Morando, se ne stanno ad attendere gli aùguri e gli auspici per rendere onore alla conquista della poltrona guida del post comunismo. Due piemontesi e un sardo appunto. Come nelle migliori tradizioni: dal torinese Palmiro Togliatti al sardo Antonio Gramsci, all’altro sardo Enrico Berlinguer, al ligure Alessandro Natta, giù per li rami per arrivare alla peggiore delle tradizioni con il il solito Achille Occhetto che è sì piemontese di risulta e quindi un non classificato geografico. E di non classificazione geografica dovrebbe parlarsi nel caso di un’identità quale quella sardo-piemontese se si pensa che all’origine di tutto c’è l’usufrutto, quello che i piemontesi hanno avuto dalle potenze ostili all’Italia, e cioè Francia e Inghilterra, per fottere il Mediterraneo cristiano e farne del mare nostro (“dove Roma già passò”); un corridoio di incanalamento per l’Oceano pacifico frammassone e capitalista. I piemontesi vennero scelti apposta dai banchieri perché i più innocui tra gli abitanti della Penisola. Espressione geografica dei poteri forti dunque il marchio sardo-piemontese, punto di non ritorno della parentesi anfibia che è il potere, altrimenti non avrebbe spiegazione questa insana passione del Pci-Pds-Ds di affidarsi a questa scheggia dell’identità nazionale se poi i soldi se li deve far dare dagli emiliani, i miglioristi migliori allevarseli tra Sicilia e Napoli (con tutti i Mimì Metalllurgici) e i voti, invece, i voti veri, procurarseli tra i pugliesi di Gallipoli. Eppure sempre sardo-piemontesi. Dalla caserma alla fabbrica passando per i murales. Dimenticando l’irredenta Nizza. Con Fassino che ha studiato dai gesuiti per ricavarne – a proposito del dibattito sulla scuola privata – un pubblico elogio di Umberto Eco. Con Berlinguer, novello garibaldino sbarcato a Marsala e perciò stimato da Andrea Camilleri. Con Morando, di gran lunga il più chic dei tre e perciò stimato (e indicato) dalle uniche due vere primedonne: Giulio Andreotti e Carmen Llera Moravia. “Chi di voi volantinava davanti al Lingotto?” Soliti sardo-piemontesi allora, però antipopolo. Così come nella definizione che la storiografia clandestina delle Due Sicilie ha dato e che non possiamo non sottoscrivere se si pensa che il liberal-azionismo, la cosidetta chiesa dell’etica, non ha prodotto altro che una variante dei soviet in versione nuraghi spazzolati di gianduia per costringere gli italiani alle vongole al complesso, quello di sentirsi ultimi di fronte a cotanta speme. Nuraghi e gianduia per ingabbiare il proletariato al mito operaista della Torino progressiva, perché poi la favola del coriaceo sardo si trasfigura sempre nella necessità di farsi continentale, con lo stesso Antonio Gramsci che l’Ordino Nuovo lo faceva sotto la Mole non certo in groppa all’asino. Ecco, l’isola, se così si può dire della Sardegna, l’isola dove ognuno che deve diventare se stesso deve farsi altro. Granatieri al Quirinale, in orbace per il Duce, continentali dappertutto, oppure romani, come nel caso di Francesco Cossiga che non è del Pci-Pds-Ds però è intimo, informato dei fatti, se così si può dire. L’isola dunque – nota per l’immusonimento quanto Run, nell’arcipelago delle Celebes, è nota al mondo per via della noce moscata – nella storia del mare nostro non ha meritato altra attenzione che quella del turismo ideologico: da Gramsci a Flavio Briatore. Nessuno va in Sardegna per i sardi, ma per la natura, per le discoteche, per le ville del Cav. Nessuno pensa di fare teoria della sarditudine eccetto per i nativi costretti sempre al passo ulteriore: andare in continente. Ascari della cultura dunque, ascari della cultura piemontese poi per risultare – sgrossati dall’ottimo liceo classico di Togliatti – più realisti del Re o meglio, più operaisti del Re. Sempre un cincischiare con i murales, dalla caserma alla fabbrica, per attendere infine agli obblighi della sovranità savoiarda. Ma infine non è neppure vero che fanno tutto loro, i cosidetti sardo-piemontesi. Quando nel gennaio del 2000, i Pci-Pds-Ds, fecero il loro congresso a Torino, al Lingotto, e dunque in casa Fiat, l’intero loro stato maggiore venne convocato da Gianni Agnelli per aver risposta a un’antica domanda: “Chi di voi veniva a volantinare davanti ai miei cancelli?”. Si sottindendeva “chi di voi veniva a vompeve i coglioni”. Cadde il silenzio tra i D’Alema, i Mussi, i Veltroni e i Fassino, all’imbarazzo fece seguito tutto un guardarsi negli occhi degli altri fino a quando una voce strozzata disse: “Era Giuliano Ferrara, quello”. P. But. OGGI – Nord: sereno o poco nuvoloso, con parziali annuvolamenti sul Triveneto. Centro e sud: sereno o poco nuvoloso con temporanei addensamenti sul Lazio e sulle regioni tirreniche meridionali. DOMANI – Nord: poco nuvoloso con tendenza a intensificazione della nuvolosità a iniziare dalle Alpi e dal settore occidentale, deboli piogge in serata. Centro: poco nuvoloso con tendenza ad aumento della nuvolosità. Sud: poco nuvoloso. IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001 NÉ COI TALEBANI NÉ CON GLI AMERIKANI Fra i no global c’è chi dice: “Chi semina vento, raccoglie tempesta” Roma. “L’attacco al cuore dell’Impero” non è più uno slogan, le Torri gemelle, simbolo di quell’Impero, sono solo ricordo di skyline. Chissà che pensano i “guerrieri sognatori” antiglobal, ora che devono riflettere su una realtà che batte di gran lunga le parole scritte sugli striscioni antiG8. Una realtà non voluta, perché, ripetono tutti, la loro guerra all’America global è sempre stata assolutamente non violenta. “Sembra un videogioco, è qualcosa di incredibile, uno shock”, commenta Matteo Jade delle Tute Bianche genovesi. “Questo attacco agli Stati Uniti, materiale e non simbolico, al contrario di quello che il movimento anti-global, che è pacifista nei riferimenti ideologici e nei metodi, ha mosso al G8, preoccupa adesso, mentre guardiamo queste immagini in televisione, e inquieta per le conseguenze che produrrà. Se infatti, come è probabile, l’attacco viene dal mondo arabo, i palestinesi rischiano di venire cancellati dalla cartina geografica. Forse adesso gli Stati Uniti capiranno che non sono così invulnerabili. Non possono pensare di esportare le dinamiche di guerra senza conseguenze, perché alla fine chi semina vento raccoglie tempesta. Nei paesi arabi predomina una sensazione di impotenza, e questo atto, non condivisibile, certo, sempre se avrà conferma l’ipotesi della matrice araba, rappresenta la fine della mediazione. E’ il colpo di coda della logica islamica che sceglie la politica dei kamikaze, il risultato della disperazione di chi non ha prospettive di pace”. “Un errore strategico” Il deputato verde Paolo Cento, di fronte all’apocalisse americana si dichiara “sgomento” e lancia un appello ai governi occidentali: “Bisogna mantenere un presidio democratico forte. Questa è una guerra non convenzionale che espropria ogni popolo della possibilità di dialogo. Questo attacco non fa fare passi avanti alla causa palestinese, ammesso, e io spero di no, che dietro ci siano i palestinesi. E’ un errore strategico, esplode una crisi già latente, si rischia la militarizzazione del pianeta. L’attacco al cuore dell’impero americano fa sì che gli Stati Uniti mostrino la loro vulnerabilità, ma non li fa certo andare definitivamente in crisi. Nessuno chiami in causa la lotta tra global e antiglobal. Il movimento antiglobal deve sottolineare la sua tota- IL RIEMPITIVO vano ridicoli diventano plausibili. Ed è strano che si sia pensato di colpire gli Stati Uniti e non, due mesi prima, Genova, dove c’erano tutti i Grandi. Questo atto tragicamente simbolico, poi, pone il problema del sottile equilibrio tra sofferenza e disagio di un popolo, da una parte, e consenso ai potenti, dall’altra. Finché i potenti mantengono un certo grado di consenso, un attentato è un boomerang per chi lo progetta. Ora i potenti devono rendersi conto che non possono più fare a meno del consenso delle popolazioni dei paesi in via di svi- AGENZIA CONFINE. Maurizio Viroli, questa specie di Riccardo Cocciante della politologia, con inchiostro intinto nell’olio di ricino, ha scritto ieri un fondino sulla Stampa a proposito del confine tra fascismo e antifascismo e su ciò che separa chi “crede nella uguale dignità di ogni essere umano e nei principi della democrazia costituzionale, e chi invece nelle razze superiori, nei popoli eletti e nei duci infallibili guidati dalla provvidenza”. A parte il fatto che Duce e Provvidenza vanno scritti in maiusculo, riguardo alle razze vorremmo ricordare a cotanto moralista che la sinistra non ha fatto altro che ammannire ai popoli non eletti in presentabilità sociale, ben altre superiorità, quella delle terrazze. le distanza culturale e politica da questo tipo di atti”. Altro deputato, Franco Giordano, capogruppo di Rifondazione comunista, trova impressionante “vedere la più grande potenza del mondo inerme. L’importante, ora, è escludere ogni rapporto con la causa palestinese e, di conseguenza, evitare che siano i palestinesi a subire ritorsioni. Questo non impedisce una netta condanna degli attentatori, e, anzi, sarebbe il caso di domandarsi chi possa essere in grado di dotarsi di mezzi come quelli che hanno permesso questo massacro”. Carlo Schenone, pacifista, uno dei coordinatori della Rete contro G8, ha due osservazioni da fare: “Con il senno di poi, i sistemi antimissile che per Genova sembra- luppo”. Daniele Farina, uno dei leader del centro sociale Leoncavallo, e consigliere comunale a Milano, insiste su questo punto: “A caldo è un fatto che è difficile definire con degli aggettivi. Sono momenti spaventosi durante i quali ci si rende conto che i problemi relativi a un governo mondiale si pongono con una forza tremenda e imprevedibile. Questi sono atti di guerra, il termine ‘terrorismo’ mi sembra oggi assolutamente insufficiente. I nostri gruppi, anche a Genova, hanno sottolineato e dimostrato che questa forma di governo globale è contestata da molti, che questo governo globale è incapace di affrontare i problemi. Ora c’è da temere una escalation di cui è diffi- di Pietrangelo Buttafuoco cile prevedere gli sviluppi. Noi siamo pacifisti e ci auguriamo che questo non accada. ma i fatti di oggi avranno ripercussioni anche sul summit della Nato, quello del 26 e 27 settembre”. Sergio Boccadutri, dei Giovani comunisti, come tutti è scosso: “Sto guardando New York via Internet, è spaventoso, è inaccettabile. Ora dare giudizi che non siano scontati è impossibile. So soltanto due cose. La prima è che c’è un’impressionante quantità di vittime innocenti, e stragi di queste proporzioni sono, ripeto, inaccettabili quale che sia la rivendicazione politica. La seconda è che gli obbiettivi sono stati altamente simbolici. Questo è indubbio”. La Pearl Harbor del terzo millennio “Questa è la Pearl Harbor del terzo millenio”, dice Beppe Caccia, uno degli ideologi del movimento delle tute bianche. E si augura che “alla nuova Pearl Harbor non succeda una nuova guerra, che stavolta sarebbe una guerra atomica. Vedere Manhattan attaccata e distrutta come nei film, è come vedere l’incubo del sogno americano. Certo, qui si è di fronte a un nemico invisibile, impalpabile e per l’America prendere contromisure o rispondere in qualsiasi modo sarà difficile. Quello che impressiona è la preparazione sofisticata e dispendiosa dell’attacco: siamo di fronte a gruppi ricchissimi, dotati di persone preparate, di coperture altissime. Insomma, questa non è la nuova intifada palestinese, è molto di più. L’ultima cosa che mi sento di dire è che si aprono scenari nuovi e io non vorrei che in questi scenari noi ci ritrovassimo di fronte all’alternativa fra morire americani e morire talebani”. Infine Piero Bernocchi, leader dei Cobas, che chiede una dispensa: “Preferisco non commentare, per l’evidente sproporzione tra i fatti e qualsiasi mia opinione”. IL MITO DEL BLACKOUT, DAGLI ANNI SETT ANT A A OGGI Il sogno chirurgico di ogni “combattente”, colpire il cuore dell’Impero olpire il cuore dell’Impero per dimostrarne la vulnerabilità, paralizzarne C il sistema nervoso centrale e al tempo stesso fare di un gesto, di un atto il segno apocalittico che possa parlare alla terra intera: è questo l’estremo approdo della logica terroristica, il sogno chirurgico dei “combattenti” di ogni tempo e di ogni bandiera. Cambiano gli attori, cambia di volta in volta la coppia amico/nemico e il contesto internazionale in cui lo scontro si svolge ma la sostanza è la stessa: il terrore inteso come dissuasione del debole al forte, del piccolo al grande, dell’impotente al potente. I mandanti di ieri hanno di che essere soddisfatti, tutti i record in materia sono stati battuti. Il tempo e il lutto faranno dimenticare le migliaia di vittime: resteranno invece affidate all’eternità le immagini di grattacieli affastellati come castelli di carta, del Pentagono, uno degli edifici più sicuri al mondo, lambito dalle fiamme, di Wall Street chiusa e paralizzata, conferma indiretta che il sistema nervoso centrale esiste veramente. E più di tutte parla l’immagine dell’Air Force One, simbolo e vettore dell’uomo più potente del- la superpotenza, che gira su se stesso, costretto per ore a non atterrare perché il suolo americano, nella sua storia mai violato da potenza straniera, non è considerato sicuro. E’ un remake della “Guerra dei mondi nell’era digitale”, un “Independence Day” in cui la realtà ha superato ogni possibile effetto speciale. E come un inimmaginabile, spettrale effetto speciale appare anche l’ebbra felicità con cui dal Medio oriente all’Afghanistan si è applaudito al satana americano ferito e umiliato. L’album di famiglia di questi terroristi non ha nulla a che vedere con il gesto isolato e “morale” del regicidio di stampo anarchico. Né con lo slogan pur sempre politico – “colpirne uno per educarne cento”– coniato da Lenin dopo il fallimento delle giornate di Mosca e messo in pratica per allentare, erodere, a partire dalla periferia, le maglie del potere assoluto zarista. Qui vige piuttosto una filosofia opposta: colpirne cento, mille, dieci mila per educarne uno. Prendere cioè un’anonima folla, un intero popolo come bersaglio e una pubblica opinione in ostaggio per piegare, inflettere una posizione politica. Nelle intenzioni dei mandanti non c’era certo l’eliminazione fisica di George W. Bush o dei massimi responsabili dell’amministrazione. Una logica quindi profondamente diversa da quella che guidò gli irlandesi dell’Ira nell’attentato riuscito contro Lord Mountbatten o in quello mancato contro l’allora primo ministro Margaret Thatcher; da quella dell’operazione Ogro dell’Eta contro Carrero Blanco, erede del generalissimo Franco, da quella stessa perseguita dalle Brigate rosse con il rapimento e l’assassinio del presidente democristiano Aldo Moro. In tutti questi casi i terroristi volevano creare nel cuore del sistema di potere un vuoto di cui credevano che sarebbe poi stato incolmabile. In tutti questi casi i fatti si sono incaricati di smentire i presupposti per così dire teorici: non solo i sistemi complessi non hanno cuore ma hanno anche una capacità endogena di ricostruire rapidamente i tessuti strappati e darsi un nuovo baricentro. In Gran Bretagna, Spagna o Italia chi credeva di mettere a nudo il Re uccidendo il Re ha dovuto cambiare rotta o rassegnarsi a uscire di scena. Questo terrorismo invece ha dalla sua la forza terribile di potersi esimere da ogni bilancio a posteriori: non c’è per così dire un’analisi dei costi e dei benefici politici dell’azione intrapresa. Se così fosse, l’estremismo e il terrorismo direttamente o indirettamente ispirato dal fondamentalismo islamico sarebbe finito da tempo, per esaurimento. La litania degli attentati spettacolari contro le sedi delle potenze occidentali in Medio Oriente è tanto lunga quanto ripetitiva. E politicamente irrilevante. Poiché nessuno può razionalmente sostenere che in quella regione tormentata abbia sortito un qualche effetto, altro dal perpetuare le condizioni materiali della propria riproduzione. L’uso massiccio di kamikaze, sconosciuto e condannato anche dai terrorismi d’origine europea, è la prova ultima di un fenomeno che agisce interamente sul terreno simbolico, sfuggendo a ogni approccio della politica come razionalità. Se questa è la forza della jiyad e dei vari Osama Bin Laden, è anche il segno del loro limite. Attacchi come questi al massimo dimostrano che neanche il paese più potente del mondo è al riparo dalla catastrofe, che non c’è scudo stellare contro il grumo della follia. Ma questo lo si sapeva. IL SIMBOLO DEL POTERE ECONOMICO Storia di due torri, emulate, superate e distrutte come a Babele N on erano il grattacielo più alto del mondo, le Torri Gemelle del World Trade Center di New York. Misurate al livello delle antenne, arrivavano a 535 metri, contro i 540 della Torre della televisione di Mosca. All’altezza del tetto, i loro 110 piani si spingevano a 411 metri, contro i 441 delle Sears Towers di Chicago, detentrici anche del record per il più alto piano abitato (436 metri). E per quanto riguarda infine il complesso della struttura architettonica, il primato tolto nel 1971 dalle Twin Towers allo storico Empire State Building (381 metri + 67 di antenna televisiva) non era duranto che fino al 1998, con l’inaugurazione delle altre Twin Towers di Kuala Lumpur in Malaysia: 452 metri, di cui 34 di guglia decorativa, su progetto dell’argentino Cesar Pelli. Eppure, erano diventate lo stesso un simbolo. Non per gli americani, il cui cuore in fondo continuava a battere per il vecchio Empire. L’Empire, nell’immaginario collettivo, aveva permesso a New York di fare sua agli occhi del mondo questa simbologia di progresso che in effetti era stata inventata a Chicago. La storia dell’architettura ricorda che risale al 1883 la costruzione della torre della Chicago Home Insurance, il primo grattacielo della storia, poi demolito nel 1927. Aggiunge che era stata l’invenzione dell’ascensore, nel 1852, a renderne economica la gestione. E ci spiega che fu proprio una “Scuola di Chicago” architettonica, da non confondere con l’omonima scuola economica, a inventare il metodo per “sfidare il cielo”. Oltre i trenta piani, infatti, l’abituale struttura in cemento armato alla base dell’edilizia contemporanea diventa troppo pesante, rischiando di compromettere in modo imprevedibile sia le falde acquifere, sia le strutture sotterranee realizzate dall’uomo: ferrovie metropolitane, fogne, cunicoli per la distribuzione del gas e dell’energia elettrica. La pensata dei Chicago boys, allora, fu quella di realizzare l’intera intelaiatura in ferro, collocando l’una sull’altra le putrelle con gru e paranchi, e poi imbullonandole per fissarle a “castello”, secondo lo schema dell’apertura di un cannocchiale. Le stesse putrelle hanno poi sezioni a doppia T, cui le pareti prefabbricate andranno poi unite con piastre imbullonate o saldate. E’ una soluzione che, fino ai 500 metri, assi- cura una solidità notevole. Nel 1945, ad esempio, un bombardiere B-25 che aveva perso il controllo per colpa della nebbia era andato a schiantarsi sul 79° piano dell’Empire, uccidendo 7 persone. Ma la struttura aveva retto, consolidando la fama del palazzo come “gigante indistruttibile”. Né crolli di nessun altro tipo si erano mai verificati nel corso di tutti gli altri incidenti che nel tempo avevano funestato i giganti edilizi del XX secolo: dall’altro terribile attentato terrorista di integralisti islamici che il 26 febbraio 1993 aveva colpito le stesse Twin Towers di New York, provocando 6 morti; all’incendio della PICCOLA POSTA sfida con cui il magnate Walter Chrysler volle assumersi il ruolo di gettare il guanto di sfida della Grande Mela all’altra metropoli che si ostinava a voler mantenere i primati, nel tipo di edilizia che aveva inventato. Ma sfida chiama sfida, e l’Empire fu la risposta immediata della General Motors e del suo creatore, John Jacob Raskob, al rivale: progettato e costruito in appena 12 mesi tra l’ottobre del 1929 e l’ottobre del 1930, e inaugurato il primo maggio 1931, malgrado la sopravvenuta grande depressione, che costrinse la gestione dell’Empire a trasformare subito il palazzo in un’attrazione turistica con tanto di bigliet- Finita la creazione, il buon Dio si mise le mani in tasca e trovò un fondo di polvere e sabbia: tirò fuori le mani e si strofinò i polpastrelli, facendo cadere una pioggerella di granelli. Così si formò la Norvegia e la sua miriade di isole, il paese in cui la promessa di mari e monti è adempiuta. I norvegesi lo sanno e ne sono gelosi. Non si sognano nemmeno di entrare nell’Unione europea. Gli dispiace solo per l’alcool: con l’Europa il Mo- nopolio dei Vini e il semiproibizionismo cadrebbero. Gli dispiace parecchio, se è per questo. In cambio, hanno il petrolio. I norvegesi che pensano che l’acquavite sia un dono di Dio sono senz’altro più numerosi di quelli che pensano che il petrolio sia un dono di Dio. Ma il proibizionismo sul petrolio non viene in mente a nessuno. Ora il centrodestra ha quasi vinto le elezioni in Norvegia. Il fisco laburista sembra troppo esoso, e gli immigrati non sono più visti così di buon occhio. Il buon Dio è in pensiero per i suoi norvegesi. Nothwest Tower di Londra del gennaio 1996; a quello che nel novembre dello stesso anno provocò 40 morti e 81 feriti al grattacielo della Nathan Road di Hong Kong; agli altri roghi di Bagkok e Giacarta del 1997, o della Torre Ostankino di Mosca del 27 agosto 2000. Eventi che vanno confrontati col modo in cui le Twin Towers sono state non solo colpite e distrutte, ma addirittura fatte implodere su se stesse come da manuale di un’agenzia di demolizioni. Ma è una soluzione, quella dell’intelaiatura in ferro e della struttura a cannocchiale, che, se è solida, è però nel contempo costosissima. Economicamente giustificabile, dunque, solo in agglomerati urbani dove il costo del terreno sia molto elevato. Oppure, dove ci sia chi per ragioni di prestigio sia disposto a non badare a spese. E a New York, appunto, queste condizioni si verificavano tutte e due. Nel 1930 il Chrysler Building di New York, coi suoi 319,43 metri, fu appunto il guanto di to d’ingresso per far quadrare i conti, visto che gran parte dei locali erano rimasti sfitti. Nel 1947, però, nella sfida fratricida tra i magnati automobilstici new-yorkesi si reinserì Chicago, con le Sears Towers. Nel 1950 l’Empire, spravvissuto al disastro aereo, si riprese il suo primato in modo un po’ avventuroso, aggiungendosi l’antenna tv. Ma, appunto, si trattava di un colosso ormai sempre più caratterizzato in senso turistico. Una Torre Eiffel un po’ più voluminosa, o una Statua della Libertà abitata. Infine, nel 1971 erano arrivate le Twin Towers. Non solo un nuovo record di altezza, sia pure infine superato, non solo una nuova sfida architettonica col sistema delle due torri allineate, ma anche un gigante “funzionale”. Non solo di rappresentanza, ma anche collegato, attraverso il Centro commerciale mondiale, ai gangli più vitali del sistema economico Usa. Chissà: probabilmente è stato proprio per questo collegamento simbolico con il di Adriano Sofri cuore stesso della potenza capitalista dell’Occidente che le Twin Towers sono diventate un bersaglio del risentimento islamico. Per un bizzarro destino, d’altronde, come il passaggio dal progetto alla realizzazione dell’Empire era incappato con il grande crollo del ’29, anche la partenza delle Twin Towers fu inceppata dalla crisi petrolifera del 1973. Cioè, l’inizio stesso della “riscossa islamica” nel XX secolo. Poi, tra quel primo rialzo dei prezzi del greggio e la Pearl Harbor terrorista di ieri, è facile ricordare l’attentato del ’93. Ma forse può indicare qualcosa anche l’altro particolare che le Torri Gemelle siano state simbolicamente emulate nel ’98 in Malaysia proprio per l’iniziativa di un governo come quello di Mahatir Mohammed. Da una parte, esaltatore della capacità “anche per un paese islamico” di divenire una tigre si sviluppo, ovviamente tacendo sulla “collaborazione” di una minoranza cinese estesa al 33 per cento della popolazione. “Abbiamo realizzato le nostre Twin Towers per mettere finalmente Kuala Lumpur sulla carta del mondo, aveva detto. Dall’altra però, dopo la crisi asiatica, anche alfiere di una teoria complottista, secondo cui “occidentali ed ebrei” si erano messi d’accordo per impedire ai fedeli in Allah di conquistarsi il loro posto nell’economia mondiale. Emulate, però. Non imitate. Come ricordava il progetto dell’argentino Cesar Pelli, la struttura a fuso e il disegno a stella a otto punte doveva simbolizzare “tipici valori islamici come l’unità, l’armonia, la stabilità e la razionalità”. Una puntualizzazione non del tutto casuale, se si pensa che nella rivendicazione dell’Islam di essere l’unico autentico monoteismo c’è anche l’eredità di tutti gli anatemi biblici contro i peccati di orgoglio dell’uomo e, prima fra essi, la Torre di Babele. “E il Signore li disperse di là in tutto il mondo; perciò furono costretti a interrompere la costruzione della città. La città fu chiamata Babele, cioè confusione, perché fu lì che il Signore confuse la lingua degli uomini e li disperse in tutto il mondo”. L’Islam moderato, diciamo così, questa moderna Babele gemella degli infedeli si è limitato a rifarla più alta, esorcizzandone l’empietà nella propria simbologia. L’Islam estremista, invece, l’ha fatta direttamente a pezzi. Il nuovo piano di Sharon L’esercito d’Israele accerchia le centrali del terrorismo Attacco negli Usa, palestinesi in festa a Nablus. Come si muove Tsahal Gerusalemme. Il multiplo attacco terroristico contro gli Stati Uniti è giunto mentre i mezzi corazzati israeliani stavano compiendo importanti operazioni militari, soprattutto a Jenin. Il premier Ariel Sharon, da giorni, cerca di fermare l’escalation degli attentati sul territorio dello Stato ebraico con iniziative dell’esercito. Le operazioni di Tshal hanno registrato, nelle ultime settimane, un salto di qualità passando dalle rappresaglie, con blitz nei territori dell’Autorità nazionale palestinese tesi a eliminare postazioni e leader avversari, ad azioni a più ampio respiro che hanno l’obiettivo di porre il blocco intorno ai centri nevralgici dell’insurrezione e alle basi dei terroristi per poi passare all’eliminazione dei centri di resistenza armata. Le prime avvisaglie della nuova tattica si sono avute due settimane fa a Beit Jalla e sono confermate dall’accerchiamento di Jenin, nodo strategico attraverso il quale gli Hezbollah libanesi e la Siria fanno affluire armi ai palestinesi e alla base operativa dei guerriglieri del Fronte popolare di liberazione della Palestina e dei terroristi di Hamas e Jihad. Ieri a Nablus migliaia di palestinesi festeggiavano. Arafat ha condannato duramente l’attacco negli Stati Uniti, ma Israele ha chiuso lo spazio aereo e teme nuovi attentati dei gruppi terroristici contro obiettivi di Gerusalemme. La strategia finora adottata è la base delle prossime iniziative di Tsahal. Tutto è pianificato da tempo. Fin dal ritiro dalla Cisgiordania e dalle prime concessioni territoriali all’Anp, lo Stato maggiore dell’esercito aveva messo a punto un piano per far fronte alle peggiori minacce. Una delle opzioni prevede, in caso di guerra totale, la riconquista di tutti i territori a ovest del Giordano mentre l’ipotesi più “morbida” impone la creazione di aree cuscinetto, a difesa del territorio israeliano, da creare tramite la “cinturazione di sicurezza” dei centri della resistenza palestinese. Il frastagliato territorio dell’Anp ben si presta alla conduzione delle operazioni di guerriglia ma solo finché c’è libertà di movimento. Un intervento militare israeliano ridurrebbe il territorio palestinese a una serie di sacche isolate una dall’altra, nelle quali ogni resistenza sarebbe destinata a essere sopraffatta dalla potenza e dalla precisione delle armi di Tsahal. Tutte le formazioni militari e paramilitari sono consapevoli di questo rischio e non a caso Yasser Arafat ha esercitato forti pressioni, a livello internazionale, per ottenere il ritiro da Beit Jalla e centinaia di combattenti hanno cercato in tutti i modi di contrastare l’avanzata su Jenin. Dopo aver eliminato una trentina di leader militari avversari, Israele applica ora questa tattica con l’obiettivo di indebolire gli arsenali palestinesi. La dottrina del deterrente nucleare Le voci sui dissidi sorti tra Sharon e i vertici militari per le operazioni in Cisgiordania servono a indurre i palestinesi a cogliere l’ultima occasione per fermare il terrorismo. Sharon intende sottolineare che in Israele vi sono forti pressioni per una soluzione militare sia perché le forze armate non vogliono sottoporsi a una lunga campagna di logoramento sia perché i Servizi hanno più volte sottolineato il rischio di un’esplosione ancor più grave della minaccia terroristica. Quanto è accaduto a New York e Washington conferma i rischi ai quali è esposto anche Israele, pur tenendo conto che gli sforzi compiuti negli ultimi anni nel controllo del traffico aereo civile e nella difesa aerea hanno trasformato i cieli israeliani in un muro impenetrabile persino per gli ultraleggeri degli Hezbollah. Lo “scudo”, composto da missili Arrow e Patriot, sarà presto integrato da armi laser a lunga portata ed è in grado di proteggere Israele da minacce missilistiche costituite dagli Scud e dai vettori derivati dai Nodong nordcoreani di Siria, Iraq, Iran e Libia. I Servizi lavorano da sempre in stato di massima allerta per il rischio di attentati su vasta scala e possono contare su un’ottima rete di informatori tra i palestinesi e in molti paesi arabi. Del resto, se ci possono essere divergenze tra le valutazioni dei vertici militari e politici sulla strategia contro l’Intifada, non ve ne sono sulla dottrina d’impiego del deterrente nucleare (150 missili balistici e 200 testate) contro gli attacchi condotti con armi di distruzione di massa o qualora fosse minacciata la sopravvivenza dello Stato. IL FOGLIO quotidiano ORGANO DELLA CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA DIRETTORE RESPONSABILE: GIULIANO FERRARA CONDIRETTORE: LODOVICO FESTA REDAZIONE: DANIELE BELLASIO, BEPPE BENVENUTO, UBALDO CASOTTO (VICEDIRETTORE), MAURIZIO CRIPPA, STEFANO DI MICHELE, MATTIA FELTRI, CHRISTIAN ROCCA ECONOMIA E FINANZA: OSCAR GIANNINO SEGRETERIA DI REDAZIONE: MARILENA MARCHIONNE SOCIETÀ EDITRICE: IL FOGLIO QUOTIDIANO S.R.L. LARGO CORSIA DEI SERVI 3 - 20122 MILANO TEL. 02/771295.1 - FAX 02/781378 CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE PRESIDENTE: GIUSEPPE SPINELLI CONSIGLIERE DELEGATO: DENIS VERDINI CONSIGLIERI: GIULIANO FERRARA, SERGIO SCALPELLI, LUCA COLASANTO DIRETTORE GENERALE: MICHELE BURACCHIO REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI MILANO N. 611 DEL 7/12/1995 ISCRIZIONE AL REGISTRO NAZIONALE DELLA STAMPA N. 5160 DEL 29/5/96 TIPOGRAFIE: LITO SUD SRL - VIA DI TOR SAPIENZA 172 - 00155 ROMA; TELESTAMPA NORD - VIA DELLA REPUBBLICA 93 - 20053 MUGGIÒ (MI); S.T.S. S.P.A V STRADA 35 - 95030 PIANO D’ARCI (CT) CENTRO STAMPA L’UNIONE SARDA - V.LE ELMAS - ELMAS (CA) DISTRIBUZIONE SO.DI.P. SPA VIA BETTOLA 18 20092 CINISELLO BALSAMO TEL. 02.660301 CONCESSIONARIA PER LA PUBBLICITÀ: MONDADORI PUBBLICITÀ SPA CONCESSIONARIA INCARICATA: PRS - PUBBLICITÀ STAMPA EDIZIONI VIA QUARANTA 29 MILANO, TEL 02.5737171 SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE (45%) ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO ABBONAMENTI E ARRETRATI: STAFF SRL 02.45.70.24.15 VERSAMENTI SU CCP N.43000207 INTESTATI A: STAFF SRL/GESTIONE IL FOGLIO UNA COPIA L. 1.500 ARRETRATI L. 3.000 + SPED. POST. http://www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] ISSN 1128 - 6164 ANNO VI NUMERO 251 - PAG 3 EDITORIALI A brigante, brigante e mezzo La questione fondamentale è la risposta: capire per decidere, e agire L a politica dice: capire, decidere, agire. Dopo la grande tragedia americana, dopo il delitto politico globale di cui almeno un paio di generazioni continueranno a parlare con emozione e sconcerto, c’è sicuramente bisogno di un’offensiva per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, unica tutela possibile della libertà civile nel nostro tempo. Per capire, bisogna sapere che senza la protezione di uno Stato-canaglia e senza addestramenti sofisticati, uniti al parossismo fanatico del fondamentalismo kamikaze, il bombardamento del cuore dell’Occidente non sarebbe mai stato possibile. Il mondo si reggeva, fino all’89, sull’equilibrio del terrore e sui suoi successivi aggiustamenti: quella era una struttura di formidabile tenuta della nostra sicurezza collettiva. Da allora il mondo è diventato un colabrodo. La fine del comunismo è stata giustamente benedetta, ma il dissolvimento dell’equilibrio bipolare ha portato a conseguenze drammatiche, non ancora padroneggiate dall’Occidente nonostante la guerra del Kosovo e la vittoria sul carnaio dei Balcani, nonostante la custodia militare dell’Iraq di Saddam, nonostante i tentativi di contenere in ogni continente, dal Caucaso alla Corea all’Iran, le tensioni telluriche capaci di portare agli sviluppi da fantadramma che sono divampati ieri a New York e a Washington. Ora basta. La cintura di protezione del terrorismo va recisa di netto. Le protezioni politiche e diplomatiche devono cadere. Non c’è alibi “no-global” che possa costruire sulle diseguaglianze e le miserie del mondo una copertura di qualunque tipo a questi atti da guerra mondiale guerreggiata. E va messo in piedi un sistema di protezione militare fondato sulla solidarietà politica dell’Occidente e sul raccordo, che è possibile come dimostrano anche le reazioni al dramma americano, con la Russia e la Cina. L’Europa, e nel suo piccolo l’Italia, devono schierarsi in prima fila. E’ una fortuna che il nostro governo abbia fatto in queste settimane da battistrada alle preoccupazioni e alle angosce dell’amministrazione americana. Sarebbe altresì una fortuna se un sussulto di orgoglio intellettuale e di buonsenso politico portasse la sinistra istituzionale e tutta l’opposizione a capire che la caccia ai briganti del cielo, tra una frontiera e l’altra, è un dovere comune al quale nessuno può sottrarsi. Ruggiero vuole un grande politica Ampliare l’Unione è indispensabile nonostante le difficoltà concrete Q uesti giorni, com’è evidente, sono terribili per i responsabili della politica estera: e tanti ministri titolari della materia si trovano in particolare difficoltà. Forse non si è ancora ben definito il loro ruolo dopo la fine della Guerra fredda. Colin Powell deve far sapere come alla Casa Bianca si ascolti anche il suo parere, Shimon Peres non riesce né a interpretare né a cambiare la linea del governo di cui fa parte, le grandi capacità da statista di Joschka Fischer devono costantemente fare i conti con le inteperanze dei suoi Gruenen. L’inglese Robin Cook ha perso il posto e fa ora il presidente della Camera dei Comuni. Anche Renato Ruggiero, dopo le vicende non proprio esaltanti della trattativa col Genoa social forum e il mediocre compromesso di Durban, sente oggi l’esigenza di ricordare il peso della Farnesina. Il ministro ricorda assai opportunamente come la politica estera italiana sia naturalmente europeista e rivendica sul tema la continuità degli interessi nazionali. Insieme a Silvio Berlusconi ha consolidato questa linea anche grazie a un eccellente rapporto con l’amministrazione americana in carica: fatto che per tutta l’Europa rappresenta un grande vantaggio. Inoltre conta sulla presenza di Romano Prodi a Bruxelles, che annulla spesso gli effetti di qualche intemperanza di una sinistra italiana in preda alla confusione, ora all’inseguimento delle contestazioni antiglobalizzazione, ora affascinata (peraltro in buona compagnia) dalla “quasi impossibile” Tobin tax. Naturalmente sui problemi di merito le soluzioni vanno cercate con pazienza. Allargare l’Unione dagli attuali 15 a 25 o 27 stati membri è obiettivo irrinunciabile. Farlo, senza che ciò determini una regressione verso una semplice area di libero scambio, e contemporaneamente dar vita a un “gruppo di testa” a convergenza accentuata è operazione necessaria ma complessa. Per trovare meccanismi istituzionali che consentano di allargare senza annacquare, di selezionare senza dividere, è indispensabile una ferma volontà, ma ci vuole anche fantasia e concretezza. Ruggiero ricorda opportunamente come non vi siano via di fuga: questa è l’unica scelta per difendere il patrimonio di stabilità e pace conquistato con la costruzione europea. Questo non esclude che i prossimi passi siano difficili e che si dovranno affrontare aspre questioni non solo psicologiche ma anche economico-sociali. I drammatici avvenimenti americani di ieri, però, ricordano come la grande politica che porta alla pace debba prevalere su tutto. Ma non siamo in recessione Si confondono risultati meno brillanti e crisi, non si curano i fondamentali I l Fondo monetario ridimensiona le previsioni di crescita mondiale: nel 2001 non sarà del 3,2 per cento ma del 2,7. Nel 2002 sarà non del 3,9 per cento ma del 3,6. Cifre positive anche se meno di quelle precedenti. Nonostante i problemi degli Stati Uniti dopo dieci anni d’impetuoso sviluppo e la crisi finanziaria giapponese, il mondo non è in recessione quest’anno e non lo sarà nel prossimo. La domanda globale sarà sufficientemente sostenuta da consentire anche alle industrie high tech un’espansione. L’Europa conterà su un buon commercio estero. Alcuni cupi giudizi non sono giustificati. Si fa confusione tra il “rallentamento” di alcune grandi aree, come l’americana e l’europea, e la recessione. I dati sull’aumento della disoccupazione negli Stati Uniti si spiegano con una popolazione in grado di lavorare che aumenta di un 1 per cento e una produttività per addetto che cresce dell’1,5-2 per cento: un aumento del pil al di sotto del 2,5 per cento implica prima la riduzione di orari straordinari, poi la perdita di posti full time, magari in precedenza part time. Si sta salendo così a un 5 per cento di disoccupazione. Questo livello ancora tre anni fa veniva considerato dagli economisti, per gli Stati Uniti, un livello di pieno impiego. Anche i tassi di profitto si riducono, ma quando vengono registrati i “risultati peggiori del previsto” di molte imprese, si fa confusione fra un profitto positivo (e magari non inferiore a quello medio di epoche normali) e bilanci in perdita. Si scrutano nervosamente i dati trimestrali per giudicare i titoli, mentre si dovrebbe guardare al rendimento medio nel lungo periodo. Un reddito reale del 3 per cento al netto del rischio è sempre stato considerato un risultato ottimo per le azioni nella prospettiva del lungo termine. Il reddito fisso, al netto dell’inflazione, dopo i tagli ai tassi attuati dalle Banche centrali, non dà un interesse maggiore. Gli immobili nel lungo termine non possono rendere più del 2,5 per cento netto. L’azionista che ora si fa prendere dal panico dovrebbe riflettere sul fatto che le azioni non si giudicano dalle quotazioni del giorno per giorno in Borsa, ma dai fondamentali delle imprese e dalle prospettive dei mercati in cui operano. La crisi del 1929, comunque, era un fenomeno del tutto diverso. IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001 Osama bin Laden, lo sceicco che vive per uccidere americani RITRATTO DEL PIÙ PERICOLOSO TERRORISTA ISLAMICO. LA RETE INTERNAZIONALE, IL FANATISMO, LA POTENZA DI FUOCO in modo da uccidere gli americani e i loro alleati civili e militari è “Agire preciso dovere individuale per ogni musulmano che possa farlo in ogni paese in cui sia possibile farlo”. E’ una delle fatwa proclamate e diffuse da Osama bin Laden e ciecamente accettate dai suoi seguaci. Lo sceicco saudita è oggi il più famigerato terrorista del mondo e uno dei principali indiziati per quanto avvenuto ieri a New York e Washington. Esattamente come era stato il principale indiziato il 7 agosto 1998 quando due esplosioni devastarono le ambasciate americane di Nairobi e di Dar es Salaam uccidendo più di duecentoventi persone. In tre anni, però, la sua potenza di fuoco sembra enormemente accresciuta. La rete terroristica di Osama bin Laden, chiamata Al Quaeda, la Base, si estende dall’Afghanistan alle Filippine, dal Pakistan al Kosovo e dal Kashmir alla Somalia. Il suo potere di fascinazione sui giovani islamici è immenso. Un ex ufficiale della Cia ha detto: “Basta andare nei campi profughi sparsi per il Pakistan per vedere quanti bambini maschi portano il nome di Osama”. I pochi giornalisti occidentali ammessi al cospetto di Bin Laden attestano il suo carisma personale. Nel 1993, il giornalista britannico Robert Fisk, che l’aveva incontrato in Sudan, scriveva ammirato: “Con quegli zigomi pronunciati, gli occhi sottili e il lungo abito marrone, il signor Bin Laden è il ritratto perfetto del guerriero della montagna della leggenda mujaheddin. Fanciulle avvolte nel chador danzavano dinnanzi a lui, la sua saggezza viene riconosciuta dai predicatori”. Il reporter della Abc John Miller rievoca invece il drammatico arrivo di Bin Laden al suo accampamento militare in cima a una montagna dell’Afghanistan meridionale: “Nel campo si udiva il rombo dei generatori. C’era un odore denso di carburante nell’aria… Proprio in quell’istante, fu tre ti guardava dritto in faccia, e tu annuivi, ti stava dicendo che voi – voi, americani – ve ne andrete via dal Medio Oriente, chiusi dentro tante bare”. La calma di Bin Laden deriva dalla sua intensa fede religiosa. Come dice egli stesso, “Allah ci ha creato per adorarlo, per seguire le sue orme ed essere guidati dal Suo Libro. Io sono uno dei servi di Allah e obbedisco ai suoi ordini. Tra questi c’è l’ordine di combattere per la parola di Allah”. Dopo aver trascorso una giornata con Bin Laden, Abdul Atwan, direttore di un quotidiano arabo con sede a Londra, ha scritto: “Ho intensamente avvertito il suo fascino, ho avuto modo di osservare i suoi modi raffinati e la sua sincera modestia; è un uomo che cerca l’Aldilà e sente veramente di aver vissuto più di quanto non fosse necessario. Si avverte una gran tristezza in lui – un’amarezza non espressa – per non aver ricevuto il martirio mentre lottava contro i sovietici”. Bin Laden ha subito l’influenza delle profonde convinzioni religiose del suo autoritario padre. Osama è il settimo dei cinquantaquattro figli di Mohammed bin Laden, fondatore della maggiore impresa edilizia dell’Arabia Saudita e uno degli uomini più ricchi del paese. Bin Laden ha costruito le residenze reali saudite e stretto rapporti di intima amicizia con i sovrani che si succedevano sul trono, diventando persino ministro dei Lavori pubblici. La famiglia reale saudita ha concesso al gruppo di Bin Laden diritti esclusivi su tutte le opere edilizie di carattere religioso in Arabia Saudita, tra le quali la costruzione di moschee e il restauro dei tre santuari più importanti dell’Islam, le moschee della Mecca, di Medina e quella della Roccia a Gerusalemme. Un contratto Il potere di fascinazione sui giovani è immenso. Basta vedere nei campi profughi quanti bambini portano il nome Osama esploso un colpo di cannone. Il convoglio di Bin Laden era arrivato. In mezzo al frastuono dell’artiglieria, lui avanzava rapido, circondato da sette guardie del corpo. Tutti brandivano un AK-47. Lanciavano occhiate in ogni direzione in cerca di potenziali aggressori. Bin Laden, col turbante bianco e la lunga barba corvina, con il suo metro e novanta torreggiava sugli altri del gruppo. Nonostante il caos, i suoi occhi avevano uno sguardo tranquillo, fermo e concentrato”. Il messaggio che Bin Laden comunica nelle sue interviste con giornalisti occidentali è semplice. “Abbiamo dichiarato la jihad contro gli Stati Uniti perché il governo statunitense è iniquo, criminale e dispotico. Siamo convinti che oggi i peggiori predoni del mondo e i peggiori terroristi siano gli americani. L’America ha condotto una crociata contro la nazione islamica per sostenere i piani ebraici e sionisti di espansione in Israele”. Bin Laden è particolarmente irritato dalla presenza di forze militari degli Stati Uniti in Arabia Saudita, considerata terra santa dai fedeli islamici: “Il paese dei due Luoghi Santi occupa un posto assolutamente speciale nella nostra fede. Per la nostra religione non è ammissibile che dei non musulmani si trattengano sul suolo del nostro paese. Gli americani hanno agito con inaudita stupidità. Hanno attaccato l’Islam e i suoi simboli più sacri, depredano la nostra ricchezza, le nostre risorse naturali, il nostro petrolio. La nostra religione è minacciata”. Parole terribili, che lo sceicco pronuncia con voce tranquilla, monotona, in arabo, inframmezzata da frequenti riferimenti devoti alla grazia e alla gloria di Allah. “La voce di Bin Laden è morbida e piuttosto acuta, dal timbro leggermente stridulo che gli conferisce l’aria di un vecchio zio intento a dispensare buoni consigli”, racconta ancora il testimone-reporter John Miller. Bin Laden non alza mai la voce, e ad ascoltare le sue risposte non tradotte si ha quasi l’impressione che stia parlando di qualcosa che non lo riguarda da vicino. Non sorride, guarda in basso, fissa il palmo delle mani, come se stesse leggendo invisibili appunti. Alla fine dell’intervista, Miller aveva chiesto all’interprete cosa avesse detto Bin Laden: “Menlessandro Manzoni nei “Promessi spoA si” si rivolgeva ironicamente ai suoi “venticinque lettori”. Howard Philips Lovecraft, con modestia ancora maggiore, scriveva: “Probabilmente, vi sono solo sette persone in tutto che apprezzano veramente il mio lavoro; per me sono già abbastanza”. Lo scrittore di Providence nel frattempo è diventato un autore di culto e un maestro dell’horror. I suoi racconti sono considerati dei classici e, per molti aspetti, gli appassionati li preferiscono anche alle opere di Edgar Allan Poe. Eppure Lovecraft critico è perlopiù ignorato. O peggio maltrattato e frainteso. Secondo lo specialista Claudio De Nardi, le quattro edizioni italiane pubblicate dal 1973 del fondamentale saggio “L’orrore sovrannaturale nella letteratura” sarebbero straziate “da traduttori inesperti e superficiali”. Zeppe di “incredibili e grossolani errori” al punto da sembrare “una libera interpretazione”. In una serie di qui pro quo cade anche il celeberrimo semiologo bulgaro, Tzvetan Todorov, autore del fortunato “letteratura fantastica”, che in poche battute liquida i fondamenti teorici del testo lovecraftiano, salvo poi parafrasarne la celebre definizione del racconto fantastico come narrazione ambigua di eventi in bilico tra spiegazione razionale o irrazionale. Insomma difficoltà a iosa. Eppure alla malagrazia interpretativa si può trovare persino una ragione che illumina molto sul carattere disturbante della visione che, come è facile immaginare, ha costituito motivo di immenso orgoglio per la famiglia e le ha inoltre consentito di fondare un impero industriale e finanziario notevole, e non soltanto per il mondo arabo. Mohammed bin Laden ospitava centinaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo e ha sempre dimostrato ai suoi figli come assumersi le responsabilità di ogni buon musulmano. Fece in modo di tenere tutti i figli in un’unica residenza. Imponeva loro una disciplina ferrea, scrupolosamente basata su un rigido codice religioso e sociale. Trattava i suoi figli come adulti e pretendeva che mostrassero una grande fiducia in se stessi sin dalla più tenera età. Era molto attento a trattare i suoi figli tutti allo stesso modo, senza mostrare alcun favore particolare per nessuno. Poi Mohammed bin Laden muore, in un disastro aereo nel 1968, quando Osama ha poco più di dieci anni. Mentre i fratelli assumono la conduzione degli affari di famiglia, stringendo legami anche con la generazione successiva della monarchia saudita, il piccolo Osama studia economia e cultura islamica a Gedda. A diciassette anni sposa una ragazza siriana, imparentata con la sua famiglia. Un compagno di quei tempi spiega: “Osama è stato allevato nel rispetto assoluto dei principi religiosi e il matrimonio precoce ha costituito un ulteriore fattore che lo ha preservato dalla corruzione”. In seguito Bin Laden ha sposato altre tre mogli, e ha messo al mondo un totale di cinque figli. Negli anni della sua formazione e della giovinezza trascorsa in patria, Osama è tutt’altro che un radicale. A trasformarlo in un leader fondamentalista sono stati i campi di battaglia dell’Afghanistan. Quei monti insanguinati dalla guerra contro l’invasore sovietico che come lui, e assieme a lui, han- LIBRI Howard Philips Lovecraft TEORIA DELL’ORRORE 272 pp. Castelvecchi, Lire 24.000 lucidamente negativa del mondo proposta dallo scrittore americano. Parliamo di quel disincantato ateismo che non lascia spiragli e che gli permette di accostarsi a temi spettrali con maggior distacco rispetto a credenti o a molti seguaci dell’occultismo. Dunque un materialista? Sì, ma alla maniera di un lucreziano per nulla appagato. E segnatamente dolente. Un pessimismo totale il suo, del genere: tutto ciò che ci circonda è francamente orribile. Conclusione: inutile dedicarvisi. Alternativa: materia dell’arte dever diventare essenzialmente il fantasticare, il guardare verso l’ignoto. Sforzandosi di mettere il lettore a contatto con il cosmo. “Il mio piacere è la meraviglia, l’inesplorato, l’inaspettato, ciò che è nascosto e quell’alcunché d’immutabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose”. In breve: immaginazione a discapito dell’intelletto, la narrazione affidata più al fascino del suggestivo che al ritmo incalzante no trasformato in guerriglieri e potenziali terroristi tutta una generazione di giovani musulmani di ogni nazione, dall’Algeria al Pakistan. L’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 è lo shock formativo di un’intera generazione di giovani islamici. Bin Laden all’epoca ha ventidue anni e non ha mai messo piede fuori dal Medio Oriente. Eppure, a sole due settimane dall’invasione dell’Armata Rossa, si reca in Pakistan per parlare con i profughi afghani e incontrare i leader della resistenza dei mujaheddin. Nei lunghi anni del conflitto diviene uno dei più attivi raccoglitori di fondi a favore degli afghani, sfruttando le relazioni della sua influente famiglia per coinvolgere le persone più ricche e potenti dell’Arabia Saudita. Organizza, finanzia e invia in Afghanistan migliaia di giovani combattenti volontari dall’Algeria, dalla Tunisia, dal Libano; fornisce armi e centinaia di tonnellate di attrezzature per costruzioni. Al fianco dei suoi ingegneri, Bin Laden ha fatto saltare cariche esplosive per scavare gigantesche gallerie attraverso le aspre montagne afghane, ha tracciato strade e scavato trincee per i guerriglieri, ha manovrato personalmente i bulldozer davanti alle linee di combattimento. E si è lanciato egli stesso in battaglia, ha partecipato a numerosi scontri, tra i quali la furiosa battaglia di Jalalabad, che provocò la ritirata finale delle truppe sovietiche dal territorio afghano. A un reporter occidentale che più tardi gli domandò se avesse avuto paura, Bin Laden rispose con calma: “No, non ho mai avuto paura della morte. In quanto musulmani, noi crediamo che quando moriremo andremo in paradiso. Prima di ogni battaglia, Iddio ci infonde tranquillità. Una volta ero a soli trenta metri dai russi e loro hanno tentato di catturarmi. Sotto i bombardamenti ero così tranquillo nel profondo del cuore che riuscivo a prender sonno. Ho visto atterrare una granata di mortaio da 120 millimetri proprio di fronte a me, ma non è esplosa. Hanno sganciato altre quattro bombe da un aereo russo, ma non sono esplose. Abbiamo sconfitto l’Unione Sovietica. I russi si sono dati alla fuga”. Con il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, Bin Laden è ritornato in Arabia Saudita, dove è stato accolto come un eroe. Ma la sua vita era ormai profondamente cambiata. In Afghanistan aveva visto con i suoi occhi che persino una superpotenza può essere sconfitta da poche migliaia di guerrieri che credono fermamente nella loro causa. Questa lezione è stata per lui un’autentica rivelazione: “Dopo la nostra vittoria in Afghanistan, dopo la sconfitta degli oppressori che avevano ucciso a migliaia i musulmani, è svanita la leggenda dell’invincibilità delle superpotenze. Ho tratto tali benefici dalla jihad in Afghanistan che non avrei mai potuto nemmeno immaginare in altri contesti. E il maggior vantaggio è stato il crollo del mito della superpotenza, un mito distrutto non solo nella mia psiche ma anche in quella di tutti i musulmani”. Così Bin Laden avrebbe presto rivolto la sua attenzione all’altra superpotenza planetaria. Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein invade il Kuwait. L’alleanza internazionale che il presidente americano George Bush riesce a radunare contro il dittatore iracheno comprende anche alcuni paesi arabi, tra i quali l’Arabia Saudita. Musulmani contro musulmani, non è la prima volta. Ma per il condottiero che ha visto morire i suoi mujaheddin per difendere sasso dopo sasso i monti dell’Afghanistan, vedere il suolo santo dell’Arabia Saudita invaso dalla massiccia presenza di forze militari statunitensi equivale a una profanazione. Insieme con altri leader del fondamentalismo islamico, Bin Laden esprime il suo dissenso nei confronti della presenza militare americana e della politica seguita dalla famiglia reale, che ha consentito una simile profanazione. Sebbene il rango e la famiglia lo proteggano dal durissimo sistema penale saudita, Osama è oggetto di pesanti intimidazioni e decide di abbandonare il suo paese. Negli anni successivi vive tra Sudan e Afghanistan; realizza progetti per la costruzione di impianti agricoli e di strade in Sudan. Soprattutto, crea una rete planetaria di guerriglieri e terroristi, ai quali fornisce campi di addestramento e denaro. Ha anche il suo daffare, in verità, per sfuggire agli attentati alla sua vita, e per sviare le crescenti pressioni che Stati Uniti e Arabia Saudita esercitano sui governi che gli offrono asilo. Il 26 febbraio 1993 l’America è sconvolta degli avvenimenti. Per quanto riguarda didattiche varie o moralismi vari, Lovecraft la pensa alla stessa maniera dell’immenso Oscar Wilde. E liquida la questione sotto la voce: difetto imperdonabile. Non è un caso che non si sdilinquisca davanti ad autoroni come Robert Louis Stevenson, Wilkie Collins, Arthur Conan Doyle o H.G.Wells. A suo avviso troppo “pervasi da una luminosa malia piuttosto che da una maligna tensione o verosimiglianza psicologica, simpatizzano in definitiva con il genere umano e il suo benessere”. Ma guardi piuttosto (dopo il doveroso omaggio al magistero di Edgar Allan Poe e, sorprendentemente, all’ars narradi di Emily Bronte) a narratori che si chiamano Lord Dunsany, Clark Ashton Smith, William Hope Hodgson, Robert E. Howard, Henry St.Claire Whitehead. A ogni prediletto Lovercroft riserva degli eccellenti profili che aggiunti alla nuova traduzione di “L’orrore sovrannaturale nella letteratura” e ad altri scritti critici (usciti perlopiù su riviste) formano il bel libro (“Teoria dell’orrore”) curato con vera passione e autentica competenza da Gianfranco De Turris. Preziosa in particolare la ricca bibliografia. Da utilizzare magari come una sorta di consiglio per gli acquisti, da parte chi conviene che “non c’è razionalismo, Riforma o analisi freudiana che possa eliminare del tutto il brivido provocato da un bisbiglio nell’angolo del focolare o in un bosco solitario”. dall’esplosione al World Trade Center di New York. L’inconcepibile è accaduto: un attacco terroristico sul territorio americano, il più fiero simbolo della maggiore città d’America sventrato. Otto mesi più tardi, i marine partiti per portare la pace diventano le vittime delle crudelissime battaglie di Somalia. Le televisioni mostrano il corpo nudo e inerte di un soldato americano trascinato da una jeep tra folle plaudenti di somali. La Cia comincia a intravvedere dietro questi incidenti la sagoma ieratica e sinistra di Osama bin Laden, lo sceicco del terrore. Nel 1994, il governo saudita priva Bin Laden del diritto di cittadinanza e ne confisca tutte le proprietà. Sebbene una parte consistente delle sue ricchezze siano ancora investite negli affari della sua famiglia, si calcola che Bin Laden possa contare su cifre comprese tra i duecento e i quattrocento milioni di dollari. Tra il 1995 e nel 1996 l’antiterrorismo americano collega Bin Laden a numerosi attacchi terroristici, tra i quali il fallito attentato al presidente egiziano Hosni Mubarak e i camion imbottiti di esplosivo fatti esplodere contro le installazioni militari americane a Riyadh e Dhahran. Quando anche il Sudan è costretto a espellerlo, Bin Laden ritorna nell’Afghanistan dilaniato dalla guerra civile. Tenta, senza riuscirvi, di mediare tra i signori della guerra; alla fine trova un rifugio sicuro presso i talebani, gli studenti di teologia fondamentalisti che hanno imposto manu militari all’Afghanistan uno dei regimi più repressivi del mondo. I talebani difendono l’illustre ospite, ormai prezioso alleato. Lui ricambia: “E’ molto meglio vivere sotto un albero su queste alture, piuttosto che in una reggia della terra più sacra dovendo però subire la sventura per non poter venerare Allah nemmeno sul suolo più santo”. Da ormai quasi un decennio Bin Laden è diventato la bestia nera di Washington. Già “Noi amiamo questa morte, la morte per la causa di Allah, tanto quanto voi amate la vita. E’ qualcosa che desideriamo” l’amministrazione Clinton aveva dato la sua autorizzazione alla Cia di ricorrere a qualsiasi mezzo al fine di distruggere lui e la sua rete terroristica. Un’indagine giudiziaria lo ha pure incriminato per “cospirazione ai danni degli Stati Uniti”. Troppo poco, evidentemente, per fermare Bin Laden e i suoi compagni, che come contromossa hanno intrapreso da anni una campagna di pubbliche relazioni nel mondo islamico. Tre sono gli scopi principali della loro azione, proclamati e diffusi anche tramite internet: cacciare gli Stati Uniti dalla penisola arabica, rovesciare i governanti corrotti alleati dell’Occidente e sostenere la lotta islamica in tutto il mondo. Il momento più grave della guerra antiamericana di Bin Laden era coinciso fino a ieri con gli attentati in Kenya e Tanzania del ’98. Gli Stati Uniti reagirono: come rappresaglia lanciarono missili cruise contro un presunto campo di addestramento in Afghanistan e contro uno stabilimento farmaceutico in Sudan, altra presunta base terroristica. Sebbene Bin Laden fosse rimasto illeso, fonti spionistiche affermarono di averlo “intercettato mentre parlava a un telefono satellitare, cercando disperatamente di ottenere una stima dei danni e notizie dei disastri”. John Miller, il reporter della Abc che lo aveva intervistato pochi mesi prima, riceve un messaggio il giorno successivo: Bin Laden è vivo e vegeto e fa sapere che “la guerra è appena cominciata”. Tra il 1999 e il 2000, i Servizi segreti occidentali ritenevano di aver messo in serie difficoltà la rete internazionale di Bin Laden. si susseguivano, e si susseguono ancora oggi, le voci sulla salute malferma del capo fondamentalista. se le responsabilità di Bin Laden nei fatti di ieri saranno confermate, l’intelligence occidentale dovrà rivedere giudizi e strategie. Del resto, la minaccia di morte non pare intimorire Bin Laden. Per lui, “essere ucciso per la causa di Allah è un grandissimo onore, conquistato solo da coloro che rappresentano gli eletti dell’Islam. Noi amiamo questa morte, la morte per la causa di Allah, tanto quanto voi amate la vita. Non abbiamo nulla da temere. Si tratta di qualcosa che noi desideriamo”. 50 ANNI FA 12 SETTEMBRE 1951 Il generale Marshall lascia la politica e il ministero della Difesa. Non sta bene e nonostante le insistenze del presidente Truman decide di ritirarsi a vita privata. Segretario di Stato dal 1947 al 1949, accettò l’anno scorso di tornare alla politica attiva assumendo la guida del Pentagono in seguito allo scoppio della guerra di Corea. Marshall è molto popolare in America per avere guidato le forze armate nella Seconda guerra mondiale. Lo è anche in Europa per avere lanciato il piano di ricostruzione che reca il suo nome. Lo sostituisce il suo numero due, Robert Lovett, che era con lui anche al Dipartimento di Stato. Nota intimidatoria del Cremlino alla Francia. Tema: il riarmo della Germania, che sarebbe in contrasto con le intese tra gli alleati durante la guerra. Mosca spera di trovare terreno fertile nella mai sopita diffidenza francese nei confronti dei tedeschi. Due milioni a Pisciotta per tradire Salvatore Giuliano: lo rivela il capitano Antonio Perenze a cui fu attribuito in un primo momento il merito di avere ucciso il bandito e che per questo fu anche promosso. Ray Robinson abbatte Turpin alla 10a ripresa e riconquista il titolo mondiale dei pesi medi, strappatogli qualche mese prima proprio dall’inglese. Ray “Sugar”, 31 anni, guadagna una borsa di un miliardo di lire. ANNO VI NUMERO 251 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001 “Mi esimetti”, Mancuso svela il mistero del ritratto mancante in via Arenula Signor direttore - Diaco è furibondo con Stream perché dovrà condurre il talk show sul Grande Fratello con Marisa Laurito anziché con Platinette: “Quello che potevo fare con Platinette, con la Laurito è improponibile”. Non vogliamo sapere che volesse fare Diaco con Platinette. Mattia Feltri Signor direttore - A giro di posta celere. E’ vero che quando lasciai via Arenula (bene ipotizza in proposito Gigi Moncalvo nella lettera di ieri al Foglio), deliberatamente infransi la consuetudine che avrebbe voluto che vi rimanessi in effigie, e, quando poi il ministro Fassino mi trasmise ripetutamente e ufficialmente la generosa sollecitazione a mettere i suoi uffici in grado di sopperire a quel vuoto materiale nella galleria dei ri- tratti degli ex Guardasigilli, io in pratica egualmente mi esimetti per la identica ragione di prima, la quale desidero serbare in me come colpa felice. Però, soprattutto se autorizzabile la eventualità di uno scopo non solo documentario di quella sollecitazione, rimango assai grato alla sensibile persona dell’autore di essa. Filippo Mancuso Signor direttore - La sua vigorosa campagna a favore di Barney, l’ineffabile personaggio di Richler, ci ha fatto per un momento sperare che fosse giunta agli sgoccioli l’era dei Camilleri, dei Baricco e dei tanti buonisti (dimenticavo Calvino) che hanno inamidato la nostra recente storia letteraria. Liberati, grazie all’avvento di Berlusconi, dal funerario trenino De Sanctis-Croce-Gramsci- Calvino impostoci dall’anti illuminismo di Asor Rosa, pensavamo che avremmo potuto finalmente assaporare una letteratura più aerea, spiritosa, liberale, qua e là (mi perdoni) libertaria, definitivamente “politically incorrect”. Tutto portava a credere che, sconfitta la tetraggine ulivista, qualcosa anche in questo dominio dovesse cambiare: intelligentemente un suo lettore ha suggerito un parallelo tra Richler e Balzac, lo scrittore dell’età dell’“enrichissez vous”. Siamo invece perplessi, a disagio, perfino scoraggiati. Cominciamo a temere che la compagnia di cui Berlusconi si è circondato, quella dei Bossi dei Fini dei Buttiglione, possa proporci se non imporci un altro canone, opposto a quello buonista ma non meno nutrito di anti illuminismo. I sintomi ci sono tutti, mentre negli interstizi residui si affaccia alla ribalta, pretendendo credito e applausi, una pseudoletteratura nella quale la leggerezza di Richler è scambiata con la sciatteria delle scuole di scrittura creativa. Barney resta lontano, solitario e sempre più irraggiungibile. Eppure nella società dei think tank di destra da lei preconizzata, lo scrittore canadese, se non altro in grazia dell’abbondante consumo di whisky che lo accomuna a quella società, dovrebbe furoreggiare. Invece nulla, silenzio. Ma si ribellino, costoro; facciano la giusta rivoluzione, in nome del Glen Grant. E dunque almeno lei perseveri, lei può. Noi comunque non vogliamo acconciarci alla eterna condanna italiana: barocco e/o Baricco. Perduta ogni altra speranza, ci rinchiuderemo solitari a rileggere, oltre a Barney, il mitico “Q” di Luther Basset. Lei non ci crederà, ma i due libri in qual- che modo si corrispondono. Angiolo Bandinelli, Roma Signor direttore - Attenzione all’inflazione di espressioni come “politicamente scorretto”. Non vorrei che lo “scorretto” divenisse “corretto”, nel momento in cui si fa troppo prevedibile. Ottima quindi la risposta di ieri al signor Vernaglione. Houellebecq, grande scrittore prima che astutissimo sponsor di se stesso, è uno le cui polemiche vanno bene per tipi come Tahar Ben Jelloun, che con la sua tirata moraleggiante dalle pagine di Repubblica non fa che alimentarle con sempre nuovo vigore. Consiglio comunque i due romanzi già editi in Italia: “Le particelle elementari” e “Estensione del dominio di lotta”. Paolo Bonari, via Internet Gossip L’appeal di Fassino per la Santanchè e gli incubi di Trantino “Le così spesso derise regole formali della democrazia hanno introdotto, per la prima volta nella storia, delle tecniche di convivenza volte a risolvere i conflitti sociali senza ricorrere alla violenza. Solo là dove vengono rispettate tali regole, l’avversario non è più un nemico (che deve essere distrutto) ma un oppositore che domani potrà prendere il nostro posto” (Norberto Bobbio). Il piacere è tutto mio. La bella deputata Daniela Santanchè (An) dichiara: “Mi piacciono due tipi di persone: quelle che sanno rischiare e quelle di una certa età con una vita interessante e tante cose da raccontare. Nella sinistra, invece, mi piace Piero Fassino, ma per le sue iniziative sulle donne in carcere”. Madame. L’onorevole ed ex capo scout Roberta Pinotti (Ds) dichiara: “Leggo soprattutto la letteratura francese, però, quando insegnavo al liceo, la mia materia era l’italiano. Insegnare, comunque, mi piaceva, perché mi piacciono molto i ragazzi giovani… piacciono, nel senso dell’educazione”. Uomini. Il segretario dell’Udeur, onorevole Clemente Mastella, rileva: “Sono un uomo appagato e dunque non faccio sogni ricorrenti”. Strano ma vero. L’onorevole Vincenzo Trantino (An), forse suggestionato da questa rubrica che ne ricordava una notte onirica, ha nuovamente sognato il giornalista Stefano Di Michele, e infatti precisa: “Tutti da anni mi chiamano solo Enzo, e invece il Foglio mi ha chiamato per amor di precisione Vincenzo, come risulto sui certificati di nascita. E così l’altra notte ho un’altra volta sognato di essere un ufficiale dell’anagrafe, si presentava di nuovo Stefano Di Michele, e io gli consegnavo un certificato di magrezza scheletrica”. Missione novanta. Reduce da Formia, dove ha partecipato alla Festa nazionale del Centro cristiano democratico, e da una settimana presso un centro benessere di Chianciano, il presidente dei senatori del Ccd Francesco D’Onofrio, è a Roma. L’obiettivo immediato è di perfezionare le ultime diete e arrivare a quota novanta chili: “Come Benito Mussolini – precisa – che pose quota novanta nella quotazione tra lira e sterlina: una sterlina uguale novanta lire. Come noto, il fascismo dovette presto rinunciare al proprio obiettivo, ma il fallimento del duce non equivarrà al mio. Infatti sono già arrivato a tre settimane senza pasta, e arriverò anche a quota cinquantaquattro di taglia. Anzi, a dirla tutta, con i boxer già ci sono”. In tali frangenti, il senatore per colazione si limita a yogurt magro, fetta di pane nero, e un frutto. A cena, invece, uovo fritto e una coppetta di Jocca. Anche in occasione del recente compleanno della madre, festeggiato nella trattoria Costanza, vicino Campo de’ Fiori, il senatore ha dovuto constatare: “Mia madre ha mangiato più di me, e oltretutto è arrabbiata perché dice che con il lavoro che faccio non posso continuare con questa dieta, altrimenti mi dimagrisco”. Acqua d’annata. L’onorevole Giuseppe Gargani (FI) apprezza certe comodità moderne, e infatti osserva: “A Montecitorio ci vorrebbe una bella sauna, però le docce della Camera sono belle e confortevoli. Lo so perché una volta le ho utilizzate, quattro anni fa”. Francesco Storace: la mia vita (22). Il presidente della Regione Lazio, onorevole Francesco Storace (An), assicura: “Le esperienze più belle della mia vita sono state: la presidenza del Lazio, la presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, e la guida della Federazione romana di An. Tre vicende che ho vissuto con grande intensità, e con un piccolo orgoglio, l’unica mia presunzione… quella di aver rivitalizzato organismi che non erano conosciuti: la Vigilanza Rai veniva dalla parentesi di Marco Taradash, che l’aveva usata più come tribuna per la politica nazionale. Io, invece, ho continuato la sua strada ma, in più, ho riportato la commissione sulle problematiche Rai. La Federazione di Roma uguale: io, che pensavo di non essere adatto a guidarla, la presi dopo le Comunali del ’97 con il partito sceso al 24 per cento. Decisi di sottoporla a una cura da cavallo, e infatti in quel periodo ero sempre in giro a incontrare militanti e simpatizzanti, tanto che, tra sezioni e associazioni, ho messo su 20 chili, a causa delle grappe che mi venivano offerte”. (continua) Antonello Capurso Alta Società Umberto Vattani è stato nominato Commandeur de la Légion d’Honneur. Se lo merita. E se lo meritano anche i suoi nemici della Farnesina. Dj & Ds di Pierluigi Diaco Sentirsi importanti, paurosamente stagionali, precari e onnipotenti solo un po’, è il male minore dell’attuale governo. Non saper sorridere per la vittoria ottenuta è più grave (è come vedere il merito nascere mendicante), non essere capaci di pensare la propria vita altrove rispetto alla politica è altrettanto desolante (“è come la follia, con aria dotta, mettere freno all’estro”). Se non si vuole offrire agli italiani la sicurezza della forza dell’ambita stabilità, si offra almeno una sicurezza recitata o una calma tutta agghindata che renda dignitoso e forte chi ci governa. Se invece ci si vuole abbandonare al dibattito, alla pluralità dei ragionamenti e alle libertà che concede solo il potere, allora sarebbe paradossale ma auspicabile il ritorno dei comunisti e dei loro amici. Loro sì che sanno imporsi. Pur senza colonelli o imitatissimi epuratori.