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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Èchos 17 Collana “Èchos” - volume 17 In copertina: © Progetto grafico: Livresse Realizzazione grafica: Federico Taibi © 2013 Edizioni Ensemble, Roma © Ass. cult. Edizioni Ensemble I edizione Marzo 2013 ISBN 978-88-97639-66-4 www.edizioniensemble.com [email protected] Starry night Federico Leoni Edizioni Ensemble Nessuno è l’ultimo in nessun posto, qualcuno attraversa più tardi sempre. Javier Marías Why do I tell you these things? You are not even here. John Ashbery Prologo L’odore della pioggia Anche annusare la pioggia è un’indagine sul vuoto. Affacciato alla finestra annuso un profumo che non esiste, o esiste solo nella mia mente, come forse tutte le cose che ho visto e come gli occhi che ho usato per guardarle. Vorrei avere ancora a disposizione abbastanza meraviglia da sentire l’odore della pioggia con lo stupore della prima volta. Perché è la meraviglia che ha dato inizio alle cose, la magia che ha colmato l’assenza. Ecco: certe storie si raccontano a partire da un’assenza. Sono sagome cave dentro custodie vuote, forme abbandonate che dicono “violino”, oppure “fucile”. Se c’è una cosa che mi piace è l’odore della pioggia, ammesso che questo odore esista. Cambia con le stagioni, ma rimane lo stesso ogni anno, e ogni settembre – dico per dire – il naso lo riconosce come l’odore del settembre passato. Adesso mi accorgo che questo profumo di pioggia è in realtà un odore d’asfalto, e che la pioggia è solo l’incantesimo che questo odore rivela. Se la pioggia cade sulle strade, in città, sa di olio minerale e grasso fuso; se finisce sulla terra nuda profuma di muffa e di erba tagliata; se ti bagna le spalle restituisce alla pelle l’aroma del proprio respiro. Sotto a tutto, però, c’è una nota comune, come la radice di un verbo nella sua coniugazio- 7 ne; è questa radice che mi sfugge, come in un’indagine sul vuoto. È passato un anno dalla mia personale tragedia, o poco più. Dovrei decidermi a prendere di petto il nocciolo della questione, perché ogni storia deve arrivare alla fine. Chiudo i vetri e vedo il mio riflesso allontanarsi da me, poi torno alla macchina da scrivere, ma allora il citofono suona, e sono costretto ad alzarmi di nuovo (non una cosa facile, a ottanta e passa anni). Mentre mi muovo lentamente verso la porta mi giro (per caso?) e mi accorgo che ogni cosa è al suo posto: l’Olivetti sul tavolo, il foglio nel rullo, la tazza di caffè accanto al posacenere. Ho l’impressione che quel quadretto mi renda giustizia quanto merito, adesso che non ne faccio più parte. D’altronde certe storie sono indagini sul vuoto. Sono come questa storia: si raccontano a partire da un’assenza. 8 Come Zippo incontrò Zagana La vita di Filippo cambiò il giorno del suo diciottesimo compleanno, o per lo meno fu allora che il meccanismo si mise in moto. Come tutti i timidi, Filippo non amava le maschere. Le maschere promettono di nascondere e invece mettono in evidenza; sono un continuo richiamo e la promessa di un mistero, che è ciò che più attrae la gente. Sarebbe meglio mettersi un pappagallo tropicale appollaiato sulla testa, piuttosto. Te ne infili una, per di più, e la tua faccia rimane impressa al suo interno, e viceversa, così che quella maschera resterà tua anche quando te la sarai tolta. Ecco perché Filippo non amava le feste, neppure quelle: perché alle feste bisogna mettersi in maschera – o almeno così facevano tutti i suoi compagni di liceo – e fingere che le cose vadano come devono andare anche se vanno in tutt’altra direzione. Era stato il primo a stupirsi, quindi, quando aveva finito per dire di sì alla madre, che voleva a tutti i costi celebrare il suo diciottesimo compleanno. Così adesso se ne stava a casa sua, seduto in disparte a fissare gli altri che, bene o male, si divertivano. Non era il tipo che sapeva dire di no ai genitori, ma aveva preteso una cosa in tono minore, almeno questo, dunque niente affitti di locali o ville hollywoodiane, ma solo il salone di casa, 9 aperto sulla terrazza, una trentina di amici e compagni di scuola, tartine di Antonini, Coca Cola e una millefoglie di crema chantilly. Di bottiglie di champagne ce n’erano un paio, giusto per brindare, ma Filippo, che era astemio, aveva lasciato che se ne occupasse il padre. Era appollaiato accanto al tavolo del rinfresco, dove tartine e tranci di pizza, a tre ore circa dall’inizio della festa, sopravvivevano a stento sui vassoi di cartone dorato. Accanto a lui, dall’altra parte del tavolo, c’era Paolo Fracco, il figlio della portiera del palazzo dove suo padre aveva uno studio notarile. Paolo aveva quasi diciannove anni, era alto un metro e novanta ed era timidissimo, soprattutto quando entrava in quella casa, per cui adesso sedeva silenzioso con il piatto di carta appoggiato sulle cosce enormi, fissandosi la punta delle scarpe. – Ti piacciono i Coldplay? – gli chiese Filippo, sentendosi in dovere di fare conversazione. – A te? – rispose Paolo. – Sì, ho tutti i loro CD. – Anche a me piacciono – concluse Paolo, e tornò con gli occhi sulle scarpe e l’aria tesa dell’esaminando che attende nuove domande. Filippo si alzò di scatto. La sua timidezza incarognita non s’armonizzava granché con quella bonaria di Paolo: Filippo non sperava in una cura, per così dire. Seduta su uno dei divani, Valentina Parchi illustrava le sue prossime vacanze a Formentera a una platea entusiasta di neomaggiorenni o quasi. Aveva le labbra lucide e rideva volentieri, rovesciando la testa all’indietro per potersi poi sistemare con un gesto rapido della mano i lunghi capelli castani. Sporgendosi al di sopra di Valentina, che non lo notò, Filippo si chinò sul tavolino davanti al divano per prendere uno dei libri che gli aveva- 10 no regalato, e ora sentiva il profumo forte dei capelli di lei sbattergli contro la faccia e, roteando gli occhi in maniera un po’ innaturale, poteva risalire con lo sguardo dagli stivali alla coscia nuda, e più su, fino alla linea incerta della gonna scura, un bastione variabile che arretrava a ogni risata. Solo che sul ginocchio destro di lei, proprio sopra allo spigolo netto della rotula, la pelle raggrinziva in un punto, come formando tante piccole onde: era una cicatrice di bambina, forse rimediata in bicicletta o correndo in un giardino di ghiaia. Non sembrava molto antica, però, al massimo l’anno precedente, e aveva la forma di una goccia, come se volesse scivolare sullo stinco fino a nascondersi sotto il cuoio degli stivali. Filippo afferrò il libro e se lo portò in terrazza. Sollevando lo sguardo verso il cielo capì perché la madre aveva passato tutto il pomeriggio borbottando “Speriamo che il tempo sia clemente”, mentre passava da un canale televisivo all’altro continuando a scuotere la testa davanti alle previsioni meteo. Sulla festa si addensavano nubi metalliche, come scarti di fabbrica appena soffiati via da una ciminiera. Niente gocce, per il momento, ma nella gomma che aveva in bocca Filippo sentiva già il sapore della pioggia, come se stesse masticando una foglia di basilico bagnata. Poco male. Tornò con gli occhi sul libro, uno dei tre che il nonno gli aveva regalato insieme a un suo vecchio orologio Audemars Piguet, comprato alla fine degli anni Cinquanta con i primi guadagni di sceneggiatore. Il libro parlava della storia del cinema italiano nel Dopoguerra, e il fatto che nell’indice dei nomi comparisse anche il suo aveva spinto il nonno a presentarglielo per ultimo, dopo Conrad e Dickens, come in tono minore e di rispetto per quei giganti. Per anni il nipote l’aveva tempestato di domande sugli inizi della sua carriera, sulla Roma degli anni Cinquanta e sul mondo di via Veneto e Cinecittà, e 11 quel libro era un modo per rispondere senza dover ricorrere alla propria memoria appannata. Dopo aver liberato il volume dalla carta, Filippo era corso a leggere le pagine che riguardavano La dolce vita di Fellini, trovando splendide foto di Mastroianni e Anouk Aimée scattate a telecamere spente. “Allora, hai passato il limes dei diciotto anni. Come ti senti?”, gli aveva chiesto il nonno quel pomeriggio, allungandogli i regali. “Come se avessi infilato la testa in un secchio di latte”, aveva risposto Filippo. Sembrava un’immagine comica, ma non lo era e il nonno l’aveva capito. Infatti non aveva riso. “Rende l’idea”, aveva risposto. “Futuro nebuloso; credo si sentano così un po’ tutti. Devo essermici sentito anch’io”. “Ai tempi tuoi c’erano un sacco di cose da fare. Da costruire. Me l’hai detto tu, no?”. “E adesso non ci sono?”. Filippo aveva risposto con un’alzata di spalle. Mentre sul terrazzo di casa dei suoi ripercorreva mentalmente quel dialogo, lo sguardo gli cadde d’istinto sull’orologio Audemars Piguet che aveva indossato per l’occasione; sembrava fermo, ma poi lo accostò all’orecchio e si accorse che ticchettava. – Funziona? La domanda lo colse di sorpresa. Non si era accorto che qualcuno l’aveva raggiunto. Profumo Abercrombie: si trattava di Sergio. – Pare di sì – disse. – Una bella padella. Te l’hanno regalata? Dev’essere vecchia sul serio. – È un regalo di mio nonno – rispose Filippo. Per quanto ne sapeva Sergio era un impiccione, quindi conveniva rispondere a 12 monosillabi e toglierselo dalle scatole il prima possibile. Ora che lo vedeva, con i suoi capelli biondi appiccicati sulla fronte e l’orecchino al naso, non era nemmeno sicuro di averlo invitato. Magari s’era imbucato, possibilissimo. A scuola lo chiamavano Zagana, chissà perché. Era arrivato da neppure un mese, dopo un tour nei principali istituti privati di Roma concluso con un numero record di espulsioni. L’ultima volta aveva steso a capocciate il professore di educazione fisica, durante una partita di basket. “Lo stronzo mi fa fallo”, aveva raccontato una volta, durante la ricreazione. “Allora io bum, gli tiro una testata in petto e quello va giù. Il cuore gli si è fermato per un fottio di minuti, così hanno detto i medici. Poco c’è mancato che gli facessi stirare le zampe. Io, dico la verità, lì per lì mi sono cagato sotto. Se fosse morto, invece di stare qui a vantarmi sarei finito nella doccia di Regina Coeli a raccogliere saponette”. Il giorno dopo l’espulsione era passato dalla ferramenta, aveva comprato una siringa di silicone e aveva impiegato la notte successiva a sigillare per bene tutte le serrature esterne dell’istituto. “A voi la merda, a me la gloria”, aveva urlato dal motorino la mattina, sfrecciando davanti ai suoi ex compagni e ai bidelli che sudavano di brutto cercando di sbloccare i cancelli. – Ti ho portato un regalo – disse Sergio allungandogli un pacchetto confezionato alla meglio. Filippo se lo rigirò tra le mani e notò che la carta stropicciata con il marchio della Feltrinelli era la stessa che aveva avvolto i libri del nonno e che poi era finita sul tavolino in salone. Dentro c’era un accendino di metallo satinato. – È uno Zippo – disse Sergio con un certo entusiasmo. – Lo puoi usare per accendere le sigarette. – Già – rispose Filippo, poi aggiunse abbastanza vanamente: – È un accendino. 13 – E ci sono le tue iniziali – precisò Sergio con un tono in stile “effetto sorpresa”. Per un attimo sembrò che avrebbe concluso esclamando: “Voilà!”. Sull’accendino, effettivamente, c’erano una «F» e una «L», incise in un pretenzioso stile gotico in basso a destra. – Grazie. Davvero – scandì Filippo un po’ interdetto. Sergio tirò fuori due sigarette come per mettere un punto alla vicenda, se ne accese una e allungò l’altra a Filippo. – Io non fumo – si sentì rispondere. – Non fumi? Ma se ti ho visto in giro con l’accendino in tasca. – Sì, è un vizio che ho, non lo so, una specie di tic: lo accendo e lo spengo di continuo –. E per dimostrare quanto stava dicendo tirò fuori il piccolo Bic di plastica nera che ora divideva la tasca con lo Zippo metallico. – Non sarai mica uno di quelli che se lo portano appresso per accendere le sigarette alle pischelle? – Ma no, figurati. Mi piace guardare la fiamma. – Ah, sei un cazzo di piromane! – sentenziò Sergio con compiaciuto stupore. – Non sono un piromane, sei pazzo? – Un cazzo di piromane – ripeté Sergio come se non avesse sentito. – Ne ho conosciuto uno quando andavo al Nazareth, era nell’altra sezione; ha cominciato con i fogli protocollo e dopo un paio di mesi per poco non seccava un barbone. Sei così, tu? Vuoi dare fuoco ai barboni? – Cazzo, non sono un piromane – ripeté Filippo. – Ok, va bene – disse Sergio sporgendo in avanti le mani aperte come per dire “calmati”. Passarono qualche secondo in silenzio, guardando in direzioni opposte, mentre sopra di loro il vento addensava le nuvole con un rumore di pagine girate. 14 – Sai chi è il vero piromane, qui? – domandò Sergio, facendo capire se non altro che il messaggio era arrivato. – Chi? – Quella pischella seduta sul divano. La tipa con gli stivali. Cristo santo, quella t’accende sul serio, vero Fil? – e qui Sergio gli diede una piccola gomitata complice. – Non chiamarmi Fil, lo odio quel soprannome – chiarì Filippo, gelido. – Ok, ti chiamerò Zippo allora. Ti piace Zippo? – Si chiama Valentina – disse Filippo senza rispondere. – Valentina Parchi. – Ok, Zippo, ora ti faccio vedere come ci si prova con Valentina Parchi. Sergio s’incamminò verso il salone fregandosi platealmente le mani, ma all’improvviso si bloccò. – Aspetta un secondo, non sarà mica la tua donna? – Mia? – disse Filippo sorridendo. – No. Poi accese lo Zippo mentre Sergio spariva oltre la porta finestra, guardò la fiamma tremare nel vento e dopo pochi secondi, pietoso, la soffocò. Oltre il vetro osservò la scena muta di Sergio che s’avvicinava al divano come a una preda. Non sembrava un cacciatore, però, piuttosto un attore che impersonava una parte. A guardarlo bene, in effetti, Sergio sembrava sempre l’imitazione di qualcun altro. Alla fine tutto s’era risolto in un incrocio di sguardi tra Zagana e Valentina, una cosa rapida durante la quale lei neppure aveva notato chi la stava guardando e lui invece aveva visto abbastanza per evitare di farsi avanti. Tutti, a quel punto, ebbero l’impressione che la festa fosse finita e presto la festa finì davvero. In un attimo Filippo si ritrovò solo, piacevolmente malinconico mentre fuori, finalmente, cadeva la pioggia. Una pastarella 15 sbocconcellata, triste avanzo della serata, lo fissava dal vassoio sul tavolo come una domanda insistente. – Che fai? – gli chiese la madre, in una breve pausa del suo andirivieni dal tavolo alla cucina. Filippo si era seduto sul divano e aveva chiuso gli occhi. – Mi guardo le palpebre. La madre non rispose. Certe volte uno osserva il buio dentro i propri occhi. Filippo, per lo meno, lo faceva. Non è proprio come non guardare, e nemmeno come fissare l’oscurità completa in una stanza senza luci né finestre. È più come guardare il nulla e colorarlo di pensieri. C’era spazio per tutto, lì dentro. Sempre con gli occhi chiusi, Filippo accese mentalmente il suo Zippo, avvertendo contemporaneamente il peso dell’oggetto reale nella tasca destra dei pantaloni, come se all’improvviso l’accendino esercitasse una lieve pressione sulla sua coscia. Lo spense. Confezione a parte, era un bel regalo. Sergio invece era una persona scomoda, che si agitava in maniera contagiosa. Non pensava che l’avrebbe rivisto, per lo meno non al di fuori dell’orario scolastico. Ma si sbagliava su tutto. 16 F. L. Franco Lepori, Filippo lo conosceva appena. Era un palestrato della Fiermonte, il circolo di viale Parioli dove i fighetti del quartiere tiravano di boxe con le loro canotte Everlast attillate. Aveva due deltoidi grossi come pompelmi e una testa piccola piccola che gli comprimeva il cervello. Filippo l’aveva visto un paio di volte, forse in un locale di viale Ostiense, tirato a lucido per l’occasione: la camicia bianca dal collo troppo alto, il cranio minuscolo rasato e luccicante sotto le stroboscopiche, in mano un drink dal colore allarmante. Poi un pomeriggio, qualche giorno dopo la festa per i suoi diciott’anni, se l’era ritrovato di fianco al semaforo di viale Bruno Buozzi. Non l’aveva salutato – non erano così in confidenza – però aveva tirato fuori l’accendino per ingannare l’attesa del verde e l’aveva acceso e spento un paio di volte sulla coscia tirando nel frattempo con la mano sinistra la leva del freno. Non s’era accorto che quello l’aveva fissato aggrottando le sopracciglia, però subito dopo l’aveva sentito dire: – Accosta –. Visto come pulsavano quei bicipiti sotto il giubbotto leggero, ubbidì senza pensarci troppo. Il primo errore fu togliersi il casco; il secondo fu chiedersi se l’immagine di Lepori che alzava il braccio destro fosse reale, invece di preoccuparsi di schivare lo sganassone. 17 Filippo sentì il palmo grassoccio e umido della mano sulla guancia, poi una sensazione di bruciore. Quando quello lo prese per il collo era già a terra, senza sapere bene come ci fosse finito. Lepori lo sollevò e lo schiacciò contro un cancello chiuso come se stesse appendendo una giacca a un gancio nel muro. Lo schianto fece girare i pochi passanti, ma nessuno si mosse. – Lo vedi che c’è scritto qui? – ruggì Lepori dopo avergli strappato lo Zippo dalle mani. Filippo racimolò a fatica un po’ di fiato e lesse biascicando le due lettere incise sul metallo. Il sangue che gli saliva alla testa era troppo poco perché potesse ricordarsi le sue iniziali. – Effe, elle – ripeté quello. – Come Franco Lepori. F-r-a-nc-o L-e-p-o-r-i. Filippo non ci aveva ancora pensato, in effetti. Lepori lo lasciò cadere come un sacco di patate, poi gli piantò un calcio nello stomaco e se ne andò urlando qualcosa di incomprensibile riguardo la lezione che, a sua detta, Filippo aveva imparato di certo. Immaginare che tutto stia accadendo a qualcun altro, in questi casi, non è una soluzione, ma dà un certo sollievo. Filippo si vide contorcersi a terra per due minuti buoni, le mani strette sulla pancia e i denti chiusi sulle labbra. La sua autostima rotolò giù dal marciapiede e gorgogliò nel chiusino delle fogne. Non era mai stato un tipo da rissa. Una volta al mare s’era accapigliato senza motivo con un biondino e in un’altra occasione aveva rimediato un paio di sberle da uno che l’accusava d’aver guardato il culo della sua ragazza (aveva ragione), ma erano casi del tutto isolati. Una vecchietta ingobbita lo aiutò a rialzarsi. Filippo tossì ma non riuscì a dire “grazie”: era troppo umiliato e furioso per tro- 18 vare le parole. Salì in motorino ancora dolorante, con in testa un indirizzo preciso dove andare a sfogare la rabbia. – Pubblicità in cassetta. Il tentativo di camuffare la voce al citofono, per quanto patetico, funzionò. Fece tre piani di scale salendo tre gradini alla volta, poi s’attaccò al campanello, ansimante. Quando Sergio aprì, Filippo lo mise a sedere sulla cassapanca alle sue spalle con una spinta. Il legno scricchiolò. La musica che arrivava dal salotto cessò di colpo. – Grazie per il regalo, brutto coglione. – Calma, calma, calma – ripeté Sergio a bassa voce. Alzò e abbassò le mani, implorandolo di fare silenzio. – Che succede, tesoro? – dal salotto arrivò la voce allarmata di una donna. – Niente, mamma. Tutto ok. È un amico. – Amico un paio di cazzi. Fotti l’accendino a un pugile e lo rifili a me, bell’amico. – Senti, ora ti spiego. Stai calmo, però. Se di là ti sentono succede un casino. La madre di Sergio si portò le mani al viso nel momento stesso in cui apparve sulla soglia, dietro al figlio. – Mio Dio, che hai fatto? Aveva visto la guancia gonfia e i segni sul collo, chiaro. – Filippo ha avuto un incidente, mamma – disse Sergio. – Era qui sotto ed è salito su per farsi dare una mano. – Hai fatto bene, Filippo. Entra. Tesoro, dagli un po’ di ghiaccio, fallo sedere. La madre di Sergio aveva i capelli biondi alla Farrah Fawcett e gli stessi occhi azzurri del figlio. Sembrava uscita da un film anni Settanta. Filippo la seguì in corridoio osservandola mentre 19 camminava ondeggiando come se fosse sul punto di danzare; sembrava che avesse i piedi troppo leggeri per affondare il passo sul pavimento, sfiorava le cose senza toccarle veramente. Indiscutibilmente era una bella donna. Il corridoio sfociava in un grande salotto, dove c’erano una tastiera, una chitarra e una serie di strumenti a percussione sistemati su una specie di comò di frassino. Il padre di Sergio era dietro gli strumenti e lo guardò con aria di rimprovero. – Motorino, eh? Lo dico sempre a mio figlio di stare attento. – Non vi preoccupate – insistette Sergio. – Ora gli do un po’ di ghiaccio. Voi tornate a suonare. – Perché non fate un salto al pronto soccorso, tesoro? Vi accompagna papà, se volete. – No, mamma, è una cosa da niente. Torna a cantare, dai. Sergio trascinò Filippo in camera sua, lasciandolo seduto sul letto qualche minuto mentre trafficava con il ghiaccio in cucina. La stanza era un affronto smaccato alle regole della casa: i colori pastello del salone lasciavano il posto a graffiti sguaiati tracciati con lo spray sulle pareti, il copriletto era una pretenziosa pelle di vacca falsa dalla quale spuntava una targhetta dell’Ikea e sull’armadio c’erano un poster di Steve McQueen in collo alto nero e una foto di Pamela Anderson mezza nuda. I libri scolastici erano allineati su una mensola accanto a un manuale di karate piuttosto sgualcito e l’antologia della lingua inglese era ancora incartata nel cellophane, nonostante metà anno fosse ormai passato. Quella stanza era come un insulto lanciato a voce alta, ma era anche un’impalcatura traballante sul punto di crollare. I dettagli tradivano il contesto: su una mensola c’era una manciata di istantanee di Sergio bambino, gli stessi enormi occhi azzurri incorniciati da riccioli ancora più chiari di adesso; in una nicchia dietro la porta erano nascosti degli oggettini piuttosto pacchia- 20 ni, forse i lavoretti natalizi di Sergio, un residuo delle scuole elementari. Naturale che la madre li avesse conservati con cura, ma faceva sorridere il fatto che Sergio li avesse lasciati lì. C’era qualcosa sotto i graffiti e i dischi, una forza repressa che spingeva come fanno le radici dei pini quando spaccano l’asfalto. Sergio tornò con un sacchetto trasparente pieno di cubetti di ghiaccio. – Ok, l’accendino era rubato. Quel Franco Lepori è un cazzone senza cervello, pensa di poter fare il bulletto solo perché va da Fiermonte a tirare pugni. Meritava di essere punito, così gli ho fregato lo Zippo a una festa. Era buio, lì per lì le iniziali non le avevo neppure viste, poi il giorno del tuo compleanno ho pensato a te. – Che pensiero gentile – disse Filippo, ma sorridere sarcasticamente non giovava alla sua guancia tumefatta. – Mi dispiace, che ti devo dire. Non pensavo che per uno Zippo avrebbe montato tutto ’sto casino. Te ne regalerò uno identico, promesso. – Potevi almeno dirmelo che era rubato. – E mica posso darti un regalo e poi aggiungere: “Sai, è rubato”. Filippo avrebbe potuto sollevare talmente tante obiezioni che alla fine rimase in silenzio. D’altra parte quel ghiaccio premuto sulla guancia stava facendo sbollire pian piano anche la rabbia. In soggiorno la madre di Sergio aveva ricominciato a cantare con voce soave. Era quella canzone che fa: Come stare fuori dal tempo, quando fuori è mattina presto… – È di Gianni Togni questo pezzo? – chiese Filippo. – Sì, tu come lo sai? – Non lo so. Lo conosco e basta. Ora che ci penso la cantavano sempre mio padre e mia madre, quand’ero piccolo. 21 – Lo conosco e basta. Ma che risposta è? Va bene che hai la media dell’otto, ma non pensavo che Gianni Togni fosse nel programma. Nel programma forse non c’era, ma Gianni Togni a casa di Filippo lo cantavano sempre negli anni della sua infanzia, come i Camaleonti e l’Equipe 84, nonostante fossero gruppi di diversi anni prima, di quando i suoi genitori erano davvero molto giovani. Suo nonno invece cantava spesso una canzone degli Alunni del sole quando si faceva la barba e la nonna, brutale, gli urlava dal salotto quanto fosse stonato. – Che lavoro fanno i tuoi? – chiese Filippo come riscuotendosi da un sogno. – Suonano. Mio padre era violinista nell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, mia madre ha iniziato come corista. Poi hanno mollato tutto e si sono messi a fare piano bar; dicono che così si divertono di più e possono passare più tempo insieme. – Ma come fanno a campare con i soldi del piano bar? – Anche mio nonno era musicista. Non era famoso, ma scrisse un paio di pezzi che hanno avuto un certo successo. Uno in particolare, hai presente: ta-ta-tatata-taa, eccetera. Era una di quelle canzoncine famosissime, che tutti conoscono senza sapere chi le ha composte. Una di quelle musichette che sembrano nate per finire in qualche pubblicità alla TV. – Come no, i ferri da stiro. – Sì, era anche in quello spot – annuì Sergio un po’ contrariato. – Comunque, mio padre becca ancora i diritti d’autore. – Fico. – Adesso sì, ma vallo a chiedere a mio padre se prima era fico. Lui da giovane era un tipo mezzo hippie, sai, uno di quelli che girano il mondo su un furgoncino Volkswagen. È stato mio nonno che l’ha mandato al conservatorio. Le canzoni del 22 padre le odiava, cazzo quanto le odiava. Me l’ha confessato. Adesso invece dice che se non fosse stato per lui saremmo tutti in mezzo a una strada. – E tu? – chiese Filippo. – Io cosa? – Tu che dici? Farai il musicista anche tu? – Io glielo dico sempre a mio padre: se proprio devi suonare vedi di scrivere un pezzo da pubblicità dei ferri da stiro, almeno ci facciamo la casa al mare. Con Gianni Togni non si vede un euro del cazzo. Rimasero zitti qualche istante. Sergio si alzò, sfruttando quella piccola pausa come se la stesse aspettando, come se avesse bisogno di silenzio per muoversi a suo agio sulla scena. Aprì un cassetto della scrivania e prese una scatola di legno sepolta sotto una miriade di oggetti, aprì la finestra, si accomodò sul davanzale e tirò fuori dalla scatola un sacchetto di plastica e una cartina bianca. – Te la fai una canna? – I tuoi sanno che fumi? – Cazzo, no. Ormai hanno capito che fumo le sigarette, e già così non è che siano contenti. Armeggiò con una pallina gommosa, la scaldò e la sbriciolò sul palmo della mano per poi mischiarla al tabacco e rullare tutto nella cartina. – Com’è che a scuola ti chiamano Zagana? Sergio scoppiò a ridere rumorosamente. Per un attimo sembrò che non sarebbe riuscito a fermarsi, almeno finché quelle convulsioni non l’avessero fatto precipitare giù dalla finestra. – Davvero non lo sai? È una cosa comica, la sanno tutti. Anche se non mi fa fare una grande figura. – Non lo so, te l’ho detto. 23 Sergio scese dal davanzale e cominciò ad armeggiare con due scatole di cartone. Stando a quanto scritto sui coperchi, un tempo custodivano due modellini di automobili, una Jaguar E e una Ferrari Modena. Fino a pochi secondi prima erano nascoste in verticale dietro i libri, sulle mensole. Quando Sergio le aprì sul letto svelarono una ricca videoteca pornografica, con tanto di cazzi e tettone sulle copertine. – Una cinquantina di titoli almeno, tutta roba di prima scelta – disse Sergio. – Niente film di froci e niente roba con gli animali, mi fanno schifo quelle cose. Solo sane porcate tra uomini e donne, e occasionalmente tra sole donne, che ogni tanto non guasta. Zagana viene da zaganella, o se preferisci sega, o pippa, o pugnetta, fai tu. Il soprannome deriva dalle seghe che si fanno quelli che affittano i miei film, non tanto dalle mie. – Li affitti? – Certo. La ricchezza va condivisa con gli altri, altrimenti porta rogna. Cinque euro per tre giorni. – Alla faccia della condivisione. Ma oggi c’è Internet, che se ne fanno dei tuoi filmetti? – Non fare il nerd. Me lo ricordo cosa dicevano i cervelloni qualche anno fa: “Buttate i televisori, i telefoni, i libri e magari anche la tazza del cesso, che tanto fra poco faremo tutto col PC. Ma siamo già nel 2005 e i pornazzi su Internet sono ancora una robetta squadrettata che dura trenta secondi. Per fare quello che devi fare non bastano nemmeno se sei un coniglio. E poi i pischelli di quattordici o quindici anni hanno la TV e il computer controllati dai genitori. Sai, quella roba da sfigati dove serve il pin per vedere certe cose. Il DVD invece lo infili e zac: niente codici del cazzo. – E come fai se chi affitta il film non te lo riporta? 24 – Peggio per lui, si tiene un film ma non può più affittare gli altri. E poi sarebbe un danno per tutti i miei clienti, per cui il figlio di puttana dovrebbe vedersela anche con loro, non solo con me. – Capirai, saranno quattro pischelli pedicellosi. La banda del brufolo. – È inutile che ridi. Non sai quanti palestrati passano le serate a massaggiarsi l’uccello con i miei film e poi raccontano di essere andati a letto con chissà quale figa. Qualcuno secondo me lo conosci pure, e da molto vicino direi. – Cioè? – Ti dice niente il nome Franco Lepori? – Ma non mi dire? – Già, pretendeva lo sconto. Pensava di farmi paura perché fa il pugile. Così mi sono rifatto con l’accendino. Certo, se avessi saputo come sarebbe andata a finire… – Ma chi te la dà tutta questa roba? – Un tipo di Ottavia. Si chiama Manuel, un coatto raro. Vado da lui una volta al mese, per rinnovare il catalogo. Disse proprio così: “rinnovare il catalogo”. Come un rappresentante di cosmetici. Filippo prese in mano uno dei film. In copertina c’era una pornostar con i capelli corvini legati in una coda. Teneva le mani sulle chiappe, una da una parte e una dall’altra, tirando come se volesse separarle per sempre; il buco del culo sembrava un piccolo cratere lunare. Sopra la foto c’era il titolo: Weapons of ass destruction. – Mio Dio. – Che c’è? Va bene che non ti fai le canne, ma qualche sega te la farai. – Be’, sono cose diverse. Walt Whitman è diventato un poeta famoso a forza di pippe. Era una specie di religione, la sua, solo che non credo avesse a disposizione tutto questo materiale. 25 – No, eh. Ora non mettere in mezzo la religione. Rovina sempre tutto, la religione. – Non sembri un tipo da chiesa, in effetti. – No no, io ci credo in Dio. Solo che secondo me Dio non ci ha ancora creati, ci sta solo pensando. È indeciso, diciamo. È una specie di scrittore con i suoi personaggi. Ci pensa, ci ripensa, ma se quelli lo deludono posa la penna e manda tutti a cagare, non se ne fa più nulla. Così irruppe questo vuoto eventuale, un nulla ipotetico, un’assenza immaginata preceduta da una massa inconsistente di cose, fatti e persone. Sarà stato per i lividi, la musica e il fumo passivo, ma lì per lì sembrò una tesi credibile. In salotto suonavano Dalla, ma la musica si interruppe all’improvviso. Sergio, allora, strappò il DVD dalle mani di Filippo e lo buttò nella scatola, poi chiuse tutto e sistemò la roba dietro i libri. Con un ultimo scatto gettò lo spinello fuori dalla finestra, allontanò il fumo con le mani e rimise la scatoletta al proprio posto nel cassetto della scrivania. Quindici secondi al massimo e la madre di Sergio bussò e aprì la porta in un unico gesto. – Allora, come va il paziente? – Molto meglio, signora, grazie. Scusate per il disturbo. – Quale disturbo? Non dire sciocchezze. Il padre di Sergio apparve dietro la moglie. Filippo lo guardò veramente solo ora, dopo la rapida occhiata in salotto. Quell’uomo doveva avere l’abitudine di cedere la scena alla moglie e anche adesso rimaneva un passo dietro di lei. Aveva sposato una donna che lo superava in altezza di tre o quattro centimetri e la guardava dal basso in alto accentuando senza accorgersene la distanza che li separava. Sembrava che facesse una gran fatica a meritarsela, giorno dopo giorno; uno sforzo 26 andato avanti per anni che gli aveva fatto cadere la maggior parte dei capelli e aveva disegnato fra le sue sopracciglia una ruga incancellabile, una specie di cruccio abituale. Il fatto che Sergio assomigliasse palesemente alla madre (stessi colori e lineamenti, sebbene l’altezza fosse quella del padre), faceva di quella famiglia un quadretto con un intruso, e l’intruso lo sapeva. Nessuno avrebbe mai voluto escluderlo, in realtà; era solo una questione di concordanza estetica. – Resti a cena? – chiese il padre di Sergio, come se sapesse che il ragazzo stava indagando su di lui. – No, grazie. Mi aspettano a casa – rispose Filippo, e si lasciò accompagnare alla porta da Sergio e da sua madre. Sulla soglia si voltò a guardarli, poi uscì portandosi quell’immagine armonica ma incompleta (un idillio bucato), che la sua mente sovrappose in maniera incongrua alla foto del piccolo cratere lunare. Un buco anche qui. 27 L’ombra Non lo aspettava nessuno, in realtà, e la guancia era ancora troppo gonfia per tornare dai suoi conciato in quel modo. La casa del nonno, però, non era lontana e il vecchio teneva sempre le luci basse, nonostante la vista indebolita dagli anni; difficilmente si sarebbe accorto dei lividi. Ma il nonno alla fine neppure lo vide. Gli aprì la porta Sylvia, con uno strofinaccio in mano. – Che hai fatto alla faccia? – gli chiese con il suo accento slavo. Sylvia non aveva la vista debole. Era arrivata in Italia dalla Polonia una quindicina d’anni prima e lavorava per il nonno ormai da molto tempo. – Niente, il motorino – rispose Filippo. D’istinto si voltò verso lo specchio appeso nell’ingresso, sopra alla consolle antica che la nonna, a suo tempo, aveva voluto a tutti costi trasportare a Roma dalla casa torinese dei suoi genitori. La guancia s’era sgonfiata quasi del tutto, ma i segni sul collo, sebbene più lievi, c’erano ancora. Sylvia agitò lo straccio con un gesto che voleva dire “meglio che non m’impicci”. – Tuo nonno dorme, ancora – disse, e fece una pausa prima dell’ultima parola come per metterci sopra un accento. Da 28 quando la nonna era morta – erano tre anni, ormai – il nonno era scivolato in una specie di torpore: dormiva fino a tardi la mattina e tornava a letto il pomeriggio. Anche quando era sveglio sembrava perennemente con la mente altrove; c’era un pensiero che faceva da sottofondo a tutti i suoi pensieri. Filippo guardò l’orologio: erano quasi le sette di sera. – Lo aspetterò nello studio – disse, e accettò il tè che Sylvia andò a versargli in cucina. Se non fosse stato per il cucchiaino che tintinnava contro la ceramica (metallo storto contro tazza crepata: era uno dei tanti servizi andati che il nonno non aveva il coraggio di buttare) il silenzio nello studio sarebbe stato intatto, come sempre. Il legno del pavimento scricchiolava appena sotto i piedi, e solo per quei tre o quattro passi che dividevano la soglia dal tappeto cinese. Le gambe della scrivania erano otto e schiacciavano fiori dai petali bluastri – modello Ningxia, aveva detto il nonno una volta – o piuttosto emergevano da essi come antichi tronchi d’albero da soffici zolle erbose. La scrivania era fatta su misura: il nonno l’aveva voluta a ferro di cavallo, per avere di fronte quello che stava scrivendo e ai lati i volumi che aveva bisogno di consultare. Filippo si accomodò sulla poltrona lasciandosi abbracciare dal legno scuro. Aveva tutta la stanza davanti, adesso, e l’immagine consueta dei libri assiepati a centinaia sulle quattro pareti come spettatori impazienti in tribuna. Il silenzio di quella stanza era della stessa specie di quello che si crea in un teatro quando le luci che calano zittiscono il pubblico in attesa che il sipario si alzi; era come prendere fiato prima di un salto, nulla a che vedere con la quiete. Filippo osservò i libri ruotando il capo da sinistra a destra, come se li vedesse per la prima volta: una miriade di volumi divisi in file disordinate, dal pavimento al soffitto, gli scaffali 29 della boiserie separati da colonnine di legno, due per parete, ciascuna corredata di un’applique dal cappello verde scuro. Bisognava avere coraggio per mettersi a scrivere in un posto come quello, dove il lavoro di chi era passato urlava che non c’era più spazio per nulla e che tutto ciò che meritava di essere detto era stato già detto. Filippo si sentì soffocare come gli era capitato altre volte. Prese uno dei libri appoggiati sulla scrivania, obbedendo a quel pubblico muto che gli ordinava di agire. Erano poesie di Pessoa. Aprì a caso e trovò dei versi sottolineati: Sento che niente sono, se non l’ombra di un volto imperscrutabile nell’ombra: e per assenza esisto, come il vuoto. Passò un dito sulle linee più o meno diritte tracciate sotto i versi con una matita, chiedendosi se fossero state disegnate di recente; le righe, in effetti, si allargarono in un alone di grafite grigiastra. Il nonno era due stanze più in là, il volto addormentato disteso nell’oscurità come un’ombra nell’ombra. Forse a occhi chiusi ricostruiva il volto di sua moglie, anch’esso ombra nell’ombra, e forse lo faceva a partire da ciò che di lei gli mancava, sommando desiderio a desiderio fino a colmare un vuoto, o a circondarlo per costringerlo a esistere, come la sagoma cava di una custodia che si identifica in ciò che le manca, aderisce a un’assenza, in qualche modo, e dice “fucile”, a volte, e a volte “violino”. La foto della nonna era lì sulla scrivania, ma una foto non dice mai tutta la verità: era un’immagine in bianco e nero, prima di tutto, e la nonna, invece, era a colori. Amava dire sconcezze a chi la conosceva appena – per smascherare gli stupidi, diceva – e mettersi ai fornelli con un filo di perle sul vestito di Givenchy. Diceva sempre che cucinare significa prendersi cura di qualcuno, anche se cerchi di avvelenarlo. Viveva in cucina come ovunque nel mondo, amando e odiando senza mezze misure. Quando litigava con il nonno per i suoi silenzi brucia- 30 va l’aglio appestando la casa; faceva un chiasso tale che lo sentivi col naso, per così dire. E poi affettava e impanava e spadellava; alzava il fuoco a seconda dell’umore e preparava al nipote cotolette alla milanese grandi come aquiloni mentre lo sentiva ripetere Foscolo suggerendo i versi con il movimento eloquente delle labbra mute. La nonna non era una di quelle cuoche che snobbano i ristoranti. Era una raffinata signora di origini torinesi abituata al bonet del Cambio, che mugolava di piacere se le capitava un piatto fatto a regola d’arte. A tavola mangiava e parlava di ciò che mangiava, e riusciva a parlare mangiando senza mai parlare masticando, perché era una signora. Al nonno piaceva così tanto ascoltarla che quando lo faceva diventava più taciturno del solito. “Spero che tu muoia presto”, gli aveva detto una volta la moglie. “Almeno parlerai di più”. Ma forse anche il cibo era un pretesto, come quando dagli spaghetti con le sarde si passava a parlare dei capperi e dai capperi a una vacanza di tanti anni prima a Pantelleria, dell’acqua cristallina e del caldo, della pelle tesa e di un senso di magia. Il cibo, così legato ai ricordi, era diventato un ricordo con gli anni. Quando la nonna si era resa conto che c’era qualcosa che non andava era andata da un medico e il medico aveva chiamato quel qualcosa ageusia, spiegandole che non era una malattia grave. Si sbagliava, però. L’ageusia è la perdita del gusto, un disturbo che in forma lieve colpisce molti anziani senza che neppure se ne accorgano. Per la nonna invece era stato uno sconquasso rapido e totale. Le sue papille gustative erano diventate come il carrarmato consunto di un vecchio scarpone: il cibo scivolava sulla lingua liscia senza lasciare traccia, un boccone uguale all’altro, un grammo di qualcosa. Il calo della produzione di saliva, un’altra conseguenza degli anni che passavano, la dentie- 31 ra e certi farmaci che era costretta a prendere avevano complicato ulteriormente la situazione. All’inizio aveva reagito con filosofia: “Nella vita ci sono cose più importanti”, aveva detto, ma era come se sperasse di riuscire a convincersi sentendo le proprie parole pronunciate a voce alta. Aveva cominciato a mangiare piatti dal sapore sempre più deciso – pesce salato, dolci melensi, carne sanguinolenta – e a eccedere con i superalcolici, forse in cerca d’euforia, forse perché l’alcol che bruciava la gola sostituiva il sapore con un incendio. Si era arresa una sera d’estate, davanti a un piatto di spaghetti con le vongole. Si parlava del grande caldo, e il ghiaccio fondeva alla velocità della luce nel secchiello del vino. A un certo punto la nonna aveva posato la forchetta sul bordo del piatto ancora mezzo pieno, esattamente nel modo imposto dal galateo quando si considera il pasto concluso. Tutti avevano fatto silenzio, come intuendo quello che ancora non sapevano. Le zanzare friggevano nella trappola elettrica appesa in giardino, nella casa di San Felice Circeo. “Non mangerò più”, aveva detto con gli occhi bassi. Intendeva per sempre, e così era stato. Non aveva più toccato una briciola di pane finché la pelle rugosa non le si era appiccicata alle ossa, e dopo aver confermato con l’ageusia la propria incrollabile originalità aveva finito per essere molto meno eccentrica facendo quello che tutti si aspettano che faccia un anziano: morire. Era ancora estate quando era stato necessario ricoverarla perché fosse alimentata artificialmente, ma non era servito a nulla. Aveva chiuso gli occhi alla fine di settembre. Pioveva, com’è giusto che sia, e la pioggia quel giorno non era altro che acqua gelata senza alcun odore. Il giorno del funerale la figura diritta del nonno riempiva la chiesa come una delle colonne che ne reggevano le volte. Alto e 32 immobile nell’impermeabile scuro, il vecchio rimasto solo piangeva a occhi asciutti. Tremava, ma in maniera appena percettibile. Era rimasto ferito dal nulla, che come il vento travolge le cose senza farsi vedere. In chiesa nessuno aveva avuto il coraggio di abbracciarlo, tranne forse i parenti più stretti. Avvicinarsi a lui non era mai stato facile, neppure in circostanze normali: dava sempre l’impressione di essere altrove e serviva uno sforzo notevole per colmare la distanza e toccarlo. Qualcuno si era ricordato di una frase che aveva detto una volta a proposito della moglie, senza che lei lo ascoltasse: “Se la teoria della reincarnazione fosse vera e se lei si reincarnasse in un verme, sposerei cento volte quel verme”. Quando l’aveva persa aveva cercato di guardare altrove, come avrebbe fatto qualunque altra persona, ma non era riuscito a distrarsi a lungo. Diceva che la moglie era sparita portandosi via le proprie sofferenze, ma questo era un pensiero troppo altruista per appartenere a un uomo in carne e ossa: convivere con un dolore è meglio che dire addio a una gioia, e lui lo sapeva. Aveva passato la vita a pensare, d’altronde, e aveva organizzato le proprie idee come i disegni di un architetto, innalzando archi e colonne sui quali aveva poggiato la propria fortuna: tutto ciò che possedeva era il risvolto concreto di uno sforzo intellettuale. I mattoni con cui aveva costruito la propria casa erano lì in quello studio, sul secondo ripiano dello scaffale a sinistra: racconti, sceneggiature, articoli e saggi. E i libri non sono altro che scatole piene di idee. Quando parlava del nonno Filippo se lo immaginava sempre nell’atteggiamento in cui lo aveva visto centinaia di volte, e ripensando a quella posa non poteva fare a meno di imitarla, più o meno consciamente, il gomito sulla scrivania e la fronte appoggiata sulle prime tre dita della mano sinistra. 33 La genetica ha qualcosa di marziale nella severità con cui esige obbedienza e la somiglianza fra nonno e nipote svelava la propria precisione solo a chi aveva cura di osservare i dettagli: il movimento della mandibola, quando erano nervosi; la mano sinistra chiusa in un pugno debole mentre sedevano a tavola; il modo composto di dormire, con le braccia conserte, come pronti ad alzarsi; la tendenza a distrarsi, il parlare piano, gli starnuti sonori. Sulla linea del tempo nonno e nipote erano come mare e cielo, che finiscono per confondersi in certi giorni; ma tra cielo e mare solo il primo è infinito davvero, e il secondo trova sempre un orizzonte a fermarlo. Una volta, doveva avere sei anni, Filippo si era messo a copiare uno dei libri del nonno per cercare di imparare a scrivere: non era cambiato molto, da allora. Guardò una foto del nonno e si toccò il mento cercando con la mano una traccia di barba. C’era, ma era solo un’ombra. 34 Indice Prologo – L’odore della pioggia Come Zippo incontrò Zagana F. L. L’ombra Rumore Responsabilità Sudore, grasso, fumo e pisello Aspirina Colpo di vento Cazzotti a oltranza Caudalie Dolce vita Furiosissimo sdegno Non è uno scherzo Un colpo al cuore A casa di Greta Il baritono Gérard Un mondo tutto suo Un genio senza occhi né braccia Nella solitudine di Quitratúe Charlot trasteverino 7 9 17 28 35 43 46 50 61 67 79 86 101 106 113 121 129 138 144 152 156 Linee Tu non esisti Uomini, cani e tartarughe Gezelligheid Amsterdam Nelle regioni del buio Ordine del giorno Tutte le cose La meraviglia La 1900 bianca Essere presenti Fine del mondo Glu glu glu E serfrottando, e galfanendo Epilogo 163 176 184 191 197 210 218 222 229 235 244 253 266 274 285 Collana “Èchos” 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. C. Umbro, Almeno una volta L. Bastianetto e T. Della Longa, Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è B. Penna, Sui binari del treno C. Vedana, A dieci centimetri dal cuore I. Bianchedi, Niente è come sembra B. Di Marco, Non so se sopravviverò a questa vita D. K. Pierini, SubLimen M. Pallottino, Nell’anno della sindrome di Rhee L. Chiavarone, Via degli Anemoni, 42 F. Zanarini, Le vite sghembe F. Clemente, Sette volte solo L. Lerro, E tu chi sarai F. Santi, Quadro senza tempo G. Truini, Se domani si vive o si muore A. Boccaletti e G. Dodi, Per le mani ti prenderò I. Borghese, Dalla sua parte F. Leoni, Starry night Per consultare il nostro catalogo visita il sito: www.edizioniensemble.com stampato per conto di Edizioni Ensemble da Cimer S.n.c ‒ Roma