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ANNO XIII NUMERO 204 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 29 LUGLIO 2008
IL NIDO DELLE AQUILE URLANTI
Nell’avamposto di Wanat la 101a divisione aviotrasportata (quella del Vietnam) combatte contro l’asse tra talebani e qaidisti
Una delle rare immagini dei soldati americani rilasciata dalle autorità militari degli Stati Uniti. I soldati sono all’opera nella provincia di Kunar, durante l’operazione “Mountain Resolve”, che risale al novembre del 2003 (foto Reuters)
di
Fausto Biloslavo
I
l muezzin sta per iniziare la cantilena del Corano per chiamare i fedeli alla prima preghiera del mattino.
L’alba non ha ancora arrossato lo
sperduto villaggio di Wanat, nella
provincia afghana di Kunar. La provincia maledetta. Un postaccio al confine con il Pakistan in cui si sono infiltrati i talebani e in cui hanno trovato un rifugio prediletto i tagliagole
di al Qaida.
Alle quattro e mezza del mattino di
All’alba del 13 luglio arriva un
colpo di Rpg. E’ l’inizio di una
battaglia sanguinosa in cui cadranno
nove americani
domenica 13 luglio parte la prima raffica di mitragliatrice contro l’avamposto di Wanat difeso con i denti da
quarantacinque paracadutisti americani della 101esima Divisione aviotrasportata. Le famose “aquile urlanti”, che furono lanciate dietro le linee
in Normandia e combatterono in
Vietnam. E’ l’inizio di una delle più
furiose battaglie degli americani in
Afghanistan. Alla fine della giornata,
le “aquile urlanti” conteranno nove
caduti. Dal 2001 il tributo di sangue
più alto, in un solo giorno, per i soldati degli Stati Uniti.
Assieme alla prima raffica arriva
un colpo di Rpg, il lanciarazzi a spalla più usato in Afghanistan. Il razzo
centra la postazione dei mortai e in
pochi attimi succede di tutto. Almeno
duecento talebani, misti ad arabi e
ceceni di al Qaida, lanciano il grido
di battaglia: “Allah o Akbar”. I razzi
sfrecciano uno dopo l’altro, le raffiche spazzano la postazione e i talebani avanzano stringendo d’assedio
l’avamposto perduto. I barbuti con il
turbante si annidano sulle collinette
che dominano l’avamposto, corrono
fra i vicoli del bazar e sparano dalla
“Tutto aveva preso fuoco, il
bazar, gli alberi, i camion. Pareva
una scena così surreale”, racconta
Stafford, soldato ventenne
moschea. I fanti dell’aria della
173esima brigata Combat team, provenienti dalla grande base di Vicenza, rispondono al fuoco. Il motto del
secondo plotone, “Chosen company”,
non lascia spazio a dubbi: “Possa il
Signore avere pietà dei nemici del
nostro paese, perché noi non l’avremo”. Al comando c’è il tenente Jonathan P. Brostrom, 24 anni, delle
Hawaii, che cadrà in combattimento.
Le “aquile urlanti”, assieme a uno
sparuto gruppo di poliziotti afghani,
capiscono subito che non è uno scontro qualsiasi, ma una battaglia per la
vita o per la morte.
“Tutto aveva preso fuoco. Il bazar,
la vegetazione, i camion. C’era fumo
dappertutto. Sembrava qualcosa di
surreale, una scena da film”, racconta Tyler Stafford, un ragazzo di ventitré anni, con il corpo sbrindellato dalle schegge di razzi e granate, come
spiegano le testimonianze dei sopravissuti raccolte da Star and Stripes, la
rivista delle forze armate americane.
L’avamposto, grande come un campo da calcio, era sorto un paio di giorni prima. Quella maledetta domenica
i talebani si accaniscono sul posto di
osservazione, che si trova a una settantina di metri dal corpo centrale
della base. Nove americani lo difendono, compreso Stafford, un ragazzone da squadra di football.
Quando scatta l’attacco il giovane
soldato americano imbraccia la sua
mitragliatrice M-240 piazzandola con il
cavalletto sui sacchetti di sabbia. Pochi attimi dopo piomba sulla postazione un razzo Rpg. Stafford viene investito dall’onda d’urto dell’esplosione.
Pensa di aver preso fuoco, ma non è
così. Allora cammina ciondolante tentando di tornare in sé. In quel momento scoppia una bomba a mano lanciata
dai talebani. Stafford vola e perde l’elmetto. Quando se lo rimette in testa si
rende conto che sta perdendo sangue.
Chiede aiuto al caporale Matthew
Phillips, che sta per lanciare una granata. “Dammi un secondo – gli risponde – Prima devo ammazzare questi bastardi”.
Un altro razzo centra la postazione
americana sollevando un polverone.
La coda del razzo colpisce l’elmetto
di Stafford. Quando la polvere si dirada, il caporale Phillips è disteso a
terra. Stafford lo chiama tre, quattro
volte, ma il compagno non risponde e
non si muove. “Quando ho capito che
era morto è stato il momento più terribile – racconta il soldato del Colorado – Poi mi sono sforzato di darmi
una calmata e di pensare al lavoro
che andava fatto”.
La battaglia diventa sempre più
caotica, ma Stafford si riprende. Impugna la sua pistola, mette il colpo in
canna, si trascina e comincia a sparare oltre i sacchetti di sabbia. Poco
più in là intravvede il caporale Gunnar Zwilling, che spara come se fosse
posseduto con il suo fucile mitragliatore M-4, l’erede del mitico M-16 utilizzato in Vietnam. Qualche giorno
prima, mentre si stava preparando
per la missione a Wanat, aveva telefonato a casa. Al padre aveva confidato: “Sarà un bagno di sangue”.
Zwilling è uno dei nove caduti della
battaglia di Wanat.
I talebani sono a una decina di metri dai sacchetti di sabbia del posto di
osservazione. Il sergente Ryan Pitts
ha un rivolo di sangue, che gli corre
lungo la faccia, ma non molla. Lancia
una granata dietro l’altra. Il combattimento diventa sempre più intenso. I
razzi dei talebani esplodono di continuo. I proiettili arrivano a sciami e
fanno a pezzi gli alberi attorno ai soldati. Rottami di rami e cortecce cadono sui soldati rannicchiati dietro i
sacchetti di sabbia. Tirare fuori la testa per sparare è un suicidio. Il caporale Jason M. Bogar, venticinque anni
di Seattle, uno dei nove caduti, solleva sopra i sacchetti la sua mitragliatrice e spara sventagliate contro gli
assalitori. In cinque minuti vomita
seicento colpi sul nemico inceppando
l’arma a causa del calore.
Da un’altra feritoia dell’avamposto
perduto il caporale Jonathan Ayers,
ventiquattro anni, di Snellville, ha il
dito incollato sul grilletto. Nonostante i proiettili nemici fischino dappertutto. Ayers continua a sparare fino a
quando non è colpito a morte. Venti
minuti dopo l’inizio dei combattimenti la situazione è drammatica, ma le
“aquile urlanti” non s’arrendono. Tre
soldati americani saltano fuori dalle
loro postazioni per lanciare un missile a spalla. I talebani non arretrano.
Anzi, cominciano a lanciare pietre
dentro il posto d’osservazione facendo credere ai soldati che siano granate. L’obiettivo è far saltare i nervi agli
americani. Se per reazione si alzano
sparando, diventano facile preda dei
cecchini. Una delle finte bombe
piomba in mezzo alle gambe di
Stafford, che si raggomitola in attesa
dell’esplosione. Poi vede che è solo
un sasso.
Dei nove caduti della battaglia di
Watan, sette sono morti ai posti di osservazione. A un certo punto Stafford
e un suo commilitone pensano di essere gli unici sopravvissuti. Le munizioni cominciano a scarseggiare. Decidono di ripiegare verso la base a poche decine di metri. Pur feriti ce la
fanno, ma via radio il sergente Pitts
urla che è ancora vivo. E’ rimasto da
solo nell’ultima trincea del posto di
osservazione.
Tre volontari corrono a recuperarlo nell’inferno di una delle più furiose battaglie dal crollo dei talebani.
L’operazione ha successo, ma tutti i
soccorritori sono colpiti da schegge di
razzi e dal fuoco dei kalashnikov.
Nel corpo centrale della base avanzata non va meglio. Il sergente Jacob
Walker prende la sua mitragliatrice
M-249 e la punta contro le colline circostanti, dove vede i lampi del fuoco
nemico. Dopo aver sparato fra i seicento e gli ottocento proiettili deve
rifornirsi di munizioni. Mentre cerca
di ricaricare, un colpo di kalashnikov
gli centra il polso sinistro.
L’intera base è avvolta da una nuvola di polvere e fumo dei mezzi che
bruciano. “Non è facile alzarti in piedi e sparare in mezzo ai proiettili che
ti fischiano attorno, i sacchetti di sabbia che esplodono e i razzi che ti passano sopra la testa. Eppure i ragazzi
hanno tenuto”, racconta Stafford.
Il posto di osservazione è stato travolto, ma il grosso della base ha resistito in “un combattimento eroico” secondo Mark Laity, portavoce della
missione Nato in Afghanistan.
Quando la battaglia è all’apice arrivano dal cielo gli elicotteri Apache
e i cacciabombardieri A-10 e F-15.
Una valanga di fuoco si abbatte sui talebani. Stafford viene evacuato fra i
primi a bordo di un Black Hawk. Sul
terreno sono rimasti nove soldati
americani e diciannove feriti, compresi militari afghani. I talebani sono
stati falcidiati, ma le scaramucce sono andate avanti tanto, almeno per
tutto il giorno. Non esiste una stima
precisa delle vittime del nemico. Dopo una giornata di sangue le “aquile
urlanti” ricevono l’ordine di evacuare l’avamposto. “Spero soltanto che le
Il Pakistan fa fare un salto di qualità anche al terrorismo indiano. Bush incalza Islamabad
O
gni volta che una bomba scuote l’India, agenti
delle forze speciali setacciano una casa modesta
nei sobborghi di Aluva, stato di Kerbala. Lo hanno
fatto anche domenica dopo gli attacchi costati la vita a non meno di cinquanta persone fra Bangalore e
la vicina Ahmedabad. Qui viveva C.a.m. Basheer,
l’uomo più ricercato del subcontinente: secondo i
servizi segreti di Nuova Delhi è l’anello che collega
il Movimento indiano degli studenti islamici (Simi),
gruppo fuorilegge di cui è stato presidente, ai guerriglieri talebani di Baitullah Meshud, che controllano le montagne al confine fra Pakistan e Afghanistan. Un’amicizia finanziata dall’Intelligence pachistana (Isi), temono gli esperti di terrorismo tanto in
India che negli Stati Uniti e in Israele: è iniziata
“l’indianizzazione del jihad”, sostiene il think tank
South Asia Analisys group.
Domenica, a Ahmedabad, nella parte meridionale
del paese, quindici esplosioni hanno fatto almeno 49
morti. I terroristi hanno colpito un mercato, un cinema, un autobus, un tempio e l’ospedale in cui decine
di ambulanze trasportavano morti e feriti. Il giorno
prima era toccato al centro di Bangalore, cuore pulsante dell’economia indiana: sei ordigni comandati a
distanza sono esplosi nell’arco di dodici minuti uccidento tre persone. Le azioni, rivendicate dai fantomatici Mujahidin dell’India, ricordano l’attacco di
maggio a Jaipur (63 morti) e quelli portati a termine
in tre città dell’Uttar Pradesh nel novembre 2007. Secondo l’intelligence gli ultimi due attentati seguono
logiche diverse. A Bangalore è stato un messaggio al
governo locale, guidato dai nazionalisti hindu del
Baharatiya janata party (Bjp), e alle compagnie straniere che hanno scommesso sullo sviluppo della regione: qui è concentrata la maggior parte degli investimenti diretti in India. L’esplosivo a basso potenziale era piazzato su biciclette abbandonate nei pressi di una moschea ed è esploso dopo la preghiera del
venerdì. Nella città di Ahmedabad, quattro milioni
di abitanti a pochi chilometri dal confine con il Pakistan, i terroristi hanno voluto la strage. L’attacco è
stato annunciato alle redazioni di venti giornali con
un messaggio e-mail partito chissà dove e filtrato da
un server francese. Ma la rivendicazione è giudicata
poco credibile: dietro ai Mujahidin dell’India, dice
l’intelligence, ci sono giovani islamisti reclutati da
Busheer e istruiti nei campi di addestramento afghani e pakistani. La causa dei guerriglieri talebani
non riguarda più i soli pashtun, scrive il Wall Street
Journal, ma coinvolge anche jihadisti abituati a combattere nel Kashmir, la regione contesa fra India e
Pakistan. Busheer è l’ufficiale di collegamento fra le
due milizie. Vive da ricercato in Arabia Saudita,
dov’è fuggito negli anni Novanta dopo la messa al
bando del Simi. Da lì raccoglie finanziamenti destinati a gruppi come Lashkar e Toiba (Let) e Harkat ul
Jihad al Islami (Huji), che colpiscono in India usando spesso “manodopera” pakistana. Secondo alcune
fonti sarebbe lo stesso uomo che ha guidato le milizie islamiche in Bosnia nella guerra dei Balcani. Di
sicuro è stato uno dei primi indiani a ricevere addestramento sulle montagne dell’Hindu Kush, grazie alla mediazione dei Servizi segreti pachistani. Il suo
luogotenente, Yahya Kammukutty, catturato poche
settimane fa dalle forze speciali di Nuova Dehli, ha
confessato l’esistenza di un piccolo battaglione scelto per trasformare i mujhaeedin del subcontinente in
una cellula di al Qaida. E’ il “salto di qualità” del terrorismo islamico made in India: il governo di Gerusalemme ha recentemente messo in guardia i cittadini da attacchi contro obiettivi israeliani e americani “entro la fine dell’anno”.
Anche alla Casa Bianca ci sono dubbi molto forti
sull’operato dell’Isi, specie dopo l’attacco dei talebani all’ambasciata indiana di Kabul del 7 luglio (41
morti). Ieri George W. Bush ha incontrato il primo
ministro di Islamabad, Yousouf Raza Gilani, al quale ha espresso il disappunto per gli accordi di pace
firmati con i talebani e per il passaggio di guerriglieri dal Pakistan all’Afghanistan. “E’ nostro interesse tenere a freno l’estremismo”, ha detto il premier, ma il suo governo è il principale problema di
Stati Uniti e India. Nel Waziristan, al confine con
l’Afghanistan, i militari americani hanno ucciso ieri
sei persone nel corso di un raid antiterrorismo. Poche ore più tardi, lungo la frontiera bollente con l’India, un soldato di Nuova Dehli è stato ucciso da una
guardia pachistana: gli scontri fra i due eserciti sono andati avanti per ore.
Luigi De Biase
mogli e i figli di questi uomini – auspica il sergente Walker – sappiano
che i loro mariti e padri hanno combattuto con coraggio, come guerrieri”.
* * *
Monica Lin Brown ha soltanto diciannove anni, ma in prima linea soccorre i soldati feriti cercando di strapparli alla morte. La giovane “crocerossina” del Texas è la seconda donna dalla guerra del 1945 ad avere ricevuto la
“silver star”, una delle più alte onorificenze concesse agli eroi dei conflitti
Il sergente Walker spara almeno
seicento colpi. Quando sta
ricaricando, un colpo di kalashnikov
gli centra il polso sinistro
combattuti dagli Stati Uniti. Il 21 marzo
è arrivato il vicepresidente americano,
Dick Cheney, ad appuntarle la medaglia sul petto alla base di Baghram.
Linda è una ragazza mora, i capelli
raccolti e gli occhi lucenti, che ha scelto di arruolarsi a diciassette anni. In Afghanistan è aggregata alle unità combattenti dell’82esima divisione aviotrasportata. Al crepuscolo del 25 aprile
dello scorso anno Linda ha vissuto il
suo giorno di gloria. “Stavamo entrando
in un wadi quando il nostro ‘gunner’ (il
soldato in torretta con il dito sul grilletto della mitragliatrice pesante, ndr) ha
dato l’allarme. Un mezzo era saltato su
una trappola esplosiva”. racconta Linda. La giovane paramedico vede uno
dei pneumatici del gippone blindato
che rotola nei campi. Apre il portellone
e scatta l’attacco dei talebani. “C’era
soltanto il fumo del veicolo colpito,
quando hanno cominciato a spararci
addosso da tutte le parti”, spiega. “Il nostro ‘gunner’ ha risposto al fuoco – sottolinea Linda – Il sergente mi ha presa
per un braccio dicendomi: ‘Doc andiamo’”. Il sergente di ferro e la “crocerossina” corrono velocissimi, sotto il fuoco
nemico, per raggiungere il gippone sal-
Linda è l’angelo che con flebo e
tamponi per le ferite va a salvare
correndo velocissima tra i proiettili.
Ha ricevuto la “silver star”
tato sulla trappola esplosiva. Due soldati americani sono moribondi. “Le pallottole le fischiavano attorno mancandola per pochi centimetri – ricorda un
altro soldato – A un certo punto hanno
cominciato a bersagliarci con i mortai.
E’ stato un momento difficile, ma ho
mantenuto il controllo concentrandomi
soltanto sui miei pazienti”, spiega Linda. La giovane paramedico, assieme ai
commilitoni, allontana i feriti dal blindato in fiamme. Con la battaglia che le
esplode attorno, non perde la calma. Infila aghi per le flebo, tampona ferite, immobilizza arti fratturati e prepara i feriti per l’elicottero. I due soldati più gravi ce l’hanno fatta, le devono la vita.